Plut. Alex. 3, 3-5 (20 luglio 356 a.C. – Nascita di Alessandro)

di PlutarcoVite parallele, Alessandro-Cesare-Pericle-Fabio Massimo, a cur. di AA.VV., Milano 2009, pp. 50-53.

 

[3] ἐγεννήθη δ᾽ οὖν Ἀλέξανδρος ἱσταμένου μηνὸς Ἑκατομβαιῶνος, ὃν Μακεδόνες Λῷον καλοῦσιν, ἕκτῃ, καθ᾽ ἣν ἡμέραν ὁ τῆς Ἐφεσίας Ἀρτέμιδος ἐνεπρήσθη νεώς ᾧ γ᾽ Ἡγησίας ὁ Μάγνης (FGrH. 142 F 3) ἐπιπεφώνηκεν ἐπιφώνημα κατασβέσαι τὴν πυρκαϊὰν ἐκείνην ὑπὸ ψυχρίας δυνάμενον εἰκότως γὰρ ἔφη καταφλεχθῆναι τὸν νεών τῆς Ἀρτέμιδος ἀσχολουμένης περὶ τὴν Ἀλεξάνδρου μαίωσιν. [4] ὅσοι δὲ τῶν μάγων ἐν Ἐφέσῳ διατρίβοντες ἔτυχον, τὸ περὶ τὸν νεών πάθος ἡγούμενοι πάθους ἑτέρου σημεῖον εἶναι, διέθεον τὰ πρόσωπα τυπτόμενοι καὶ βοῶντες ἄτην ἅμα καὶ συμφορὰν μεγάλην τῇ Ἀσίᾳ τὴν ἡμέραν ἐκείνην τετοκέναι. Φιλίππῳ δὲ ἄρτι Ποτείδαιαν ᾑρηκότι τρεῖς ἧκον [5] ἀγγελίαι κατὰ τὸν αὐτὸν χρόνον ἡ μὲν Ἰλλυριοὺς ἡττᾶσθαι μάχῃ μεγάλῃ διὰ Παρμενίωνος, ἡ δὲ Ὀλυμπίασιν ἵππῳ κέλητι νενικηκέναι, τρίτη δὲ περὶ τῆς Ἀλεξάνδρου γενέσεως, ἐφ᾽ οἷς ἡδόμενον, ὡς εἰκὸς, ἔτι μᾶλλον οἱ μάντεις ἐπῆραν ἀποφαινόμενοι τὸν παῖδα τρισὶ νίκαις συγγεγεννημένον ἀνίκητον ἔσεσθαι.

Alessandro caccia il leone. Mosaico pavimentale, III sec. a.C. Pella Museum.

Comunque sia, Alessandro nacque al principio del mese di Ecatombeone, che i Macedoni chiamano “Loo”, esattamente il sesto giorno[1], lo stesso nel quale bruciò il tempio di Artemis a Efeso[2]. Fu in questa occasione che Egesia di Magnesia[3] pronunciò quella battuta che poteva spegnare quell’incendio, fredda come era: disse, infatti, che era naturale che bruciasse il tempio di Artemis, perché la dea era impegnata a portare alla luce Alessandro. Ma i magi che si trovavano a Efeso, ritenendo che la distruzione del tempio fosse il segno di un altro disastro, correvano per la città colpendosi il volto e gridando che in quel giorno era stata generata un’altra grande sventura per l’Asia. A Filippo, che aveva appena presa Potidea, giunsero nello stesso tempo tre notizie[4]: che gli Illiri erano stati sconfitti in una grande battaglia da Parmenione; che aveva vinto a Olimpia nella corsa dei cavalli e che gli era nato Alessandro. Si compiacque delle notizie, come è naturale, ma ancor più lo esaltarono gli indovini, affermando che invincibile sarebbe stato il figlio che era nato accompagnato da tre vittorie.

Artemide. Statua, bronzo, II sec. a.C., da Efeso. London, British Museum.

 

***

Note:

[1] La determinazione cronologica è di estrema difficoltà: sembra si sia trattato del 20 luglio 356 a.C.

[2] A Efeso furono costruiti successivamente parecchi templi in onore di Artemis: quello cui qui si allude fu incendiato da un certo Erostrato, che intendeva in tal modo guadagnarsi fama perenne.

[3] Nativo di Magnesia sul Sipilo, fu autore di una storia di Alessandro ed esponente di rilievo di una scuola retorica definita “asiana”, che Cicerone critica severamente.

[4] Certamente questo sincronismo non è esistito, ed è ricordato per motivi adulatori; infatti, Filippo prese Potidea nella primavera del 356, mentre la vittoria di Parmenione sugli Illiri è dell’estate dello stesso anno; i giochi ebbero poi luogo nel luglio-agosto del medesimo.

Callino, fr. 1 West

di F. Ferrari, La porta dei canti. Storia e antologia della lirica greca, Bologna 2000, pp. 89-92. Cfr. I. Biondi, Storia e antologia della letteratura greca. Vol. I – Dalle origini al V secolo a.C., Firenze 2004, pp. 319-320.

 

Verso la metà del VII secolo a.C. i Cimmeri, dopo aver abbandonato le loro sedi a nord del Mar Nero ed essersi spinti verso il Caucaso, attraversarono l’Asia minore commisti ad altri gruppi (fra cui in particolare i Treri, su cui cfr. fr. 4 West: Τρήρεας ἄνδρας ἄγων, «conducendo uomini treri») e sospinti a loro volta da scorrerie scitiche, invasero lo stato lidio di Gige conquistando Sardi (nel 652 a.C., dopo averla messa a ferro e fuoco) e distruggendo Magnesia sul Meandro, e infine si riversarono su alcune città ioniche della costa dell’Egeo, fra cui Smirne ed Efeso (cfr. Mazzarino, 130-135). Appunto nell’ambito di una scorreria contro Efeso un poeta di questa città, quel Callino che Aristotele (fr. 676 Rose) e Didimo di Alessandria (cfr. Orione s.v. ἔλεγος, «canto») consideravano il più antico poeta elegiaco, esorta i concittadini a ridestarsi dal torpore che li paralizza e a lottare a difesa della pólis e del suo territorio. Le informazioni sulla biografia di questo poeta sono oltremodo scarse: le uniche notizie che riusciamo a racimolare provengono da fonti indirette letterarie. Callino visse verso la metà del VII secolo a.C., un po’ prima di Archiloco, secondo la testimonianza di un verso di quest’ultimo, citato dal geografo Strabone (Geografia, XIV 1, 4). Data la grande affinità con le elegie di Tirteo, si è in genere supposto che anche quelle di Callino, e in particolare il fr. 1 West (l’unico di una certa ampiezza – 21 versi – che di lui ci sia pervenuto), fossero recitati sul campo di battaglia. Questo frammento è tramandato da Giovanni Stobeo (IV 10, 12) all’interno della rubrica “elogio dell’ardimento”.

Cavaliere. Statuetta, bronzo, 560-550 a.C. da Grumetum (Lucania). London, British Museum
Cavaliere. Statuetta, bronzo, 560-550 a.C. da Grumetum (Lucania). London, British Museum.

D’altra parte proprio l’attacco del brano, segnato dall’antitesi fra l’attuale «stare distesi» e l’esortazione (παραίνεσις) a mostrare per il futuro animo prode, ha più plausibilmente suggerito lo scenario di un simposio (cfr. Tedeschi 1991, 95-104): il poeta esorterebbe i presenti a disertare i conviti e le feste, cui ora si abbandonano ignari, ad abbandonare la vita di mollezze e agi cui erano ormai avvezzi, per organizzarsi di fronte al pericolo contro di cui già lottano le comunità vicine. Dobbiamo considerare che questi 21 versi non sarebbero altro che la continuazione (preceduta, con ogni probabilità, da una lacuna) dell’esortazione vera e propria; qui si descrive essenzialmente l’azione della guerra finalmente intrapresa per cacciare i barbari invasori, e il poeta si lascia trasportare a un’esortazione dal tono decisamente epico (il debito di Callino con l’epos omerico è evidentissimo). Del resto, qui, per la prima volta nella letteratura greca – almeno per quanto ci è dato sapere – in questi versi la celebrazione di personaggi e di eventi mitici scompare per lasciare spazio all’esaltazione di un nuovo tema: il senso della collettività e la consapevolezza degli obblighi che legano il cittadino alla patria. Di fronte alla minaccia nemica, che può rappresentare un rischio per la sopravvivenza della stessa pólis, l’uomo coraggioso, l’ἀνήρ per antonomasia, non può e non deve pensare a se stesso, ma al contesto affettivo e sociale in cui vive, rappresentato dalla famiglia e dalla sua città, trovando in sé la forza per affrontare il pericolo e la morte; e se da solo «compie imprese degne di molti», proprio come gli eroi e i semidei cui gli Ioni facevano risalire la propria stirpe, la lode e il ricordo non gli sarebbero stati tributati grazie al canto degli aedi, ma sarebbero scaturiti dalla riconoscenza e del rimpianto dei suoi stessi concittadini. A sostegno della nuova concezione esistenziale, il poeta non nega i tradizionali valori dell’antica aristocrazia, ma li modifica e non li considera più qualità esclusive di singoli individui, determinate dall’appartenenza di sangue a una classe sociale privilegiata, ma li estende all’intera comunità della pólis, creando la figura del cittadino-combattente e conferendo al valore guerriero un diverso significato e un nuovo scopo, che s’identifica nello spirito di sacrificio per la salvezza della comunità.

L’esortazione è articolata ora attraverso interrogative concatenate (vv. 1-3), ora per imperativi perentori (vv. 5 e 9), e viene puntellata da sequenze raziocinanti, spesso marcate da γάρ («infatti»; cfr. vv. 6, 12, 18, 20), tese a sottolineare i vantaggi, anche pratici, del coraggio. Così il brano si sviluppa secondo sezioni ben definite, ora riflessive ora parenetiche: di qui un’enfasi ben distribuita, elaborata anche con l’impiego studiato dell’enjambement (cfr. in particolare vv.  2, 8, 13, 15: si tratta, per gli ultimi tre, di enjambement “periodici”, tali cioè che coinvolgono la nervatura del periodo sintattico) e di altri stilemi quali l’iperbato (lo stacco fra μάχεσθαι, «combattere», e δυσμενέσιν, «contro i nemici», ai vv. 6-8, e fra θάνατόν γε φυγεῖν, «sfugga alla morte», e ἄνδρα, «un uomo», ai vv. 12 s.) e l’espressione “polare” (v. 17).

I valori individualistici del mondo omerico appaiono calati in un contesto civico ben più ampio e diversificato, che ha di mira tanto i ricchi che i meno abbienti (cfr. v. 17), in funzione di un destinatario che (seppur probabilmente rappresentato dal simposio aristocratico) tende a identificarsi, almeno come mostra il carattere generalizzato delle allocuzioni, dapprima ai νέοι («giovani», v. 2) e poi a un onnicomprensivo τις, («ciascuno», vv. 5 e 9).

 

Fonte: Stobeo IV 10, 12 all’interno della rubrica ἔπαινος τόλμης («elogio dell’ardimento»)

Metro: Il distico elegiaco (ἐλεγεῖον) è costituito da un esametro dattilico e dal cosiddetto pentametro, il quale solo apparentemente consiste nella giustapposizione di cinque metra, ma in realtà deriva dalla duplicazione del colon detto hemiepes maschile.

 

ˉ˘˘ˉ˘˘ˉ˘˘ˉ˘˘ˉ˘˘ˉ˘

ˉ˘˘ˉ˘˘ˉ‖ˉ˘˘ˉ˘˘ˉ

 

Μέχρις τεῦ κατάκεισθε; κότ᾽ ἄλκιμον ἕξετε θυμόν,

ὦ νέοι; οὐδ᾽ αἰδεῖσθ᾽ ἀμφιπερικτίονας

ὧδε λίην μεθιέντες; ἐν εἰρήνηι δὲ δοκεῖτε

ἧσθαι, ἀτὰρ πόλεμος γαῖαν ἅπασαν ἔχει.

…………………………………………

καί τις ἀποθνήισκων ὕστατ᾽ ἀκοντισάτω.

τιμῆέν τε γάρ ἐστι καὶ ἀγλαὸν ἀνδρὶ μάχεσθαι

γῆς πέρι καὶ παίδων κουριδίης τ᾽ ἀλόχου

δυσμενέσιν· θάνατος δὲ τότ᾽ ἔσσεται, ὁκκότε κεν δὴ

Μοῖραι ἐπικλώσωσ᾽· ἀλλά τις ἰθὺς ἴτω

ἔγχος ἀνασχόμενος καὶ ὑπ᾽ ἀσπίδος ἄλκιμον ἦτορ

ἔλσας, τὸ πρῶτον μειγνυμένου πολέμου.

οὐ γάρ κως θάνατόν γε φυγεῖν εἱμαρμένον ἐστὶν

ἄνδρ᾽, οὐδ᾽ εἰ προγόνων ἦι γένος ἀθανάτων.

πολλάκι δηϊοτῆτα φυγὼν καὶ δοῦπον ἀκόντων

ἔρχεται, ἐν δ᾽ οἴκωι μοῖρα κίχεν θανάτου.

ἀλλ᾽ ὁ μὲν οὐκ ἔμπης δήμωι φίλος οὐδὲ ποθεινός,

τὸν δ᾽ ὀλίγος στενάχει καὶ μέγας, ἤν τι πάθηι·

λαῶι γὰρ σύμπαντι πόθος κρατερόφρονος ἀνδρὸς

θνήισκοντος, ζώων δ᾽ ἄξιος ἡμιθέων·

ὥσπερ γάρ μιν πύργον ἐν ὀφθαλμοῖσιν ὁρῶσιν·

ἔρδει γὰρ πολλῶν ἄξια μοῦνος ἐών.

 

Fino a quando ve ne starete distesi?[1] Quando, o giovani,

avrete animo prode[2]? E non avete vergogna[3] dei vicini,

così esageratamente rilassando le vostre energie? E

credete di sedere in pace, ma la guerra domina tutto

[il territorio.

…………………………………………………..

…e ciascuno morendo scagli il giavellotto per l’ultima volta.

Infatti, è cosa onorevole e magnifica per un uomo combattere

per la sua terra e per i figli e per la sposa legittima

contro i nemici[4]; e la morte allora sarà quando

le Moire[5] (la) fileranno; ma, suvvia, ciascuno avanzi diritto

sollevando l’asta e stringendo sotto lo scudo un cuore

intrepido, non appena si accenda la mischia di guerra.

Infatti, non è in alcun modo predestinato che

un uomo sfugga alla morte, neppure se è prole di progenitori

immortali. Spesso, sfuggito alla mischia e al rombo dei giavellotti

ritorna, ma in casa lo coglie destino di morte,

ma l’uno (il disertore), tuttavia, non è caro al popolo né è degno

di rimpianto, l’altro invece lo piangono l’umile e il grande

se gli capita qualcosa: perché c’è compianto nel popolo tutto

per l’uomo prode, se muore, ma se sopravvive è degno dei semidei:

perché lo vedono nei loro occhi come una torre:

compie, infatti, pur essendo solo, imprese degne di molti.

Aryballos in ceramica a forma di testa di guerriero elmata, VI sec. a.C. dalla Grecia orientale. New York, Metropolitan Museum of Art
Aryballos in ceramica a forma di testa di guerriero con elmo, VI sec. a.C. dalla Grecia orientale. New York, Metropolitan Museum of Art.

*********************************

Note:

[1] Cfr. Iliade XXIV, 128.

[2] Cfr. Tirteo fr. 10, 17.

[3] La αἰδώς, il senso di vergogna e di scrupolo che il guerriero prova di fronte alla prospettiva di mostrarsi vile, è fondamentale nella concezione omerica della virtù guerresca, ma questo sentimento viene qui riferito al rapporto con la comunità (cfr. Odissea II, 64 s.).

[4] Cfr. Iliade XV, 494-499: «su, combattete contro le navi; e chi fra di voi, ferito o colpito, debba incontrare destino di morte, muoia: non è sconveniente per lui morire difendendo la patria, ma sono salvi per il futuro la sposa e i figli, e intatti i beni e la casa, se mai gli Achei se ne andranno con le navi dalla terra paterna».

[5] Le dee del destino, corrispondenti alle Parche romane, che presiedono alla μοῖρα o “porzione” di vita assegnata a ciascuno.