Iʙʏᴄ. 𝑃𝑀𝐺𝐹 S151 = fr. 1 P., 1-44 (P. Oxy. 1790+2081f) – L’Ode a Policrate

“… e quelli che[1] di Priamo Dardanide[2] la grande cittadella illustrissima opulenta distrussero, scagliandosi da Argo[3], secondo il volere del grande Zeus[4], per l’aspetto di Elena bionda, con lotta da molti cantata[5], nella lacrimevole guerra[6]. Salì la martoriata Pergamo la rovina[7], per via di Cipride dai capelli d’oro.

Ora, io però né Paride traditore degli ospiti desidero cantare e nemmeno Cassandra dalle lunghe caviglie e gli altri figliuoli di Priamo, e di Troia dagli alti portali il dì predace a cui non si dà nome[8], … il valore superbo degli eroi, e coloro che le concave, ben chiodate navi condussero a Troia, sventura, eroi prodi; ne era il signore Agamennone Plistenide al comando, re condottiero d’uomini[9], figlio della famiglia di Atreo prode. Son cose che le Muse istruite saprebbero ben passare in racconto, le figlie di Elicone[10]; ma non può dire un uomo mortale, pur vivo (…) i dettagli, quanto grande fu il numero di navi che da Aulide[11] per il mar Egeo, a partire da Argo, arrivarono a Troia che nutre i cavalli, coi forti figli degli Achei, dal bronzeo scudo; tra loro il migliore di lancia… il piè veloce Achille e il grande Telamonio[12] Aiace ardimentoso…; … il più bello da Argo… Cianippo verso Ilio… intrecciata d’oro Illide[13] generò, al quale, invero, Troilo, come l’oro tre volte bollito all’oricalco, ormai i Troiani e i Danai per forma amabile rassomigliavano. Con loro per sempre anche tu di bellezza, o Policrate, fama immortale avrai, come anche la mia fama, per il canto”.

𝐾𝑜𝑢𝑟𝑜𝑠 di Reggio (o Efebo di Reggio). Statua, marmo pario, VI sec. a.C. Reggio Calabria, Museo Archeologico della Magna Grecia

Un papiro scoperto nel 1922 e redatto nel 130 a.C. (𝑃. 𝑂𝑥𝑦. 1790 + 2081f) da uno scriba competente – capace di riconoscere i 𝑐𝑜𝑙𝑎 metrici già individuati per i lirici da Aristofane di Bisanzio (III-II secolo a.C.) e le forme doriche, e di precisare l’accentuazione e la prosodia dei termini meno conosciuti – ha restituito i 48 versi finali (lo attesta con certezza un segno posto in margine all’ultimo verso), articolati in tre triadi (strofe, antistrofe ed epodo) e mezza (forse l’intero componimento, privo della strofe iniziale, o al più di una triade e una strofe) e caratterizzati da un ritmo dattilico (per lo più pentametri dattilici, ℎ𝑒𝑚𝑖𝑒𝑝𝑒, enopli), dell’encomio che Ibico dedicò alla straordinaria bellezza di un giovane Policrate: che si trattasse del futuro tiranno (che regnò su Samo fra il 533 e il 522 a.C.), quando ancora apparteneva alla 𝑗𝑒𝑢𝑛𝑒𝑠𝑠𝑒 𝑑𝑜𝑟𝑒́𝑒 dell’isola, ovvero del suo omonimo figlio, di cui fu poi precettore Anacreonte (cfr. 𝑃𝑀𝐺 491), dipende in definitiva dalla controversa cronologia di Ibico (𝑃𝑀𝐺𝐹 TA 1-2) e non può essere stabilito con sicurezza; certa è invece l’eroizzazione del giovane sottesa all’encomio, che unisce il passo mitico (vv. 1-45) e realtà presente (vv. 46-48) in un unico tempo, signoreggiato da Afrodite (v. 9) e dalla bellezza (v. 46), ed eternato dal potere del canto poetico (vv. 47 s.).

Come anche altrove (per es., 𝑃𝑀𝐺𝐹 289a, dove il giovane Gorgia è paragonato a Ganimede e a Titonoo, rapiti per la loro bellezza da Zeus e da Aurora), Ibico costruisce su illustri 𝑒𝑥𝑒𝑚𝑝𝑙𝑎 mitici le basi del proprio encomio. E come Saffo era ricorsa al tradimento di Elena e alla guerra di Troia per cantare congiuntamente la potenza di Afrodite e la bellezza di Anattoria (fr. 16 V.), così anche Ibico si richiama al più celebre dei miti greci per celebrare la forza irresistibile di Cipride e l’immortale fascino di Policrate. Dopo una probabile invocazione proemiale (contenuta nella strofe o nella triade + strofe perduta), il poeta passava a narrare come gli Achei, «slanciandosi da Argo» (v. 3; cfr. 𝐼𝑙. II 559; il verbo è omerico e l’integrazione di Hunt assai verosimile), distrussero «la grande cittadella illustrissima opulenta» (vv. 1-2; il cumulo di aggettivi a incorniciare il sostantivo è tipico dello stile ibiceo: cfr. vv. 14-15, 16-17, 34, 44-45, 𝑃𝑀𝐺𝐹 286, 5-6, 11, 287, 6) di Priamo, figlio di Dardano (v. 1; anche l’uso di patronimici è frequente in Ibico; cfr. vv. 21, 34; 𝑃𝑀𝐺𝐹 S166, 15): furono la volontà di Zeus (v. 4, con la probabile integrazione di Hunt), secondo il dettato dei 𝐶𝑎𝑛𝑡𝑖 𝐶𝑖𝑝𝑟𝑖 (fr. 1, 7 West), e l’aspetto della bionda Elena (v. 5 ξα]ν̣θᾶς Ἑλένας περὶ εἴδει: Elena è bionda anche in Sᴀᴘᴘʜ. fr. 23, 5 V. e in Sᴛᴇsɪᴄʜ. 𝑃𝑀𝐺𝐹 S103, 5) a causare quella lotta che ispirò tanti canti (v. 6 πολύυμνον: l’aggettivo è in 𝐻. 𝐻𝑜𝑚. 26, 7, detto di Dioniso, e in Pɪɴᴅ. 𝑁. 2, 5, detto del «bosco di Zeus»), quella guerra lacrimevole (v. 7 πό]λ̣εμον̣ κ̣ατὰ δ̣ακρυ̣[ό]εντα: per la clausola, cfr. 𝐼𝑙. XVII 512), quando la «rovina» (v. 8 [ἄ]τ̣α) salì la «martoriata» (ταλαπείριο̣[ν: cfr. 𝑂𝑑. VI 193, XIV 511, XVII 84) Pergamo per colpa di un’altra, ancor più potente «bionda» (l’epiteto χρυσοέθειρ era già in Aʀᴄʜɪʟ. fr. 323 W.²): Cipride (v. 9).

Le lacrime, come le guerre, non si addicono all’εὐφροσύνη del simposio. Per questo Ibico inizia una lunga 𝑝𝑟𝑎𝑒𝑡𝑒𝑟𝑖𝑡𝑖𝑜 (vv. 10-45), che gli consente di sorvolare (vv. 10-11 νῦ]ν̣ δέ μοι οὔτε … /..] ἐπιθύμιον, «ora, io però né […] desidero»: per la movenza cfr. Aʟᴄ. fr. 308, 1-2 V., in un contesto innodico) – pur protraendo la narrazione per altre due triadi e mezza – sulle nefandezze di Paride «traditore degli ospiti» (v. 10 ξειναπάτ̣α̣ν: cfr. Aʟᴄ. fr. 283, 5 V.), su Cassandra dalle caviglie lunghe e sottili (v. 11 τανί[σ]φ̣υρ[ον: cfr. Hᴇs. 𝑇ℎ𝑒𝑜𝑔. 364, delle Oceanine, τανύσφυροι Ὠκεανῖναι, e Sᴀᴘᴘʜ. fr. 44, 15 V. παρθενίκα[ν] τ..[..].σφύρων), e ancora sul «dì predace e a cui non si dà nome di Troia dagli alti portali» (la fiorita formula contamina Sᴛᴇsɪᴄʜ. 𝑃𝑀𝐺𝐹 S89, 11, Τρο‹ΐ›ας ἁλώσι̣[μον ἆμαρ «il dì predace di Troia dagli ampi spazi», con l’aggettivo omerico ὑψίπυλος, riferito a Troia in 𝐼𝑙. XVI 698, XXI 544; quanto «a cui non si dà nome», cfr. Pɪɴᴅ. 𝑃. 1, 82), sul «valore superbo» (ὑπ]εράφανον: cfr. 𝐼𝑙. XI 694, Hᴇs. 𝑇ℎ𝑒𝑜𝑔. 149, Sᴏʟ. fr. 4, 36 W.²) degli eroi e sulle «concave ben chiodate navi» (vv. 17-18 κοίλα̣[ι / νᾶες] πολυγόμφοι̣: ancora un nesso plurideterminato, che contamina 𝐼𝑙. I 20 «presso le concave navi», e Hᴇs. 𝑂𝑝. 660, νηῶν … πολυγόμφων, «di navi ben chiodate») che li condussero come una sventura a Troia (v. 19). E qui, il poeta si concede un erudito 𝑒𝑥𝑐𝑢𝑟𝑠𝑢𝑠 di ben due versi (e di sapore quasi pre-alessandrino) sulla complessa e discussa genealogia del capo di quel manipolo di «eroi prodi» (v. 19): «il signore Agamennone Plistenide, re condottiero d’uomini, figlio della famiglia d’Atreo prode» (vv. 20-22), con la sua sovrabbondanza, tipicamente ibicea, di determinazioni, rappresenta una sorta di sfumato compromesso tra l’albero genealogico omerico (per cui Agamennone e Menelao erano figli di Atreo, a sua volta figlio di Plistene: cfr. 𝐼𝑙. II 576-577, su cui sono chiaramente rifatti i vv. 20-22) e quello dorico-occidentale (per cui Plistene era figlio di Atreo e padre di Agamennone: cfr. per es. Hᴇs. frr. 194-195 M.-W. = 137-138 Most, Sᴛᴇsɪᴄʜ. 𝑃𝑀𝐺𝐹 219).

L’𝑒𝑥𝑐𝑢𝑟𝑠𝑢𝑠 richiede una nuova giustificazione, che puntualmente arriva ai vv. 23-26, e offre il destro per altri 20 versi di 𝑝𝑟𝑎𝑒𝑡𝑒𝑟𝑖𝑡𝑖𝑜. Le Muse, «esperte» (v. 23 σεσοφ̣ι̣[σ]μ̣έναι: il participio era già in Hᴇs. 𝑂𝑝. 649), «Eliconidi», saprebbero «ben passare in racconto» (v. 24 εὖ… ἐμβαίεν λόγῳ, ma il testo è incerto metricamente) queste vicende, a differenza di un «uomo mortale» (v. 25 θνατ[ὸ]ς… ἀνὴρ, a incorniciare il verso) che, per quanto «vivo» (v. 26 διερός, il cui senso è quello di «sveglio», «abile», ma il termine riprende ironicamente il precedente «mortale»), non potrebbe registrare ogni dettaglio (v. 26): per esempio – e la narrazione può continuare – quante navi, attraverso il mar Egeo, «da Aulide» (v. 27), anzi «da Argo» (la clausola del v. 28 corregge quella del verso precedente e riprende probabilmente l’𝑖𝑛𝑐𝑖𝑝𝑖𝑡 del v. 3 Ἄργ]ο̣θεν), giunsero a Troia «che nutre i cavalli» (v. 30 ἱπποτρόφο̣[ν: in Hᴇs. 𝑂𝑝. 507 l’epiteto qualifica la Tracia, διὰ Θρῄκης ἱπποτρόφου, in Pɪɴᴅ. 𝑁. 10, 41-42 Corinto), piene di «forti» (φώτ̣ες, qui con l’accento dorico, è sostanzialmente sinonimo di «eroi»), «figli di Achei» (v. 31: 40 volte in clausola nei poemi omerici) «dal bronzeo scudo» (χ]αλκάσπι̣[δες: l’epiteto parrebbe una neoformazione, e piacerà a Pindaro, che lo riuserà almeno tre volte), il migliore dei quali, almeno quanto alla lancia, fu «il piè veloce Achille» (30 volte in clausola nell’𝐼𝑙𝑖𝑎𝑑𝑒), topicamente seguito a ruota dal «grande Telamonio Aiace ardimentoso» (v. 34: nuova ipertrofica contaminazione delle formule omeriche «grande Aiace Telamonio» [per es., 𝐼𝑙. V 610] e «Telamonio Aiace ardimentoso» [cfr. 𝐼𝑙. XII 349 e 362]).

Insomma, l’ode appare come un esempio estremo di una tendenza caratteristica della lirica arcaica, quella a costruire interi componimenti tramite l’espansione di un determinato modulo compositivo: qui si tratta dello schema della 𝑟𝑒𝑐𝑢𝑠𝑎𝑡𝑖𝑜, per cui il rifiuto a cantare un determinato tema viene sfruttato come elemento compositivo (secondo la terminologia inaugurata dall’americano Elroy Bundy, come 𝑓𝑜𝑖𝑙, che è la “foglia” o lamina di metallo posta sotto una pietra preziosa al fine di valorizzarla) per far risaltare ciò che invece sta a cuore al poeta. Egli dichiara che solo le Muse, nella loro venerabile onniscienza, sarebbero in grado di affrontare per intero l’immenso e ponderoso tema delle lodi degli eroi; un mortale non ci riuscirebbe mai in modo adeguato, a causai dei limiti stessi della propria natura. E poiché il poeta è ben consapevole di ciò, preferisce abbreviare la trattazione del tema eroico, per passare subito a ciò che gli è più congeniale e che più vivamente lo ispira: la lode di Policrate.

Così, ai vv. 35-40, assai lacunosi, il racconto mitico tornava circolarmente alla bellezza: stando a un commento marginale sul papiro, era qui nominato il bellissimo giovinetto argivo Cianippo (figlio o nipote di Adrasto), ignoto all’𝐼𝑙𝑖𝑎𝑑𝑒 (dove il più bello dopo Achille è Nireo di Sime: cfr. II 673-674), ma conosciuto a fonti posteriori (cfr., per es., Ps.-Aᴘᴏʟʟᴏᴅ. I 9, 13, Pᴀᴜs. II 18, 4-5; 30, 10), subito seguito (ai vv. 40-41) dal figlio della ninfa Illide, Zeuxippo (cfr., per es., Pᴀᴜs. II 6, 7), che gli eserciti contrapposti dei Troiani e dei Danai (v. 44) paragonavano concordemente a Troilo, il 𝑏𝑒𝑛𝑗𝑎𝑚𝑖𝑛 di Priamo ed Ecuba (cfr. 𝑃𝑀𝐺𝐹 S224, 4, 9, 16, e già 𝐼𝑙. XXIV 257, 𝐶𝑦𝑝𝑟. fr. 25 West), come l’oro «tre volte bollito» (vv. 42-43) all’oricalco (una lega di rame e di zinco, accostata all’oro sin da 𝐻. 𝐻𝑜𝑚. 6, 9, in cui gli orecchini di Afrodite sono detti ἄνθεμ’ ὀρειχάλκου χρυσοῖό τε τιμήεντος, «fiori d’oricalco e d’oro prezioso»).

L’elogio del giovinetto Policrate, che concludeva il carme, si saldava naturalmente alla celebrazione degli affascinanti παῖδες καλοί dell’𝑒́𝑝𝑜𝑠: snodo logico del passaggio dal mito all’attualità, la «bellezza» (v. 46 κάλλος) include di diritto Policrate – verosimilmente presente all’esecuzione materiale del canto, di cui pure si ignorano tutte le modalità, a cominciare dalla dubbia presenza di un amplificante Coro – nella nobile schiera (v. 46 τοῖς μὲν πέδα), e gli conferisce «gloria perenne e immortale» (vv. 46-47 αἰὲν / … κλέος ἄφθιτον: cfr. per es. 𝐼𝑙. IX 413, Hᴇs. fr. 70, 5 M.-W. = 41, 5 Most, ma anche in Sᴀᴘᴘʜ. fr. 44, 4 V., e in 𝐶𝑜𝑟𝑝𝑢𝑠 𝑒𝑝𝑖𝑔𝑟𝑎𝑝ℎ𝑖𝑐𝑢𝑚 𝐺𝑟𝑎𝑒𝑐𝑢𝑚 [Hansen] 344, 2), come immortale (ma il poeta dice soltanto un più pudico «come», al v. 48), proprio in virtù del canto (κατ’ ἀοιδὰν), sarà anche la fama del cantore che dice «io» (ἐμὸν κλέος). Un concetto che, con Sᴀᴘᴘʜ. fr. 55 V., Tʜᴇᴏɢɴ. 237-254, e Bᴀᴄᴄʜ. 3, 90-98, rappresenta una delle più vivide formulazioni del potere che la parola ha di dare «fama sonora» (κλέος appunto) e di eternare l’eccellenza che lo merita: 𝑛𝑜𝑛 𝑜𝑚𝑛𝑖𝑠 𝑚𝑜𝑟𝑖𝑎𝑟… (Hᴏʀ. 𝐶𝑎𝑟𝑚. III 30, 6). Di conseguenza, Policrate potrà essere accomunato ai grandi eroi, e soprattutto agli eroi più belli, della guerra troiana.

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[1] Al principio è andata perduta la prima strofe oppure una triade più una strofe.

[2] Dardano, figlio di Zeus e nativo – a seconda delle varie tradizioni – di Samotracia odell’Arcadia o di Creta, aveva fondato alle falde dell’Ida il primo nucleo della futura Troia.

[3] Qui Argo, in origine nomecomune con il valore di «pianura», designa verosimilmente, come già in 𝑂𝑑. I 344, IV 726, l’intero Peloponneso; dalla città di Argo provenivaspecificamente Diomede, mentre Agamennone era di Micene.

[4] Forse con riferimento, come si raccontava nei𝐶𝑎𝑛𝑡𝑖 𝐶𝑖𝑝𝑟𝑖, al progetto di Zeus di alleggerire la terra dal peso eccessivo degli uomini, ma il nesso Διὸς βουλή è omerico, cfr. 𝐼𝑙. I 5.

[5] Allusione al successo rapsodico della saga troiana.

[6] Calco di 𝐼𝑙. XVII 512 πόλεμον κάτα δακρυόεντα.

[7] Per l’immagine, cfr. Sᴏᴘʜ. 𝑂𝐵 876, dove si dice della ℎ𝑦𝑏𝑟𝑖𝑠 ἀκ ἀκρότατα γεῖσ’ ἀναβᾶσα, «salita al sommo dei cornicioni»

[8] Per l’estensione di senso, cfr. Pɪɴᴅ. 𝑂. I, 82-83 ἀνώνυμον / γῆρας.

[9] Cfr. 𝐼𝑙. XIII, 304 ἀγοὶ ἀνδρῶν.

[10] cfr. Hᴇs. 𝑇ℎ𝑒𝑜𝑔. 1 Mουσάων Ἑλικωνιάδων ἀρχώμεθ᾽ ἀείδειν, 𝑂𝑝. 658; l’Elicone è il monte della Beozia, dove il culto delle Muse sarebbe stato portato dai Traci che abitavano intorno all’Olimpo.

[11] La località sullo stretto dell’Euripo, fra Beozia ed Eubea, ove, secondo la tradizione, si radunò il contingente greco diretto a Troia.

[12] Nato da Eaco e da Endeide e fratello di Peleo, Telamone si era stabilito a Salamina dopo l’assassinio del fratellastro Foco e aveva partecipato alla spedizione a Troia contro Laomedonte.

[13] Sedotta da Apollo, Illide generò Zeuxippo, ribattezzato in seguito Cianippo per la sua bellezza, che regnava a Sicione al momento della partenza della spedizione achea.

L’età della Tirannide

di L. Braccesi, Caratteri della tirannide e dinamica sociale, e sgg. R. Bianchi Bandinelli, Origini e sviluppo della citta. L’Arcaismo. Il medioevo greco. Torino 1993.

 

 

La correlazione fra la genesi della tirannide e l’apertura ad un espansionismo marittimo da parte delle póleis è propria di Tucidide (I.13,1). Per altro, Erodoto (III.122,2) dice di Policrate di Samo – il più famoso dei tiranni della Ionia – che egli sognò il dominio sul mare. In effetti, in contrasto con la chiusa economia latifondista dei regimi oligarchici, l’età della tirannide si caratterizza nel risveglio prepotente di un espansionismo mercantile di carattere transmarino per parte di un nascente ceto medio, che riesce ad acquistare sempre maggior peso politico, opponendo, in una nuova dinamica sociale, beni mobili a proprietà fondiarie. È questa l’età infatti in cui gli Elleni acquisirono il controllo delle grandi rotte commerciali mediterranee e in cui l’esportazione di ceramica greca conosce il suo primo grande fiorire nel Ponto, in Oriente, in Egitto e nei mari occidentali. Ma tale è l’aspetto trionfante delle tirannidi.

L’origine di questo tipo di regime è altresì correlata ai profondi fermenti sociali verificatisi tra il VII e il VI secolo a.C.: le aspettative di rinnovamento di un mondo contadino sempre più soverchiato dall’espansione del latifondo, le aspirazioni alla conquista di uno spazio politico da parte del ceto artigianale urbano, e, infine, le rivendicazioni di un dēmos, ancora informe, ma che sta rapidamente maturando coscienza di sé grazie alla milizia oplitica. Tutti fattori che segnarono il risveglio della pólis e che accentuano il carattere rivoluzionario e dirompente con cui si ebbe la tirannide alle sue origini; la tirannide che non fu altro se non una tappa fondamentale della lotta di popolo, in funzione di scelte democratiche più avanzate, contro lo strapotere di una chiusa oligarchia, che, negava lo spazio politico all’iniziativa imprenditoriale del ceto artigiano e commerciante. Fattori peraltro che occorre valutare con flessibilità di giudizio, prestando attenzione al particolare contesto socio-economico di ogni singola pólis, perché la tirannide – pur al di là delle stesse aspirazioni dei tiranni – non fu un fenomeno supernazionale, ma squisitamente cittadino.

 

Pittaco di Corinto. Busto, marmo, copia romana di I sec. d.C. da originale greco di IV sec. a.C. Paris. Musée du Louvre.

La tirannide, anche se fu signoria dello Stato retto autocraticamente, si appoggiò alle masse popolari, ne interpretò le istanze di rinnovamento sociale e rappresentò un momento rivoluzionario e non involutivo della vita della pólis. Ma proprio per questo suo carattere, dettato dalle contingenze, e al contempo provvisorio e temporaneo, essa fu fenomeno della storia sociale e non della storia costituzionale. Esaurita la sua funzione storica nella lotta contro i monopoli del potere oligarchico, doveva infatti cadere, travolta da nuove e più mature rivendicazioni popolari, per lasciar luogo all’edificio della πόλις democratica. Per questo non resse per più di una o due generazioni, e oltre tutto, nella maggior parte dei casi, degenerando dopo la prima: il che ne accentuò il carattere di assoluta condanna nelle fonti storiche di età successiva. In questa tradizione, definitivamente canonizzata nel pensiero politico del IV secolo a.C., in cui “tirannide” si qualificò – ben al di là del suo originario portato rivoluzionario – come antitesi ai concetti di “democrazia” e “isonomia”; in cui il giudizio di valore è ormai inesorabilmente condizionato, né dissociabile, dalla fiera polemica contro i regimi dispotici orientali o contro i più vicini regimi autoritari sorretti dall’oro macedone.
Ma il termine tyrannís non ebbe in origine valore dispregiativo: indicò “signoria”; e, termine del linguaggio domestico, si affermò sull’onda di rivendicazioni popolari a indicare il nuovo potere – sfuggente a qualsiasi definizione costituzionale – del capo-fazione assurto a guida della polis. Il detentore della tyrannís, il “tiranno”, è appunto nel giudizio popolare il demagogo che guida il plebeo contro il nobile, o il povero contro il ricco, in una dinamica di lotta sociale che mira a una trasformazione profonda della struttura cittadina. Il termine tyrannís, senza alcuna caratterizzazione di sapore politico, compare per la prima volta in un frammento di Archiloco:

 

Οὔ μοι τὰ Γύγεω τοῦ πολυχρύσου μέλει
οὐδ᾽εἶλέ πώ με ζῆλος οὐδ᾽ἀγαίομαι
θεῶν ἔργα, μεγάλης δ᾽οὐκ ἐρέω τυραννίδος…

A me non importano le ricchezze di Gige dal molto oro,
né mai ebbi desiderio, né ambisco
i beni degli dèi, né aspiro ad una grande tirannide
(fr. 19 West).

 

In questo passo, nell’elencare tre distinte ambizioni, la tyrannís non ha nulla in comune con Gige; questi, stando alla nostra testimonianza, non ebbe certo l’appellativo di týrannos: assurdo è quindi congetturare che il titolo, volto a designare i dinasti microasiatici, sia tardivamente giunto in Grecia da Oriente, per cui, gli Elleni, in nota polemica, l’avrebbero recepito in senso spregiativo. Per altro tyrannís e týrannos parrebbero termini estranei alla lingua lidia, mentre più elementi indurrebbero a pensare che fossero penetrati nel lessico greco già da età assai antica: la loro origine “popolare” potrebbe facilmente giustificarne l’estraneità al linguaggio aristocratico dell’épos. Týrannos, seppure senza nota d’investitura carismatica, sarebbe stato originariamente sinonimo di basileús: il termine popolare si sarebbe poi affermato, in antitesi a quest’ultimo, ad indicare con propria significanza politica i nuovi “principi”, perché più consono ad esprimere la fluttuante realtà del momento, perché estraneo al lessico aristocratico.

Per Archiloco, in ogni caso, tyrannís equivale a “signoria” e il termine, ben lungi da accezioni politiche, non ha ancora quella nota dispregiativa che acquisterà in età successiva, allorché tirannide equivarrà a “usurpazione”, soprattutto nella lirica corale e nella poesia tragica. Allora la definizione di týrannos implica allora un giudizio di valore: era tale chi, con atto di violenza politica, arbitrariamente infrangeva lo statuto giuridico della pólis; illegale non era il suo potere dispotico, bensì l’atto di usurpazione che commetteva, il quale giustificava il tirannicidio come un’azione pia e giusta. Týrannos e basileús non sono più, quindi, sinonimi, ma concetti del tutto antitetici: l’uno è il sovrano legittimo, l’altro l’usurpatore. La tirannide fu dunque intesa dal pensiero politico classico come una forma particolare, seppure “cattiva”, di costituzione, inserita, con rigido determinismo, fra oligarchia e democrazia. Tuttavia, pur a prescindere dalla troppo netta distinzione fra un regime ed un altro, incerti sono gli stessi confini della tirannide, delineati dalle fonti. Se da un lato vi era la “tirannide-usurpazione”, dai connotati rivoluzionari, dall’altro c’era la “tirannide elettiva”, dalle caratteristiche riformistiche: i tratti dell’una e dell’altra sono tutt’altro che ben definibili; piuttosto sono viziati, a priori, dall’ideologia e dalla particolare sensibilità partigiana degli autori. Per contenere le pressioni dal basso, l’oligarchia cittadina, cedendo gradualmente alle rivendicazioni popolari e salvare il salvabile, senza perdere il controllo della pólis, si rassegnò a darsi essa stessa un “arbitro” (aisymnḗtēs), un “mediatore” (diallaktḗs), o un legislatore (nomothétēs). Il compito di una figura tale fu quello di assicurare il nuovo assetto della città, accogliendo le istanze delle frange più umili della popolazione e contenerne le spinte più eversive, operando, di fatto, una sorta di “rivoluzione pacifica”.
Istituzionalmente, l’operato di questi “pacificatori” si presenta come una missione temporanea con trasferimento legale di poteri pressoché illimitati ad un singolo individuo, che , talora, in certi casi, poteva anche essere straniero; ma il “salvatore”, beninteso, espletato il suo compito, doveva tornarsene a vita privata. Quindi, senza alcun carattere di violenza politica, la “tirannide elettiva” – come la chiamò Aristotele (Polit. 1280a) – o, se si vuole, una forma di “dittatura” – come ebbe a dire Dionigi di Alicarnasso (Antiq. Rom. V.73). Ciononostante, venne stigmatizzata ugualmente come “usurpatoria” da quegli oligarchi che neppure si rassegnarono a concessioni moderate: per questo, l’esimneta Pittaco fu “tiranno” per Alceo.
In certi casi di tensioni interne poco violente, la situazione di particolare immobilismo politico bastò ad un esimneta per assicurare un graduale trapasso a regimi più democratici, mentre in altri, nonostante un regime “illuminato”, non impedì l’instaurarsi di una tirannide vera e propria.
In tutti i casi, comunque, la tirannide segnò un momento necessario e sufficiente all’evoluzione della politica greca. Molteplici furono le cause di questo fenomeno, le quali vanno di volta in volta rapportate alla realtà socio-economica di ogni singola realtà urbana. Come si è già anticipato, tuttavia, si possono elencare – in un esame globale – almeno tre fattori costanti:

  • crisi agraria e risveglio delle masse contadine oppresse dallo strapotere del latifondo;
  • nascita di un ceto mercantile che oppone beni mobili ad immobili;
  • acquisizione di uno spirito d’appartenenza grazie al nuovo assetto politico.

Il principale fattore di disquilibrio fu dunque la gravissima crisi agraria che investì i piccoli proprietari terrieri, sempre più minacciati dall’espansione fondiaria di pochi nobili, gelosi del proprio potere e sordi ad ogni tipo di concessione o compromesso. Miseria, fame, impossibilità di riscattare i propri debiti, e schiavitù: questi erano gli spettri contro cui doveva rapportarsi quotidianamente l’uomo greco del VI secolo a.C.; qualora ci si appoggiasse a qualche latifondista per ottenere aiuto finanziario – dietro ipoteca – si finiva inesorabilmente per ritrovarsi con i propri averi fagocitati dal suo strapotere: nessuna legge tutelava o garantiva i diritti del singolo. Per altro, l’incertezza del domani e l’instabilità del presente sovrastavano ogni attività imprenditoriale, in una società in cui gli interessi dell’oligarchia erano direttamente contrari a quelli del ceto mercantile, aperto ad un’economia in espansione.
Fra il piccolo mondo contadino e quello commerciale, dunque, si consuma il dramma del rivolgimento. Chiaramente i mercanti rappresentano l’elemento attivo che porta all’ascesa al potere del tiranno. Questi – spesso un transfuga di campo avverso che, con l’adesione delle masse popolari, s’impadronisce a forza delle redini dello Stato – è anzitutto e contemporaneamente il difensore dei contadini e dei liberi commercianti. Gli uni rappresentano il fattore-base su cui poggia l’effettivo potere del tiranno, gli altri l’elemento dinamico che qualifica le sue scelte democratiche e le vedute più aperte. Tutti quanti si riconoscono come un unicum all’interno del nuovo ordinamento oplitico che li accomuna nella milizia civica, e li contrappone – con ugual peso e più matura coscienza di classe – al vecchio sistema strategico nobiliare. Anzi, il nuovo assetto militare della falange degli opliti, che riunisce sul campo, a sostenere il maggior sforzo bellico, quanti sono in grado di portare le armi (ópla parechómenoi), crea la figura del cittadino-soldato, che annulla le barriere anacronistiche dei privilegi sociali risalenti all’epoca dei regimi aristocratici, momento in cui i combattimenti si risolvevano a singolar tenzone e quando il “guerriero” vero e proprio era quello che montava a cavallo.

 

Pittore Amasis. Lotta oplitica (dettaglio). Pittura vascolare da un’anfora attica a figure nere, 540 a.C. ca., da Vulci. Paris, Cabinet des médailles.

 

Le póleis che fra il VII e il VI secolo a.C. non furono turbate da forti contrasti sociali, o che comunque riuscirono ad assorbirli, non conobbero regimi tirannici. Ad esempio Sparta, per il suo eccezionale immobilismo costituzionale. Calcide, invece – com’è noto – con una grandiosa emigrazione coloniale promossa dal ricco ceto fondiario locale, riuscì ad emarginare gli strati più poveri della comunità. D’altro canto, Egina, data la sua piccola estensione insulare, non ebbe mai un’oligarchia fondiaria dominante, e perciò, fin dall’età più remota, sviluppò una fiorente economia mercantile, che riuscì ad assicurare alla popolazione un sufficiente benessere.

 

Atene, obolo, 500-480 a.C. ca. AR. 0, 53, Recto: civetta, stante verso destra; sul bordo, l’iscrizione AΘE[NAI].
 

L’introduzione della moneta nelle singole póleis fu un fattore determinante, ed avvenne proprio in quest’epoca. Essa permise l’incremento di più rapidi ed efficienti scambi internazionali: la moneta era l’espressione dei tempi nuovi. Tramite l’intraprendenza dei mercanti, protesi alla conquista dei porti migliori, la piccola bottega divenne una vera e propria “industria” ante litteram, dotata di un programma di produzione in serie che mirava a condizionare la domanda esterna. Tale fu il processo che più visibilmente caratterizza quest’epoca di transizione, allorché la ceramica ellenica incominciò ad inondare tutti i mercati del bacino mediterraneo; ciò fu dovuto al fatto che le stesse città esportatrici erano proprio quelle rette da un tiranno.

Come è stato detto, il tiranno era l’interprete delle aspirazioni e dei bisogni del ceto mercantile e il garante della libertà dei contadini, insomma, era il capo degli opliti; nella maggior parte dei casi era un transfuga di campo avverso che spesso raggiungeva il sommo potere grazie all’esercizio di un’alta magistratura o di un’importante carica militare.
Tuttavia egli avvertiva l’imbarazzo di tradurre in formule giuridiche la realtà nuova del suo potere, e da ciò ne rimaneva inesorabilmente condizionato. Egli era un “monarca illuminato”, ma privo di carisma, che mirava tanto più urgentemente a legittimare il proprio potere, che da vitalizio voleva trasformare in ereditario, quanto più ne avvertiva il carattere transitorio e momentaneo. A nulla però sarebbe valso muoversi sull’infido terreno istituzionale; qualsiasi sovvertimento di costituzione avrebbe infatti sortito l’effetto contrario e indesiderato.
Solo in un caso circoscritto e in un’area del tutto periferica, a Cirene, si assistette in effetti alla trasformazione di una tyrannís in basileía sotto la dinastia dei Battiadi, ma si trattò di una graduale assimilazione, e non di una scelta predeterminata, ed inoltre il fenomeno fu favorito dall’isolamento culturale, da suggestione dei limitrofi monarchi barbari, dall’insolito perdurare di un istituto rivoluzionario ormai stemperatosi di ogni caratteristica eversiva.
Al di fuori della costituzione della pólis, il tiranno deve quindi ricercare la legittimazione del suo potere. E questa anzitutto chiede al diritto divino, quasi a rivendicare, agli occhi del popolo, una sorta di investitura carismatica. Il presentarsi particolarmente religioso e timoroso della divinità (e parimenti l’erigere templi, l’istituire nuove festività, l’inviare vistose offerte ai santuari federali della grecità) è peraltro per parte sua un’accorta politica di instrumentum regni. La politica religiosa del tiranno mira quindi da un lato ad ingraziarsi il favore della popolazione, dall’altro è tesa a disconoscere quelle divinità che nei génē gentilizi hanno assunto un chiuso carattere aristocratico. Quindi le scelte culturali s’indirizzano anzitutto verso quelle divinità panelleniche e poliadi che, a livello etnico o cittadino, hanno decisamente acquisito una spiccata connotazione popolare. E questo ovviamente, da parte del tiranno, sono tanto più onorate se connesse con la località di provenienza della sua famiglia.
Peraltro, i tiranni sottolineano con una politica promozionale di opere pubbliche il carattere duraturo e non provvisorio del proprio potere, oltre che con lo sviluppo di una vera e propria corte, con la promozione di gare pubbliche e agoni poetici, di modo che rinnovano non solo spiritualmente ma anche culturalmente l’anima della pólis.
Per quanto riguarda la politica estera, i tiranni si sentono sodali: si propongono vicendevole soccorso, rinsaldano amicizie ed alleanze con vincoli matrimoniali che tendono a sottolineare il principio dell’ereditarietà dinastica del proprio potere. Di contro avvertono tutto il peso dell’ostilità della vecchia classe aristocratica e di conseguenza, in fatto di politica interna, mirano con ogni sforzo a prevenire sovvertimenti reazionari: livellando le varie componenti sociali, creano una base d’uguaglianza fra tutti i cittadini e, talvolta (come accadde a Sicione anticipando il sistema clistenico di Atene) con provvedimento innovatore, sostituiscono le tribù gentilizie con tribù territoriali. In questo modo essi elevano gli umili e si sforzano di infrangere i presupposti del potere oligarchico: ciò spesso comportò condanne a morte, esili e confische comminati agli oppositori.
La fortuna dei tiranni fu indissolubilmente legata alla politica di promozione sociale che essi seppero instaurare nelle proprie città, accogliendo le rivendicazioni dei ceti che ne avevano favorito l’ascesa. Crisi agraria e disoccupazione erano le piaghe sociali che affliggevano la cittadinanza. Fu cura dei tiranni il miglioramento delle condizioni economiche dei contadini, la liberazione di questi dall’incubo di essere fagocitati dal grande latifondo, l’accogliere di fatto le rivendicazioni di questi e delle masse diseredate volte ad ottenere una più equa ripartizione della terra. Questo fecero senza alcun atto dichiaratamente rivoluzionario nei confronti della grossa proprietà, ma solo procedendo ad un’oculata ripartizione delle terre dai molti banditi politici di parte avversa. Provvedimento che assicurava un triplice obiettivo: colpire l’oligarchia, frantumare il latifondo, soddisfare le rivendicazioni delle masse rurali. Le città rette a tirannide furono così caratterizzate da una ripresa economica agricola con il concentramento di nuove energie in questo settore, con il potenziamento di colture pregiate, quali vigneti ed oliveti, con il dissodamento di terreni per l’innanzi adibiti al pascolo. Peraltro, come in tutti i regimi autoritari, si cercò di precludere alle masse contadine l’accesso alla città e al dibattito politico. E per far sì che i nuovi proprietari restassero più legati alla terra, si arrivò addirittura a distaccare nelle campagne l’amministrazione della giustizia: Periandro istituì tribunali locali disseminati nella campagna corinzia; Pisistrato organizzò dei giudici itineranti per l’Attica; Ortige rese giustizia alle porte di Eritre. Altri, come Clistene di Sicione, costrinsero i contadini ad indossare in permanenza il loro rozzo costume di pelle di montone perché fossero facilmente riconoscibili.
Per quanto riguarda il problema dell’occupazione i dati forniti dalla tradizione sono estremamente controversi: posto indubbio che tutti i tiranni promossero la costruzione di opere pubbliche, mentre la storiografia moderna propende per giustificare tali atti come dettati dal desiderio di dar impiego remunerativo al proletariato urbano, la tradizione antica è unanime nel dichiarare che si sfruttasse la popolazione con prestazioni di lavoro, più o meno forzate, a retribuzione irrisoria.

Al di là della contrapposizione – sostenuta dalla storiografia ottocentesca – fra Dori aristocratici e Ioni democratici, se è vero che la grecità è al contempo celebrazione di un’etica aristocratica e di un’esigenza democratica, in nessun area del mondo greco questa duplice istanza si è avvertita con tanta sofferta intensità come nella Ionia. Di qui, seppur con caratterizzazione del tutto particolare, l’estrema importanza della sua storia nell’età delle tirannidi, periodo che segnò sì la fine dei vecchi regimi aristocratici, ma in cui il trapasso verso forme democratiche più avanzate repentinamente si blocca per l’improvviso asservimento allo straniero, allorché ai tiranni-demagoghi si sostituiscono i tiranni governatori del Grande Re.
Purtroppo i dati pervenuti sono piuttosto esigui, per lo più notizie tradite da eruditi che non consentono la ricostruzione di un quadro unitario, o semplici nomi di tiranni – Pindaro di Efeso, Ortige di Eritre, Anficle e Politecno di Chio – avulsi da qualsiasi memoria di cronachistica locale. Solo di Mileto sul continente e di Lesbo e Samo nell’area insulare si conosce qualcosa di più e si può tentare un’interpretazione delle notizie pervenute.
Per Mileto, si ha la testimonianza di Erodoto che parla di Trasibulo, seppur incidentalmente e in un contesto interessato a riferire un aneddoto su Periandro di Corinto. Da Plutarco (Quæs.Gr. 298c) si conoscono i nomi dei due tiranni che gli successero, Damasenore e Toante. Inoltre, ancora da Erodoto, si apprende di discordie vivaci insorte fra fazioni rivali alla caduta della tirannide, protrattesi per due generazioni e conclusesi con un arbitrato dei Parii, i quali avrebbero rimesso il potere «a quanti avevano meglio coltivati i propri campi» (Erodoto, V.29). Le fazioni in lotta sono per Plutarco le eterie Ploutís e Cheiromácha; gli appartenenti alla prima – a suo dire – sarebbero gli aeinaûtai, «i sempre naviganti»; gli appartenenti alla seconda, stando ad Eraclide Pontico (fr.50 Wehrli), i non meglio identificabili gérgithes. Attraverso questi scarni indizi, seppur con cautela, si può tentare un’interpretazione delle vicende interne di Mileto, certo emblematiche per la storia delle città della Ionia. La tirannide di Trasibulo va posta intorno al primo decennio del VI secolo a.C.: la fine della lunga stasi, protrattasi per due generazioni, nell’ultimo quarto del secolo. Trasibulo, di origini aristocratiche, come parrebbe mostrare il suo ufficio di prýtanis, s’impadronì del potere assai probabilmente nel clima arroventato della guerra che oppose Mileto al re di Lidia, Aliatte, e in cui egli ebbe un ruolo da protagonista.
Prima dell’instaurazione della tirannide, Mileto aveva conosciuto l’evoluzione tradizionale di tutte le città greche, con passaggio del potere politico dal génos reale dei Nelidi all’aristocrazia di sangue che nella pritania riconosceva la massima magistratura civica. Anche qui, almeno esteriormente, si vede coincidere la tirannide con il momento del maggior espansionismo transmarino: tramite le colonie del Ponto Eusino e il parziale controllo dell’emporio di Naucratis in Egitto, Mileto monopolizzò gran parte dei commerci granari del Mediterraneo orientale. Inoltre, come testimoniano cospicui ritrovamenti di vasi milesi, la città esportava nelle regioni danubiane vino e olio, mentre importava schiavi, pellicce pregiate e ambra dai mercati dell’interno e pesce dalle colonie costiere: tutti articoli che, per buona parte, e soprattutto per i prodotti ittici, dovevano essere rivenduti sul mercato internazionale con scopi puramente commerciali.

Mileto, statere, 560-545 a.C. ca. EL 13, 87 gr. Recto: leone accovacciato con testa rivolta a destra.

 

Alla fazione Ploutís appartenevano i ricchi, la cui attività, più ancora che sul latifondo, doveva esplicarsi in campo commerciale: donde il nome di aeinaûtai, «i sempre naviganti». A questa quindi appartenevano i grandi possidenti terrieri che disponevano di navi per collocare sui mercati lontani l’eccedenza dei propri prodotti agricoli; il ricordo della loro agiatezza è legato al mare, perché ovviamente si arricchivano con facili prezzi concorrenziali in campo internazionale, e quindi con cespiti di guadagno in ultima analisi più legati all’attività marinara, che all’attività agricola. Nella Cheiromácha invece s’inclinano oggi a individuare non tanto gli strati inferiori della popolazione, o i liberi caduti in servitù, ma gli esponenti della piccola e media proprietà – stigmatizzati per parte avversa con il nomignolo di gérgithes, riconducibile, assai probabilmente, con nota di dileggio, all’ambiente indigeno pre-greco. Tra l’altro, cheirómaches, «coloro che combattono con le mani», parrebbe essere una denominazione che si attaglia assai bene agli opliti costituenti il nerbo dell’esercito, e quindi ad una classe di possidenti, seppur modesti, ma in grado di procurarsi l’armamento necessario alla guerra. Il contrasto di fondo sarebbe stato quindi fra la grande e la piccola proprietà: quest’ultima si veniva a trovare impotente dinnanzi alla concorrenza di chi sul mercato internazionale poteva collocare i propri prodotti con autonomi mezzi di trasporto. E per giunta gli aeinaûtai, di contro ai cheirómaches, erano destinati ulteriormente ad arricchire divenendo sul mare interlocutori economici di altri popoli, come parrebbe dimostrare l’ovvia constatazione che il commercio milesio va ben oltre il livello di scambio dei prodotti agricoli locali.
Proprio la particolare floridezza economica di Mileto, la ricchezza della sua terra, determina in un certo senso un quadro “alla rovescia” dei tradizionali equilibri di forze che portano all’instaurazione della tirannide; non si ha opposizione fra latifondo e attività marittima, ma monopolio di quest’ultima a vantaggio di pochi: all’antitesi un mondo precocemente cittadino, “oplitico”, che è soffocato dal ceto dominante sia nell’incentivazione della produzione sia nell’intrapresa di una libera attività marinara. La situazione di crisi della piccola proprietà, i cui interessi si saldano a quelli del ceto artigiano e imprenditoriale, porta al sovvertimento sociale che si traduce nella sconfitta dell’oligarchia dominante: le lotte stesse fra génē aristocratici, le preoccupazioni per la guerra contro la Lidia, le tensioni per i contrasti talassocratici con Samo, favoriscono l’atto rivoluzionario.
A Lesbo la città di Mitilene, di gran lunga più florida dell’isola, conosce travagliate vicende sociali che portano Melancro a farsi tiranno negli ultimi decenni del VII secolo a.C. A lui, morto assassinato, succede Mirsilo, che, per l’aristocratico Alceo, è signore ancora più detestabile del precedente. Alla morte di questi, celebrata da Alceo (fr. 332 Voigt) con il primo brindisi funebre delle letterature occidentali, succede Pittaco, che, pur attraverso le avarissime notizie che se ne hanno, appare personalità di grande rilievo. Questi sale al potere in un clima di tanto esasperante contese cittadine da ispirare ad Alceo (fr. 208a Voigt) la metafora, ben nota anche per imitazione oraziana, della nave della pólis che rischia il naufragio. Vive nella prima metà del VI secolo a.C., è contemporaneo di Solone, e come lui è annoverato dalla tradizione fra i sette sapienti. La sua figura si stacca nettamente, e con forte caratterizzazione, da quella dei suoi predecessori: mentre essi furono “tiranni-usurpatori” egli è “tiranno elettivo”, cioè esimneta. La sua azione fu temporanea e durò il tempo necessario ad assicurare la pace all’interno della città. È perciò da pensare che, nel clima di lotte violente che caratterizzò l’instabile presa di potere per parte di due capi-popolo rivoluzionari (Melancro e Mirsilo), la stessa aristocrazia, per scongiurare radicali rivolgimenti, abbia stimato opportuno scendere a compromessi ed offrire concessioni alla parte avversa, esprimendo un moderatore dal proprio seno col compito di assicurare una pacificazione sociale. Il che ovviamente non esclude che, per opposti motivi, Pittaco sia apostrofato come “tiranno” da esponenti oltranzisti dell’aristocrazia, come Alceo (fr. 348 Voigt), o, viceversa, sia esaltato come “re illuminato” nei canti popolari mitilenei; la contraddizione è solo apparente: il poeta lesbio esecra il demagogo ed è ostile a qualsiasi forma di concessione sociale, la tradizione popolare celebra il legislatore che sanzionò in forma duratura le conquiste del dēmos.
A Samo, il ricordo della tirannide è legato al nome di Policrate, la cui azione è suscettibile di un inserimento in un più ampio contesto internazionale. Policrate, avventuriero e signore munifico, conobbe indipendenza e vassallaggio, capeggiò nella sua isola la rivolta contro l’oligarchia terriera e si trovò poi a reprimere un movimento popolare, anticipò nei fasti della sua corte il carattere grandioso delle tarde tirannidi siracusane. Come Trasibulo a Mileto egli proveniva da una famiglia aristocratica che già aveva rivestito le più alte cariche cittadine; la sua pólis, con una nutrita classe marinara ed imprenditoriale, è già rivolta ai grandi commerci internazionali, ma il potere è saldamente in mano agli esponenti di una chiusa oligarchia fondiaria, i cosiddetti geōmóroi. Contro costoro un tale Demotele, che pagò poi con la morte il suo gesto rivoluzionario (Quæs. Gr. 303c304e), aveva tentato di suscitare un moto popolare; ma Policrate, in tempi più maturi, riuscì ad affermare il proprio potere. Certamente, per impadronirsi della città, ebbe l’appoggio di Ligdami di Nasso, ma pare altresì che il suo colpo di stato sia avvenuto senza colpo ferire (Erodoto III.120,3).
E peraltro a lui aristocratico, con l’aiuto dei consanguinei – di cui poi si disfece – e con l’appoggio di una cittadinanza in avanzato processo di trasformazione, non dovette essere difficile impadronirsi del potere. Operò nella seconda metà del VI secolo a.C., quando anche la Grecia continentale conobbe le sue più grandi tirannidi, e la sua isola prospiciente Mileto fu testimone della progressiva avanzata dell’Impero persiano nel mondo microasiatico: dalla conquista dell’Egitto fino all’inglobamento delle città ioniche. In questa età di trapasso, e finché non cadde il suo stesso stato nell’orbita d’influenza persiana, Policrate seppe prosperare e crearsi sul mare un ampio spazio d’azione: creò una flotta di trecento triremi, affermando la sua signoria sulle Cicladi e compiendo azioni piratesche contro le città affacciate sull’Egeo; svolse un ruolo di mediatore fra la grecità continentale e l’Anatolia; strinse un fruttuoso patto d’alleanza con Amasi, faraone d’Egitto.
La tradizionale rivale di Samo era Mileto: entrambe, con interessi competitivi, avevano un fondaco a Naucrati; entrambe avevano preso parte alla Guerra lelantina, l’una dalla parte di Calcide, l’altra dalla parte di Eretria. Policrate mosse guerra a Mileto, ancor prima che cadesse in mano persiana, riuscendo ad affermare il suo controllo sull’immediato entroterra asiano, e coinvolgendo in battaglia navale, dalla quale uscì vittorioso, i Mitilenei, accorsi in aiuto ai Milesii.
Degna di tale uomo fu la sua corte sfarzosa e liberale, cui accorsero ingegni finissimi da ogni parte del mondo ellenico; qui visse Anacreonte e sostò Ibico; qui artigiani illustri elaborarono soluzioni tecniche all’avanguardia per realizzare opere pubbliche destinate a rinnovare l’assetto urbanistico della signoria. Si attirò l’inimicizia di Spartani e Corinzi, ma ben più gravi pericoli, anche se più latenti, dovevano alla lunga minarne il potere: da un lato una fazione popolare rivoluzionaria, formata dai pescatori dell’isola (i mythiētai), che premevano dal basso per un radicale sovvertimento sociale (Anacreonte fr. 21 Gentili); d’altro canto la crescente ingerenza persiana, che, soffocando le città ioniche e minando la talassocrazia egiziana, veniva rapidamente a modificare i tradizionali equilibri di forze nel mondo medio-orientale. Periando ancora una volta agì in modo spregiudicato: per ingraziarsi Cambise, allorché questi muoveva contro l’Egitto, rotta prontamente l’alleanza con il faraone, gli inviò un contingente di armati formato – come dice Erodoto III.44,2 – «da quelli fra i cittadini dei quali soprattutto sospettava che si ribellassero», cioè dai mythiētai. Questi però, invertita la rotta, tornarono a Samo e vi si insediarono per qualche tempo in forma autonoma, sorretti dall’appoggio spartano. Policrate rimase vittima di una morsa di ferro della quale non riuscì a liberarsi: da una parte la rivoluzione del popolo, dall’altra la richiesta persiana, sempre più incalzante, del suo vassallaggio.

Isches. Koûros. Statua colossale, marmo, 570 a.C. c. dall’Heraion di Samo. Samo, Museo Archeologico Nazionale.

 

Nel Peloponneso si trovano regimi tirannici, in particolare nelle grandi città protese ad un espansionismo commerciale marittimi, affacciate sul Golfo di Corinto e sul Golfo Saronico: Corinto, Mègara, Sicione. Ma, a prescindere dall’area dell’Istmo, fattori economici e ragioni d’ordine politico preclusero alle città dell’interno – ai centri della Messenia, dell’Arcadia, dell’Elide e dell’Acaia – un’evoluzione verso forme più avanzate di governo e qualsiasi possibilità di sovvertimento degli arcaici ordinamenti vigenti. Su queste regioni infatti estendeva il suo controllo, in forma diretta o indiretta, la potente Sparta.
Solo Argo, eterna rivale di Sparta, conobbe attorno alla metà del VII secolo profondi rivolgimenti sociali che si legano alla figura di Fidone. Di costui, che fu settimo re della città, si sa ben poco, ma pare verosimile che abbia trasformato l’antico istituto monarchico in una semplice magistratura. Il suo potere, che per tanti aspetti appare in nulla dissimile da quello di un tiranno, si basava sull’appoggio di un ceto medio e precocemente “oplitico”, che gli consentì di operare radicali riforme in campo economico e militare, tali da assicurare alla città, di contro a Sparta, un ruolo di primato nell’egemonia del Peloponneso. Smantellò il potere dell’aristocrazia, legata ad interessi fondiari, e da Nauplia e dagli altri porti dell’Argolide incrementò il commercio con l’Oriente: fu tra i primi o addirittura il primo in Grecia, a batter moneta. Dopo la sua morte, Sparta riprese però il sopravvento sulla regione, mentre le forti tirannidi istmiche, potenziatesi in età successiva, preclusero alla città qualsiasi possibilità di espansione verso nord, mentre Egina, già sua soggetta, riuscì a soppiantarla nei commerci con l’Egeo settentrionale.
I regimi tirannici di Corinto, Sicione e Mègara, si presentano con forte analogia di caratteri distintivi; anzitutto, qui il capo-popolo appare come il tiranno “tipo”: egli è espressione diretta di un ceto imprenditoriale e mercantile che si è aperto all’espansione marittima; mira a creare un vero e proprio impero coloniale politicamente unito alla metropoli; favorisce l’introduzione della moneta per incrementare i traffici; allarga su altre città la propria sfera d’influenza con un’accorta politica matrimoniale. In particolare, sia i Cipselidi di Corinto sia gli Ortagoridi di Sicione dilatarono il campo delle esportazioni delle loro città; entrambi i casati furono interessati ad espandersi in aree lontane per assicurarsi il controllo di importanti distretti minerari per le proprie emissioni monetali; entrambi cercarono di esercitare un controllo sempre più forte sulla vita politica ateniese cercando legami nuziali, gli uni imparentandosi con il génos dei Filaidi, gli altri con quello degli Alcmeonidi. Tra l’altro anche Teagene, tiranno di Mègara, che in contrasto con Pisistrato di Atene rivendicava il controllo di Salamina, si propiziò il favore dell’eteria a lui avversa imparentandosi con Cilone. Caratteri comuni hanno pure i termini di questi regimi: finirono tutti in modo traumatico, esaurita la propria funzione storica, quando il dēmos prese più matura coscienza di sé, ma anche quando incipiente crisi economica e mutati equilibri internazionali le costrinsero a ridimensionare la propria politica espansionistica. Sulle loro ceneri non sorsero però regimi democratici, bensì governi a moderato regime timocratico, favoriti da Sparta e favoriti dalla rapida adesione alla Lega peloponnesiaca cui furono costrette.

A Corinto, dove il potere era nelle mani della potente casata dei Bacchiadi, sostituitasi all’antichissima monarchia, fu Cipselo – ad essi imparentato per parte di madre – a guidare il movimento popolare che portò all’instaurazione della tirannide nella seconda metà del VII secolo a.C. La sua ascesa, vuole la tradizione, pare sia stata predetta dall’oracolo delfico con parole che ne sottolineano l’adesione alla causa cipselide, sono d’auspicio alla potenza della tirannide corinzia e, al contempo, ne rimarcano la breve durata: ὄλβιος οὗτος ἀνὴρ ὃς ἐμὸν δόμον ἐσκαταβαίνει, Κύψελος Ἠετίδης, βασιλεὺς κλειτοῖο Κορίνθου αὐτὸς καὶ παῖδες, παίδων γε μὲν οὐκέτι παῖδες («felice quest’uomo che nella mia casa discende, Cipselo, figlio di Eezione, re della gloriosa Corinto; felice lui e i suoi figli; non più, però, i figli dei figli», Erodoto V. 92ε,2). Egli, come ancora predisse l’oracolo è il macigno che ἐν δὲ πεσεῖται ἀνδράσι μουνάρχοισι, δικαιώσει δὲ Κόρινθον («si abbatterà su coloro che hanno il potere, e castigherà Corinto», Erodoto V. 92β,2). E conformemente alla sentenza oracolare, Cipselo e suo figlio Periandro – che la tradizione annovera fra i Sette Sapienti per le sue disposizioni suntuarie volte a frenare il lusso dei ricchi (Arist. Polit. 1315b; Diog. Laert. I.94-100) – innalzarono Corinto a splendore e potenza mai eguagliati nella sua lunga storia, debellando definitivamente il potere della vecchia aristocrazia. Anche in questo caso vi è una stretta connessione fra il potere tirannico e le organizzazioni militari oplitiche, giacché Cipselo, proprio a capo di queste come polemarco, assunse il potere supremo. La città con due porti, Lecheo e Cencrea, che si affacciavano rispettivamente sul Golfo Corinzio e il Golfo Saronico e collegati tra loro da un díolkos, che consentiva un facile trasbordo delle navi lungo l’Istmo, era scalo primario e punto di transito obbligato per il commercio fra Oriente ed Occidente. E verso Occidente, Corinto aveva già esteso il proprio raggio d’azione con le grandi colonie di Corcira e Siracusa. Anzi, fu proprio la colonizzazione che la trasformò in una città trafficante, protesa ad un espansionismo marittimo: qui l’industria della ceramica, destinata all’esportazione in cambio di materie prime e di schiavi, ebbe ampio sviluppo; qui, con soluzioni tecniche all’avanguardia, si vararono le prime triremi greche.
Tutto ciò portò in seno alla cittadinanza ad una rapida e traumatica trasformazione delle condizioni socio-economiche, e un ceto imprenditoriale rivendicò il monopolio dei commerci e più ampio spazio politico, opponendosi alle vecchie consorterie oligarchiche, detentrici del potere, e favorendo l’insurrezione contro lo strapotere dei Bacchiadi. Non è da escludere che il gesto rivoluzionario sia stato determinato anche da una ragione più contingente: la perdita della colonia di Corcira, affrancatasi dalla madre-patria intorno alla metà del VII secolo a.C. (evento testimoniato da Tucidide I.13,4), e il potenziamento dei porti rivali della Megaride. I due motivi comunque si saldano. Certo è sì che Cipselo prima e Periandro poi proseguono la politica coloniale: risottomettono a forza Corcira ed estendono l’influenza corinzia su Epidamno; vengono fondate sulla costa acarnano-epirota Ambracia, Leucade, Anattorio, Apollonia, nella Penisola Calcidica viene istituita Potidea e Cipsela nel Chersoneso Tracico. Nuovi e vecchi stanziamenti corinzi, per la prima volta nella storia della colonizzazione greca, sono ora legati da precisi vincoli di dipendenza politica nei confronti della madre-patria. All’area dell’espansionismo commerciale della Corinto dei Bacchiadi succede il forte impero coloniale dei Cipselidi: questo si snoda su tutto il fronte della Grecia settentrionale, dall’Epiro alla Macedonia e alla Tracia, in aree che sono poli terminali di importanti vie di penetrazioni in regioni dell’entroterra ricche di giacimenti metalliferi. Da Epidamno, infatti, si raggiungono facilmente i distretti interni dell’Illiria; ai medesimi, si accede anche da Potidea, cui pure si dischiudono le vie d’accesso alle miniere macedoni.
Peraltro l’espansionismo corinzio non si esauriva solo verso Occidente: in Oriente, Periandro fu in relazione d’amicizia con i reami di Lidia e d’Egitto, riscuotendo credito presso i tiranni ionici, ed esercitando il ruolo di mediatore nelle controversie internazionali. Contrastando la potenza di Mègara ed Egina, Periandro tentò di conquistare il controllo del Golfo Saronico. Intrattenne rapporti amichevoli con Atene, peraltro favoriti dalla comune rivalità con Mègara; anzi, cercò di inserirsi nel vivo delle sue lotte politiche e ad esercitavi un certo controllo con una serie di alleanze matrimoniali con il génos dei Filaidi e con gli stessi Pisistratidi. Non è un caso che queste famiglie abbiano coniato le proprie monete con argento corinzio e che entrambe abbiano creato possedimenti personali in are della Grecia interessate proprio dall’espansionismo cipselide. Tutto ciò mostra chiaramente il prestigio e il grado di prosperità e di ineguagliata grandezza raggiunti da Corinto sotto questo illustre casato, allorché le feste Istmie divennero solennità panelleniche.
In politica interna, la tirannide, pur nelle sue caratteristiche fortemente accentratrici, creò le basi per un profondo rinnovamento sociale: i beni dei Bacchiadi e dei loro sostenitori furono confiscati a profitto della pólis, e assai verosimilmente per procedere ad una generale ridistribuzione delle terre; una tassa speciale sulle entrate, introdotta da Cipselo, fu devoluta –a quanto pare – ad opere di pubblica utilità; l’introduzione della moneta incrementò il commercio e ne estese l’area d’azione. Cipselo, che conservò il titolo di re che già fu dei Bacchiadi, di fatto, trasformò l’antico regime oligarchico in un governo autocratico; suo figlio Periandro fu propriamente un τύραννος, come lo intese il pensiero politico classico, ed accentuò il suo carattere dispotico col circondarsi di una guardia del corpo armata. Entrambi tennero una grandiosa vita di corte, che richiamò da ogni parte della Grecia artisti e poeti: fra essi, animatore di cori ditirambici, il celebre Arione. La decadenza iniziò con il terzo Cipselide, Psammetico, nipote di Periandro. Questi fu travolto ben presto, intorno al 540 a.C., da una violenta insurrezione popolare che pose fine alla tirannide. Si ignorano i motivi di tale rivolta, ma è certo che essi sono più immediatamente indagabili nella reazione popolare ad un dispotismo che iniziava a degenerare, e nella strumentalizzazione che di tale malcontento seppero fare i fuoriusciti da parte aristocratica. Non si deve tuttavia sottovalutare un’altra possibile ipotesi che vuole che oltre a ciò vi fossero altri fattori, di carattere economico internazionale: da una parte l’affermarsi della ceramica attica sui mercati mediterranei, che finì con il soppiantare quella corinzia, e dall’altra l’ingerenza di Sparta e della Lega peloponnesiaca sull’area istmica. Tutti elementi che aiutano a comprendere il motivo per cui Corinto, una volta decaduta la tirannide, non evolva in un governo democratico, ma assuma, a seguito delle rivolte interne, la sua forma pacifica sotto un regime moderato e timocratico.