ΟYΤΩΣ AΤΑΛΑIΠΩΡΟΣ ΤΟIΣ ΠΟΛΛΟIΣ H ΖHΤΗΣΙΣ ΤHΣ AΛΗΘΕIΑΣ, ΚΑI EΠI ΤA EΤΟIΜΑ ΜAΛΛΟΝ ΤΡEΠΟΝΤΑΙ. «Così poco faticosa è per i più la ricerca della verità e molti si volgono volentieri verso ciò che è più a portata di mano». (Thuc. I 20, 3)
di FERRARI F., ROSSI R., LANZI L., Bibliotheke, II, Roma 2001, 83-85; 99-104.
Posteriore di una quarantina d’anni rispetto a Tespi e nato non molto tempo dopo l’istituzione dei primi rudimentali agoni tragici, Eschilo è il più antico drammaturgo di cui rimangano opere complete. Apportò alla struttura della tragedia innovazioni decisive, come l’introduzione del secondo attore (δευτεραγωνιστής), ampliando lo spazio degli episodi e conferendo maggior respiro allo sviluppo dell’azione, anche grazie all’impiego – forse peculiare del suo teatro – della «trilogia legata», nella quale la vicenda mitica trova continuità nella successione dei tre drammi[1]. La sua vita si svolse negli anni cruciali del passaggio dalla tirannide pisistratide all’affermarsi della democrazia con la riforma di Clistene, fondata su base territoriale, che garantì la fusione e la concordia sociale delle classi che componevano la cittadinanza ateniese. Eschilo, inoltre, fu testimone dell’irreversibile ascesa ateniese dopo il trionfo sui Persiani. Da questa esperienza e dalla riflessione che ne maturò, trasferì sulla scena i grandi temi etici ed esistenziali, che caratterizzano il teatro quale luogo privilegiato di comunicazione nei confronti della comunità dei cittadini.
Sul conto di questo poeta le principali notizie biografiche sono trasmesse dalla 𝑉𝑖𝑡𝑎 𝐴𝑒𝑠𝑐ℎ𝑦𝑙𝑖, che in molti manoscritti accompagna il 𝑐𝑜𝑟𝑝𝑢𝑠 della sua drammaturgia e contiene una folta messe di aneddoti, giudizi critici e testi apocrifi. Il ritratto comico che ne ha fatto Aristofane nelle sue 𝑅𝑎𝑛𝑒 è una fonte importante, perché fornisce preziose informazioni circa la fortuna del tragediografo: «O tu che primo fra i Greci hai fatto torreggiare parole venerande / e hai dato dignità alle tragiche frottole»[2]. Probabilmente l’ignoto autore della 𝑉𝑖𝑡𝑎 potrebbe aver attinto a materiale biografico dai 𝑆𝑜𝑔𝑔𝑖𝑜𝑟𝑛𝑖 (Ἐπιδημίαι) di Ione di Chio (c. 490/480-420), dal libro sui poeti tragici di Eraclide Pontico (c. 385-322/10) e dall’𝐴 𝑝𝑟𝑜𝑝𝑜𝑠𝑖𝑡𝑜 𝑑𝑖 𝐸𝑠𝑐ℎ𝑖𝑙𝑜 (περὶ Αἰσχύλου) di Camaleonte di Eraclea Pontica (c. 370-𝑝𝑜𝑠𝑡 280). Le varie fonti sono state studiate e raccolte da Wilamowitz (1914) e Radt (1985).
Eschilo. Busto, bronzo, II-I sec. a.C. dalla Meloria. Firenze, Museo Archeologico.
I. L’autore e le opere
1. La vita
Nato durante la XL Olimpiade, intorno al 525/4 a.C.[3], nel demo attico di Eleusi, centro del culto misterico di Demetra e Persefone, da un proprietario terriero di nome Euforione, Eschilo (Αἰσχύλος) combatté trentacinquenne a Maratona[4], dove cadde suo fratello Cinegiro cercando di impedire la fuga di una nave persiana[5], e forse a Salamina insieme all’altro fratello, Aminia, ma è attestata la sua partecipazione, assai più dubbia, anche alle battaglie dell’Artemisio e di Platea[6].
Eschilo iniziò la sua attività drammatica, proseguita fino alla morte, in occasione degli agoni tragici del 499-496 (LXX Olimpiade), quando, appena venticinquenne, gareggiò contro Cherilo e Pratina; stando al 𝑀𝑎𝑟𝑚𝑜𝑟 𝑃𝑎𝑟𝑖𝑢𝑚, al 485/4, sotto l’arcontato di Filocrate, il poeta riportò la sua prima vittoria dionisiaca: a questa seguirono altri dodici successi, mentre, secondo la 𝑆𝑢𝑑𝑎, che verosimilmente comprende nel novero anche le repliche postume, le vittorie tragiche di Eschilo sarebbero ben ventotto. Nel 472 Eschilo conseguì il primo premio con una tetralogia (tre tragedie e un dramma satiresco), di cui facevano parte i 𝑃𝑒𝑟𝑠𝑖𝑎𝑛𝑖, il più antico fra i suoi drammi pervenuti e l’unico di argomento storico; la coregia fu sostenuta dal giovane Pericle.
Poco dopo, il poeta si recò in Sicilia, a Siracusa, forse attratto dalla fama del tiranno Ierone, celebre per aver ospitato alla sua corte altri famosi poeti dell’Ellade, fra i quali Simonide, Bacchilide e Pindaro[7]. Nel 476/5 a.C. il tiranno aveva fondato la città di Etna, affidandone il governo a suo figlio Dinomene; mentre Pindaro, per l’occasione, compose la 𝑃𝑖𝑡𝑖𝑐𝑎 I, Eschilo celebrò l’avvenimento con un dramma andato perduto, le 𝐸𝑡𝑛𝑒𝑒 (se ne possiede parte dell’𝑎𝑟𝑔𝑜𝑚𝑒𝑛𝑡𝑢𝑚 grazie al P. Oxy. 2257, F 1)[8]. Alcuni anni dopo, nel 469/8, Eschilo tornò ad Atene, dove Temistocle – l’artefice della vittoria di Salamina e fondatore della Lega delio-attica – era stato da poco ostracizzato, spianando l’ascesa politica di Cimone, figlio di Milziade e capo della fazione conservatrice. Eschilo gareggiò contro Sofocle, allora appena esordiente, che conseguì la vittoria, forse per la novità rappresentata dall’introduzione del tritagonista.
Agli agoni tragici del 467/6 Eschilo ottenne la sua rivincita con una tetralogia ispirata al ciclo tebano, che comprendeva i drammi 𝐿𝑎𝑖𝑜, 𝐸𝑑𝑖𝑝𝑜, e i 𝑆𝑒𝑡𝑡𝑒 𝑎 𝑇𝑒𝑏𝑒, l’unico pervenuto. Nel 463/2 – o comunque in un anno compreso fra il 466 e il 459 – riportò un altro successo contro Sofocle e un altrimenti ignoto Mesato con la trilogia delle 𝐷𝑎𝑛𝑎𝑖𝑑𝑖: da un frammento papiraceo (P. Oxy. 2256, F 3) pubblicato nel 1952, si ricava l’informazione che della trilogia facevano parte le 𝑆𝑢𝑝𝑝𝑙𝑖𝑐𝑖, che la tradizione ha conservato, seguite dagli 𝐸𝑔𝑖𝑧𝑖 e le 𝐷𝑎𝑛𝑎𝑖𝑑𝑖. Ne è risultata dunque smentita la convinzione, fino ad allora invalsa, che le 𝑆𝑢𝑝𝑝𝑙𝑖𝑐𝑖 costituissero il dramma più arcaico di Eschilo pervenuto.
Nel 459/8 il poeta mise in scena la grandiosa trilogia dell’𝑂𝑟𝑒𝑠𝑡𝑒𝑎, la in tutto il teatro attico a essere giunta completa, la quale comprendeva l’𝐴𝑔𝑎𝑚𝑒𝑛𝑛𝑜𝑛𝑒, le 𝐶𝑜𝑒𝑓𝑜𝑟𝑒 e le 𝐸𝑢𝑚𝑒𝑛𝑖𝑑𝑖. Assai incerta è la cronologia del 𝑃𝑟𝑜𝑚𝑒𝑡𝑒𝑜 𝑖𝑛𝑐𝑎𝑡𝑒𝑛𝑎𝑡𝑜, una tragedia che si presenta in posizione isolata per alcuni aspetti stilistici e sulla cui autenticità, dalla metà del XIX secolo, si è acceso fra gli studiosi un vivace dibattito.
Verso la fine della sua vita, per motivi che gli antichi vollero individuare in dissapori con il pubblico ateniese[9], Eschilo si recò nuovamente in Sicilia, ma non più a Siracusa, dove ormai Ierone era scomparso, ma nella vicina città di Gela, dove morì nel 456[10].
Una tradizione dubbia, che era riferita nel trattato 𝑆𝑢 𝑂𝑚𝑒𝑟𝑜 (Περὶ Ὁμήρου) di Eraclide Pontico e a cui accenna anche Aristotele, racconta di un’accusa di empietà (ἀσέβεια) intentatagli dinanzi all’Areopago per aver rivelato i segreti dei misteri eleusini: il poeta si sarebbe difeso dichiarando che, non essendo iniziato, aveva provocato scandalo senza sapere che si trattasse di «cose segrete» (ἀπόρρητα)[11].
Ciononostante, dopo la morte Eschilo fu subito onorato dai suoi concittadini come un classico con un decreto che consentiva a chiunque di mettere in scena i suoi drammi, avendo la coregia assicurata dall’arconte[12]. Il più antico e il più autorevole fra i codici manoscritti che ne tramandano le tragedie, il Codice Mediceo-Laurenziano 32.9 (IX-X sec.), conserva l’epitafio in distici elegiaci di Eschilo, a lui attribuito, che, però, accenna solo alla sua partecipazione alla battaglia di Maratona e non alla sua produzione drammaturgica:
Αἰσχύλον Εὐφορίωνος Ἀθηναῖον τόδε κεύθει
μνῆμα καταφθίμενον πυροφόροιο Γέλας·
ἀλκὴν δ’ εὐδόκιμον Μαραθώνιον ἄλσος ἂν εἴποι
καὶ βαθυχαιτήεις Μῆδος ἐπιστάμενος.
Eschilo ateniese, figlio di Euforione, questo sepolcro
racchiude: è morto a Gela ricca di messi.
Il suo strenuo coraggio possono dire il sacro bosco
di Maratona e il Medo chiomato, che ne fece esperienza.
2. I drammi superstiti
La 𝑆𝑢𝑑𝑎 riporta che Eschilo compose novanta drammi, mentre la lista contenuta nel Mediceo 32.9 elenca settantatré titoli, fra cui uno dichiarato spurio (Αἰτναῖοι νόθοι). Altri titoli sono attestati da fonti diverse[13]. Di questi drammi, relativi a tutti i grandi cicli leggendari e anche ad alcune saghe minori e che valsero all’autore in vita tredici vittorie (e dopo la sua morte forse altre quindici) restano solo sette tragedie, tutte riferibili al periodo più maturo: 𝑃𝑒𝑟𝑠𝑖𝑎𝑛𝑖, 𝑃𝑟𝑜𝑚𝑒𝑡𝑒𝑜 𝑖𝑛𝑐𝑎𝑡𝑒𝑛𝑎𝑡𝑜, 𝑆𝑒𝑡𝑡𝑒 𝑎 𝑇𝑒𝑏𝑒, 𝑆𝑢𝑝𝑝𝑙𝑖𝑐𝑖, 𝐴𝑔𝑎𝑚𝑒𝑛𝑛𝑜𝑛𝑒, 𝐶𝑜𝑒𝑓𝑜𝑟𝑒, 𝐸𝑢𝑚𝑒𝑛𝑖𝑑𝑖.
I drammi superstiti sono il frutto di una selezione che risale alla prassi scolastica di età imperiale. Numerosi e talora consistenti sono anche i frammenti e importanti i resti su papiro di tre opere, 𝑄𝑢𝑒𝑙𝑙𝑖 𝑐ℎ𝑒 𝑡𝑖𝑟𝑎𝑛𝑜 𝑙𝑎 𝑟𝑒𝑡𝑒, 𝑉𝑖𝑠𝑖𝑡𝑎𝑡𝑜𝑟𝑖 𝑜𝑣𝑣𝑒𝑟𝑜 𝑆𝑝𝑒𝑡𝑡𝑎𝑡𝑜𝑟𝑖 𝑎𝑙𝑙’𝐼𝑠𝑡𝑚𝑜, 𝑃𝑟𝑜𝑚𝑒𝑡𝑒𝑜 𝑖𝑛𝑐𝑒𝑛𝑑𝑖𝑎𝑟𝑖𝑜, che dimostrano, con il loro contenuto giocoso e la grazia scherzosa che li caratterizza, come la Musa eschilea non disdegnasse anche toni leggeri e comici, e che consentono inoltre di apprezzare almeno in parte l’arte di Eschilo come autore di drammi satireschi, che gli antichi celebravano al punto da assegnargli il primo posto in questo genere[14].
Ciò si nota soprattutto nei frammenti del primo dramma (Δικτυολκοί)[15], in cui è trattato il mito di Danae, lo stesso sviluppato da Simonide in uno suo celebre θρῆνος. Nell’isola di Serifo, Diktys, fratello di Polidette, tiranno del luogo, e un altro pescatore tentano di tirar su a fatica la rete (di qui il titolo del dramma), in cui è rimasta impigliata una cassa, nella quale sono rinchiusi un bambino e una bellissima donna: il piccolo Perseo e sua madre Danae. Alla vista dei mostruosi Satiri, la donna rimane terrorizzata, mentre Perseo, per niente spaventato, comincia subito a giocare con quegli strani esseri, che si rivelano molto amichevoli. Alla fine, Diktys si offre di sposare Danae, che accetta prontamente, in mezzo ai maliziosi commenti dei Satiri.
Negli 𝑉𝑖𝑠𝑖𝑡𝑎𝑡𝑜𝑟𝑖 𝑜𝑣𝑣𝑒𝑟𝑜 𝑆𝑝𝑒𝑡𝑡𝑎𝑡𝑜𝑟𝑖 𝑎𝑙𝑙’𝐼𝑠𝑡𝑚𝑜 (Θεωροὶ ἢ Ἰσθμιασταί), i protagonisti sono nuovamente i Satiri, giunti in gruppo alle feste celebrate sull’Istmo di Corinto, in onore di Poseidone[16]. Arrivati al santuari, i Satiri ne ammirano la bellezza e la grandiosità; poi offrono come 𝑒𝑥 𝑣𝑜𝑡𝑜 le loro maschere, raccontando di essere giunti lì per partecipare ai giochi, nonostante il divieto del loro signore Dioniso, bene informato sulle loro scarse capacità ginniche. A questo punto, il frammento si interrompe, ma è probabile che il seguito contenesse il racconto delle comiche prestazioni atletiche dei Satiri.
Melpomene, musa della tragedia. Affresco, 62-79 d.C. ca., dalla casa di Giulia Felice. Toulouse, Musée Archéologique St. Raymond.
II. Eschilo e Atene
1. Non solo poeta ma anche uomo di teatro
L’anonima 𝑉𝑖𝑡𝑎 del codice Mediceo afferma che Eschilo superò di gran lunga i suoi predecessori «nella poesia, nella strutturazione della scena, nello splendore della coreografia, nell’abbigliamento degli attori e nella solennità del coro»[17]. Si tratta di elementi che è possibile verificare in se stessi solo in parte, e pressoché per nulla per quanto riguarda i rapporti fra Eschilo e i suoi predecessori, ma certo l’anonimo grammatico doveva registrare l’eco remota di una serie di invenzioni scenografiche che avevano provocato lo stupore e l’ammirazione dei primitivi uditori; e noi possiamo tuttora riferirci a momenti di intenso impatto visuale quali l’apparizione in volo delle Oceanine nel 𝑃𝑟𝑜𝑚𝑒𝑡𝑒𝑜 𝑖𝑛𝑐𝑎𝑡𝑒𝑛𝑎𝑡𝑜, l’emergere dal suo tumulo sepolcrale dell’Ombra di Dario nei 𝑃𝑒𝑟𝑠𝑖𝑎𝑛𝑖, l’arrivo sul carro di Atossa nella stessa tragedia e quello di Agamennone nel dramma omonimo, l’accensione dei fuochi al principio e alla fine dell’𝑂𝑟𝑒𝑠𝑡𝑒𝑎, i tappeti rossi dell’𝐴𝑔𝑎𝑚𝑒𝑛𝑛𝑜𝑛𝑒, le vesti lacere e la faretra vuota di Serse nell’esodo dei 𝑃𝑒𝑟𝑠𝑖𝑎𝑛𝑖 (in contrasto con l’abbigliamento esotico e fastoso che caratterizzano Atossa e Dario nelle scene precedenti), la rete esibita da Oreste nelle 𝐶𝑜𝑒𝑓𝑜𝑟𝑒 dopo il matricidio, ecc. Eppure, com’è possibile riscontrare nella scena dell’epifania di Dario o in quella dei tappeti purpurei, l’elemento spettacolare, se ha indubbiamente il compito di suscitare un’immediata partecipazione emotiva del pubblico, tende costantemente a caricarsi in Eschilo di valenze simboliche, di significati che la parola lasciava emergere in forme dirette o mediate, come sottolineatura esplicita del dato visuale o come allusione sotterranea alle sue implicazioni metaforiche.
Entro questa cornice visuale agisce una drammaturgia ancora relativamente semplice nelle sue risorse ma innovativa rispetto alla tradizione se – come dice Aristotele nella 𝑃𝑜𝑒𝑡𝑖𝑐𝑎 (1449a15-8) – «Eschilo fu il primo a portare il numero degli attori da uno a due, a ridurre la parte del coro e a conferire un ruolo di primo piano alla recitazione»[18]; inoltre nell’𝑂𝑟𝑒𝑠𝑡𝑒𝑎 è impiegato, seppur cautamente e, pare, in seguito a un’innovazione di Sofocle, anche il terzo attore, come nella scena del processo nelle 𝐸𝑢𝑚𝑒𝑛𝑖𝑑𝑖, dove il dialogo fra la corifea delle Erinni e Apollo è aperto e chiuso dagli interventi di Atena. D’altra parte, a questa semplicità delle costanti strutturali non corrisponde affatto una drammaturgia elementare: l’arte di accrescere e smorzare la tensione, di anticipare allusivamente gli eventi futuri o di richiamare quelli trascorsi, di creare richiami a distanza all’interno di una singola tragedia o fra scene anche lontane della trilogia, di far entrare e uscire i personaggi secondo un consumato senso del tempo e delle attese del pubblico, di produrre un’alternanza felice (ad es. nelle scene di uccisione dell’𝐴𝑔𝑎𝑚𝑒𝑛𝑛𝑜𝑛𝑒 e delle 𝐶𝑜𝑒𝑓𝑜𝑟𝑒) fra azione rappresentata sulla scena e azione retroscenica, di variare i toni e i moduli espressivi eventualmente riutilizzando spunti e schemi dell’epica o della lirica, è un’arte che fa del teatro di Eschilo un denso concentrato di effetti, di emozioni, di idee.
Pittore di Brooklyn-Budapest. Elettra, Oreste, Pilade e una serva alla tomba di Agamennone. Pittura vascolare da un’anfora panatenaica a figure rosse, 380-360 a.C. c. dalla Lucania. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
2. Lo studio e la creazione dei personaggi
Anche i personaggi, se da un lato tendono a costruirsi secondo poche linee di forza energicamente rilevate che nulla concedono a tratti accessori o marginali, offrono, nell’incrocio o nello scontro fra queste linee e nel profilarsi dell’agire umano sullo sfondo del volere divino, l’immagine di un mondo dei mortali dominato dalla passione per mete irrinunciabili, da un voler essere che in nome di un determinato obiettivo trasgredisce limiti etici e leggi ancestrali ed entra nel campo della ὕβρις, della cecità, del delitto.
Allargare un impero aggiogando i sacri sentieri del mare, conservare il potere a prezzo del fratricidio, immolare la propria figlia perché le navi achee veleggino alla volta di Ilio, assassinare il marito per vendicarsi del torto subìto: pur nella specificità dei loro profili individuali Serse, Eteocle, Agamennone, Clitennestra appaiono accomunati da questa volontà di autoaffermazione che li trascina in una zona oscura, attraversata dai demoni della vendetta e della follia, che sono pronti a collaborare con le pulsioni profonde del loro carattere. Ma rispetto a questo tipo fondamentale di personaggio si prospettano impreviste varianti: anche Oreste, come la madre, uccide per vendetta, ma si tratta per lui di una reazione che ha la sua molla iniziale nell’ordine di un dio (Apollo delfico) e che per diventare convinta decisione ha bisogno dell’aura emotiva che lievita, nel commo delle 𝐶𝑜𝑒𝑓𝑜𝑟𝑒, dalla rievocazione del delitto e dalle invocazioni ossessive al padre ucciso. Oppure coesistono, all’interno di questo modello di personaggio che afferma con violenza la sua volontà di potere, aspetti positivamente dissonanti: Eteocle è anche un valoroso oplita, preoccupato delle sorti della sua città; Agamennone, quando appare sulla scena al suo ritorno ad Argo, è diventato un uomo moderato e pio; Clitennestra conosce anche momenti di amore filiale (alla notizia della morte di Oreste) e il suo legame con Egisto non è esclusivamente strumentale al delitto.
Accanto ai grandi ritratti si affacciano fugacemente figure minori, come la delirante Cassandra o la premurosa Cilissa, colte nell’istantanea di una singola scena ma ugualmente convincenti per l’incisiva fissazione di un determinato aspetto dell’umano; oppure si propongono figure collettive, come le terrorizzate coreute tebane dei 𝑆𝑒𝑡𝑡𝑒, che nel confronto con il protagonista sanno trovare imprevedibili risorse dialettiche, o le parimenti emotive Oceanine del 𝑃𝑟𝑜𝑚𝑒𝑡𝑒𝑜, anch’esse dotate d’insospettata tenacia quando nella chiusa si lasciano precipitare nel Tartaro pur di non abbandonare la vittima di Zeus, o, ancora, le sconcertanti Danaidi delle 𝑆𝑢𝑝𝑝𝑙𝑖𝑐𝑖, volta a volta querule e appassionate, imploranti e minacciose.
«Atena Farnese». Statua, copia romana in marmo dall’originale di Pirro, della scuola fidiaca, V secolo a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
3. L’assetto dell’ordine divino e le prospettive dell’uomo
In contrasto con un mondo umano aperto a convulsioni, dissesti, lacerazioni e che solo a tratti e con molto travaglio riesce a progettare un modello di ordine e di civiltà (la πόλις ateniese nelle 𝐸𝑢𝑚𝑒𝑛𝑖𝑑𝑖), il mondo divino appare organizzato come ordinata struttura che fa capo a Zeus, reggitore del cosmo con cui si armonizzano le altre grandi divinità del culto poliade, Atena e Apollo in primo luogo.
Condizionamento divino e responsabilità individuale interagiscono in modo problematico: sulla scia di Solone e della sapienza arcaica, si realizza quel fenomeno per cui il movimento dell’uomo oltre il limite imposto dalla sua condizione, provoca un movimento inverso di invasione del divino entro il campo dell’umano nella forma di forze normalmente qualificate come “demoniche” oppure con un generico θεός: «quando un uomo smania di agire, anche un dio coopera» (v. 742) dice Dario confermando quanto poco prima aveva intuito la regina madre riguardo l’operato di Serse (v. 724: «Certo un dio si attaccò alla sua mente»).
Ciò che al poeta preme di sottolineare è l’intreccio fra la pulsione umana verso e al di là del limite (ὕβρις) e la «collaborazione» di un dio o di un demone da cui l’azione umana appare condizionata attraverso l’interno (le φρένες) dell’individuo fino allo smarrimento, al traviamento, alla follia (ἄτη).
In Eschilo, l’uomo, in particolare il potente che agisce violando limiti e leggi, non è trascinato fatalmente da una follia irresistibile, ma neppure è pienamente libero delle proprie azioni: come osserva M. Pohlenz, «Serse rimane responsabile, anche se vi è stata la cooperazione di un demone; e perfino quando sulla casa degli Atridi pesa uno spirito di maledizione che induce a sempre nuovi delitti, dopo l’assassinio di Agamennone il coro ha, sì, la tormentosa intuizione che dietro questo avvenimento si celi la volontà di Zeus, che di tutto è causa e tutto opera (“Che cosa compirebbe mai l’uomo senza Zeus?”), eppure respinge con durezza il tentativo di Clitennestra di sbarazzarsi della colpa attribuendola al demone: “Il demone della casa può certo essere d’aiuto; ma la colpevole sei tu”. La responsabilità di Serse non è neppure diminuita dalla circostanza ch’egli fu condotto su di una falsa strada dall’“astuto inganno del dio”, dalla sua posizione di sovrano d’un popolo distruttore, procedente di vittoria in vittoria. Era stata la sua ὕβρις a trascinarlo nella rovina. Per l’intervento di potenze divine e demoniche non s’annullano quindi, per Eschilo, la capacità dell’uomo di autodeterminarsi e la responsabilità che gliene deriva».
L’Olimpo eschileo è carico di eticità e impone all’uomo di non oltrepassare i suoi limiti e di sentirsi responsabile delle sue azioni: con la consapevolezza che chiunque ha peccato pagherà ma, altresì, che la sofferenza può essere, per noi stessi o per altri, via alla saggezza. Tale dinamica trova la sua sintesi nell’enunciazione della legge del πάθει μάθος[19], cioè dell’apprendimento attraverso la conoscenza:
Parallelamente, la dimensione etica è per gli stessi dèi il risultato di un processo avvenuto attraverso il tempo, dopo che Zeus ha preliminarmente conquistato e difeso la sua egemonia con la stessa violenza con cui suo padre Crono aveva spodestato Urano. E la sfera degli Olimpî deve fare i conti e integrarsi con forze marginali, retaggio delle più antiche forme di religiosità mediterranea – le potenze della Notte, delle Erinni, del demone Ἀλάστωρ («Colui che non dimentica») –, lasciando ad esse uno spazio e un culto grazie ai quali, nel nuovo modello di πόλις vagheggiato da Eschilo, il cittadino possa nutrire verso le leggi e i doveri della collettività lo stesso istintivo timore che da sempre avvertiva nei confronti delle manifestazioni più arcane del divino.
Bassorilievo votivo al fiume Cefiso. Dedicato da Senocratea. Marmo, fine V secolo a.C. Museo Archeologico Nazionale di Atene.
4. Le istituzioni della πόλις democratica
La linea di equilibrio e di continuità fra le concezioni religiose ancestrali e il nuovo ordine della πόλις (di cui sono garanti le divinità olimpiche), è espressa in un dibattito cruciale che segna una sorta di «passaggio delle consegne» tra le Erinni e Atena. In una fase del processo presso il tribunale dell’Areopago, le Erinni rivendicano l’importanza del “terrore” (τὸ δεινόν) quale elemento di costrizione su cui bisogna fondare la giustizia e la moderazione («tutto quanto sta nel mezzo»):
Questi ammonimenti vengono riecheggiati, a tratti perfino letteralmente, da Atena (vv. 698 ss.), che insiste sulla necessità che τὸ δεινόν il «timore» (timore delle leggi e timore della punizione dei delitti) non sia cacciato dai confini della città e che lo spazio della politica sia circoscritto entro limiti che escludono tanto il dispotismo quanto l’assenza di potere istituzionale (vv. 696 s.). Se saprà operare in conformità con questi principî l’Areopago – aggiunge Atena – potrà costituire un «baluardo della contrada» e uno «strumento di salvezza per la città» (v. 701) ignoto agli Sciti o alle genti del Peloponneso.
Nello spazio della πόλις e delle sue istituzioni è fondato un ordine di giustizia entro il quale le antiche forze primordiali e i loro rappresentanti, dalle Erinni al benefattore Prometeo, restino operanti ma subordinate, presenti e tuttavia marginali rispetto a un nocciolo che abbia il suo punto di riferimento in Zeus, figura di un mondo senza facili illusioni dove la conoscenza deve lievitare attraverso la sofferenza e la speranza può prender corpo solo nell’ossequio a Δίκη.
Solo entro questo quadro trovano superamento le contraddizioni interne dell’ἦθος aristocratico, fondato sull’attribuzione al γένος di una responsabilità collettiva, che incardina la giustizia nel principio secondo cui «sangue chiama sangue». La logica secondo cui a delitto risponde pari delitto, innesca un meccanismo incontrollabile, per cui da colpa nasce colpa, in una linea di continuità ereditaria che scatena la faida tribale. Le vicende degli Atridi sono percorse da una linea di sangue (metaforicamente rappresentata dal tappeto rosso che Clitennestra stende davanti al palazzo e che Agamennone percorrerà, seguendo il suo destino), e da Atreo colpa e punizione ricadono su Agamennone, poi su Clitennestra ed Egisto, per arrivare infine a Oreste.
Alla catena insolubile di crimini pone freno la comunità, rappresentata dal tribunale dell’Areopago, sotto la tutela di Atena: con l’assoluzione di Oreste si affermano le leggi della πόλις, che trasferiscono a livello della comunità il controllo del vivere sociale. Convinto sostenitore della visione politica temistoclea e poi di quella elaborata da Efialte e Pericle, Eschilo porta sino in fondo la difficile operazione di sostenere i valori della polis e della ancora recente democrazia attraverso immagini, figure, energie dissotterrate dagli strati più profondi del conglomerato ereditario della civiltà ellenica. Si tratta di quelle forze, legate al senso del γένος e alla venerazione delle potenze numinose della vendetta, che non potevano più essere centrali in un mondo gravitante sulla πόλις in quanto collettività capace di inglobare e ridimensionare potere e valore dei singoli γένη, ma che, nello stesso tempo, non potevano essere espulse dal cerchio della città, se questa non voleva correre il rischio di oscillare paurosamente fra anarchia e dispotismo.
5. La ricchezza di linguaggio
Tensioni di forze, varietà di effetti, incisività di penetrazione psicologica, progettualità ideologica sono valorizzate da un linguaggio che nell’estrema densità e concentrazione, nella ricchezza di neologismi (talora in forma di imponenti composti che possono occupare tutto un emistichio), nella creazione di immagini e non da ultimo nella stessa coscienza del potere della parola poetica rappresenta un momento indimenticabile e per certi aspetti insuperato nell’espressione dei Greci. Capace di commentare il sublime e l’orrifico, la solennità e la volgarità, l’asprezza più energica e la più delicata trepidazione, lo stile di Eschilo pesca il suo materiale in un serbatoio sterminato, attingendo con uguale disinvoltura ai lessici della caccia e della mantica, del diritto e della politica, della guerra e della navigazione; inoltre recupera tutta l’esperienza delle forme letterarie del passato, per cui i moduli della narrazione, dell’orazione, della supplica o dell’inno vengono subordinati a un dominio unitario della sequenza drammatica.
Sul piano iconico un’immagine o una costellazione di immagini (la nave della città nei 𝑆𝑒𝑡𝑡𝑒, gli sparvieri nelle 𝑆𝑢𝑝𝑝𝑙𝑖𝑐𝑖, la caccia nell’𝑂𝑟𝑒𝑠𝑡𝑒𝑎) possono generare una catena metaforica che si associa, come forma di visualità interna, alla visualità dello spettacolo fisicamente rappresentato, connotando e commentando gli eventi.
Con effetto in parte analogo le etimologie, lasciando emergere la struttura profonda di un nome, tendono a instaurare una relazione sostanziale fra il linguaggio e le cose, le parole e i fatti (p. es., Polinice è Πολὺ νεῖκος, «Molta contesa» in 𝑆𝑒𝑡𝑡𝑒 577, Elena/Ἑλένη diventa ἑλένας ἕλανδρος ἑλέ-/πτολις «conquistatrice di navi, di uomini, di città» in 𝐴𝑔𝑎𝑚𝑒𝑛𝑛𝑜𝑛𝑒 689 s., Δίκα si propone come abbreviazione di Διὸς κόρα in 𝐶𝑜𝑒𝑓𝑜𝑟𝑒 949).
[9] Si vd. Sᴜɪᴅ. 𝑠.𝑣. Αἰσχύλος αι 357 Adler; 𝑉𝑖𝑡. 𝐴𝑒𝑠𝑐ℎ. 8-9; cfr. anche Pʟᴜᴛ. 𝐶𝑖𝑚. 8, 483; Pᴏʟʟ. 𝑂𝑛𝑜𝑚. IV 110.
[10] Le circostanze della scomparsa del poeta, descritte da 𝑉𝑖𝑡. 𝐴𝑒𝑠𝑐ℎ. 10, hanno dell’incredibile: Eschilo, che si trovava seduto all’aperto, fu colpito violentemente in testa dal guscio di una tartaruga, lasciata cadere, a una certa altezza, da un’aquila, con l’intenzione di romperne il carapace per nutrirsi delle carni. Cfr. anche Dᴇᴍᴏᴄʀɪᴛ. T 68 Diels-Kranz; Vᴀʟ. Mᴀx. IX 12, 2; Aᴇʟ. 𝑁𝐴 7, 16.
[11] Aʀɪsᴛᴏᴛ. 𝐸𝑁 III 2, 1111a 8; Hᴇʀᴀᴄʟ². F 170 Wehrli = Aɴᴏɴ. 𝑖𝑛 𝐸𝑡ℎ. 𝑁𝑖𝑐. III 2, 1111a 8; cfr. anche Aᴇʟ. 𝑉𝐻 5, 19; Cʟᴇᴍ. 𝑆𝑡𝑟𝑜𝑚. II 461.
[19] Dietro la formulazione del πάθει μάθος c’è l’espressione παθὼν δέ τε νήπιος ἔγνω («e soffrendo lo stolto capì») che troviamo negli Erga esiodei (v. 218). In modo molto simile Erodoto (I 207, 1) farà dire a Creso: τὰ δέ μοι παθήματα ἐόντα ἀχάριτα μαθήματα γέγονε «le mie ingrate sofferenze sono divenute per me ammaestramenti» (l’insegnamento viene fatto coincidere, subito dopo, con la capacità di riconoscere l’esistenza di «un ciclo delle vicende umane che col suo volgersi non permette che sempre gli stessi individui siano fortunati»). Senonché, mentre in origine l’espressione proverbiale intendeva ironizzare sulla stoltezza di chi riconosce troppo tardi il proprio errore, in Eschilo, come anche in Erodoto, il μάθος diventa l’effettivo apprendimento di una norma universale che ha come suo contenuto il φρονεῖν e il σωφρονεῖν, una saggezza che comporta devozione verso gli dèi, conoscenza del limite nell’agire, rispetto delle istanze poste dalla società e coerenza con lo 𝑠𝑡𝑎𝑡𝑢𝑠 nel cui ambito l’individuo si trova a vivere. Se indubbiamente la nozione di πάθος continua a comprendere il momento del castigo prodotto da altri uomini o dagli dèi o dalla sorte, l’immagine che Eschilo mette in primo piano subito dopo l’enunciazione della norma generale è quella di un μνησιπήμων πόνος, di un «affanno memore di colpe», insomma di un rimorso che, togliendo il sonno, costringe anche colui che recalcitra a imboccare la via della σωφροσύνη: un favore (χάρις) degli dèi che, con un ossimoro, è detto «violento» (βίαιος).
Su Frine di Tespie, la più celebre cortigiana del IV secolo a.C., gli antichi tramandano notizie biografiche talmente romanzesche e romanzate da mettere in difficoltà nel distinguere la realtà dalla finzione. Come per altre figure femminili appartenenti al 𝑑𝑒𝑚𝑖-𝑚𝑜𝑛𝑑𝑒 ellenico, anche Frine fu trascurata dagli scrittori del suo tempo, tranne che dai commediografi, attenti osservatori dei fatti d’attualità, soprattutto se “scandalistici”; ma sarebbe divenuta oggetto dell’incuriosita e a tratti morbosa attenzione di poeti, storici e dossografi ellenistici e romani (Cᴀᴠᴀʟʟɪɴɪ 2014, 129). Fra i moderni c’è chi è persino giunto al punto di dubitare della storicità di questa donna affascinante e inquietante (Rᴏsᴇɴᴍᴇʏᴇʀ 2001, 245) e chi, invece, ha espresso con troppa radicalità una posizione ipercritica nei confronti di alcuni dati tradizionali (Cᴏᴏᴘᴇʀ 1995). Per ricostruire la figura di Frine occorre valutare con la massima cautela le fonti pervenute – il cui gran numero testimonia la vastissima fama della cortigiana –, considerando che queste ultime si collocano per lo più fra il I e il IV secolo d.C.: esse non sono solo più tarde rispetto ai fatti riportati, ma presumibilmente rispecchiano una tendenza abbastanza tipica degli eruditi antichi all’aneddotica e al sensazionalismo.
Dall’orazione 𝐶𝑜𝑛𝑡𝑟𝑜 𝐹𝑟𝑖𝑛𝑒 (ἐν τῷ κατὰ Φρύνης) di Aristogitone (Aᴛʜᴇɴ. XIII 59, 591e = F 7 Tur) e da Plutarco (Pʟᴜᴛ. 𝐷𝑒 𝑃𝑦𝑡ℎ. 𝑜𝑟. 401a) si ricava che il vero nome di Frine era Μνησαρέτη («Colei che ricorda la virtù»). Stando ad Alceta il Periegeta (Aʟᴋ. 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 405 F 1 = Aᴛʜᴇɴ. XIII 59, 591b) il padre di lei si chiamava Epicle. Queste informazioni ricondurrebbero a un’origine libera, se non addirittura nobile, della famiglia, che, verosimilmente, al pari di altri γένη aristocratici tespiesi, dovette affrontare varie traversie al tempo in cui Tebe, in seguito alla clamorosa vittoria sui Lacedemoni a Leuttra (371), conquistava una stupefacente, seppur effimera, egemonia sull’intera Grecia continentale. A detta di Pausania (IX 14, 2-4), alcuni Tespiesi, preoccupati per le antiche tensioni con Tebe e per le conseguenze del recente successo, avrebbero deciso di abbandonare la propria città: si è ipotizzato che questo fosse anche il caso della famiglia di Mnesarete, che emigrò ad Atene, città tradizionalmente disponibile ad accogliere stranieri, anche se fortemente restia a concedere loro i diritti di cittadinanza (Tᴜᴘʟɪɴ 1986, 321-341; Cᴏʀsᴏ 1997-1998, 66).
William Russell Flint, Frine e la serva. Acquerello su lino, 1900-1920 c.
Restano avvolti nell’oblio i primi anni di permanenza ad Atene di Mnesarete; l’unico, forse tendenzioso, riferimento all’adolescenza della profuga tespiese è identificabile in un frammento dalla 𝑁𝑒𝑒𝑟𝑎 del comico Timocle (F 25 Kassel-Austin), in cui uno sfortunato amante della donna ricorda i tempi in cui quest’ultima non era ancora insuperbita dalla ricchezza che in seguito avrebbe conquistato. Presumibilmente messa in scena quando l’ἑταίρα era ormai ricca e famosa, la commedia timoclea rievoca il periodo in cui la giovane tespiese, oppressa dalla povertà e costretta a umili lavori, non esitava ad approfittare con spregiudicatezza dell’aiuto economico di quanti fossero attratti dalla sua bellezza. A quanto pare, fin da allora la ragazza aveva assunto il nomignolo di Φρύνη («ranocchietta»), che secondo gli antichi interpreti sarebbe stato dovuto al colorito pallido-olivastro del suo incarnato (Pʟᴜᴛ. 𝐷𝑒 𝑃𝑦𝑡ℎ. 𝑜𝑟. 401a), anche se sembra più probabile che si sia trattato di un dispregiativo intenzionalmente assunto in funzione antifrastica, quasi a sottolineare – per contrasto – l’eccezionale avvenenza della giovane donna.
Benché fosse una straniera, profuga e priva di mezzi, Mnesarete era una donna libera e godeva dello statuto di μέτοικος, condizione che le consentiva di acquisire una considerevole posizione economica, a differenza delle cittadine ateniesi: come avrebbe potuto conquistarsi fama e prestigio in una πόλις in apparenza accogliente, ma di fatto saldamente ancorata a rigidi principi di selezione e di esclusione?
All’epoca, benché esistesse una certa differenza tra ἑταίρα e πόρνη (Kᴜʀᴋᴇ 1999, 175-219; MᴄCʟᴜʀᴇ 2003, 11-18), entrambe queste figure professionali erano diventate ormai anche personaggi letterari tipizzati, fatti oggetto di aneddoti faceti, componimenti satirici e battute comiche osé, soprattutto per via della natura essenzialmente carnale della loro professione. Incontinenza verso il vino e il sesso, avidità, slealtà, doppiezza e impudenza erano le caratteristiche più comuni della maschera della “cortigiana/prostituta”, frutto dell’approccio aspramente misogino della cultura ellenica, ma anche della volontà dei commediografi e dei retori di screditare i propri avversari politici o personali. Allora come oggi, la vita privata di un personaggio pubblico rappresentava il suo punto debole, il bersaglio polemico a cui mirare per distruggerne la credibilità e comprometterne la carriera. Paradossalmente, però, la frequentazione di donne di “malaffare” era autorizzata e quasi promossa dalla πόλις, praticata dagli uomini di ogni ceto sociale secondo le proprie disponibilità, sebbene costituisse, in ogni caso, motivo di scandalo e di biasimo, perché sintomo della mancanza di moderazione e della conseguente depravazione morale (il comico Filemone di Siracusa, per esempio, invitava i giovani ateniesi a frequentare i bordelli istituiti da Solone, in cui era possibile appagare le proprie esigenze sessuali in tutta sicurezza e alla cifra irrisoria di un obolo, corrispondente a 1/6 di una dracma: Pʜɪʟᴇᴍ. F 3 Kassel-Austin = Aᴛʜᴇɴ. XIII 25, 569d-f).
Queste donne, da parte loro, suscitavano al tempo stesso desiderio e disprezzo, attrazione e ripulsa, venerazione e ostilità; le più belle e le più scaltre non di rado intrecciavano 𝑙𝑖𝑎𝑖𝑠𝑜𝑛𝑠 𝑑𝑎𝑛𝑔𝑒𝑟𝑒𝑢𝑠𝑒𝑠 con uomini di spicco del loro tempo, violando l’assoluto anonimato che caratterizzava la donna greca e conquistandosi così un viatico per l’eternità. E questo fu anche il caso di Mnesarete/Frine.
Sul suo conto, una delle fonti principali è rappresentata da Ateneo di Naucrati, che le ha dedicato un’ampia sezione del libro XIII dei suoi 𝐷𝑒𝑖𝑝𝑛𝑜𝑠𝑜𝑝ℎ𝑖𝑠𝑡𝑎𝑒 (58, 590c-60, 591f). Lo scrittore egizio di epoca imperiale (II-III secolo) si è avvalso di diverse opere di eruditi, tra le quali quella di Ermippo di Smirne († 𝑝𝑜𝑠𝑡 208/4 a.C.; si vd. Bᴏʟʟᴀɴsᴇᴇ 1999), il Περὶ τῶν Ἀθήνησιν ἑταίρων di Apollodoro di Atene (II sec. a.C.), il Περὶ τῶν ἐν τῇ μέσῃ κωμῳδίᾳ κωμῳδουμένων ποιητῶν di Erodico di Babilonia (vissuto al più tardi all’inizio del I secolo a.C., cfr. Gᴜᴅᴇᴍᴀɴɴ 1912) e il Περὶ τῶν ἑταίρων di Callistrato (attivo nella prima metà del II sec. a.C.; 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 348 F 1), e le ha integrate con aneddoti di autori contemporanei ai fatti, e cioè retori (Iperide, Aristogitone, ecc.) e poeti comici (Timocle, Posidippo, ecc.; cfr. Rᴀᴜʙɪᴛsᴄʜᴇᴋ 1941).
Sull’aspetto della cortigiana, Ateneo riporta che «Frine era più bella nelle parti che non si vedono; di conseguenza, non era neanche facile vederla nuda» (ἦν δὲ ὄντως μᾶλλον ἡ Φρύνη καλὴ ἐν τοῖς μὴ βλεπομένοις. διόπερ οὐδὲ ῥᾳδίως ἦν αὐτὴν ἰδεῖν γυμνήν). Per accrescere il proprio fascino e solleticare fantasia e curiosità dei potenziali amanti, aveva l’abitudine di indossare «una tunichetta attillata» (ἐχέσαρκον χιτώνιον) e di rado «frequentava i bagni pubblici» (τοῖς δημοσίοις οὐκ ἐχρῆτο βαλανείοις). Accadde, però, una volta che, in occasione delle feste di Poseidone a Eleusi (τῇ δὲ τῶν Ἐλευσινίων πανηγύρει καὶ τῇ τῶν Ποσειδωνίων), Frine, «sotto gli occhi di tutti i Greci riuniti, deposto il mantello e sciolte le chiome, scese in mare» e ne riemerse, simile ad Afrodite, davanti agli astanti attoniti (Cᴀᴠᴀʟʟɪɴɪ 1999, 54). Quella coreografica e provocatoria immersione ispirò il famoso ζώγραφος Apelle, che dipinse l’𝐴𝑓𝑟𝑜𝑑𝑖𝑡𝑒 𝐴𝑛𝑎𝑑𝑖𝑜𝑚𝑒𝑛𝑒 («Afrodite che sorge dalle acque»), quadro nel quale la dea è colta nuda, in atto di strizzarsi le chiome bagnate (Pᴏʟʟɪᴛᴛ 1990, 158-163; Bᴇᴀᴢʟᴇʏ, Asʜᴍᴏʀᴇ 1932, 63-66). L’opera, esposta a Coo, fu celebrata già dagli epigrammi descrittivi di epoca ellenistica (p. es., Aɴᴛɪᴘ. Sɪᴅ. 𝐴. 𝑃𝑙. XVI 172 = F 45 Gow-Page; Lᴇᴏɴ. XVI 182 = F 23 Gow-Page) e nel 30 Augusto la acquistò per consacrarla al tempio di Cesare, concedendo in cambio la cancellazione di un tributo di 100 talenti che i Coi dovevano a Roma (cfr. Sᴛʀᴀʙ. XIV 2, 19; Pʟɪɴ. 𝑁𝑎𝑡. ℎ𝑖𝑠𝑡. XXXV 91-92).
Afrodite Anadiomene. Mosaico, II-III sec. d.C. Antakya, Museo Archeologico ‘Hatay’.
Alla particolare avvenenza di Frine-Mnesarete si riferisce persino un aneddoto riportato dal medico Galeno: «Costei (𝑠𝑐. Frine), una volta a un banchetto, in cui sorse l’idea di fare il gioco che ciascuno a turno comandasse ai convitati ciò che voleva, vide lì delle donne imbellettate con ancusa, biacca e rossetto; fece portare dell’acqua e ordinò che, attingendola con le mani, la portassero così una sola volta al viso e subito dopo la detergessero con un asciugamano; e lei per prima fece questo. Mentre a tutte le altre la faccia si riempì di macchie e si poteva notare una somiglianza con gli spettri, lei apparve più bella, perché sola era senza trucco e bella al naturale, senza aver bisogno di nessun artificio fallace» (Gᴀʟᴇɴ. 𝑃𝑟𝑜𝑡𝑟. 10, 6 Barigazzi = I 26 Kaibel). L’episodio è incluso nell’ampia argomentazione che Galeno utilizza per sostenere l’importanza dell’arte medica: egli illustra come la cosmesi sia affine alla medicina, poiché, mentre quest’ultima persegue il fine di preservare la salute delle persone, la prima conferisca una parvenza di salute a chiunque ne faccia ricorso; tuttavia, benché entrambe siano arti “utili”, la cosmesi appartiene alla categoria del falso e dell’imitazione (una riflessione di chiaro stampo platonico).
A dispetto del nome Mnesarete, che, come si è detto, significa «Colei che ricorda la virtù», Frine è presentata dalla tradizione come tutt’altro che un esempio di specchiata virtù, e anzi spesso si insiste sulla sua incontenibile avidità: un frammento del 𝑆𝑢𝑙𝑙𝑒 𝑐𝑜𝑟𝑡𝑖𝑔𝑖𝑎𝑛𝑒 𝑎𝑡𝑒𝑛𝑖𝑒𝑠𝑖 di Apollodoro di Atene (Aᴘᴏʟʟᴏᴅ. 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 244 F 212 = Aᴛʜᴇɴ. XIII 60, 591c) testimonia che esistevano due etere di nome Frine, «delle quali l’una era soprannominata “Pianto e riso” (Kλαυσίγελως), l’altra “Pesciolino” (Σαπέρδιον)». Nella fattispecie, “Pianto e riso” lascerebbe intuire che la bella e capricciosa cortigiana vendesse a caro prezzo i propri favori ed è molto probabile che da questo soprannome sia sorto l’aneddoto, riportato da Plinio il Vecchio (Pʟɪɴ. 𝑁𝑎𝑡. ℎ𝑖𝑠𝑡. XXXIV 70), del gruppo statuario di Prassitele che raffigurava una matrona piangente e una etera ridente – naturalmente con le fattezze di Frine. Erodico Crateteo nel sesto libro dei 𝑃𝑒𝑟𝑠𝑜𝑛𝑎𝑔𝑔𝑖 𝑠𝑡𝑜𝑟𝑖𝑐𝑖 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑒 𝑐𝑜𝑚𝑚𝑒𝑑𝑖𝑒 «sostiene che l’una, detta presso i retori “Sesto” (Σηστὸς), era così chiamata perché passava al setaccio (ἀποσήθειν) e spogliava di tutto quelli che andavano con lei; l’altra era chiamata invece “la Tespiese” (Θεσπική)» (Hᴇʀᴏᴅ. F 7, p. 126 Düring = Aᴛʜᴇɴ. XIII 60, 591c). Sempre che si sia trattato della stessa persona, essendo Frine un “nome di battaglia” gettonatissimo tra le professioniste anche di generazioni differenti, per alcuni interpreti questo di Erodico sarebbe un riferimento al “setaccio”, in relazione alla rapacità dell’etera, mentre secondo altri un modo per canzonare una coppia di accompagnatrici, Frine e Sinope, chiamate rispettivamente “Sesto” e “Abido”, dal nome delle due città che si fronteggiavano sui Dardanelli.
L’ingordigia di Mnesarete-Frine è ripresa dall’assimilazione comica che ne fa il poeta Anassila nel F 22 Kassel-Austin, vv. 18-19: «Ma ecco Frine, non lontano, a far la parte di Cariddi: / ghermito il nocchiero, l’ha divorato con la nave e tutto il resto» (in Aᴛʜᴇɴ. XIII 6, 558c). La 𝑁𝑒𝑜𝑡𝑡𝑖𝑠 (𝑃𝑜𝑙𝑙𝑎𝑠𝑡𝑟𝑒𝑙𝑙𝑎) è forse il soprannome, o il nome proprio, di un’etera: il passo presenta una rassegna di cortigiane, difficile dire se figure reali note al pubblico o figure fittizie con tipici nomi di battaglia, paragonate a celebri mostri mitologici. Il parallelo si fonda appunto sul luogo comune della pericolosità delle etere, ritenute creature avide, infide e rovinose per i loro amanti, che nacque con la “Commedia di mezzo”, in cui presero forma i tipi della “etera cattiva” e della “etera buona”, destinati a notevole fortuna nel teatro successivo (cfr. Nᴇssᴇʟʀᴀᴛʜ 1990, 322-324); il parallelismo con i mostri si spinge, dunque, sino alla comica evocazione di alcune famose leggende – e qui, nel caso, di Frine è ripreso l’episodio odissiaco dell’incontro con Cariddi! –, ma, a differenza degli antichi eroi, i frequentatori delle cortigiane in genere hanno sempre la peggio (si vd. Hᴀᴡʟᴇʏ 2007, 165).
Anche Macone, commediografo corinzio o sicionio del III secolo, vissuto ad Alessandria in Egitto, tramanda in alcuni trimetri giambici un episodio che ha per protagonista Frine-Mnesarete alle prese con un corteggiatore spilorcio: «Merico stava dietro a Frine, la Tespiese, / ma, quando lei gli domandò una mina, / quello sbottò: “Ma è troppo! Non eri tu che stamattina presto / andasti con uno straniero per due monete d’oro?”. “Bene: dunque, aspetta anche tu – fece lei – fin quando / avrò voglia di scopare! Allora accetterò anche così poco!» (Mᴀᴄʜᴏ 𝐶ℎ𝑟. F 18, vv. 49-54 = Aᴛʜᴇɴ. XIII 45, 583b-c). L’ἑταίρα chiede al non altrimenti noto Merico la tipica parcella delle professioniste d’alto bordo, 1 mina, equivalente nel sistema attico a 100 dracme (pari a circa 400 g d’argento; cfr. Gᴏᴡ 1965, 120). La controproposta del cliente è molto inferiore, anche se non misera (40 dracme: cfr. Gᴏᴡ 1965, 135), ma equivalente, secondo la donna, a concedersi gratis, come, a modo suo, ella fa presente con la sua risposta pronta. D’altronde, le tariffe più comuni per il noleggio di una auleutride, per i servizi di una πόρνη o per la compagnia di una cortigiana erano piuttosto contenute, più o meno da 2 oboli a 5 dracme (cfr. Sᴀʟʟᴇs 1983, 87; Dᴀᴠɪᴅsᴏɴ 1997, 194-200). La fama professionale di Frine è variamente attestata anche nella letteratura latina: Lucilio in un frammento allude in modo oscuro al trattamento che la cortigiana riservava ai suoi clienti con le parole 𝑃ℎ𝑟𝑦𝑛𝑒 𝑛𝑜𝑏𝑖𝑙𝑖𝑠 𝑖𝑙𝑙𝑎 𝑢𝑏𝑖 𝑎𝑚𝑎𝑡𝑜𝑟𝑒𝑚 𝑖𝑚𝑝𝑟𝑜𝑏𝑖𝑢𝑠 𝑞𝑢𝑒𝑚… (Lᴜᴄɪʟ. F 263 Marx; cfr. anche Vᴀʟ. Mᴀx. IV 3, ext. 3: 𝑃ℎ𝑟𝑦𝑛𝑒 𝑛𝑜𝑏𝑖𝑙𝑒 𝐴𝑡ℎ𝑒𝑛𝑖𝑠 𝑠𝑐𝑜𝑟𝑡𝑢𝑚).
La tradizione aneddotica antica riporta anche che la giovane Mnesarete posò come modella di nudo per vari artisti, tra i quali lo scultore Prassitele, attivo tra il 375 e il 330, con il quale pare intrattenesse anche una relazione amorosa (sull’artista e la sua statuaria, si vd. Cᴏʀsᴏ 1988; Cᴏʀsᴏ 1990; Sᴛᴇᴡᴀʀᴛ 1990, I, 176-180; 277-281; II, 492-510; e Pᴏʟʟɪᴛᴛ 1974, 83; 131; Pᴏʟʟɪᴛᴛ 1990, 84-89; Rɪᴅɢᴡᴀʏ 1990, 90-93; Aᴊᴏᴏᴛɪᴀɴ 1996; Bɪᴇʙᴇʀ 1961, 15-23; Rɪᴄʜᴛᴇʀ 1970, 199-206; Bᴇᴀᴢʟᴇʏ-Asʜᴍᴏʟᴇ 1932, 54-59; Rɪᴢᴢᴏ 1932; Lɪᴘᴘᴏʟᴅ 1954). Con ogni verosimiglianza fu proprio l’incontro con questo maestro dell’arte plastica a imprimere una “svolta” nella carriera di Mnesarete. Si racconta che l’etera «a un corteggiatore spilorcio che faceva mostra di vezzeggiarla con un nomignolo, dicendole: “Tu sei la Piccola Afrodite di Prassitele!”, ella ribatté: “E tu sei l’Eros di Fidia!”» (Aᴛʜᴇɴ. XIII 49, 585f). In questo caso, il nome del famoso scultore Prassitele potrebbe suonare come “l’Esattore” (Πραξιτέλης, come πρᾶξις τελῶν, “riscossione di tributi”): il corteggiatore dunque vezzeggia Frine solo in apparenza, alludendo invece alla sua rapacità, mentre lei risponde a tono, poiché il nome di Fidia potrebbe suonare come il “Tirchione” (Φειδίας, dal verbo φείδομαι, “risparmiare”).
All’𝑎𝑘𝑚𝑒́ di Prassitele nell’Olimpiade CIV, corrispondente al quadriennio 364-361 a.C. (Pʟɪɴ. 𝑁𝑎𝑡. ℎ𝑖𝑠𝑡. XXXIV 50), andrebbe ascritta la realizzazione della celeberrima 𝐴𝑓𝑟𝑜𝑑𝑖𝑡𝑒 𝐶𝑛𝑖𝑑𝑖𝑎, una statua davvero innovativa per il tempo, essendo la prima immagine di nudo femminile di tutta l’arte plastica greca, di cui Frine sarebbe stata la modella. Esiste tuttavia una diversa tradizione, recepita da Clemente Alessandrino (Cʟᴇᴍ. 𝑃𝑟𝑜𝑡𝑟. IV 53, 5-6), nonché, sulla scia di quest’ultimo, da Arnobio (Aʀɴ. 𝐴𝑑𝑣. 𝑛𝑎𝑡. 6, 13), secondo la quale lo scultore avrebbe scolpito la famosa statua avvalendosi dei lineamenti di un’altra etera da lui amata, di nome Cratine. Questa notizia, che contrasta con l’abbondante e perfino tediosa aneddotica sulla presunta storia d’amore tra Prassitele e Frine, ha indotto alcuni studiosi a ipotizzare che l’artista avesse davvero utilizzato, per l’𝐴𝑓𝑟𝑜𝑑𝑖𝑡𝑒 𝐶𝑛𝑖𝑑𝑖𝑎, il volto di Cratine e il corpo di Frine (cfr. Cᴏʀsᴏ 1990, 83; Cᴏʀsᴏ 1997a, 93). Questa tradizione deriverebbe dal Περὶ Κνίδου di un certo Posidippo (Pᴏsɪᴅɪᴘ. 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 447 F 1), noto solo attraverso Clemente Alessandrino (cfr. Mᴇᴛᴛᴇ 1953); pertanto, si dubita della storicità di Cratine (cfr. Rᴀᴜʙɪᴛsᴄʜᴇᴋ 1941, 902; Cᴀᴠᴀʟʟɪɴɪ 2014, 134-135).
Afrodite Cnidia. Statua, marmo bianco, copia romana da un originale del IV secolo a.C. ca di Prassitele. Roma, Musei Vaticani, Museo Pio-Clementino.
L’𝐴𝑓𝑟𝑜𝑑𝑖𝑡𝑒 fu commissionata a Prassitele dai cittadini dell’isola di Cnido, dove pare che la nudità della dea avesse una specifica giustificazione cultuale, mentre in altre località greche – e soprattutto ad Atene – era giudicato a dir poco scandaloso che una dea fosse rappresentata senza veli. Lo scultore dovette verosimilmente incontrare non poche difficoltà nella ricerca di una modella per la “sua” 𝐴𝑓𝑟𝑜𝑑𝑖𝑡𝑒, che dal punto di vista ateniese costituiva un inquietante, se non addirittura “sovversivo” momento di rottura con un’antica e consolidata tradizione. Non è difficile credere che per il corpo nudo e seducente della dea si sia prestata una straniera, ambiziosa e spregiudicata, quale appunto era la giovane Mnesarete. I committenti di Prassitele mandarono ad Atene dei delegati per acquistare l’opera in bottega; giunta a Cnido l’immagine fu posta come 𝑒𝑥 𝑣𝑜𝑡𝑜 nel santuario di Afrodite Euplea («Che assicura una prospera navigazione»).
Cnido, città della Caria, affacciata sul Golfo di Coo, sorgeva sull’estremità meridionale della penisola di Triopion, tra Alicarnasso e Rodi; era stata membro della Lega dorica ed era rinomata per la sua scuola medica, per l’𝐴𝑓𝑟𝑜𝑑𝑖𝑡𝑒 di Prassitele (Pʟɪɴ. 𝑁𝑎𝑡. ℎ𝑖𝑠𝑡. XXXVI 20-21) e il suo santuario (Pᴀᴜs. I 1, 3), nonché per il portico di Sostrato (Pʟɪɴ. 𝑁𝑎𝑡. ℎ𝑖𝑠𝑡. XXXVI 83). Tra la fine del VI e gli inizi del V secolo la città era caduta sotto il controllo persiano, per poi entrare nella Lega di Delo e, infine, trovarsi sotto il dominio tolemaico nel III secolo.
Il simulacro della dea scolpito da Prassitele compare anche su alcune monete locali di età imperiale: ciò ne permise l’identificazione, fin dal 1728, in un tipo scultoreo noto come “Afrodite Belvedere”, documentato non meno da 192 riproduzioni, che ne fanno la statua più copiata dell’antichità (Sᴇᴀᴍᴀɴ 2004). La dea è rappresentata nuda, mentre ha appena terminato il bagno e sta prendendo il peplo deposto su una brocca posata a terra alla sua sinistra; e, come sorpresa da uno sguardo indiscreto, è scolpita in atto di coprirsi le grazie con un lembo della veste (Cʟᴏsᴜɪᴛ 1978; Dᴇʟɪᴠᴏʀʀɪᴀs 1984, 49-52, n. 391-408; Hᴀᴠᴇʟᴏᴄᴋ 1995; Zᴀɴᴋᴇʀ 2004, 144-145; 151-152).
Quello del bagno è un motivo ricorrente nel culto di Afrodite e, secondo la credenza antica, aveva la funzione di rendere nuovamente pura la dea, rigenerandola. Anche la nudità doveva esprimere lo stato di primordiale candore così riacquistato. Insomma, Afrodite si offriva pertanto come paradigma agli umani che dovevano superare l’amore volgare e innalzarsi alla sua dimensione ultraterrena; di conseguenza, Prassitele con la 𝐶𝑛𝑖𝑑𝑖𝑎 avrebbe interpretato proprio questa esigenza. D’altronde, una vicinanza dello scultore a Platone si arguisce innanzitutto dal fatto che suo zio Focione era stato allievo presso l’Accademia, e perciò l’artista dovette aver presente il metodo indicato dal filosofo per giungere alla contemplazione e alla definizione della bellezza; in secondo luogo, lo stesso Prassitele espresse in un epigramma la propria concezione dell’amore, inteso come sentimento presente nella vita interiore del soggetto ed emanato da archetipo assoluto (Aᴛʜᴇɴ. XIII 59, 591a = Pʀᴀxɪᴛ. 𝐴. 𝑃𝑙. XVI 204); infine, due epigrammi che celebrano la 𝐶𝑛𝑖𝑑𝑖𝑎 sono attribuiti niente meno che a Platone stesso (Pʟᴀᴛ. 𝐴. 𝑃𝑎𝑙. XVI 160-161).
Gli scavi archeologici condotti 𝑖𝑛 𝑠𝑖𝑡𝑢 hanno portato alla luce, sul terrazzamento più alto e occidentale dell’abitato, i resti di un tempio dalla pianta a 𝑡ℎ𝑜̀𝑙𝑜𝑠, luogo nel quale doveva essere verosimilmente collocata l’opera prassitelica: l’edificio mediante due aperture, sulla fronte e sul retro del muro circolare posto tra la statua e il colonnato esterno, consentiva una fruizione visiva completa del corpo della dea al centro della cella (Lᴏᴠᴇ 1970; 1972a; 1972b). L’ubicazione della statua a Cnido si arguisce anche da un epigramma di Antipatro di Sidone (Aɴᴛɪᴘ. Sɪᴅ. 𝐴. 𝑃𝑙. XVI 167 = F 44 Gow-Page, v. 1), in cui si afferma che questa Afrodite si ergeva «sopra Cnido rocciosa» (ἀνὰ κραναὰν Κνίδον), con ciò suggerendo che si trovava nell’area più elevata della città; Luciano di Samosata (Lᴜᴄɪᴀɴ. 𝐴𝑚𝑜𝑟. 11-17) racconta di un gruppetto di amici che, approdato a Cnido, visita la città e si reca al santuario per ammirare l’opera di Prassitele; il tempietto in cui è collocata era rotondo e chiuso da un unico muro, con porte di fronte e sul retro.
Da Plinio il Vecchio (𝑁𝑎𝑡. ℎ𝑖𝑠𝑡. XXXVI 20-21), tra l’altro, si apprende che «non solo su tutte le statue di Prassitele, ma anche nel mondo intero primeggia la sua Venere, che soltanto per ammirarla molti si recarono a Cnido per mare» (𝑎𝑛𝑡𝑒 𝑜𝑚𝑛𝑖𝑎 𝑒𝑠𝑡 𝑛𝑜𝑛 𝑠𝑜𝑙𝑢𝑚 𝑃𝑟𝑎𝑥𝑖𝑡𝑒𝑙𝑖𝑠, 𝑢𝑒𝑟𝑢𝑚 𝑖𝑛 𝑡𝑜𝑡𝑜 𝑜𝑟𝑏𝑒 𝑡𝑒𝑟𝑟𝑎𝑟𝑢𝑚 𝑉𝑒𝑛𝑢𝑠, 𝑞𝑢𝑎𝑚 𝑢𝑡 𝑢𝑖𝑑𝑒𝑟𝑒𝑛𝑡, 𝑚𝑢𝑙𝑡𝑖 𝑛𝑎𝑢𝑖𝑔𝑎𝑢𝑒𝑟𝑢𝑛𝑡 𝐶𝑛𝑖𝑑𝑢𝑚, XXXVI 20; cfr. VII 127). Si potrebbe dire che la 𝐶𝑛𝑖𝑑𝑖𝑎 diede origine a una sorta di turismo di massa, fenomeno di cui si ha testimonianza fino al IV secolo d.C. (Aᴜsᴏɴ. 𝐸𝑝. 55). Il legame di Afrodite con il mare a Cnido, per cui l’epiclesi di Εὐπλοία, è documentato fin da un episodio “miracoloso” risalente all’alto arcaismo: dei murici nelle loro conchiglie bivalve, sacri alla dea, avrebbero bloccato una nave che portava l’ordine del tiranno Periandro di evirare dei giovani nobili (Pʟɪɴ. 𝑁𝑎𝑡. ℎ𝑖𝑠𝑡. IX 80; cfr. Hᴅᴛ. III 24, 2-4; 49, 2). Inoltre, era opinione comune che la dea garantisse un dolce arrivo nel porto cnidio a chiunque si recasse a vedere l’𝐴𝑓𝑟𝑜𝑑𝑖𝑡𝑒 di Prassitele (Lᴜᴄɪᴀɴ. 𝐴𝑚𝑜𝑟. 11).
I Cnidi, grati allo scultore per la fama arrecata alla città, gli avrebbero conferito la piena cittadinanza (Cᴇᴅʀᴇɴ. 𝐶𝑜𝑚𝑝. ℎ𝑖𝑠𝑡. 322b). Plinio aggiunge che la bellezza dell’opera era tale che Nicomede, re di Bitinia, volle impossessarsi della preziosa statua e si offrì di saldare 𝑡𝑜𝑡𝑢𝑚 𝑎𝑒𝑠 𝑎𝑙𝑖𝑒𝑛𝑢𝑚, 𝑞𝑢𝑜𝑑 𝑒𝑟𝑎𝑡 𝑖𝑛𝑔𝑒𝑛𝑠, 𝑐𝑖𝑢𝑖𝑡𝑎𝑡𝑖𝑠, ma i Cnidi, nonostante fossero afflitti da una grave crisi economica, rifiutarono l’offerta, preferendo affrontare qualsiasi privazione, perché 𝑖𝑙𝑙𝑜 𝑒𝑛𝑖𝑚 𝑠𝑖𝑔𝑛𝑜 𝑃𝑟𝑎𝑥𝑖𝑡𝑒𝑙𝑒𝑠 𝑛𝑜𝑏𝑖𝑙𝑖𝑡𝑎𝑢𝑖𝑡 𝐶𝑛𝑖𝑑𝑢𝑚. Se si poteva proporre l’acquisto della 𝐶𝑛𝑖𝑑𝑖𝑎 e il rifiuto era dovuto alla fama arrecata dalla statua, è molto probabile che si sia trattato di una statua votiva, sia perché essa è ritenuta un ἀνάθημα in un epigramma di Luciano (Lᴜᴄɪᴀɴ. 𝐴. 𝑃𝑎𝑙. XVI 164, v. 1), sia perché fu appunto oggetto della richiesta di acquisto da parte del re di Bitinia: probabilmente fu il primo con questo nome a richiedere la statua, intorno al 260, per impreziosire la sua nuova capitale Nicomedia. Insomma, tutto ciò depone contro l’eventualità che fosse un simulacro di culto.
Per comprendere la vicenda di Prassitele, Frine e la 𝐶𝑛𝑖𝑑𝑖𝑎, è opportuno soffermarsi sul significato della nudità femminile nell’arte greca antica, in particolare in connessione al culto di Afrodite. Influenzata dai modelli iconografici delle omologhe mediorientali (Inanna e Išthar), la rappresentazione di nudi femminili aveva fatto una timida comparsa in Grecia già in età arcaica, soprattutto nei culti legati alla fertilità, nella letteratura patetica ed erotica, ma anche nei gesti apotropaici. Siccome la nudità era concepita come condizione di vulnerabilità, debolezza e inferiorità, gli artisti più antichi rappresentavano nudi i fedeli servitori degli dèi: sono così scolpiti i cosiddetti κοῦροι, utilizzati sia come segnacoli funerari sia come 𝑒𝑥 𝑣𝑜𝑡𝑜 nei santuari (Bᴏɴꜰᴀɴᴛᴇ 1989, 551). Sul piano magico-cultuale, la raffigurazione della nudità femminile incarnava il potere erotico delle dee, ma costituiva un tabù: sono noti i miti che raccontano episodi di voyeurismo punito, spesso con la menomazione o la morte dell’indiscreto osservatore.
Ora, l’immagine della dea nuda, esposta allo sguardo dei fedeli, era qualcosa di davvero unico, un gesto che non a caso fu percepito da subito come una sorta di affronto al divino, più che alla morale, e in qualche modo un nuovo approccio all’eros nella rappresentazione plastica. Negli intenti dello scultore, l’idea che la statua fosse l’eco in terra della bellezza di Afrodite, alla cui visione erano finalmente ammessi i mortali, doveva suscitare il desiderio di superare i limiti della condizione umana e di “appropriarsi” di quella divina. Nel già menzionato epigramma di Antipatro di Sidone (Aɴᴛɪᴘ. Sɪᴅ. 𝐴. 𝑃𝑙. XVI 167, v. 2) si dice che l’𝐴𝑓𝑟𝑜𝑑𝑖𝑡𝑒 𝐶𝑛𝑖𝑑𝑖𝑎 fosse «capace di incendiare le pietre, benché di pietra anch’essa» (ὡς φλέξει καὶ λίθος εὖσα λίθον).
In relazione a questo potere soprannaturale delle statue divine, la storia a cui Plinio (Pʟɪɴ. 𝑁𝑎𝑡. ℎ𝑖𝑠𝑡. XXXVI 21) accenna al termine della sua digressione sulla 𝐶𝑛𝑖𝑑𝑖𝑎 è quella del tentato rapporto sessuale fra un giovane e la statua, tentativo di cui il simulacro stesso portava traccia sul marmo (𝑒𝑖𝑢𝑠𝑞𝑢𝑒 𝑐𝑢𝑝𝑖𝑑𝑖𝑡𝑎𝑡𝑖𝑠 𝑒𝑠𝑠𝑒 𝑖𝑛𝑑𝑖𝑐𝑒𝑚 𝑚𝑎𝑐𝑢𝑙𝑎𝑚). Questa vicenda scabrosa divenne famosa in epoca ellenistica e imperiale, prendendo a circolare fra i generi letterari più disparati. Valerio Massimo fa eco alla notazione pliniana: «Prassitele, scolpita nel marmo la sposa di questi [𝑠𝑐. Vulcano], la collocò nel tempio dei Cnidi: era talmente bella che non riuscì a proteggersi dall’assalto di un maniaco sessuale» (Vᴀʟ. Mᴀx. VIII 11 ext. 4). L’amore per figure scolpite o dipinte (“agalmatofilia” o “pigmalionismo”; cfr. Lɪɢʜᴛ 1969², 502-504) potrebbe avere il suo archetipo nel ben noto mito di Pigmalione, il re di Cipro che si invaghì di una statua d’avorio raffigurante una donna, e la sposò quando per grazia di Afrodite questa prese vita (Oᴠɪᴅ. 𝑀𝑒𝑡. X 243ss.).
Afrodite Cnidia. Testa, marmo, copia romana da un originale prassitelico di IV sec. a.C., dal Palatino. Roma, Museo del Palatino.
In una lunga sezione sugli “amori impossibili” suscitati da dipinti e sculture trasmessa da Ateneo, Clearco racconta che un certo Cleisofo di Selimbria, «innamoratosi di una statua di marmo pario, a Samo, si chiuse a chiave nel tempio convinto di potersi congiungere con questa; giacché dunque non gli fu possibile, a causa della freddezza e della resistenza opposta dal marmo, subito desistette dal suo desiderio, e avvicinato a sé quel brandello di carne, con esso si congiunse» (Aᴛʜᴇɴ. XIII 58, 605f = Cʟᴇᴀʀ. F. 26 Wehrli). Clearco narra l’aneddoto con dettagli ignoti alle fonti più antiche, come il nome e la provenienza del protagonista, che peraltro è ignoto e ignoti sono anche il tempio di Samo e la statua. Nel finale Cleisofo si produce in un inedito rapporto sessuale (ἐπλησίασεν) con un brandello di carne (τὸ σαρκίον), preso forse da un animale sacrificale (secondo Aʀɴᴏᴛᴛ 1996, 150, sulla scorta di Sᴏʀ. 𝐺𝑦𝑛. I 18, 1-3, in esso andrebbe riconosciuto un equivoco dettaglio dell’anatomia sessuale femminile).
Ateneo, inoltre, riferisce che un accenno all’episodio di Cleisofo di Selimbria compare anche in due poeti della “Commedia nuova”, ne 𝐼𝑙 𝑑𝑖𝑝𝑖𝑛𝑡𝑜 (Γραφή) di Alessi e in un passo di Filemone, autori entrambi vissuti tra IV e III secolo (rispettivamente Aᴛʜᴇɴ. XIII 58, 605f = Aʟᴇxɪs 𝑃𝐶𝐺 F 41 = 𝐶𝐴𝐹 II 312, F 40; e Aᴛʜᴇɴ. XIII 58, 606a = Pʜɪʟᴇᴍ. 𝑃𝐶𝐺 F 127 = 𝐶𝐴𝐹 II 521, F 139). A quanto pare, le statue femminili non erano le uniche ad aver indotto in “tentazione” qualche giovane impressionabile. L’abile mano di Prassitele aveva modellato anche un 𝐸𝑟𝑜𝑠 nudo, esposto in un tempio di Paro e, come riporta Plinio, «se ne innamorò infatti Alceta di Rodi, che lasciò anche lui sulla statua una traccia del suo amore», così com’era accaduto per la Venere di Cnido (Pʟɪɴ. 𝑁𝑎𝑡. ℎ𝑖𝑠𝑡. XXXVI 39a). Questi e altri episodi di “agalmatofilia” (per cui si vd. Pᴏsɪᴅɪᴘ. FGrHist. 447 F 2 = Cʟᴇᴍ. 𝑃𝑟𝑜𝑡𝑟. IV 57.3 = Aʀɴ. 𝐴𝑑𝑣. 𝑛𝑎𝑡. 6, 22; Lᴜᴄɪᴀɴ. 𝐴𝑚𝑜𝑟. 13-16; 𝐼𝑚𝑎𝑔. 4; Pʜɪʟᴏsᴛʀ. 𝐴𝑝. IV 40, Tᴢ. 𝐻𝑖𝑠𝑡. VIII, 375-387) presentano dei tratti in comune: al centro della vicenda c’è sempre un giovane uomo di buona famiglia (Pʟɪɴ. 𝑁𝑎𝑡. ℎ𝑖𝑠𝑡. VII 127, 𝑝𝑟𝑎𝑒𝑐𝑖𝑝𝑢𝑒 𝑢𝑒𝑠𝑎𝑛𝑜 𝑎𝑚𝑜𝑟𝑒 𝑐𝑢𝑖𝑢𝑠𝑑𝑎𝑚 𝑖𝑢𝑢𝑒𝑛𝑖𝑠 𝑖𝑛𝑠𝑖𝑔𝑛𝑖) che, invaghitosi della statua, dopo aver corrotto gli inservienti del tempio, si industria di possedere il simulacro divino con pratiche magiche o giocose; quindi, si rinchiude di notte nel sacello e, dopo aver tentato l’accoppiamento con l’immagine, se non riesce a guarire dalla passione, all’alba, si getta in mare togliendosi la vita. Pare che questi racconti facessero parte di una narratologia attraverso la quale le diverse città del mondo antico tentavano di rendere famosi i propri santuari, inserendoli in una sorta di circuito turistico o devozionale.
Lo scalpore e l’ammirazione suscitati dall’𝐴𝑓𝑟𝑜𝑑𝑖𝑡𝑒 𝐶𝑛𝑖𝑑𝑖𝑎 e dal suo rivoluzionario verismo dovettero produrre fondamentali ripercussioni sulla notorietà di Mnesarete e, verosimilmente, anche sul suo “potere contrattuale”. I contemporanei dovevano essere disposti a pagare forti somme per un incontro con l’ἑταίρα, le cui sembianze erano state immortalate dal celebre Prassitele. In breve tempo, questa donna riuscì a conquistarsi fama e ricchezze, tali da consentirle di avviare quel processo di “autocelebrazione” che, a quanto pare, caratterizzò tutta la sua vita; d’altronde, l’impressione che si ricava dall’esame delle fonti antiche è che il “mito” di Frine sia stato costruito, ancor prima che dai biografi e dai poeti, dall’ἑταίρα medesima, grazie a un abile impiego di frasi provocatorie, destinate a suscitare scalpore, ovvero mediante il ricorso a scenografiche quanto rare e studiate apparizioni pubbliche (cfr. Cᴀᴠᴀʟʟɪɴɪ 2014, 136-137).
A quanto pare, Mnesarete non rinunciava a esporsi con dichiarazioni scandalose: nel suo studio 𝑆𝑢𝑙𝑙𝑒 𝑒𝑡𝑒𝑟𝑒 il grammatico Callistrato, contemporaneo di Aristarco di Samotracia, riporta che «Frine divenne ricchissima e promise che avrebbe cinto di mura la città di Tebe, se i suoi abitanti vi avessero apposto un’iscrizione che cita: “Alessandro abbatté queste mura, l’etera Frine le riedificò” (᾽Αλέξανδρος μὲν κατέσκαψεν, ἀνέστησεν δὲ Φρύνη ἡ ἑταίρα)» (Cᴀʟʟɪsᴛʀ. 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 348 F 1 = Aᴛʜᴇɴ. XIII 60, 591d). L’aspetto più interessante dell’aneddoto risiede proprio nella dichiarazione scandalosa della cortigiana, un’evidente provocazione, che non va tuttavia letta come un’estemporanea battuta umoristica: nella supposta correlazione tra la cortigiana e il suo regale contemporaneo, in realtà, andrebbe ravvisato quel violento spirito antimacedone di certi politici ateniesi. Una frase “politica” – una sorta di slogan! –, ma anche un’esplicita sfida al moralismo dei benpensanti, per i quali era inconcepibile che il nome di un’etera fosse inciso su un edificio pubblico. Nel passo di Callistrato il verbo ὑπισχνεῖτο (da ὑπισχνέομαι), che alla lettera è un imperfetto, ha valore iterativo e perciò alluderebbe al fatto che Frine abbia più volte avanzato la proposta, probabilmente con atteggiamento esibizionistico-pubblicitario, volto ad accrescere la propria autorappresentazione, piuttosto che con la reale speranza che l’offerta sarebbe stata accolta dai Tebani. E anche se ciò non fosse stato così, di certo non ne avrebbe sminuito il valore. Come in analoghi episodi di «narratives of benefaction», anche in questo caso il testo della presunta iscrizione giustappone il nome di Alessandro all’inizio del periodo e quello di Frine alla fine, come in una sorta di iperbato, alludendo a un’equipollenza tra il sovrano macedone e la ricca etera. La presunzione che una cortigiana potesse mettersi al pari di un re andava al di là della consueta liceità e un simile atto di autocelebrazione era visto come capace di sovvertire l’ordine precostituito (MᴄCʟᴜʀᴇ 2003, 155-161).
Se si deve credere all’aneddoto, Frine pensava e agiva con spregiudicatezza: prevaricato il limite del genere (una donna che presume di mettersi alla pari con un uomo) e quello politico (l’esponente di un ceto inferiore, una profuga diseredata, che osa paragonarsi perfino a un re!), la scaltra ἑταίρα voleva marcare la propria superiorità tanto sulle concorrenti quanto sulle umili πόρναι da «due oboli». Sul piano sociale, l’uscita di Frine indicherebbe una presa di distanza da quante fossero inferiori a lei, le cui pratiche e la cui reputazione mettevano costantemente a rischio la sua fama e il suo 𝑠𝑡𝑎𝑡𝑢𝑠. Offrirsi di ricostruire le mura di una grande città di tasca propria era forse il modo più chiaro e diretto possibile per sottolineare il divario che la separava dalle mere πόρναι δίδραχμοι. Ma c’è anche un particolare malizioso nelle sue parole. La traduzione rende ἀνέστησεν nel suo significato più letterale, cioè «riedificò, rimise in piedi»; siccome la 𝑝𝑒𝑟𝑠𝑜𝑛𝑎 𝑎𝑔𝑒𝑛𝑠 è nientemeno che una cortigiana, è possibile che la frase celasse un doppio senso osceno, «fece erigere, rese erette» (cfr. Hᴇɴᴅᴇʀsᴏɴ 1991, 108-130). Benché sia solo un’ipotesi, tuttavia, non è oziosa, dato che le fonti illustrano come fosse piuttosto comune che tanto le ἑταῖραι quanto le πόρναι avessero nomi eroticamente significativi (cfr. MᴄCʟᴜʀᴇ 2003, 59-78). E siccome queste professioniste erano sovente obiettivo degli strali dei commediografi, quanto a Frine, è possibile che l’ἑταίρα intendesse, in questo caso, fare umorismo su se stessa, un umorismo che con la sua eleganza e raffinatezza avrebbe attirato le attenzioni di un sempre maggior numero di potenziali clienti (MᴄCʟᴜʀᴇ 2003, 79-105).
Probabilmente, frutto del calcolo esibizionistico di questa etera era anche l’uso di commissionare numerose statue a Prassitele da dedicare in luoghi “strategici” della grecità. A questo proposito, Pausania (Pᴀᴜs. I 20, 1-2) riferisce un succoso aneddoto a dimostrazione dell’arguzia di cui Mnesarete-Frine si serviva per soggiogare i propri spasimanti. L’etera pregò l’artista di donarle la sua opera più bella e lui acconsentì senza però dirle quale fosse, a suo giudizio, la migliore. Così l’etera mandò un servo da Prassitele ad annunciargli che un incendio aveva irrimediabilmente danneggiato alcune sue opere, e l’artefice, preso dal panico, cominciò a gridare che era rovinato se aveva perso le statue del 𝑆𝑎𝑡𝑖𝑟𝑜 e dell’𝐸𝑟𝑜𝑠. Sopraggiunse Frine stessa per tranquillizzare l’amante e spiegargli che si era trattato solo di un espediente per estorcergli l’informazione desiderata: così ella scelse l’𝐸𝑟𝑜𝑠, forse in precedenza posto ai piedi della scena del teatro di Dioniso ad Atene, e lo consacrò come offerta votiva a Tespie (Pᴀᴜs. IX 27, 1; Cᴀʟʟɪsᴛʀ². 𝑆𝑡𝑎𝑡. 𝑑𝑒𝑠𝑐𝑟𝑖𝑝𝑡. 3, 1; cfr. Fᴜʀᴛᴡᴀɴɢʟᴇʀ 1964, 318-319; Rɪᴄʜᴛᴇʀ 1970, 202). La città, devota al dio e fiera di aver dato i natali a una donna così illustre e pia, fece collocare accanto all’𝐸𝑟𝑜𝑠 un ritratto di Frine, opera dello stesso Prassitele (Pʟᴜᴛ. 𝐴𝑚𝑎𝑡. 753f; cfr. anche Pᴀᴜs. IX 27, 5; Aʟᴄɪᴘʜʀ. IV 1, 1). La statua del dio godé di grande fama nell’antichità e l’𝐴𝑛𝑡ℎ𝑜𝑙𝑜𝑔𝑖𝑎 𝑃𝑎𝑙𝑎𝑡𝑖𝑛𝑎 conserva ben cinque epigrammi a essa dedicati, in cui è immancabilmente nominata Frine (Lᴇᴏɴ. F 89 Gow-Page = 𝐴. 𝑃𝑎𝑙. XVI 206; Tᴜʟʟ¹. 𝐴. 𝑃𝑎𝑙. VI 260; XVI 205; Iᴜʟ². 𝐴. 𝑃𝑎𝑙. XVI 203; Pʀᴀxɪᴛ. 𝐴. 𝑃𝑎𝑙. XVI 204; cfr. Cᴏʀsᴏ 1988, 41-42).
Quanto agli abitanti di Tespie, per onorare l’insigne concittadina del prezioso dono ricevuto, a immagine di Frine «fecero realizzare una statua dorata e la dedicarono a Delfi, ponendola su una colonna di marmo pentelico, opera dello stesso Prassitele» (Aᴛʜᴇɴ. XIII 59, 591b-c). Non è possibile dubitare dell’esistenza del monumento, dato che Plutarco afferma di averla vista coi propri occhi (Pʟᴜᴛ. 𝐷𝑒 𝑃𝑦𝑡ℎ. 𝑜𝑟. 401a; 𝐴𝑚𝑎𝑡. 753e-f); anche Dione di Prusa conferma di averla adocchiata su una colonna (D. Cʜʀ. 𝑂𝑟. XXXVII 28; ma anche Lɪʙ. XXV 40; cfr. Jᴀᴄǫᴜᴇᴍɪɴ 1999, 166-167; 169). Si può solo immaginare quale e quanto scandalo quella statua potesse suscitare, soprattutto se si considera che non era consuetudine esporre le immagini di etere e prostitute nei luoghi sacri: per di più l’intraprendente Tespiese stava baldanzosamente «in piedi, tutta d’oro, insieme con re e regine» (Pʟᴜᴛ. 𝐴𝑚𝑎𝑡. 753e).
Quando il cinico Cratete (Cʀᴀᴛ¹. T V H 28 Giannantoni, così in Pʟᴜᴛ. 𝐷𝑒 𝑃𝑦𝑡ℎ. 𝑜𝑟. 401a 𝑐𝑜𝑛𝑡𝑟𝑎 Dɪᴏɢ. VI 60, secondo cui si trattava di Diogene di Sinope) «contemplò la statua, sentenziò che si trattava di un’offerta innalzata all’incontinenza dei Greci (τῆς τῶν ῾Ελλήνων ἀκρασίας ἀνάθημα)»: un’uscita divenuta presto proverbiale! La versione di Ateneo (Aᴛʜᴇɴ. XIII 59, 591b) lascia intendere che la statua sarebbe stata eretta a spese dei Tespiesi, mentre in quella di Claudio Eliano (Aᴇʟ. 𝑉𝐻 IX 32) essa sarebbe stata pagata dai «più dissoluti fra i Greci». Sono varianti che, in ultima analisi, portano a una sola, concreta conclusione: committente della costosa statua fu la stessa Frine, grazie alle ingenti ricchezze accumulate in molti anni di lucrosa attività, anche se non è da escludere che l’ardita operazione sia avvenuta con il beneplacito degli aristocratici di Tespie, i quali avrebbero permesso alla donna di far incidere sul basamento questa orgogliosa iscrizione: «Frine, figlia di Epicle, tespiese» (a proposito di questa epigrafe Tᴏᴅɪsᴄᴏ 2020, 212-215, ha espresso alcune perplessità). Verosimilmente, la statua di Delfi rappresenterebbe una fase avanzata della carriera di Mnesarete – con ogni probabilità dopo la terza Guerra sacra (356-346) –, un periodo in cui l’ἑταίρα, ormai forte del proprio potere economico, ma anche dell’appoggio (più o meno dichiarato) dell’aristocrazia tespiese, tendeva a lanciare messaggi “forti” contro nemici, antichi e recenti, della sua stessa patria. A tal proposito, è interessante la notizia dello storiografo macedone Alceta il Periegeta (Aʟᴋ. 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 405 F 1 = Aᴛʜᴇɴ. XIII 59, 591b; cfr. Jᴀᴄǫᴜᴇᴍɪɴ 1999, 264): quest’ultimo, nel secondo libro del suo Περὶ τῶν ἐν Δελφοῖς ἀναθημάτων (𝑆𝑢𝑖 𝑚𝑜𝑛𝑢𝑚𝑒𝑛𝑡𝑖 𝑣𝑜𝑡𝑖𝑣𝑖 𝑎 𝐷𝑒𝑙𝑓𝑖), afferma che la statua di Frine sarebbe stata collocata tra quella di Archidamo, re di Sparta (tradizionale nemica dei Beoti), e quella di Filippo II, figlio di Aminta e re di Macedonia (cfr. anche Pᴀᴜs. X 15, 1). Un simile “schiaffo morale” non poteva sfuggire a un Macedone come Alceta: dopo essere riuscito a fatica a ottenere la legittimazione in seno all’anfizionia delfica, ora Filippo era costretto a veder troneggiare, accanto alla propria immagine, quella di una cortigiana, per di più originaria della Beozia e, ancor peggio, legata ai circoli antimacedoni di Atene (si vd. Cᴏʀsᴏ 1988, 177-122; Cᴏʀsᴏ 1990, 14-15; 16-56; 139-142; Cᴏʀsᴏ 1997, 123-150; Kᴇᴇsʟɪɴɢ 2005, 68; Cᴀᴠᴀʟʟɪɴɪ 2014, 138-139).
Jose Frappa, Frine. Olio su tela, 1903. Paris, Musée d’Orsay.
Se le cose stanno davvero così, si potrebbe supporre che lo sfacciato esibizionismo di Mnesarete-Frine potrebbe aver contribuito a montare intorno a lei una sempre maggiore ostilità fra gli stessi Ateniesi, attirandole disprezzo e odio inveterato; non si può perciò escludere che proprio il risentimento di una parte della cittadinanza di cui era ospite sia stata fra le cause che le fecero correre il rischio di essere messa a morte.
Secondo una tradizione che risale a Idomeneo di Lampsaco (Iᴅᴏᴍ. 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 338 F 14) e a Ermippo di Smirne (Hᴇʀᴍɪᴘ¹. 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 1026 F 46), Frine fu assolta grazie all’appassionata difesa di Iperide, dichiarato esponente della fazione antimacedone e nientemeno che uno dei suoi tanti amanti: in maniera forse un po’ troppo tendenziosa e non senza intenti calunniosi, Iperide è passato alla storia come un uomo «incline ai piaceri di Afrodite» (πρὸς τὰ ἀφροδίσια καταφερής) e si racconta che, per assecondare la propria libidine in santa pace, avesse perfino cacciato di casa suo figlio Glaucippo, introducendovi Mirrina, «la più costosa fra le etere» (τὴν πολυτελεστάτην ἑταίραν); a dire il vero, sembra che l’oratore mantenesse al Pireo un’altra cortigiana, Aristagora, e in una sua tenuta a Eleusi un’altra ancora, una ragazza tebana di nome Fila, che avrebbe riscattato per 20 mine (equivalenti a 2000 dracme: una somma davvero considerevole!), divenuta custode del suo patrimonio. Nonostante avesse trasferito in casa propria la suddetta Mirrina, Iperide nel suo 𝐼𝑛 𝑑𝑖𝑓𝑒𝑠𝑎 𝑑𝑖 𝐹𝑟𝑖𝑛𝑒 avrebbe ammesso «di essere innamorato di questa donna e di non essersi mai allontano da questo amore» (Aᴛʜᴇɴ. XIII 58, 590c-d; cfr. Pʟᴜᴛ. 𝑋 𝑜𝑟𝑎𝑡. 849d). Il discorso pronunciato dal politico ateniese in difesa dell’ἑταίρα purtroppo è andato perduto, ma se ne conserva qualche frammento (Hʏᴘ. LX F 171-180 Jensen), a cui va aggiunta una messe di notizie trasmesse da autori posteriori, propensi a romanzare la vicenda con dettagli pittoreschi: occorre perciò cautela nel vaglio delle fonti.
Il processo contro Frine, collocabile approssimativamente tra il 350 e il 335 a.C. (Rᴀᴜʙɪᴛsᴄʜᴇᴋ 1941, 904), ebbe grande risonanza non solo per via dei personaggi coinvolti, ma anche per alcuni piccanti risvolti, su cui l’aneddotica di epoca successiva si sofferma con esibito compiacimento e forse con l’aggiunta di qualche suggestivo dettaglio. A intentare la causa fu un certo Eutia, un oscuro personaggio descritto come un rancoroso e frustrato ex amante di Frine (Aʟᴄɪᴘʜʀ. 𝐸𝑝. IV 4). È opinione comune che il discorso d’accusa sia stato pronunciato da questo Eutia, ma che sia stato scritto dall’oratore e storico Anassimene di Lampsaco (Aɴᴀxɪᴍ¹. 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 72 T 17a-b = Hᴀʀᴘ¹. 𝑠.𝑣. Εὐθίας Dindorf = Aᴛʜᴇɴ. XIII 60, 591e; cfr. pp. 320-321 Baiter Sauppe). Ora, anche ammesso che l’accusatore fosse stato davvero un amante della donna, come pare insinuare lo stesso Iperide (Hʏᴘ. LX F 172 Jensen), è impensabile che Frine fosse citata in giudizio per una banale questione di gelosia e che lei e il suo difensore fossero, all’epoca del processo, praticamente estranei. A dire il vero, dagli sparuti frammenti iperidei (Hʏᴘ. LX F 171-180 Jensen) si evince che il politico ateniese intrattenesse da tempo una relazione con l’etera e che per questo motivo fosse addirittura sospettabile di complicità. Si potrebbe presumere, invero, che il processo intentato da Eutia non fosse altro che un pretesto da parte degli avversari di Iperide per colpire il retore stesso, la cui presenza doveva risultare scomoda e ingombrante non solo per gli esponenti della fazione filomacedone, ma anche per altri che mal sopportavano la sua intransigenza. Chiunque essi fossero, i nemici del retore si guardarono bene dall’esporsi in prima persona: perciò avrebbero fatto ricorso a un loro 𝑜𝑢𝑡𝑠𝑖𝑑𝑒𝑟 come Eutia, che godeva fama di essere un «sicofante», cioè un accusatore di professione e un prestanome nei processi (Hᴀʀᴘ¹. 𝑠.𝑣. Εὐθίας Dindorf = Hᴇʀᴍɪᴘ¹. 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 1026 F 46b = Hʏᴘ. LX F 176 Jensen; Cᴏᴏᴘᴇʀ 1995, 305-306).
Il fatto che a Frine fosse stata mossa l’accusa di empietà (γραφὴ ἀσεβείας), crimine per cui era prevista la pena capitale, ha posto alcuni problemi. Si è ipotizzato che l’imputazione fosse un’altra: per esempio, estorsione o tradimento (γραφὴ εἰσαγγελίας), cui, per il suo carattere estremamente generico, era possibile fare ricorso con maggiore ampiezza rispetto all’accusa di empietà (Cᴏᴏᴘᴇʀ 1995, 310-312). Per esempio, in una delle 𝐿𝑒𝑡𝑡𝑒𝑟𝑒 𝑑𝑖 𝑐𝑜𝑟𝑡𝑖𝑔𝑖𝑎𝑛𝑒 di Alcifrone l’etera Bacchide avverte l’amica Mirrina di non chiedere denaro a Eutia, perché, se fosse stata citata in giudizio, sarebbe stata accusata «di aver dato fuoco agli arsenali e di sovvertire le leggi» (Aʟᴄɪᴘʜʀ. 𝐸𝑝. IV 4, 5). Ora, commettere reati di questo tipo era considerato come attentare alla patria e perciò si era perseguiti per εἰσαγγελία. A quanto pare lo stesso procedimento era stato intentato per lo scandalo della mutilazione delle Erme nel 415 (Aɴᴅᴏᴄ. I 11-12; Pʟᴜᴛ. 𝐴𝑙𝑐. 22, 4), secondo quanto era stato stabilito nel 432 dal decreto di Diopite contro «quelli che non credono agli dèi o che insegnano dottrine sugli argomenti celesti» (Pʟᴜᴛ. 𝑃𝑒𝑟. 32, 2, τοὺς τὰ θεῖα μὴ νομίζοντας ἢ λόγους περὶ τῶν μεταρσίων διδάσκοντας; cfr. Hᴀɴsᴇɴ 1975; MᴀᴄDᴏᴡᴇʟʟ 1978, 183-186; 197-201; Hᴀʀʀɪsᴏɴ 1998, II, 50-59).
Quel poco che si sa circa il discorso di Eutia induce a credere che l’accusa di empietà potesse fondarsi anche su argomenti piuttosto vaghi e pretestuosi. In sostanza, come riassume un l’𝐴𝑛𝑜𝑛𝑦𝑚𝑢𝑠 𝑆𝑒𝑔𝑢𝑒𝑟𝑖𝑎𝑛𝑢𝑠, ovvero Τέχνη τοῦ πολιτικοῦ λόγου (𝐿’𝑎𝑟𝑡𝑒 𝑑𝑒𝑙 𝑑𝑖𝑠𝑐𝑜𝑟𝑠𝑜 𝑝𝑜𝑙𝑖𝑡𝑖𝑐𝑜), i capi d’imputazione rivolti a Frine erano i seguenti (I 455 Spengel = Eᴜᴛʜ. F 2 Baiter-Sauppe; cfr. 𝑂𝑟𝑎𝑡𝑜𝑟𝑖 𝐴𝑡𝑡𝑖𝑐𝑖 58, 2, 320 Sauppe): aver fatto baldoria (ἐκώμασεν) in modo licenzioso e indecente nel Liceo; aver organizzato promiscui θίασοι orgiastici fra uomini e donne (θιάσους ἀνδρῶν καὶ γυναικῶν συνήγαγεν); aver introdotto in città una divinità straniera (καινὸν εἰσήγαγε θεόν), un certo Isodaite, al quale si diceva rendessero onore «le donne pubbliche e per nulla virtuose» (Hʏᴘ. LX F 177 Jensen = Hsᴄʜ, 𝑠.𝑣. Ἰσοδαίτης Schmidt; Hᴀʀᴘ¹. 𝑠.𝑣. Ἰσοδαίτης Dindorf; cfr. Pʟᴜᴛ. 𝐷𝑒 𝐸 389a). Stando a un frammento dell’Ἐφεσία (𝐿𝑎 𝑟𝑎𝑔𝑎𝑧𝑧𝑎 𝑑𝑖 𝐸𝑓𝑒𝑠𝑜) del comico Posidippo (Pᴏsɪᴅɪᴘ. ᴄᴏᴍ. F 13 Kassel-Austin = Aᴛʜᴇɴ. XIII 60, 591e-f), la fonte cronologicamente più vicina ai fatti, l’accusa a carico di Frine sembra essere stata di natura economica, per una truffa ai danni dei clienti (v. 4, βλάπτειν δοκοῦσα τοὺς βίους μείζους βλάβας); ma c’è chi ha voluto emendare quel τοὺς βίους con τοὺς νέους, per cui il verso anziché riferire: «Accusata di fare danni abbastanza gravi ai patrimoni», suonerebbe: «Accusata di fare danni abbastanza gravi ai giovani», cioè di corrompere la gioventù; ciò non è del tutto inverosimile, dato che il luogo dei presunti bagordi dell’etera era il Liceo, dove si trovava uno dei γυμνασία più frequentati della città (Sᴇᴍᴇɴᴏᴠ 1935, 275). Comunque stessero le cose, dalla tradizione sembra che si trattasse di maldicenze contro una donna dai costumi trasgressivi, più plateali che realmente offensivi nei confronti delle pubbliche istituzioni. E quindi, perché tanto rancore nei riguardi di Mnesarete? Qualsiasi fossero le reali argomentazioni addotte da Eutia, è ragionevole supporre che l’intenzione di eliminare l’etera fosse dovuta a ragioni ben diverse: forse ella aveva suscitato le invidie dei più tradizionalisti per lo stile di vita spregiudicato e per alcuni atteggiamenti eccessivi, come la sfacciata ostentazione della propria ricchezza – uno “schiaffo morale” per le cittadine ateniesi di buona famiglia! Ma, come si è visto, forse incurante dell’invidia e delle critiche, Frine si era industriata in ogni modo per attirare maggiori attenzioni su di sé, senza risparmiarsi gesti, dichiarazioni e provocazioni eclatanti (cfr. Cᴀᴠᴀʟʟɪɴɪ 1999, 49-55).
Il dibattimento fu molto controverso e, secondo la tradizione accolta da Ateneo, Iperide, «poiché con la sua orazione non otteneva nessun risultato, temendo che i giudici votassero la condanna, accompagnata Frine in un punto bene in vista, le stracciò la tunichetta in modo da denudarle il seno, e declamò la perorazione finale con l’ausilio della visione che lei offriva: riuscì dunque a ottenere che i giudici, pieni di superstizioso timore, indulgessero a pietà e non mandassero a morte la sacerdotessa e ancella di Afrodite» (Aᴛʜᴇɴ. XIII 59, 590e = Hʏᴘ. LX F 178 Jensen). La difesa ebbe successo, ma suscitò molte polemiche, per cui «in seguito a tali fatti si stabilì un decreto in base al quale nessun retore che prendesse la difesa di qualcuno ricorresse a lamenti né che l’imputato – uomo o donna che fosse – fosse giudicato mettendosi in mostra» (μετὰ ταῦτα ψήφισμα μηδένα οἰκτίζεσθαι τῶν λεγόντων ὑπέρ τινος μηδὲ βλεπόμενον τὸν κατηγορούμενον ἢ τὴν κατηγορουμένην κρίνεσθαι). Quanto riportato dall’erudito di Naucrati, attingendo al biografo ellenistico Ermippo di Smirne (Hᴇʀᴍɪᴘ¹. 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 1026 F 46a), è forse il resoconto più dettagliato sulla vicenda, ma non di certo l’unico. Mentre lo Pseudo-Plutarco (Pʟᴜᴛ. 𝑋 𝑜𝑟𝑎𝑡. 849d) descrive l’episodio con lievi differenze rispetto ad Ateneo, il particolare della svestizione di Frine è riferito da altri autori con alcune varianti: secondo Quintiliano (Qᴜɪɴᴛ. II 15, 9), sarebbe stato denudato tutto il corpo dell’imputata, mentre per Sesto Empirico (Sᴇxᴛ. Eᴍᴘ. 𝑀𝑎𝑡ℎ. 2, 4) sarebbe stata la stessa etera a prendere l’iniziativa e, lacerata la veste, a petto nudo, si sarebbe gettata ai piedi dei giudici. In ogni caso, sembra che la storia della denudazione sia sorta da una ipotiposi retorica (forse la patetica scena dell’accusata che si stracciava tragicamente le vesti scoprendo il seno); presa per vera da biografi, poeti ed eruditi di epoca successiva, si tratterebbe di una versione “vulgata” di forte impatto (cfr. Cᴀsᴛᴇʟʟᴀɴᴇᴛᴀ 2013, 107-113).
Jean-Léon Gérôme, Frine davanti l’Areopago. Olio su tela, 1861.
Nel III secolo a.C. le peripezie giudiziarie di Frine erano talmente popolari da ispirare anche la salace parodia di Eronda: nel suo mimiambo, Πορνοβοσκός (𝐼𝑙 𝑙𝑒𝑛𝑜𝑛𝑒), il protagonista Battaro svolge il proprio monologo contro alcuni giovinastri accusati di violenza su una delle sue ragazze, Mirtale; l’improvvisato oratore, nella perorazione finale, chiama a sé la prostituta e la invita a denudarsi davanti alla corte per comprovare la verità delle sue imputazioni (Hᴇʀᴏɴᴅ. 2, 65ss.). Ha tutta l’aria di essere un riecheggiamento in chiave parodica del processo a Frine: qui però la celeberrima etera è abbassata al livello di una volgare prostituta di infima condizione, mentre Battaro, trasformato in un Iperide da bordello, mostra nuda la sua protetta non solo per avallare le proprie argomentazioni, ma anche, e molto probabilmente, per eccitare i bassi istinti dei giurati.
Tuttavia, la fonte più antica pervenuta, il già citato frammento del commediografo macedone Posidippo (c. 316- 𝑝𝑜𝑠𝑡 279 a.C.), ridimensiona decisamente l’accaduto (Pᴏsɪᴅɪᴘ. ᴄᴏᴍ. F 13 Kassel-Austin = Aᴛʜᴇɴ. XIII 60, 591e-f):
Un tempo Frine fu di gran lunga la più celebre
di noi etere. E anche se sei troppo giovane per quei tempi,
avrai senz’altro sentito parlare del suo processo.
Accusata di far danni abbastanza gravi ai patrimoni,
ella per la sua vita conquistò l’Eliea […]
e, stringendo le mani a ciascuno dei giudici,
a stento salvò la pelle con le lacrime.
Con ogni probabilità, la versione di Posidippo potrebbe essere la più attendibile, dato che, da buon comico, non si sarebbe certo risparmiato di bersagliare l’etera, se l’episodio della denudazione si fosse verificata. Inoltre, nel frammento dell’Ἐφεσία non si fa alcuna menzione dell’accusa di empietà. Invece, quello che più colpisce della versione di Ermippo-Ateneo è l’enfasi posta sulla «pietà» (οἶκτος) e sul «superstizioso timore» (δεισιδαιμονῆσαι) suscitati nei giurati dalla vista epifanica (ἐκ τῆς ὄψεως αὐτῆς) della bellezza di Frine, incarnazione vivente della dea Afrodite, di cui l’etera è detta essere «sacerdotessa e ancella» (ὑποφῆτιν καὶ ζάκορον).
Comunque siano andate le cose, il processo con il quale i nemici suoi e di Iperide volevano toglierla di mezzo, paradossalmente, si risolse in una definitiva consacrazione del fascino di Frine.
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Bibliografia:
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M. Bɪᴇʙᴇʀ, 𝑇ℎ𝑒 𝑆𝑐𝑢𝑙𝑝𝑡𝑢𝑟𝑒 𝑜𝑓 𝑡ℎ𝑒 𝐻𝑒𝑙𝑙𝑒𝑛𝑖𝑠𝑡𝑖𝑐 𝐴𝑔𝑒, New York 1961 [link].
di D. MUSTI, L’alto Ellenismo, in Storia greca: linee di sviluppo dall’età micenea all’età romana, Milano 2010, 682-690.
Le campagne di Alessandro Magno (336-323 a.C.), da E. Badian, s.v. Alexander [4], in Brill’s New Pauly.
1. Concezioni statali a confronto nelle lotte dei Diadochi
L’ampia portata delle conquiste di Alessandro, la preesistente organizzazione di quei vastissimi territori, l’assenza di un erede che fosse all’altezza del sovrano scomparso o nell’età giusta da succedergli, condizionarono fortemente gli eventi successivi alla sua morte, che vanno sotto il nome di guerre dei Diadochi (da διάδοχοι, successori) e degli Epigoni (da ἐπίγονοι, discendenti) e occupano complessivamente un quarantennio (dal 323 fino alla battaglia di Curupedio, 281 a.C.). Il primo “ventennio” (323-301) fu il periodo di maggiore tensione, quando tuttofu messo in discussione, il potere centrale sulle regioni conquistate, come la stessa egemonia macedone sulla Grecia. Con la battaglia di Ipso (301), cioè con la sconfitta e la morte di Antigono Monoftalmo, l’assetto complessivo, che comportò una netta distinzione tra Egitto, Asia ed Europa macedone, poté dirsi ormai consolidato.
Nel 323 si era posto anzitutto il problema della forma del potere centrale, che aveva ricevuto una soluzione complessa: a Cratero (assente da Babilonia, perché in marcia con i veterani verso la Macedonia) era stato affidato il ruolo di προστάτης τῆς βασιλείας di Arrideo: in pratica, la monarchia era sottoposta a una sorta di procuratela (se non una tutela vera e propria). E al trono erano destinati Filippo Arrideo, fratellastro di Alessandro il Grande, e il nascituro figlio di quest’ultimo e di Rossane, se di sesso maschile.
L’intera problematica del rapporto fra le diverse funzioni dei successori di Alessandro può ricevere notevole chiarimento da paralleli antichi (persino micenei) e moderni, di duplicità di posizioni dominanti: quella del “capo dello Stato”, colui che incarna la sovranità, e quella del “primo ministro”: quindi quella di chi “regna” e quella di chi “governa”, di chi cioè detiene il potere operativo. Il governare poi, in entità statali arcaiche, coincide spesso di fatto con l’esercizio del potere militare: nella civiltà micenea, il ϝάναξ (signore) e il lawaghétas (il capo dei lawoí, degli “armati”), in quella macedone il βασιλεύς (re, o chi lo rappresenta) e il χιλίαρχος, che è il capo dei ‘mille’ (una nozione che sembra qui valere specialmente per gli armati). I due livelli del sommo potere si ritrovano in realtà di epoche diversissime e molto distanti.
A un gradino teoricamente più basso del βασιλεύς (o del προστάτης) si collocava – e già qui entrava in gioco l’influenza amministrativa persiana – il χιλίαρχος (gran visir o “primo ministro”) Perdicca, che però aveva così sotto di sé i territori asiatici. E infatti già allora si profilava una dicotomia nettissima tra parte originaria (europea) e parte acquisita (asiatica e libica) dell’impero macedone, visto che ad Antipatro restò affidata la funzione di stratego d’Europa.
Cavalleria macedone. Illustrazione di Johnny Shumate.
Senza l’esistenza formale ed effettiva della regalità macedone, era del resto poco giustificato l’esercizio di un dominio unitario di tutti i territori conquistati. Il dramma della successione ad Alessandro fu tutto qui. Già quando il conquistatore era in vita, si era posto per lui il problema di affidare l’amministrazione dei singoli distretti a governatori, forse già allora indicati come σατράπαι (satrapi). Perlopiù si era trattato di Macedoni o di Greci, ma non erano mancati casi di utilizzazione di Persiani (o d’altri orientali) “collaborazionisti”. Con la morte di Alessandro il principio della ripartizione territoriale si estese, ma si applicò anche in maniera complicata, andando molto al di là delle stesse suddivisioni tradizionali, rese plausibili dalla geografia come dalla storia: salvo per l’Egitto, di cui Tolemeo ebbe l’acume politico di garantirsi il controllo, che mai più (caso unico fra tutti i Diadochi) avrebbe perso.
Per il resto, fu la nascita di una geografia politica bizzarra e velleitaria: a Eumene, un greco di Cardia, capo della cancelleria regia (ἀρχιγραμματεύς, segretario generale), andarono i territori ancora da soggiogare di Paflagonia e Cappadocia; ad Antigono, la Panfilia, la Licia e la Frigia maggiore (nell’Asia minore meridionale e occidentale); a Leonnato fu data la Frigia ellespontica; a Lisimaco toccò la Tracia, benché formalmente sotto l’autorità dello stratego d’Europa, Antipatro[1].
La confusa serie di eventi può essere ricostruita secondo la logica degli sviluppi necessariamente conseguenti a queste premesse e raccordata intorno a periodi distinguibili almeno in parte fra loro.
Negli anni 323-321 le personalità dominanti e più attive nei due grandi tronconi dell’impero macedone furono Antipatro in Europa e Perdicca in Asia. Com’è chiaro, quest’ultimo aveva un nemico alle spalle, verso Occidente, in Antigono (che fuggì in Europa), e uno al di là del territorio asiatico da lui stesso controllato, in Egitto. In un’astratta logica territoriale, era proprio verso l’Egitto che Perdicca avrebbe dovuto rivolgere (e di fatto così fece) il suo sforzo di conquista, tanto più che in Asia minore poteva contare dell’appoggio di Eumene. L’inimicizia di gran parte della dirigenza macedone era tuttavia ‘assicurata’ a Perdicca dai suoi progetti di sposare Cleopatra, la sorella di Alessandro Magno (già vedova di Alessandro il Molosso, morto circa il 331 in Italia) e di porsi perciò come erede legittimo della dinastia degli Argeadi (con la naturale conseguenza dell’ostilità di Antipatro). Perdicca cadde vittima di un attentato, nel 321 a.C., alle porte dell’Egitto, a Pelusio[2].
Filippo III Arrideo. Tetradramma, Lampsaco 323-317 a.C. ca. Ar. 4,21 g. Recto: testa di Eracle voltata a destra con leontea.
2. I Greci e la morte di Alessandro: la Guerra lamiaca
Intanto la vocazione europea di Antipatro (che appare solo superficialmente smentita dal suo intervento nella guerra d’Asia contro Eumene, insieme con Cratero, e dagli accordi di Triparadiso nel 321) era quasi paradossalmente confermata dallo scoppio in Grecia della “Guerra lamiaca”, detta così dal nome della roccaforte tessalica presso il Golfo Maliaco (Làmia), dove Antipatro fu per qualche tempo, dal tardo 323, bloccato dai Greci insorti. Protagonisti della ribellione furono gli Ateniesi, in particolare l’oratore Iperide e lo stratego Leostene: quest’ultimo arruolò un esercito di mercenari raccolti in quella che ormai era diventata una piazza di particolare importanza di questo genere di “manodopera”, Tenaro, promontorio e città della Laconia[3]. La Lega ellenica di Corinto si sciolse; alla rivolta presero parte anche gli Etoli; fu allora che Demostene, in esilio a seguito dell’affare di Arpalo, poté rientrare in patria. La battaglia navale di Amorgo (nelle Sporadi), nell’estate del 322, segnò la vittoria del macedone Clito sulla flotta ateniese; poco dopo, Antipatro, raggiunto dai soccorsi di Cratero, sconfiggeva per terra gli Ateniesi a Crannone, in Tessaglia. Gravissime le conseguenze interne per la città: nel 322, per la terza volta nella sua storia, dopo gli eventi della Guerra del Peloponneso, la democrazia ateniese subiva il contraccolpo di un radicale cambiamento di regime, che diveniva di tipo timocratico, cioè basato sul censo, che era definito nella misura minima di una proprietà di 20 mine. Ne seguì la condanna a morte e l’esecuzione di Iperide, mentre Demostene, rifugiatosi nel santuario di Poseidone sull’isola di Calauria (sita di fronte alla città peloponnesiaca di Trezene, che era stata sempre in uno stretto rapporto con Atene), si tolse la vita, quando era ormai braccato dagli zelanti emissari di Antipatro (322)[4]. L’anno successivo raccordò momentaneamente fra loro le vicende d’Europa e d’Asia: Antigono era sbarcato già nel 322 a Efeso, recuperando quel suolo asiatico che, per la parte occidentale, era passato piuttosto sotto il controllo di Eumene; nella primavera del 321 Cratero e Antipatro varcarono l’Ellesponto e, mentre Antipatro avanzava verso la Cilicia, Cratero si fece incontro a Eumene (in una località asiatica di non facile determinazione), ma fu sconfitto, soprattutto per merito della soverchiante cavalleria avversaria, e trovò la morte sul campo[5].
Monumento funerario con statua di oplita. Tomba di Aristonaute, figlio di Archenaute, dal demo di Alae. Opera in stile Skopas. Marmo pario, IV secolo a.C. Atene, Museo Archeologico Nazionale.
3. Antigono protagonista
La scomparsa dei due grandi rappresentanti del potere regale (Cratero e Perdicca) impose un riassetto dell’impero, che fu attuato nel convegno di Triparadiso (in Siria, forse nel 321): questa volta ἐπιμελητής dei re (non “del regno” di Arrideo) fu nominato Antipatro, che si ritirò in Europa con Filippo Arrideo, Euridice e Alessandro IV, figlio di Alessandro il Grande e di Rossane. Contro Eumene, il vecchio fautore di Perdicca (e dell’idea di un impero unitario centrato sui dominii dell’Asia), fu emessa una sentenza di morte, di cui doveva essere esecutore Antigono, che ormai si poneva come l’erede del progetto di impero asiatico di Perdicca (senza però ancora avere formalmente rinunciato a un ancor più ambizioso disegno unitario). Già Triparadiso prefigurò la grande tripartizione ellenistica (Europa macedone, Asia ed Egitto), pur includendo, per la parte più vasta e complessa – cioè l’Asia – tutte le incognite possibili degli sviluppi delle posizioni individuali.
Gli accordi del 321 provvidero in effetti a una nuova ripartizione delle satrapie, in generale, e già con essa minarono ulteriormente il principio dell’unità dell’impero. D’altra parte, e questo ne rappresentò l’aspetto più significativo, quanto fu deciso mise in luce una notevole chiaroveggenza in Antipatro, in quanto riflettevano il suo tentativo di scongiurare un conflitto che poi si sarebbe rivelato, per un ventennio, centrale, anzi come il filo conduttore della dinamica dei conflitti fra i Diadochi: quello che avrebbe opposto il figlio Cassandro, da un lato, e Antigono e Demetrio, dall’altro; un contrasto di personalità, ma anche di principi politici e di concezioni statali differenti. A scopo di conciliazione, Antipatro metteva Cassandro accanto, e subordinato, ad Antigono (stratego dell’Asia), come comandante della cavalleria; ma presto avrebbe dovuto richiamarlo in Macedonia per l’impossibilità di accordo fra i due. D’altro canto, Antipatro tentava di rinsaldare i rapporti matrimoniali tra la figlia Fila, vedova di Cratero, e Demetrio, figlio di Antigono e assai più giovane della consorte. All’interno e anche entro i limiti della prospettiva storica aperta dai Macedoni, Antipatro rappresentò un caso di saggezza politica, volta a conservare, se non un’unità formale dell’impero, che diveniva ogni giorno più teorica, almeno l’armonia fra le diverse parti in causa. I fatti successivi non assecondarono le intenzioni del vecchio macedone, che nondimeno occorre ben considerare.
Le decisioni assunte da Antipatro prima della morte (319) furono soluzioni interlocutorie, in cui alla preliminare intenzione legittimistica si mescolava il riconoscimento di fatto della ricostituita dicotomia tra Europa ed Asia: il vecchio generale, morendo, non lasciò al figlio Cassandro le sue stesse posizioni di potere, ma nominava “reggente del regno” il veterano Poliperconte, conferendogli però allo stesso tempo la carica su cui egli stesso aveva per anni fondato il proprio effettivo potere, cioè quella di “stratego d’Europa”; Cassandro era solo χιλίαρχος[6].
Scena di giuramento militare. Illustrazione di Peter Dennis.
Gli accordi di Triparadiso avevano anche messo in gioco personalità destinate a un grande futuro, come Seleuco, che ottenne la satrapia di Babilonia; altri invece, come Arrideo, satrapo della Frigia ellespontica, o Clito, satrapo di Lidia, apparvero come personaggi di rilievo solo per qualche anno.
Dopo la scomparsa di Antipatro si creò contro Poliperconte una naturale coalizione tra i quattro personaggi più importanti del momento: Antigono (stratego dell’Asia dal 321); Tolemeo, rimasto saggiamente satrapo dell’Egitto, rifiutando offerte maggiori, nei territori extraeuropei conquistati; Cassandro (rientrato già nel 321 in Macedonia con il padre); e ora, o forse qualche tempo più tardi, Lisimaco, saldamente insediato in Tracia. Antigono in Asia si rivelò il più intraprendente: sconfisse in Pisidia il fratello di Perdicca, Alceta, che venne assassinato poi dai suoi nella primavera del 319, e costrinse Eumene a richiudersi nella fortezza di Nora, ai confini tra Cappadocia e Licaonia.
In Europa, morto Antipatro e tenuto a bada Cassandro, fu dominante Poliperconte, che già aveva partecipato alla spedizione di Alessandro come comandante di alcune falangi. In Asia, Antigono, accantonata per il momento la resa dei conti con Eumene, procedette all’eliminazione degli ostacoli minori, attaccando la Frigia di Arrideo e la Lidia di Clito; così egli s’impadronì di Efeso e di una cospicua somma di denaro (600 talenti) destinata al tesoro macedone e proveniente dalla Cilicia. Ormai, però, la rottura fra i due principali protagonisti (Poliperconte e Antigono) era consumata: Cassandro abbandonò la Macedonia per raggiungere l’Asia[7].
Cavaliere macedone (dettaglio). Marmo, IV sec. a.C., dal cosiddetto Sarcofago di Alessandro. İstanbul Arkeoloji Müzeleri.
4. La politica dei generali macedoni in Europa
Ormai Poliperconte entrò sempre di più nel suo ruolo di “governatore dell’Europa”, anche se per conto della dinastia argeade; solo, capovolse le linee della politica verso i Greci, mettendo in luce una delle due anime che caratterizzavano l’atteggiamento macedone verso i regimi interni delle città elleniche. Egli emise così nel 318 un celebre decreto, con cui si restaurarono i regimi già vigenti sotto Filippo II, si richiamarono gli esuli, si ritirarono le guarnigioni macedoni, si restituì Samo ad Atene: un programma dunque di libertà e di autonomia, che di fatto proprio per Atene significò il ritorno della democrazia. L’invio in Attica del figlio Alessandro completò l’iniziativa di Poliperconte verso le istituzioni e verso la città, dove, nell’aprile dello stesso anno, fu rovesciato il governo oligarchico e giustiziato il gruppo di uomini che lo rappresentavano, Focione in testa[8].
Ma nello stesso 318 cominciarono i rovesci per Poliperconte e per questa tiepida primavera democratica. Clito, che si appoggiava al reggente, fu sconfitto in autunno da Antigono in una battaglia navale sul Bosforo; ad Atene Cassandro, istallatosi al Pireo, impose il governo di Demetrio del Falero, un peripatetico allievo di Teofrasto e collaboratore di Focione, che aveva però fatto in tempo a mettersi in salvo, rifugiandosi da lui. Fu restaurata ancora una volta la costituzione timocratica, tuttavia con abbassamento del censo minimo a 10 mine; primo stratego fu nominato proprio Demetrio, che governò come ἐπιμελητής τῆς πόλεως (curatore della città) per dieci anni; una guarnigione macedone rimase a Munichia (dalla primavera del 317)[9].
Cassandro dunque poté rientrare in forze in Macedonia e affrontare Poliperconte, a cui non restò che abbandonare il campo portandosi dietro Alessandro IV e Rossane, a causa delle numerose defezioni in favore del figlio di Antipatro. Fu allora che nacque l’alleanza formale tra Cassandro ed Euridice: la donna sostituì di fatto il marito, Filippo Arrideo, debole di mente, nell’esercizio del potere politico. In Grecia si schierarono per Cassandro le regioni centro-orientali, dalla Tessaglia alla Locride, alla Beozia e all’Eubea. Gli Etoli e la maggior parte dei Peloponnesiaci tennero invece la parte a Poliperconte. E mentre Cassandro fu impegnato nell’assedio di Tegea in Arcadia, avvenne il rientro di Olimpiade dall’Epiro in Macedonia, dietro sollecitazione di Poliperconte: Euridice la affronta al confine fra i due regni, ma le truppe macedoni l’abbandonano per passare dalla parte della prestigiosa madre di Alessandro Magno; costei allora prese tutte le sue vendette, facendo uccidere Filippo III ed Euridice, il fratello di Cassandro Nicanore e un altro centinaio di antichi nemici (estate-autunno del 317).
Soldato macedone con lancia e berretto (καυσία). Affresco, IV sec. a.C. dalla tomba di Agios Athanasios, Thessaloniki. Thessaloniki, Museo Archeologico.
Alla notizia di questi avvenimenti Cassandro lasciò l’assedio di Tegea per la Macedonia; Olimpiade si chiuse a Pidna insieme ad Alessandro IV e Rossane, ma nella primavera del 316 (?) fu costretta a capitolare, anche a seguito di numerose defezioni. Le condizioni della resa le garantivano salva la vita, ma non fu possibile per Cassandro resistere alla richiesta dei parenti delle vittime dell’ira sanguinaria della regina, di sottoporla a un processo di fronte al tribunale del popolo macedone; ne seguì la condanna a morte.
L’orgogliosa sovrana non accettò di fuggire ad Atene su una nave che Cassandro sembra averle offerto; Alessandro IV fu comunque trasferito ad Anfipoli sotto la custodia di Cassandro[10]. Questi, dal canto suo, fondò nel 316 una città da lui stesso denominata Cassandrea sul sito di Potidea (distrutta da Filippo II nel 356) e, forse nello stesso anno, presso l’antica Terme, Tessalonica (dal nome della figlia di Nicesipoli di Fere e di Filippo II). Certamente, nello stesso 316 egli richiamò in vita Tebe tra il giubilo di tanti Greci: una politica dunque, verso costoro, cauta sul piano dei regimi politici interni, ma aperta e sensibile sul terreno dell’insopprimibile esigenza ellenica di tenere in vita o rivitalizzare, a seconda dei casi, le πολεῖς e le loro tradizioni[11].
In Asia continuava intanto il confronto tra Antigono e i suoi nemici (e concorrenti) vecchi e nuovi. Eumene, che Poliperconte aveva nominato “stratego d’Asia” in opposizione al Monoftalmo, rotto ormai il blocco di Nora, aveva raggiunto la Fenicia e di lì la Siria. In Mesopotamia si era formata un’alleanza tra Seleuco, satrapo di Babilonia, e Pitone, già satrapo della Media, divenuto governatore delle “satrapie superiori”. Quando Eumene raggiunse la Mesopotamia, chiese invano a Seleuco e a Pitone il riconoscimento della sua autorità sull’Asia, ma ottenne di poter varcare il Tigri. Antigono gli era alle calcagna: l’inseguimento si estese dalla Mesopotamia alla Susiana, alla Paratacene, dove si verificarono vari scontri fra i due eserciti, fino alla Gabiene, dove Eumene subì un’ultima sconfitta, a cui seguirono – come al solito – la defezione delle truppe, che passarono tutte al vincitore, e la condanna a morte per alto tradimento e l’esecuzione del vinto e dei suoi più stretti collaboratori (316). Ma neanche a coloro che avevano tenuto la parte a Eumene andò tanto bene: il Monoftalmo represse un tentativo di ribellione di Pitone, che fu giustiziato, depose Peucesta dalla carica di satrapo di Persia (in cui l’aveva posto già Alessandro Magno) e mosse verso Babilonia per chiedere a Seleuco i rendiconti della sua amministrazione come satrapo della regione; quest’intenzione provocò la fuga di Seleuco, che presto raggiunse Tolemeo in Egitto[12].
Il secondo periodo delle lotte dei Diadochi (321-316) fu dunque caratterizzato da una progressiva assunzione del ruolo di erede di Alessandro in Europa da parte di Cassandro e di erede in Asia da parte di Antigono; erano rimasti sullo sfondo residui progetti legittimistici, di cui erano stati protagonisti Eumene, Poliperconte e Olimpiade. Il realismo della politica della spartizione era già presente nell’azione di diversi personaggi, ma non era riuscito a conseguire subito tutti i suoi risultati. Contro le ambizioni imperiali di Antigono si sarebbe determinata, come già era capitato con le posizioni legittimistiche di Poliperconte, una coalizione di quei sostenitori del principio particolaristico che ormai, dopo i drammatici eventi del 316, sarebbero usciti allo scoperto: Tolemeo, Lisimaco e lo stesso Cassandro.
Soldati macedoni. Affresco, IV sec. a.C. dalla tomba di Agios Athanasios, Thessaloniki. Thessaloniki, Museo Archeologico.
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[2] Diod. XVIII 16, 22 ss.; 25; 29; 33-36; Arr. FGrHist 156 F 11; Iust. XIII 6 e 8; Plut. Eum. 8.
[3] Diod. XVII 111, 1-3; XVIII 8-18; 24 ss.; Arr. loc. cit.; Hyp. 6; Iust. XIII 5; Plut. Phoc. 23 ss.; Demosth. 27 ss.; Paus. I 25, 5. Sulle fonti di Diodoro, si vd. in part. E. Lepore, Leostene e le origini della guerra lamiaca, PP 10 (1955), 161-.
[4] Plut. Demetr. 10-11; De Alex. 338; Phoc. 26 ss.; Cam. 19; Demosth. 27 ss.; Diod. XVIII 15, 9; 16-18.
[5] Arr. loc. cit.; Diod. XVIII 29-32; Plut. Eum. 5-8; Iust. XIII 8, ecc.
[6] Fondamentali, per il periodo, Diod. XVIII 37-50; Arr. loc. cit.; Plut. Eum. 8-11.
di G. REALE, Il pensiero antico, Milano 2001, pp. 83-102.
I. La questione socratica e il problema delle fonti.
Socrate. Testa, marmo, copia romana di I-II sec. d.C. da un originale di Lisippo (?). Paris, Musée du Louvre.
Prima di svolgere un qualsivoglia discorso su Socrate è necessario, sia pure molto brevemente, tracciare un quadro della «questione socratica»[1].
Socrate non scrisse nulla. Per conoscere il suo pensiero e valutarne l’importanza e la portata, dobbiamo ricorrere alle testimonianze dei contemporanei o a fonti che da quelle mediamente derivano. Ma queste notizie (e di qui nascono tutte le difficoltà) sono solo discorsi e, in alcuni casi, sono addirittura radicalmente opposte fra loro, al punto da annullarsi a vicenda.
La fonte più antica riguardante Socrate è Aristofane con la commedia Nuvole, che è, beninteso, non solo una parodia del filosofo, ma anche un violentissimo atto di accusa contro il suo insegnamento e i suoi nefasti influssi sulla gioventù: Socrate viene trattato alla stregua di un sofista e, anzi, in un certo senso, il peggiore dei sofisti; a un tempo, egli viene considerato filosofo naturalista (professante dottrine che riecheggiano quelle di Diogene di Apollonia). Per queste ragioni, Aristofane, per molto tempo, non fu calcolato e le Nuvole furono giudicate pura opera di fantasia del tutto sprovvista di valore storico.
La seconda fonte, in ordine cronologico, è Platone, il quale fa di Socrate il protagonista della maggior parte dei suoi dialoghi e gli mette in bocca tutte le idee filosofiche che egli via via svolge, eccetto una parte della dottrina dialettica degli ultimi dialoghi, la cosmologia del Timeo e la dottrina delle Leggi. Ma la testimonianza platonica è condizionata da due presupposti, che ne compromettono strutturalmente la credibilità storica. In primo luogo, Platone ha trasfigurato e trasformato la figura del maestro in un simbolo: Socrate assurge ad eroe morale, è il santo, il forte, il temperante, il saggio, il giusto, l’educatore più autentico degli uomini, l’unico vero politico che in Atene ci sia mai stato (sarebbe difficilissimo pensare a due figure più antitetiche del Socrate descritto nelle Nuvole e di quello raffigurato nel Fedone: eppure, si riferiscono a un medesimo uomo). In secondo luogo, l’autore mette in bocca a Socrate pressoché tutta la propria dottrina: quella della giovinezza, quella della maturità e parte di quella della vecchiaia (Filebo); ed è certo che, per la maggiore, queste dottrine sono solo in parte di Socrate; sono ripensamenti, amplificazioni e anche nuovissime creazioni di Platone. Come separare ciò che è socratico da ciò che non lo è negli scritti platonici? Esiste un qualche criterio che permetta di far questo? La risposta è che la separazione è, se non del tutto impossibile, perlomeno difficilissima.
Il terzo autore è Senofonte, con i suoi Detti memorabili di Socrate e altri scritti minori in cui il maestro è protagonista. Ma Senofonte fu solo per brevissimo tempo suo uditore da giovane e compose, invece, i suoi scritti socratici solo da vecchio. Per di più, a costui fanno difetto il rigore speculativo e la tempra del pensatore e il suo Socrate risulta assai meno addomesticato. Sarebbe stato certamente impossibile che gli Ateniesi potessero avere motivo di mandare a morte un uomo quale Senofonte pretende sia stato Socrate.
La quarta fonte è data da Aristotele, che parla di Socrate solo occasionalmente, ma dice di lui cose ritenute importanti. Ma Aristotele non fu un contemporaneo: egli poté bensì accertare in vari modi quanto ci riferisce di lui, ma gli mancò quel contatto diretto con il personaggio, che, nel caso di Socrate, risulta insostituibile e mediamente non recuperabile.
Ci sono poi i fondatori della cosiddette Scuole socratiche minori, dei quali ci è pervenuto poco e in quel poco che abbiamo si vede solo un raggio filtrato attraverso prismi deformatori.
Tutto questo è sufficiente a far comprendere l’enorme difficoltà cui va incontro ogni tentativo di ricostruzione del pensiero di Socrate e anche l’ampio margine di aleatorietà e di ipoteticità che fatalmente è destinato a rimanere in tutte le ricostruzioni, dato che le stesse fonti cui attingiamo sono, ciascuna, non un’obiettiva descrizione, ma un’interpretazione.
Allo stato attuale degli studi, è risultato ormai chiaro che, da un lato, nessuna fonte può ritenersi privilegiata e che, d’altro canto, nessuna informazione può essere trascurata: lo stesso Aristofane, che per molto tempo è stato considerato del tutto trascurabile come prova storica, è risultato invece, esaminato in controluce, contenere numerosi elementi reali di grande importanza per comprendere Socrate. E viceversa Aristotele, che da molti era stato ritenuto il giudice imparziale e quindi la fonte capace di fornirci il criterio per ridimensionare tutte le altre, dai recenti studi è stato rimesso in discussione ed è stato dimostrato che egli attribuiva a Socrate alcune cose che sono, invece – come vedremo – acquisizioni posteriori. Perciò, una ricostruzione di Socrate può essere fatta solamente tenendo conto di tutte le fonti e considerando non solo quanto esse tramandano, ma altresì quanto tacciono, leggendo l’una alla luce dell’altra e viceversa, e altresì filtrando ciascuna di esse in controluce e utilizzando il tutto con vigile senso critico.
Per la verità, un criterio per valutare le varie testimonianze esiste. Noi costatiamo che, a partire dal momento in cui Socrate agì in Atene, la letteratura in genere e quella filosofica in particolare registrano una serie di novità di assai considerevole portate, che poi sarebbero rimaste, nell’ambito dello spirito della grecità, acquisizioni irreversibili e punti costanti di riferimento. Ma c’è di più: le fonti di cui sopra abbiamo detto (e anche altre, oltre quelle menzionate) indicano concordemente proprio Socrate come autore di quelle novità, sia in modo esplicito sia, anche, in modo implicito, ma non per questo meno chiaro. Queste due circostanze, che reciprocamente si rafforzano e si avvalorano, ci offrono il filo di Arianna che ci permette di districarci nella selva della questione socratica. Noi potremmo dunque far risalire a Socrate, non con certezza totale, ma con assai elevato grado di probabilità storica, appunto quelle dottrine che le nostre fonti riferiscono a lui e che i documenti in nostro possesso confermano essere novità che la cultura greca recepisce a partire appunto dal momento in cui Socrate agisce.
Riletta con questi criteri, la filosofia socratica risulta avere avuto un peso decisivo nello svolgimento del pensiero greco e, in genere, nello sviluppo del pensiero occidentale.
Marcello Bacciarelli, Alcibiade a lezione da Socrate (dettaglio). Olio su tela, 1776 c.
II. L’etica socratica
Socrate nei confronti della filosofia della φύσις– Abbiamo già visto quale sia stato l’atteggiamento dei sofisti nei confronti della filosofia della φύσις: si tratta di un punto di vista negativo, al quale aveva dato forma paradigmatica Gorgia nel suo trattato Sulla natura, o sul non-essere (come abbiamo sopra veduto), in cui il filosofo cercava di dimostrare la strutturale incommensurabilità fra l’essere (la φύσις), da un lato, e il pensiero e la parola umana, dall’altro. L’atteggiamento di Socrate fu analogo, ma più complesso e più articolato e fondato, più che sulle dialettiche deduzioni di tipo gorgiano, sul rilievo della reciproca contraddittorietà dei vari sistemi di filosofia della natura che erano stati via via proposti, i quali pervenivano a conclusioni che puntualmente si annullavano a vicenda e che, dunque, mostravano, in questo loro contraddirsi, la propria incapacità a pervenire a valide conclusioni.
La scienza del cosmo è inaccessibile all’uomo: chi a essa dedica le proprie energie tenta vanamente di acquisire una conoscenza, che solo un dio può possedere. Infine, secondo Socrate, chi si dedica a queste ricerche, tutto assorbito in esse, dimentica se stesso, ossia quello che più conta: l’uomo e i problemi dell’uomo. Di questo diremo più avanti; prima dobbiamo ancora mostrare come queste precise conclusioni di Socrate non siano tanto un punto di partenza iniziale, quanto, piuttosto, un travagliato e laborioso guadagno, che può verosimilmente essere fatto risalire, per quanto concerne la cronologia, a metà circa della sua vita (cfr. Xen., Memor. I 1; IV 7).
Sui trent’anni sappiamo che Socrate era legato ad Archelao (il quale, come abbiamo visto, riproponeva dottrine di Anassagora in modo piuttosto eclettico). Quanto siano durate queste esperienze naturalistiche di Socrate non è possibile stabilire con sicurezza: Aristofane, che, come abbiamo detto, lo rappresenta a quarant’anni, gli attribuisce ancora una serie di legami (talora anche abbastanza precisi) con certe dottrine dei Fisici. Una cosa, tuttavia, sembra certa, e cioè che Socrate non fu mai soddisfatto di queste ricerche e che, di conseguenza, non le fece mai oggetto del proprio insegnamento, come tutte le fonti concordemente ci riferiscono.
Socrate. Affresco (dettaglio), I-II sec. d.C. Efeso, Museo Archeologico.
Socrate, dunque, spostò interamente dalla natura all’uomo tutti i suoi interessi e solo a questo punto egli iniziò il suo magistero in Atene. In ogni caso, è certo che, quando Senofonte e Platone incominciarono a frequentarlo, egli era già da qualche lustro saldamente ancorato a questa precisa posizione.
E Platone, nell’Apologia, mette in bocca a Socrate quest’affermazione, che è un programma: «Per la verità, o Ateniesi, io per nessun’altra ragione mi sono procurato questo nome, se non a causa di una certa sapienza. E qual è questa sapienza? Tale sapienza è precisamente la sapienza umana: e di questa sapienza veramente può essere che io sia sapiente» (20d ss.). Ed eccoci così giunti al punto focale: che cos’è questa «sapienza umana».
La scoperta dell’essenza dell’uomo – Torniamo alla linea di sviluppo del pensiero sofistico, che abbiamo interrotto. Abbiamo visto che tutte le contraddizioni, le aporie, le incertezze dei sofisti e, infine, lo scacco matto cui andarono incontro tutti i tentativi da essi esperiti, dipendevano sostanzialmente dall’aver parlato dei problemi dell’uomo senza aver indagato in modo adeguato la natura o l’essenza dell’uomo, o comunque dall’averla determinata in maniera del tutto inadeguata. Ebbene, diversamente dai sofisti, Socrate riuscì a far questo e vi riuscì in una misura tale da poter dare alla problematica dell’uomo un significato decisamente nuovo.
Che cos’è dunque l’uomo? La risposta del filosofo è finalmente inequivoca: l’uomo è la sua anima, dal momento che è l’anima che distingue l’uomo da qualsiasi altra cosa.
Si obietterà che la letteratura e la filosofia greca avevano da secoli parlato di ψυχή: ne avevano parlato Omero, gli Orfici, i Fisici e altresì i poeti lirici e tragici. Ma nessuno prima aveva inteso per anima ciò che, invece, intese Socrate e, dopo di lui, tutto l’Occidente. Per Omero, l’anima era lo spirito nel senso di «fantasma», che abbandonava l’uomo alla sua morte, per andarsene come larva vana e inconsapevole a vagolare senza scopo nell’Ade; per gli Orfici, era, invece, il dèmone che espiava in noi la colpa e che era tanto più se stesso quanto più si staccava dall’io consapevole, ed era tanto attivo quanto più si affievoliva e scompariva la nostra coscienza (quindi, nel sonno, nello svenimento e nella morte); per i Fisici, era, invece, il principio o un momento del principio (quindi, acqua, aria, fuoco); infine, per i poeti, essa restava qualcosa di assai indeterminato e, comunque, mai teoreticamente definito. Di contro, l’anima, per Socrate, vien fatta coincidere con la nostra coscienza pensante e operante, con la nostra ragione e con la sede della nostra attività pensante ed eticamente operante.
Pietro della Vecchia, Socrate e due studenti (Lo specchio che rivela). Olio su tela, 1626.
Precisazioni e documenti relativi alla nuova concezione socratica di ψυχή – Tutta la dottrina socratica può riassumersi in queste proposizioni convergenti: «conoscere se stessi» e «aver cura di se stessi». E conoscere «se stessi» non vuol dire conoscere il proprio nome né il proprio corpo, ma esaminarsi interiormente e conoscere la propria anima – così come curare se stessi vuol dire non già curare il proprio corpo, bensì la propria anima. Insegnare agli uomini a conoscere e a curare se stessi è il compito supremo di cui Socrate ritenne di essere stato investito dal dio.
Su questo punto la testimonianza platonica è chiarissima, soprattutto nei dialoghi della giovinezza, che sono quelli più vicini a Socrate e quindi storicamente più degni di fede.
«Cittadini ateniesi, vi sono grato e vi voglio bene; però, ubbidirò più al dio che a voi; e finché abbia fiato e sia in grado di farlo, io non smetterò di filosofare, di esortarvi e di farvi capire, sempre, chiunque di voi incontri, dicendogli quel tipo di cose che sono solito dire, ossia questo: “Ottimo uomo, dal momento che sei ateniese, cittadino della città più grande e più famosa per sapienza e potenza, non ti vergogni di occuparti delle ricchezze per guadagnare il più possibile e della fama e dell’onore e, invece, non ti occupi e non ti dai pensiero della saggezza, della verità e della tua anima, in modo che diventi il più possibile buona?”. E se qualcuno di voi dissentirà su questo e sosterrà di prendersene cura, io non lo lascerò andare immediatamente, né me ne andrò io, ma lo interrogherò, lo sottoporrò a esame e lo confuterò. E se mi risulta che egli non possegga virtù, se non a parole, io lo biasimerò, in quanto tiene in pochissimo conto le cose che hanno maggior valore e in maggior conto le cose che ne hanno poco. E farò queste cose con chiunque incontrerò, sia con chi è più giovane, sia con chi è più vecchio, sia con uno straniero, sia con un cittadino, ma specialmente con voi cittadini, in quanto mi siete più vicini per stirpe. Infatti, queste cose, come sapete bene, me le comanda il dio. E io non ritengo chi sia per voi, nella città, un bene maggiore di questo mio servizio al dio. Infatti, io vado intorno facendo nient’altro se non cercare di persuadere voi, e più giovani e più vecchi, che non dei corpi dovete prendervi cura, né delle ricchezze né di alcun’altra cosa prima e con maggiore impegno che dell’anima, in modo che diventi buona il più possibile, sostenendo che la virtù non nasce dalle ricchezze, ma che dalla virtù stessa nascono le ricchezze e tutti gli altri beni per gli uomini, e in privato e in pubblico» (29b-30b).
Alcibiade. Busto idealizzato, copia in marmo di età romana da originale greco di IV sec. a.C. Roma, Musei Capitolini.
Ma a più riprese Platone ribadisce questo concetto. Nell’Alcibiade maggiore si legge: «Socrate – Che cos’è dunque l’uomo? / Alcibiade – Non so dire. / Socrate – Questo, però, puoi dirlo, che egli è ciò che si serve del corpo. / Alcibiade – Sì. / Socrate – E che altro è ciò che si serve del corpo, se non l’anima? /Alcibiade – Non è altro […]. / Socrate – L’anima, quindi, ci ordina di conoscere chi ci ammonisce: “Conosci te stesso”» (cfr. 128d-130e).
Ma anche Senofonte (Memor. III 10), a più riprese, concorda, in ultima analisi, con quanto ci dice Platone; egli afferma, infatti, che, per Socrate, l’anima è ciò che in noi più partecipa del divino e che è ciò che in noi ha il dominio. Ci narra addirittura che Socrate spiegava ai pittori e agli scultori che, per ritrarre adeguatamente l’uomo, essi non dovevano limitarsi a ritrarne il corpo, ma dovevano giungere a ritrarne l’anima. Ampie conferme si desumono altresì dai socratici minori.
Risulta, dunque, certo che, per Socrate, l’essenza dell’uomo va ricercata nella sua ψυχή. È questo il suo contributo più significativo, che indica il preciso posto che Socrate occupa nella storia spirituale dell’Occidente.
Il nuovo significato di ἀρετή e la rivoluzione della tavola dei valori– Abbiamo visto che i sofisti sostanzialmente non seppero raggiungere lo scopo che si erano prefissi e che le tecniche di educazione che essi posero in atto, messe in mano ai discepoli, immediatamente degenerarono, con gli esiti che sopra abbiamo ampiamente illustrato. E la ragione era, giova ripeterlo, che i sofisti non avevano saputo individuare quale fosse la vera natura dell’uomo e per questo avevano ignorato quale fosse il fine ultimo e più autentico e, di conseguenza, la vera ἀρετή dell’uomo. Socrate, invece, avendo compreso che l’uomo si distingue da ogni altra cosa per la sua anima, ha potuto anche determinare in che cosa consiste l’ἀρετή umana: essa non può essere se non ciò che permette all’anima di essere buona, ossia di essere quale per sua natura deve essere. Così, coltivare l’ἀρετή vorrà dire far essere l’anima ottima, vorrà dire realizzare pienamente l’io spirituale, vorrà dire raggiungere il fine proprio dell’uomo interiore e, con questo, anche la felicità.
Che cos’è la virtù? La risposta di Socrate è ben nota: la virtù (ciascuna e tutte le virtù) è «scienza» o «conoscenza», e il contrario della virtù, cioè il vizio (ciascuno e tutti i vizi), è privazione di scienza e di conoscenza, vale a dire «ignoranza». Tutte le nostre fonti concordano perfettamente su questo punto, e più avanti lo documenteremo in modo particolare. Del resto, questa affermazione è in perfetta coerenza con la premessa su cui essa si basa: se l’uomo è contraddistinto dalla sua anima e se l’anima è l’io cosciente, consapevole e intelligente, allora l’ἀρετή, ossia ciò che pienamente attua questa coscienza e intelligenza, non può se non essere appunto la conoscenza.
Gustave Doré, La parola di Socrate. Disegno, 1868.
Socrate rivoluziona così la tradizionale tavola dei valori cui tutta la grecità si era fino allora attenuta e che i sofisti stessi non avevano sostanzialmente intaccato. Infatti, i valori fondamentali della tradizione erano principalmente quelli legati al corpo: la vita, la salute, la vigoria fisica, la bellezza, oppure i beni esteriori o legati all’esteriorità dell’uomo, quali la ricchezza, la potenza, la fama e simili. Ora, la netta sovraordinazione gerarchica dell’anima rispetto al corpo e l’identificazione del vero uomo con l’anima e non più con il corpo, comportava il ribaltamento in secondo piano, se non l’annullamento, di quei valori fisici ed esteriori e il conseguente emergere in primo piano dei valori interiori dell’anima e, in particolare, del valore della scienza che tutti li assomma (cfr. Plat. Euthyd. 281d-e; Xen. Memor. IV 2).
I “paradossi” dell’etica socratica – La tesi socratica dell’identità di virtù e scienza implicava, in primo luogo, l’unificazione delle tradizionali virtù, come la sapienza, la giustizia, la saggezza, la temperanza, la fortezza in una sola virtù, appunto perché, nella misura in cui sono virtù, ciascuna e tutte si riducono essenzialmente a conoscenza. Inoltre, essa implicava la riduzione del vizio, che è il contrario della virtù, all’ignoranza, che è il contrario della conoscenza; e implicava, infine, la conclusione che chi fa il male (che è ignoranza) lo fa, appunto, solo per ignoranza e non già perché vuole il male, sapendo che è male (cfr. Xen. Memor. III 9).
Questi due principi socratici a) che la virtù è scienza e b) che nessuno pecca volontariamente, i quali in vario modo condizioneranno tutta quanta la speculazione etica del mondo greco, sono stati oggetto di innumerevoli discussioni e polemiche. A molti studiosi è sembrato che Socrate, fondando l’etica interamente sulla conoscenza e sulla ragione, pecchi di «intellettualismo» e misconosca quasi del tutto il ruolo che ha la volontà nell’azione morale e, in genere, il peso di tutte quante le componenti alogiche e arazionali, che entrano in gioco nell’agire umano. Altri hanno cercato, invece, di dimostrare che, a un esame approfondito, l’accusa di intellettualismo non regge e che, in realtà, i due principi socratici sono assai meno paradossali di quanto non sembrino di primo acchito.
A nostro modo di vedere, c’è del vero sia nelle affermazioni dei primi, sia in quelle dei secondi e, perciò, vogliamo ricavare le giuste istanze fatte valere da ambo le parti.
José Aparicio, Socrate insegna a un giovane. Olio su tela, 1811.
Ora, certamente l’affermazione che la virtù è scienza e il vizio è ignoranza, per l’uomo moderno – che nell’indagine sui moventi del comportamento umano ha conoscenze assai più profonde degli antichi e che intende «scienza» e «conoscenza» in modo del tutto nuovo – suona paradossale. Ma suona meno paradossale, se cerchiamo di spogliarci un poco della nostra mentalità e di vedere tale affermazione nelle precise dimensioni del pensiero socratico. L’opinione comune e gli stessi sofisti (che pure pretendevano essere maestri di virtù) vedevano nelle diverse virtù (giustizia, santità, prudenza, temperanza, saggezza) una pluralità, e non coglievano affatto il nesso che è comune a esse: quel nesso che le fa essere precisamente virtù e che giustifica, quindi, la loro comune denominazione con il termine virtù. E per virtù gli uomini comuni (e, in gran parte, gli stessi sofisti) intendevano quello che avevano inteso la tradizione e i poeti: dunque, qualcosa fondato più sul costume, le abitudini e le convinzioni della società greca, ma non fondato e giustificato su rigorose basi razionali. Ora, Socrate nei confronti della virtù e della vita morale dell’uomo fa esattamente quello che i Presocratici avevano fatto nei confronti della natura (e che i sofisti avevano incominciato a fare, ma non sempre con successo, nei confronti dell’uomo): tenta di sottoporre al dominio della ragione la vita umana, così come quelli avevano sottoposto il mondo esterno al dominio della ragione umana. Per lui la virtù non è e non può essere semplice adeguarsi ai costumi, alle abitudini e nemmeno alle convinzioni generalmente accolte: deve essere qualcosa di motivato razionalmente, di giustificato e fondato sul piano della conoscenza. E, in questo senso, egli dice senz’altro che virtù è conoscenza. Evidentemente, non una qualsivoglia conoscenza (non, per esempio, la conoscenza che è propria delle varie tecniche o arti), ma la più alta ed elevata conoscenza: la scienza di ciò che è l’uomo e di ciò che è bene ed utile per l’uomo (oggi diremmo: dei supremi valori etici). Che, poi, questa conoscenza dell’uomo e dei valori morali Socrate non l’abbia concretamente condotta fino in fondo, è cosa che non toglie affatto valore alla sua scoperta essenziale.
Socrate dice, in sostanza, che non è possibile essere virtuosi senza la conoscenza, perché non si può fare il bene senza conoscerlo: e fin qui tutto corre; ma egli ritiene, altresì, che non sia possibile conoscere il bene senza farlo: ed è questo il punto che non regge. La conoscenza del bene, per Socrate, è non solo condizione necessaria, ma altresì sufficiente per essere virtuoso. Ora, noi diciamo che è vero che la conoscenza del bene è necessaria, ma non possiamo ammettere che sia sufficiente. Nell’azione morale, ossia nell’esercizio della virtù, la volontà (del bene) ha un peso e una rilevanza almeno altrettanto importanti quanto la conoscenza del bene. Ora, questa illimitata fiducia nella ragione e nell’intelligenza e il rilievo quasi nullo dato alla volontà è esattamente ciò che ha meritato l’accusa di intellettualismo all’etica socratica. E, in effetti, è giusto parlare di intellettualismo, ma solo operando le opportune precisazioni. In realtà, Socrate, come la critica storicamente educata viene oggi a riconoscere, non ha ancora distinto le varie facoltà dello spirito umano e la loro complessità. Socrate, insomma, ha di fronte all’animo umano quella stessa visione unilaterale che ha Parmenide di fronte all’essere. E sarà Platone che, come compirà il famoso «parricidio di Parmenide», scoprendo l’imprescindibilità del non-essere, così scoprirà la complessa struttura dell’animo umano, e mostrerà come, accanto alla razionalità, ci siano in noi l’irascibilità e la concupiscenza e come l’azione morale consista in un delicato equilibrio di queste forze, che vede l’irascibilità (il volere) allearsi e cooperare con la ragione.
Autodominio, libertà interiore e autarchia – Le cose che abbiamo detto riceveranno ulteriore luce dalla particolare calibrazione di alcuni concetti da Socrate introdotti per la prima volta nella problematica etica.
Josef Abel, Socrate e i suoi discepoli. Disegno, 1801-1807.
In primo luogo, risulta particolarmente relativo il concetto di “autodominio”, espressamente detto «il bene più eccellente per gli uomini» (Xen. Memor. IV 5). La creazione di questa nozione con il relativo termine (ἐγκράτεια) risale certamente a Socrate stesso e questo lo possiamo affermare sulla base dello stesso procedimento metodologico che ci ha portato ad attribuire a lui la nuova concezione di ψυχή. Infatti, come è stato ben notato, il concetto e il termine compaiono contemporaneamente in Senofonte e in Platone, che li attribuiscono a Socrate medesimo, nonché in Isocrate, che già sappiamo aver assorbito molte idee socratiche. L’ἐγκράτεια è “dominio di sé” negli stati di piacere e dolore, nelle fatiche, nell’urgere degli impulsi e delle passioni. In una parola, essa è dominio sulla propria animalità. Procurarsi l’ἐγκράτεια nell’anima significa fare dell’anima stessa la signora del corpo, della ragione signora degli istinti, come risulta da tutti gli esempi che Senofonte fa e come in modo chiarissimo conferma Platone, specialmente nel Gorgia. Viceversa, la mancanza di dominio di sé rende padrone il corpo e i suoi istinti e, dunque, lascia l’uomo del tutto privo di virtù, facendolo simile agli animali più selvaggi.
Ma c’è di più. Socrate ha espressamente identificato la libertà con l’ἐγκράτεια. Ciò facendo, egli apriva una prospettiva nuovissima: infatti, prima di lui, la libertà aveva un significato quasi esclusivamente giuridico e politico; ora, essa assume il valore morale di dominio della razionalità sull’animalità.
In connessione con questi concetti di ἐγκράτεια e di ἐλευθερία, Socrate dovette svolgere anche il concetto di αὐτάρκεια, ossia di autonomia della virtù e dell’uomo virtuoso. Nel concetto di “autarchia” vi sono due note caratteristiche: a) l’autonomia rispetto ai bisogni e agli impulsi fisici tramite il controllo della ragione e b) l’essere sufficiente della sola ragione al raggiungimento della felicità. Chi si abbandona al soddisfacimento dei desideri e degli impulsi, è costretto a dipendere dalle cose, dagli uomini e dalla società, gli uni e l’altra in varia misura necessari per procurarsi l’oggetto che appaga i desideri: diventa bisognoso di tutto ciò che è difficilissimo procurare e diviene vittima di forze da lui non più controllabili, perdendo la propria libertà, la propria tranquillità e la propria felicità.
Il piacere, l’utile e la felicità– Nel Protagora, Platone fa dire a Socrate che il piacere e il bene coincidono, mentre negli altri dialoghi il maestro non solo non opera tale identificazione, ma esclude, proprio al contrario, che il piacere sia il bene. Ora, l’affermazione del Protagora – che alcuni interpreti hanno assurdamente preso per buona – in realtà, rientra nel gioco ironico-dialettico di questo dialogo ed ha, non già un valore autonomo, ma solo di presupposto comunemente accettato: ha il senso di un “dato, ma non concesso”. In altri termini, seguendo un metodo a lui peculiare (di cui diremo più avanti), Socrate, per portare gli uditori ad ammettere i propri paradossi etici, muove da quella convinzione che a tutti è comune e che nessuno, in realtà, contesta (e cioè, in questo caso, che il bene e il piacevole siano la stessa identica cosa), e, muovendo da detta premessa, sui cui di fatto tutti concordano, dimostra che, in ogni caso, non l’abbandono al piacere come tale può dare la felicità, bensì un avveduto calcolo del piacere, una sapiente misurazione del piacere che adeguatamente sappia discriminare e dosare. E, se così è, emerge come veramente sovrana e salvatrice l’arte del misurare il piacere che è o implica ragione e scienza. E, dunque, emerge, anche partendo dal comune presupposto edonistico, che la virtù (la suprema abilità umana) è scienza.
Jean-Léon Gérôme, Socrate incontra Alcibiade a casa di Aspasia. Olio su tela, 1861.
Analogo discorso va fatto anche per l’utile. Per la verità, chi legge gli scritti socratici di Senofonte trae l’impressione che Socrate identificasse il bene con l’utile. E anche Platone – sia pure su differente registro – attribuisce a Socrate l’identificazione del bene con il giovevole e, dunque, con l’utile. Si spiega, pertanto, come molti interpreti abbiano considerato utilitaristica l’etica di Socrate. Ma se questa fosse davvero tale, non si sfuggirebbe dalla conclusione che, in ultima analisi, il fondamento della vita morale per Socrate è l’egoismo. In realtà, non è affatto così; ancora una volta, è il concetto di ψυχή che tronca le innumerevoli discussioni su tale questione. Infatti, l’utile di cui Socrate parla è sempre (o prevalentemente) l’utile dell’anima, mentre l’utile del corpo gli interessa solo in funzione dell’utile dell’anima. Anzi, potremmo ulteriormente precisare che il parametro dell’utilità è dato non da altro che dalla ἀρετή dell’anima, ossia dalla scienza e dalla conoscenza.
Diverso è il discorso che concerne la felicità (εὐδαιμονία). Che Socrate tendesse al raggiungimento di questa e che il suo filosofare volesse arrivare, in ultima analisi, a insegnare agli uomini ad essere veramente felici è fuori discussione. Egli, dunque, è decisamente eudemonista: tutti i filosofi greci, d’altronde, furono eudemonisti. Ma dire che Socrate è eudemonista e che insegnava a raggiungere la felicità non significa nulla, finché non si precisi in che cosa egli additasse la felicità – e anche per stabilire questo occorre rifarsi alla ψυχή e alla sua ἀρετή. La felicità non è data né dai beni esteriori né da quelli del corpo, bensì da quelli dell’anima, ossia dal perfezionamento della stessa mediante la virtù, che è conoscenza e scienza. Perfezionare l’anima con la virtù significa – come si è visto – attuare la propria natura più autentica, essere pienamente se stessi, realizzare il pieno accordo di sé con sé – è esattamente questo che porta ad essere felici. La felicità è ormai interamente interiorizzata, è sciolta da ciò che viene dal di fuori e perfino da ciò che viene dal corpo; è posta nell’animo dell’uomo, e, dunque, consegnata al suo pieno dominio. La felicità dipende non dalle cose e dalla fortuna, ma dal λόγος umano e dall’interiore formazione che con il λόγος l’uomo può darsi (cfr. Plat. Gorg. 470e; Apol. 30d ss.).
Un ultimo punto va chiarito prima di chiudere questo argomento. Non solo la felicità non ha bisogno di nulla che venga dal di fuori dell’uomo, ma nemmeno dal di sopra. La virtù è autarchica e non ha bisogno di un premio nell’aldilà, avendo già in sé il proprio premio – ossia la felicità. Si capisce, quindi, come mai Socrate non abbia sentito il bisogno di risolvere la questione dell’immortalità dell’anima a livello teoretico. Egli dice al riguardo che il morire o è come un non andare nel nulla, o è una specie di migrazione dell’anima da questo luogo quaggiù ad un altro. A livello di ragione, le due ipotesi gli sembrano ambedue plausibili, anche se, a livello di fede, egli piega per la seconda. A livello di ragione, egli non poteva dimostrare l’immortalità dell’anima perché gli mancavano le categorie metafisiche occorrenti all’uopo. Ma quello che è importante è che egli proclamò, senza mezzi termini, la possibilità per l’uomo di essere felice, a prescindere dalle sue sorti dopo la morte, e la totale autonomia della vita mortale. All’uomo virtuoso non può capitare nulla di male, perché la virtù è la più radicale difesa da ogni male. Con questa convinzione, egli bevve serenamente la cicuta che gli diede la morte, e la bevve serenamente perché convinto che la morte uccide il corpo, ma non la virtù dell’uomo; distrugge la vita, non averla ben vissuto.
L’Accademia di Platone. Mosaico, I sec. a.C., dalla Casa di T. Siminio Stefano a Pompei. Museo Archeologico Nazionale di Napoli.
La politica– Socrate non ebbe simpatia per la politica militante, anzi sentì per essa una forte avversione. Nell’Apologia egli afferma addirittura che la partecipazione attiva alla vita politica gli era stata vietata dal suo «segno divino» (di cui diremo più avanti). Egli criticò la prassi democratica, che affidava all’estrazione a sorte funzioni e oneri che avrebbero dovuto essere, invece, distribuiti sulla base delle competenze e del valore degli individui. Ma non per questo egli simpatizzò per gli oligarchici. E, in effetti, fu perseguitato sia dai democratici sia dagli oligarchici e per l’identica ragione, ossia perché egli non esitò mai a criticare le malefatte degli uni e degli altri; anzi, per opporsi all’ingiustizia, giunse a mettere addirittura in pericolo la vita. Tuttavia, il suo insegnamento fu ben lungi dall’essere apolitico. L’orizzonte socratico restò quello della polis greca: al servizio di Atene egli concepì e presentò tutto il proprio magistero.
Non c’è dubbio che egli tendesse alla formazione di uomini che nel modo migliore potessero poi occuparsi della cosa pubblica: e non c’è dubbio nemmeno sul fatto che la maggior parte dei suoi amici lo frequentassero proprio a questo scopo. Del resto, sia Senofonte sia Platone concordano nel rilevare la natura politica (nel senso greco del termine, naturalmente) dell’insegnamento socratico. Si potrebbe dire che come il Socrate ironico affermò di sé che il dio volesse che restasse privo di sapere, ma che fosse capace di estrarlo “maieuticamente” dall’animo altrui, così avrebbe potuto affermare che il dio volesse che non fosse politico (militante), ma lo volesse capace di far politici gli altri. È chiaro, da quanto abbiamo fin qui detto, che il vero politico per Socrate non poteva che essere l’uomo perfetto moralmente, ossia che il politico doveva essere politico nella dimensione dell’anima e capace di curare le anime degli altri. Platone farà dire al maestro che il «buon politico» ha da essere colui che si prende cura dell’anima degli uomini e nel Gorgia (504d-521d) non esitò a proclamare Socrate l’unico «vero uomo politico» che la Grecia avesse mai avuto.
Tempio di Athena Parthenos (Partenone). Acropoli di Atene.
La rivoluzione della non-violenza – Sulle ragioni che meritarono a Socrate la condanna a morte si è molto discusso. È chiaro che, su basi strettamente giuridiche, il reato imputatogli sussisteva: Socrate non credeva negli dèi della città e, inoltre, induceva altri a fare altrettanto. Ma è chiaro che, dal punto di vista morale, il giudizio si capovolge e i veri colpevoli risultano essere gli accusatori e i giudici.
Resta, in ogni caso, il fatto che Socrate fosse un rivoluzionario, e che lo fu in tutti i sensi. Ma due sono i modi con cui le rivoluzioni si realizzano: con l’ausilio della forza e della violenza, oppure con la non-violenza. Ora, Socrate non solo attuò questo secondo tipo di rivoluzione, ma ne fu altresì il teorico in modo chiarissimo. L’arma della sua rivoluzione non violenta fu la persuasione: non solo nei confronti degli uomini, ma altresì nei riguardi dello Stato. Messo a morte ingiustamente, gli fu offerta la possibilità di fuggire: egli respinse questa possibilità in maniera categorica, perché la giudicò violenta contro le leggi (cfr. Plat. Crit. 51b).
Una sola più alta forma di rivoluzione non-violenta conoscerà l’umanità dopo Socrate, quella dell’amore: ma questa alla grecità rimase totalmente sconosciuta, cosicché quella socratica fu la più alta nel mondo pagano.
III. La teologia socratica e il suo significato
Apollo Musagete. Statua, marmo, II sec. d.C. dalla Villa di Cassio (Tivoli). Città del Vaticano, Museo Pio-Clementino.
La posizione di Socrate nei confronti del problema teologico – Il primo capo d’accusa mosso contro il filosofo nel processo – come abbiamo già detto – riguardava esattamente l’aberrante atteggiamento che lui aveva tenacemente mantenuto per tutta la vita nei confronti della credenza ufficiale negli dèi, e così suonava: «Socrate è reo di non credere negli dèi in cui crede la città e di introdurre nuovi culti» (Xen. Memor. I 1; Plat. Euthyphr. 2c). Evidentemente non si trattò di un’accusa di ateismo, perché non poteva essere ateo chi fosse stato reo di introdurre nuove divinità e, in quanto tale, fosse stato riconosciuto; piuttosto, diremmo con terminologia moderna che si trattò di un’accusa di eresia (nei confronti della religione di Stato). La posizione di Socrate nei confronti del divino, dunque, non solo aveva obiettivamente nulla in comune con quelle dei sofisti, le quali sfociavano (mediatamente o immediatamente) nell’agnosticismo o nell’ateismo, ma questo era riconosciuto addirittura da coloro che avevano trascinato il filosofo in tribunale e che fra lui e i sofisti, per altro verso, non facevano differenze.
Ma per quale motivo Socrate respingeva la religione di Stato? Perché gli ripugnava profondamente il pesante antropomorfismo, sia fisico sia morale, di cui era inficiata. Indirettamente, da alcune testimonianze su Antistene, sappiamo che questo filosofo – ispirandosi proprio al maestro – sostenne che «il dio non rassomiglia a nessuno e che, pertanto, nessuno può conoscerlo da una figura», e che «non si può vedere con gli occhi»: e questo significava esattamente contestare qualsiasi possibilità di raffigurarsi un dio in forme umane o in una qualunque altra forma fisica. E nell’Eutifrone platonico, al sacerdote che gli narra (a prova della propria sapienza nelle cose divine) le lotte, le contese e le furibonde ire di dèi contro altri dèi, Socrate espressamente afferma: «Ma è proprio questa la ragione per cui sono accusato: perché, quando uno mi narra cose simili intorno agli dèi, io non me la sento di accettarle» (6a). Ciò significa che Socrate (come già Senofonte) riteneva assurdo anche e soprattutto l’antropomorfismo morale e negava che agli dèi potessero venire attribuiti passioni, sentimenti e costumi umani.
Riesce Socrate, sulla base delle categorie della filosofia, a fondare teoreticamente una concezione di dio? I Fisici, come vedemmo, avevano identificato il divino con il principio cosmogonico e, in ogni caso, lo avevano interpretato in funzione delle proprie categorie cosmogoniche; ma Socrate, che aveva respinto in blocco la filosofia della φύσις, non poteva, evidentemente, avvalersi di alcuna categoria che non fosse desunta da tale filosofia. D’altro canto, non potendo disporre di ulteriori nozioni metafisiche, che solo dopo la «seconda navigazione» platonica saranno acquisite, era fatale che Socrate potesse parlare di dio (se non esclusivamente, almeno prevalentemente) a livello intuitivo. Nei confronti del problema di dio, in ultima analisi, Socrate ritrovò la stessa difficoltà incontrata a proposito della questione dell’anima: e come per definire quest’ultima egli, non potendo dire che cosa essa fosse ontologicamente, la giustificò in funzione delle sue operazioni, così si comportò anche nel parlare di dio e del divino.
Giovanni Lanfranco, Providentia. Incisione su rame, 1600-1625 c. Universitätsbibliothek Salzburg.
Dio come Intelligenza finalizzatrice e come Provvidenza– Meglio di tutti, sulla concezione socratica del dio, ci informa Senofonte, in alcuni passi dei Memorabili (I 4; IV 3).
Un primo passo che riferisce di un dialogo che Senofonte afferma di aver udito personalmente fra Socrate e Aristodemo, è una vera e propria dimostrazione dell’esistenza di Dio, imperniata sui seguenti punti: 1) ciò che non è semplice opera del caso, ma risulta costituito per raggiungere uno scopo e un fine, postula un’intelligenza, che l’ha prodotto a ragion veduta; 2) in particolare, se osserviamo l’uomo, notiamo che ciascuno e tutti i suoi organi sono finalizzati in modo tale da non poter essere spiegati se non come opera di un’intelligenza (che ha espressamente voluto quest’opera); 3) contro questo ragionamento non vale obiettare che quest’intelligenza non si vede, mentre si vedono gli artefici di quaggiù accanto alle loro opere: infatti, anche la nostra anima, ossia la nostra intelligenza, non si vede, eppure nessuno affermerebbe che per questo non facciamo nulla con la riflessione, ma tutto a caso; 4) inoltre, è possibile stabilire, sulla base dei privilegi che l’uomo ha rispetto a tutti gli altri esseri (struttura fisica più perfetta e soprattutto il possesso dell’anima, ossia dell’intelligenza), che l’artefice divino ha cura dell’uomo in modo del tutto particolare.
Due caratteristiche rivelano i tratti tipici del socratismo: in primo luogo, il nesso che viene istituito fra Dio e ψυχή, ossia fra Intelligenza divina e intelligenza umana; in secondo luogo, il forte antropocentrismo (tutte le prove a favore del finalismo sono desunte dalla struttura del corpo, mentre è assente ogni considerazione di tipo cosmologico; l’uomo è visto come la più cospicua opera di Dio e come l’essere di cui egli ha più cura).
Il δαιμόνιον di Socrate – Sempre nel capo di accusa principale mosso contro Socrate (in connessione, cioè, all’accusa di non credere negli dèi in cui crede la città e, anzi, a riprova della medesima) – come abbiamo già detto – si asseriva che il filosofo introdusse «nuovi δαιμόνια», che gli accusatori intendevano, senz’altro, come nuove «divinità».
Costoro si riferivano al fatto che Socrate, ripetutamente, aveva asserito di avvertire in sé, in determinate circostanze, un fenomeno divino e soprannaturale – che egli chiamava appunto δαιμόνιον. Platone costantemente ripete questo ogni qualvolta chiama in causa il δαιμόνιον socratico: si tratta di un “segno”, o di una “voce”, che il maestro diceva essere voce divina, cioè una voce che veniva a lui da Dio stesso (Apol. 31c-d). Anche Senofonte dice la stessa cosa e discorda da Platone solo in quanto ritiene che il δαιμόνιον dicesse a Socrate non soltanto ciò che non doveva fare, ma altresì positivamente, ciò che doveva fare. È chiaro che il δαιμόνιον fosse per Socrate un privilegio del tutto eccezionale elargitogli dalla divinità e, insomma, un’esperienza che, in qualche modo, trascendesse i limiti dell’umano.
Innanzitutto, è da rilevare che δαιμόνιον è un neutro e che, quindi, non indica un dèmone-persona, ossia un essere personale (una specie di angelo o di genio), bensì un fatto, evento o fenomeno divino: in effetti, mai – né in Platone né in Senofonte – il δαιμόνιον è detto dèmone, ma è detto «segno» o «voce divina».
Tale «segno divino» doveva comunque venire a Socrate tramite un dèmone; tuttavia, egli evitò questa parola e non è corretto tradurre senz’altro δαιμόνιον con «dèmone», perché, così facendo, si esplicita ciò che da Socrate fu volutamente lasciato nell’indeterminato: egli, infatti, preferì attenersi a ciò che sentiva in sé e qualificare come “divino” questo fenomeno, senza approfondire il modo con cui esso avveniva e per quale mediazione.
Ma c’è ancora un punto da chiarire ai fini di una corretta comprensione del δαιμόνιον e cioè l’ambito in cui si colloca la sua influenza. In primo luogo, è da rilevare che il δαιμόνιον non aveva nulla a che veder con l’ambito delle verità filosofiche: la «voce divina» non rivelava affatto a Socrate la «sapienza umana», né gli suggeriva alcuna delle proposizioni generali o particolari della sua etica. Per Socrate, i principi filosofici traevano per intero la propria validità dal λόγος e non da una divina rivelazione: gli atteggiamenti profetici di Pitagora, di Empedocle o anche di Parmenide erano quasi del tutto estranei al nostro filosofo.
Il δαιμόνιον agiva soltanto nell’ambito delle azioni e degli eventi particolari della vita di Socrate, come tutti i testi sul δαιμόνιον socratico a nostra disposizione attestano. Il segno divino, di volta in volta, impediva di compiere determinate azioni (di andarsene da un luogo, di attraversare un fiume, di accogliere nella propria cerchia determinate persone, ecc.) e il non fare quelle azioni risultava poi essere di grande vantaggio. Il più consistente dei divieti rivolti a Socrate fu senza dubbio quello – cui già accennammo – di non occuparsi di politica militante (cfr. Plat. Apol. 33c; Xen. Memor. I 1).
Il δαιμόνιον, con i suoi divieti, rendeva manifesto a Socrate esattamente ciò che gli dèi si erano riserbati per loro e che, talora, rivelavano mediante gli oracoli; ciò era dunque inteso da Socrate come una sorta di oracolo interiore, con tutte quelle implicazioni che abbiamo chiarito.
Socrate. Busto, copia romana in marmo, II sec. d.C. Toulouse, Musée Saint-Raymond.
IV. La dialettica socratica
La funzione protrettica del metodo dialogico – Anche per una corretta interpretazione del “metodo” socratico del filosofare è al nuovo concetto di ψυχή che occorre rifarsi: all’anima e alla cura dell’anima, infatti, tende in modo perfettamente consapevole la dialettica di Socrate con tutti i complessi mezzi di cui essa si avvale.
In primo luogo, è il riferimento alla nuova idea di ψυχή che spiega la drastica rottura con il metodo dei sofisti e il suo capovolgimento. Comune a tutti quanti i sofisti, senza eccezione, era il sistema di insegnamento delle loro dottrine mediante discorsi di parata, vere e proprie arringhe che potevano essere protratte a piacimento – le quali incantavano gli uditori con il fascino della fluente parola, che sembrava inesauribile. E in questi discorsi si alternava sovente la prova logica alla citazione della testimonianza di poeti e, anzi, spesso la citazione teneva il posto della prova logica; con effetto (capziosamente calcolato) di pronta e sicura presa sul pubblico.
Eppure, l’anima dell’uomo non si cura arringando masse di uditori, in cui l’individualità di chi ascolta è quasi del tutto trascurata e ignorata e non si cura con discorsi a senso unico del maestro o di chi tale si crede: la singola anima si cura soltanto con il dia-logo, ossia con il λόγος, che, procedendo per domanda e risposta, coinvolge fattivamente il maestro e il discepolo in un’esperienza spirituale unica di ricerca in comune della verità. Al “discorso lungo” di parata – che è monologo chiuso – si sostituisce così il “discorso breve”, come lo chiama Socrate, che è appunto il dialogo aperto, pronto via via a piegarsi alle esigenze più profonde di coloro che, insieme, ricercano e che mettono a confronto, per così dire, anima con anima.
È dunque evidente che la finalità del metodo dialogico socratico sono, fondamentalmente, di natura etica ed educativa, e secondariamente e mediatamente di natura logica e gnoseologica. La dialettica socratica mira all’esortazione della virtù, a convincere l’interlocutore che l’anima e la sua cura siano il massimo bene per l’individuo, a purificare l’anima saggiandola a fondo appunto con domande e risposte, per liberarla dagli errori e disporla alla verità (cfr. Plat. Lach. 187d ss.; Charm. 154d-e; Apol. 39c-d).
Franc Kavčič, Socrate e Diotima. Olio su tela, 1810.
Il non-sapere socratico – Nella misura in cui rivoluzionario è il fine della dialettica socratica, così, altrettanto rivoluzionario è il suo punto di partenza. Socrate muoveva costantemente dall’affermazione di non-sapere, ponendosi nei confronti dell’interlocutore nella posizione di chi aveva tutto da imparare anziché in quella di chi aveva da insegnare. Anzi, si può dire che fosse precisamente questa affermazione iniziale di non-sapere a rovesciare il “discorso di parata”, ossia il monologo sofistico, e ad aprire la possibilità al dialogo.
Su questo non-sapere si è molto equivocato, fino a vedervi addirittura il principio dello Scetticismo. In realtà, esso va inteso in una chiave del tutto differente, ossia come affermazione di rottura nei confronti del sapere e della speculazione dei Fisici e dei sofisti – e, in genere, della cultura tradizionale – e come apertura a quella nuova forma di sapere che Socrate stesso chiamava «sapienza umana» e che espressamente ammetteva di possedere. L’affermazione socratica del non-sapere nei confronti del sapere dei Fisici significava, come già s’è visto, la denuncia di voler porre in atto un’impresa che andasse oltre le forze e le capacità umane e che, nel vano tentativo di conoscere le segrete leggi del cosmo, trascurasse l’uomo, e così nella vacua ricerca dell’altro da sé dimenticava proprio l’uomo. Nei confronti dei sofisti significava, invece, la denuncia di una presunzione di sapere pressoché sconfinato. Gorgia affermava, con una baldanza che sfiorava l’impudenza, di essere in grado di rispondere a qualunque cosa gli si fosse domandato e che nessuno gli avesse, in realtà, saputo porre domande veramente nuove. Protagora, con altrettanta alterigia, sosteneva di saper rendere ogni giorno migliore colui che lo frequentasse, insegnandogli la virtù politica. Ippia si vantava di sapere e di saper fare di tutto; e così gli esempi si potrebbero moltiplicare. Nei confronti del tradizionale presunto sapere proprio dei politici, dei poeti e dei cultori delle varie arti, infine, l’affermazione socratica del non-sapere significava denunciare un’inconsistenza pressoché totale, derivante dall’essere rimasti alla superficie dei problemi o dal procedere per puro intuito e naturale disposizione, o dalla presunzione di sapere tutto per il solo fatto di dominare una singola arte (cfr. Plat. Apol. 21b-22e).
Ma c’è di più. Il significato dell’affermazione del non-sapere socratico si calibra esattamente solo se lo si mette in relazione, oltre che con il sapere degli uomini, anche con il sapere divino. Già vedemmo sopra come, per Socrate, il dio fosse onnisciente, estendendosi la sua conoscenza dall’universo all’uomo, senza restrizione di sorta, fino ai più reconditi pensieri dell’animo umano. Ebbene, è proprio paragonandolo alla statura di questo sapere divino che il sapere umano si mostra in tutta la sua fragilità e pochezza, e non solo quell’illusorio sapere di cui abbiamo discorso sopra, ma anche la stessa sapienza umana socratica risultano un non-sapere (cfr. Plat. Apol. 23a-b).
Infine, sono da rilevare la valenza e la funzione ironica che l’affermazione del non-sapere gioca all’interno del metodo socratico. Non solo quando era implicata l’affermazione di principio con le precise derivazioni sopra esaminate, ma anche quando c’erano di mezzo anche questioni particolari che Socrate conosceva bene, ma si fingeva “ignorante”. Questa “finzione”, nel caso particolare, provocava l’analogo effetto della proclamazione di principio generale: suscitava l’urto benefico sull’interlocutore da cui nasceva la scintilla del dialogo.
E siamo così giunti a quell’«ironia» che costituì l’elemento più caratteristico del metodo socratico, che ora dobbiamo illustrare.
François-André Vincent, Alcibiade a lezione da Socrate. Olio su tela, 1776.
L’ironia socratica – Ironia significa, in generale, dissimulazione e, nel nostro caso specifico, indica il gioco molteplice e vario di travestimenti e di finzioni che Socrate metteva in atto per costringere il suo interlocutore a dare conto di sé. Nelle sue dissimulazioni il filosofo fingeva addirittura di assumere in proprio idee e metodi della controparte (specie se questi era un uomo di cultura e, in particolare, se un sofista!), per ingrandirli fino al limite della caricatura, oppure per rovesciarli con la stessa logica che era loro propria ed inchiodarli nella contraddizione. Al di sotto delle varie maschere, che via via Socrate indossava, erano sempre visibili i tratti di quella principale, quella del non-sapere e dell’ignoranza (nel senso che abbiamo sopra chiarito). Si può anzi dire che, in fondo, le policrome maschere dell’ironia socratica non erano altro che delle varianti di quella principale e che, con un multiforme gioco di dissolvenze, mettevano sempre a capo questa. Ed era precisamente questa che mandava gli avversari su tutte le furie: la maschera dell’ignoranza che Socrate assumeva era sempre il mezzo più efficace per smascherare l’apparente sapere degli altri e per rivelarne la radicale ignoranza. Ma era altresì questa che, nel modo più efficace, aiutava coloro che, con piena disponibilità, si affidavano al magistero socratico e accettavano di render conto di sé.
Poiché l’ironia, nel senso chiarito, era consustanziale al metodo socratico e lo pervadeva interamente, si può senz’altro dire che la dialettica di Socrate, in quanto tale, può chiamarsi «ironia». E poiché senza dialogo, per il maestro, non c’è filosofia, si può anche asserire che l’ironia è la cifra stessa del filosofare socratico.
William Blake, Socrate, una mente visionaria. Disegno, 1820.
Confutazione (ἔλεγχος) e maieutica – Il primo momento dell’ironia costituiva, per così dire, la pars destruens – cioè il momento in cui Socrate portava colui con cui dialogava a riconoscere la propria presunzione di sapere, e quindi la propria ignoranza. Egli costringeva a definire l’oggetto intorno a cui verteva l’indagine; poi, scavava in vario modo nella definizione, esplicitava le manchevolezze, le contraddizioni a cui essa portava; invitava, quindi, a tentare una successiva definizione e, con il medesimo procedimento, la confutava; così, di seguito, fino al momento in cui l’interlocutore si riconosceva ignorante (cfr. Plat. Soph. 230b-e).
Fu proprio con questo momento confutatorio del proprio metodo che Socrate si procacciò le più vivaci avversioni e le più dure inimicizie, che, al limite, gli valsero la condanna a morte. Ed è chiaro come i mediocri dovessero reagire negativamente a questa confutazione: essi partivano da un’acritica certezza e sicurezza di sapere, venivano più volte messi in scacco fino all’esaurimento di tutte le loro risorse; per conseguenza, si produceva in loro una crisi che derivava, da un lato, dall’improvviso annebbiarsi di ciò che prima rimaneva inconcusso e, dall’altro, dalla mancanza di nuove certezze cui potersi aggrappare. E poiché la superbia impediva loro di ammettere di non sapere, accusavano Socrate di confondere loro le idee e di intorpidirli. Di qui, l’accusa contro Socrate di essere un seminatore di dubbi e, quindi, un corruttore (cfr. Plat. Men. 80a-b). Ma, se sui mediocri, che non ammettevano di riconoscersi ignoranti, era questo l’effetto che produceva la confutazione, ben altro esito essa produceva sui migliori. Essa purificava, in quanto distruggeva non già autentiche certezze, ma apparenti e false convinzioni e, quindi, conduceva non a una perdita, bensì a un guadagno. E ciò consisteva in questo: finché nell’anima ci fossero state false opinioni e false certezze sarebbe stato impossibile raggiungere la verità; eliminate, invece, queste, l’anima restava purificata e pronta a raggiungere, se ne fosse gravida, la verità.
E così passiamo al secondo momento del metodo ironico.
Abbiamo detto che, per Socrate, l’anima poteva raggiungere la verità solo «se ne fosse gravida»; egli, infatti – come abbiamo visto – si professava ignorante e, quindi, negava recisamente di essere in grado di comunicare agli altri un sapere o, per lo meno, un sapere costituito da determinati contenuti. Ma come la donna che è gravida nel corpo ha bisogno dell’ostetrica per partorire, così il discepolo, che aveva l’anima gravida della verità, aveva bisogno di una sorta di spirituale arte ostetrica, che aiutasse questa verità a venire alla luce, e questa era appunto la «maieutica» socratica, che Platone ha descritto nel Teeteto in pagine esemplari (148e-151d).
Arte ostetrica rivolta alla ψυχή, dunque: ecco come Socrate stesso definiva la propria arte ironico-maieutica; e meglio non si potrebbe dire, né meglio si potrebbe rappresentare il ruolo svolto dalla dialettica socratica.
Reyer J. van Blommendae, Santippe versa l’acqua in testa a Socrate. Olio su tela, 1655.
Socrate fondatore della logica? – È stato per lungo tempo un luogo comune l’affermazione che Socrate fosse stato il creatore o lo scopritore del concetto, e che, di conseguenza, fosse stato il fondatore della logica occidentale. Già gli elementi che siamo via via venuti rilevando intorno al metodo ironico socratico sarebbero di per sé sufficienti a togliere ogni plausibilità e fondatezza storica a questa affermazione.
Nel corso del XX secolo è stato messo bene in luce come Aristotele vada sempre preso con estrema cautela come fonte storica, perché egli, più che riferire il pensiero degli autori di cui parla, lo interpretava e lo sistemava in funzione delle proprie categorie. In particolare, la tesi secondo cui Socrate, scoperto l’universale, la definizione e il procedimento induttivo (Metaph. I 6; XIII 4), non potesse essere in alcun modo vera, per il semplice motivo che tali scoperte postulavano tutta una serie di categorie logico-metafisiche (universale-particolare, essenza-concetto, deduzione-induzione) che non solo non erano a disposizione del maestro, ma nemmeno del primo Platone.
Con la domanda «Che cos’è?», con cui Socrate martellava gli interlocutori – come oggi, a livello di studi specializzati, si va riconoscendo –, voleva mettere in moto il processo ironico-maieutico e non voleva affatto giungere a definizioni logiche in modo sistematico. Socrate aprì la via che doveva portare alla scoperta del concetto e della definizione e, prima ancora, alla scoperta dell’essenza (l’εἶδος platonico) ed esercitò anche un notevole impulso in questa direzione, ma non stabilì quale fosse la struttura del concetto e della definizione, mancandogli tutti gli strumenti necessari a questo scopo, che, come già abbiamo detto, risultano scoperte posteriori.
In sintesi, possiamo dire quanto segue:
Socrate ricercava il «che cos’è» delle cose e abituava a fare altrettanto. E ciò non significa affatto che egli avesse scoperto la natura ontologica dell’essenza o – come diceva Aristotele – la natura logica dell’universale e della definizione (di un concetto).
Socrate insegnava che la dialettica procedeva «distinguendo per generi», o «classificando per generi»; anche può ben essere vero (purché, ovviamente, si intenda il termine «genere» in senso non tardo-platonico o aristotelico), giacché il classificare per generi rientrava nel procedimento che mira ad individuare «che cos’è» una cosa.
Socrate, quando voleva risolvere una questione, procedeva discutendo sulla base di quei principi che erano da tutti concordemente accettati (anche se lui stesso eventualmente non li condividesse) e da essi muoveva per trarre le sue conclusioni. Ciò è perfettamente confermato dai dialoghi platonici. L’esempio più eloquente è il Protagora, in cui Socrate, per poter dimostrare che la virtù è scienza – come abbiamo già detto – partiva dal principio da tutti ammesso che il bene e il piacere coincidessero (cosa che lui, personalmente, non ammetteva), traendo da esso una serie di conclusioni (sulle quali aveva cura di garantirsi l’assenso degli uditori) per poter ricavare la propria tesi.
Questo modo di proceder di Socrate si spiega perfettamente soltanto tenendo presente la funzione protrettica della sua dialettica. E lo stesso vale anche per tutti quegli artifici, talora visibilmente capziosi, che ritroviamo specialmente nei primi dialoghi platonici – i quali ricevono la loro giusta interpretazione solo in questa prospettiva. Socrate fu un formidabile ingegno logico, ma non elaborò una logica a livello teoretico; nella sua dialettica si trovano i germi che avrebbero poi portato a future importanti scoperte logiche, ma non consapevolmente formulate.
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Note
[1] Di Socrate conosciamo con certezza la data di morte, che avvenne nel 399 a.C., in seguito a una condanna «per empietà» (egli fu accusato formalmente di non credere negli dèi della città e di corrompere i giovani con le sue dottrine; ma dietro tale accusa si nascondevano risentimenti di vario genere e manovre politiche, come Platone ben dice nell’Apologia di Socrate e nel prologo dell’Eutifrone). Poiché lo stesso Platone ci dice che, al momento della morte, Socrate era sui settant’anni, se ne desume che egli fosse nato nel 470/469 a.C. Suo padre ebbe nome Sofronisco e pare che fosse stato scultore, la madre aveva nome Fenarete ed era stata una levatrice. Socrate si sposò con Santippe (la cui fama di donna insopportabile fu, almeno in gran parte, una posteriore invenzione: la prima notizia sul suo carattere insopportabile proviene da Antistene, che la definisce come la donna «più fastidiosa di quelle che sono, furono e saranno» [Xen., Symp. II 10]; ma si sa quanto i Cinici fossero avversi all’istituzione del matrimonio, come del resto avremo modo di vedere). Al momento della morte, Socrate aveva ancora due figli in giovane età e un figlioletto infante (cfr. Plat. Phaed. 60a) e, dunque, egli doveva aver contratto il matrimonio con Santippe già in età avanzata. Una tradizione posteriore parla anche di un’altra donna di Socrate, di nome Mirto (Diog. Laert. II 26). Se la notizia fosse esatta, si potrebbe pensare che Mirto fosse stata la prima moglie e Santippe la seconda. Socrate non si mosse mai da Atene, se non perché chiamato a partecipare a imprese militari (combatté a Potidea, ad Anfipoli e a Delio). Non volle prender parte alla vita politica, giudicando negativamente i metodi con cui veniva amministrata la cosa pubblica. Ebbe un fisico fortissimo, capace di resistere alle più dure fatiche e di sopportare scalzo e con leggero mantello i rigori del freddo più intenso. Dovette avere momenti di concentrazione assai più vicini a rapimenti estatici, come ci attesta Platone, il quale nel Simposio parla di uno di questi fatti protrattosi un giorno e una notte durante la campagna di Potidea (cfr. Symp. 220c). Di aspetto era brutto e aveva un viso sgraziato da sileno con occhi all’infuori, ma possedeva un fascino assolutamente eccezionale, come un’irresistibile forza che poteva essere e di attrazione e di repulsione. Circa il «démone», o «voce divina», che egli diceva di sentire dentro di sé, diremo nel corso dell’esposizione: già fin d’ora, però, è possibile sottolineare, in base agli elementi che abbiamo addotti, il carattere fortemente religioso dell’uomo Socrate. Nella sua vita sembra ormai sempre più chiaro che vadano distinti due momenti (sia pure in modo molto sfumato): un primo, in cui, partecipando alla cultura filosofica dell’Atene di quei tempi, si occupò dei Fisici. Come già sappiamo, e come vedremo anche più avanti, ci è attestato che Socrate era stato discepolo di Archelao (scolaro di Anassagora). Fino a che punto egli abbia seguito le dottrine di questi Fisici non è possibile dire: del resto, le loro dottrine, allora, attraversavano il momento della crisi finale. E una crisi dovette avere anche Socrate, che, beneficiando della nuova tematica sofistica e, a un tempo, polemizzando con le tesi sofistiche, maturò lentamente quel pensiero che conosciamo da Platone e da Senofonte. Se così è stato, non è estraneo che Aristofane ci presenti un Socrate diversissimo da quello platonico e senofonteo: nel 423 a.C. (anno in cui vennero rappresentate le Nuvole di Aristofane) Socrate aveva quarant’anni; invece, il filosofo che Platone e Senofonte rappresentano è il Socrate della vecchiaia, fra i sessanta e i settant’anni (Platone aveva oltre quarant’anni meno di Socrate). Del resto, i due presunti momenti della vita di Socrate hanno radici, oltre che nei fatti che abbiamo indicato, nello stesso momento storico in cui egli visse. Scrive giustamente A.E. Taylor (Socrates, London 1933; traduzione italiana, Firenze 1952, p. 24): «Non possiamo neanche cominciare a comprendere storicamente Socrate fino a che non abbiamo chiarito a noi stessi che la sua giovinezza e la prima maturità trascorsero in una società separata da quella in cui Platone e Senofonte crebbero, dallo stesso abisso che divide l’Europa pre-bellica da quella post-bellica».
di I. BIONDI, Storia e antologia della letteratura greca, 2, A. Il teatro, Messina-Firenze 2004, 17-19.
Gli studi sul teatro greco di Siracusa e su quelli più antichi del mondo greco (fra cui quelli di Atene e di Epidauro) consentono una conoscenza abbastanza chiara della struttura architettonica dell’edificio e delle tecniche scenografiche in uso nel V secolo a.C., l’età d’oro del dramma attico. Per quanto concerne l’architettura teatrale, la cavea e l’orchestra, in cui agiva il coro, avevano una forma trapezoidale; la scena vera e propria (σκηνή), su cui svolgeva l’azione, era un edificio lungo e basso, a pianta rettangolare, con una fronte decorata rivolta al pubblico. Esso occupava la base dello spazio dell’orchestra ed era coperto da un tetto piano, a cui si poteva accedere dall’interno per mezzo di scalette; vi si trovavano anche i camerini per gli attori e per i coreuti. Il muro della σκηνή, posto di fronte all’orchestra, sosteneva un sistema di meccanismi scenici, consistenti in alti pali formati da più parti a incastro; su di essi venivano montati i telai delle varie scene, dipinti su stoffa o su pelle, riposti, quando non servivano, in una fossa scavata lungo tutto il fronte della σκηνή. Davanti a quest’ultima si trovava una vasta pedana di legno, un po’ più alta del piano dell’orchestra, chiusa alle due estremità da opere in muratura: era il palcoscenico vero e proprio, a cui si accedeva dalla σκηνή attraverso tre porte e da cui si poteva scendere nell’orchestra.
Ricostruzione planimetrica del Teatro di Dioniso, Atene.
Sotto il piano di quest’ultima si trovavano delle fosse attraverso le quali, senza essere visti dagli spettatori, si giungeva direttamente al centro dell’orchestra; venivano usate per simulare il sorgere delle ombre dei defunti dalle profondità della terra (scale caronie), mentre le apparizioni divine erano calate dall’alto per mezzo di carrucole o con una specie di gru, detta μηχανή (di qui l’espressione deus ex machina). Gli ambienti erano di solito costruiti mediante teloni dipinti, montati su leggeri telai di legno, che occupavano tutto il muro frontale della σκηνή, con aperture in corrispondenza delle porte. Per la loro realizzazione ci si rivolgeva a pittori di una certa fama, come Agatarco, che fu scenografo di Eschilo e di Sofocle, oltre che autore di un trattato sulla prospettiva. Qualche notizia sulla scenografia dei vari drammi si può ricavare dagli accenni contenuti nel testo stesso, dagli scolii e dalla pittura vascolare, che si ispirò frequentemente a scene e a personaggi del teatro tragico.
Ipotesi di ricostruzione del Teatro di Dioniso in Atene proposta da Moretti (da MORETTI 2000, p. 297).
Fra le fonti letterarie più tarde si hanno le indicazioni contenute nella Poeticaaristotelica, che si preoccupa soprattutto di evidenziare il processo di catarsi operato sul pubblico dal teatro tragico, grazie alla sua eccezionale efficacia mimetica (VI 6 1449b):
Poiché sono dunque persone in azione che compiono l’imitazione, e per prima cosa ne consegue di necessità che un elemento della tragedia sarà l’allestimento dello spettacolo; poi la musica e il linguaggio: in questo modo, infatti, essi realizzano l’imitazione.
Secondo le forme dell’arte, la μίμησις dell’azione era il risultato di tre elementi essenziali, che interagivano costantemente: ὁ τῆς ὄψεως κόσμος («l’allestimento dello spettacolo»), la μελοποιία (la «sintesi di musica vocale e strumentale») e la λέξις (il «linguaggio»).
A proposito dell’allestimento scenico, l’opera di massimo impegno fu probabilmente, verso la metà del V secolo a.C., l’Orestea di Eschilo, la sola che possa darci un’idea di quali fossero le necessità scenotecniche di un’intera trilogia. Le indicazioni contenute nel testo di ciascuno dei drammi, infatti, ci fanno pensare che tutte le scene dovessero essere già montate fin dall’inizio sui pali della σκηνή, l’una a ridosso dell’altra. Bisogna dire che gli scenografi non si proponessero un eccessivo realismo: pur ispirandosi alle forme e alle strutture dell’architettura loro contemporanea, essi preferivano risultati decorativi piuttosto imitativi, come possiamo dedurre dalle pitture vascolari che riproducono scene di tragedia con edifici dalle forme stilizzate, esili e snelle.
Policleto il Giovane, Teatro di Epidauro, 360 a.C. c. [veduta aerea].La scelta dei colori prediligeva toni piuttosto vivaci sia nella scenografia sia nei costumi di coreuti e attori – altro importante elemento ai fini dell’effetto generale; una così ricca policromia di rossi, azzurri, gialli e bianchi sarebbe un po’ troppo accentuata per il nostro gusto, ma forse non sembrava tale alla luce del giorno, in piena primavera mediterranea: era infatti questa la stagione delle Grandi Dionisie, in cui avevano luogo gli agoni tragici e le rappresentazioni dei drammi.
Il teatro antico faceva uso anche di meccanismi abbastanza sofisticati, il più comune dei quali era la già ricordata μηχανή, o «gru» (il primo a servirsene sarebbe stato Euripide), con la quale si calava dall’alto, sulla scena, l’attore che interpretava la parte di una divinità. Vi era poi l’ἐκκύκλημα, una sorta di «piattaforma girevole», che serviva per aprire il fondo della scena e mostrare agli spettatori l’interno di un edificio e delle sue stanze; funzione analoga aveva l’ἐξώστρα, una specie di «balcone» mobile che poteva essere spinto fuori quando le esigenze sceniche lo richiedevano. Meccanismi come il κεραυνοσκοπεῖον e il βροντεῖον, le «macchine» dei fulmini e dei tuoni, permettevano di ottenere effetti speciali di luce e di suono.
Ricostruzione schematica delle principali macchine teatrali in uso sulla σκηνή (link).
Le nostre conoscenze della musica greca antica sono abbastanza numerose e approfondite per farci capire l’importanza attribuita a quest’arte nel mondo ellenico, ma troppo ridotte e frammentarie per consentircene la conoscenza diretta.
Il mondo greco non considerò né praticò mai la musica come un’arte a sé stante, ma la vide sempre come un complemento non solo della poesia e della danza, ma anche della recitazione, dello sport e delle attività militari. Il legame più stretto fu, da sempre, quello con la poesia, perché la lingua ellenica, melodica e ritmica per sua stessa natura, fece sì che i Greci sentissero la musica come un abbellimento della parola cantata o declamata, privilegiando questo suo uso rispetto a quello puramente strumentale. Questa «unione di parole e di suoni», indicata con il termine μελοποιία, caratterizzò sempre le principali manifestazioni artistiche, sportive, religiose della vita sociale pubblica e privata.
Pittore Epitteto. Sileno con aulos. Pittura vascolare da kylix attica a figure rosse, c. 520-500 a.C. da Vulci. Paris, Cabinet des Médailles.
In ambito teatrale, la musica apparve come un secondo linguaggio, adatto a esprimere, come quello parlato, sentimenti, passioni e stati d’animo; il suo carattere prevalente era la melodia, tanto che anche i cori cantavano all’unisono. L’accompagnamento strumentale, assai semplice, si limitava a raddoppiare il canto, oppure aggiungeva suoni di abbellimento consoni o dissoni rispetto alla voce dell’attore; lo strumento poteva riempire con qualche nota anche le pause della voce, ma, in genere, questi interventi strumentali erano solo decorativi.
La tradizione attribuisce a Eschilo parecchie innovazioni nell’ambito della tragedia, fra cui il progressivo ampliarsi delle parti dialogate rispetto a quelle corali, con la conseguente necessità di un’approfondita ricerca linguistica, propria, pur con aspetti diversi, anche di Sofocle e di Euripide. Tutti riuscirono, infatti, al di là delle loro scelte soggettive, a esercitare sugli spettatori un potente effetto psicagogico (e quindi, secondo Aristotele, catartico), al quale contribuivano tutti gli strumenti dell’«imitazione» (μίμησις): l’allestimento scenico dello spettacolo, la musica e il linguaggio.
Aristofane e Sofocle. Doppia erma, marmo, 130 d.C. dalla villa di Adriano a Tivoli. Paris, Musée du Louvre.
La struttura della tragedia, quale noi la conosciamo attraverso i drammi che ci sono pervenuti, rappresenta il punto di arrivo di un lungo processo di sviluppo; uno degli aspetti di questo percorso evolutivo è rappresentato dallo spazio sempre maggiore concesso al dialogo rispetto alle parti corali, che andarono progressivamente riducendosi. Una volta entrato in scena, il coro, formato al tempo di Eschilo da dodici elementi (che divennero quindici all’epoca di Sofocle), si disponeva secondo uno schema quadrangolare, dividendosi in due semicori. Guidati da un corifeo, i coreuti innalzavano il loro canto, in armonia con la musica dei flauti ed eseguivano le complesse figure dell’ἐμμέλεια, una danza austera e solenne.
Sia gli attori che i coreuti portavano la maschera, dapprima preciso riferimento rituale al culto dionisiaco, in seguito semplice strumento teatrale, destinato a connettere i personaggi secondo tipi fissi (uomo, donna, giovane, vecchio, re, araldo, sacerdote, dio) e forse anche ad amplificare la voce dell’attore.
I costumi indossati dagli attori tragici erano ricchissimi e tali da aumentare l’imponenza della figura; a ciò contribuivano, in età più tarda, anche i coturni, calzari forniti di una suola di sughero assai alta.
Pittore di Pronomo. Eracle e Papposileno (dettaglio). Pittura vascolare da un cratere a volute apulo a figure rosse, 400 a.C. c. da Ruvo di Puglia. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
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