Ipponatte, un aristocratico con la maschera da pitocco


Tra “poeta maledetto”, mendicante dei bassifondi, protagonista in prima persona delle squallide avventure narrate in autobiografici e virulenti giambi – secolare cliché critico-letterario – e il poeta colto e raffinato, compositore di elaboratissime parodie e satire per eterie aristocratiche riunite a simposio c’è un vero abisso: proprio la programmatica varietas della poesia ipponattea, il suo polimorfo mimetismo linguistico – destinato a essere assunto a emblema del genere dagli Alessandrini – e il raro dono di ritrarre icasticamente scene e dettagli hanno certamente contribuito a scavarlo. Nativo di Efeso, vissuto negli ultimi decenni del VI secolo perlopiù a Clazomene, dove lo esiliarono sgradito i tiranni Atenagora e Coma, Ipponatte fu autore di una cospicua raccolta di componimenti giambici in almeno due libri, di cui restano circa 180 frammenti (oltre 200 con i dubia), inegualmente divisi tra trimetri giambici, tetrametri giambici, tetrametri trocaici, esametri, epodi.

Pittore Pedieo. Una musicista accompagna un simposiasta ubriaco. Pittura vascolare dal tondo di una κύλιξ attica a figure rosse, c. 510 a.C. Paris, Musée du Louvre.

Originale interprete – in chiave giambica – delle istanze di un’aristocrazia antitirannica e minacciata, l’Efesino dedicò i suoi velenosi ritratti d’ambiente a quel δῆμος emergente, che la rivoluzione artigianale e mercantile aveva portato in primo piano, che tiranni – e aspiranti tali – fomentavano e manovravano, talora con l’interessata complicità dell’Impero achemenide (dopo il 546), e che gli antichi γένη aristocratici temevano e detestavano. Proprio il nome del poeta, Ἱππῶναξ, che vale «signore dei cavalli», tradisce un’origine aristocratica: sia il secondo elemento, ἄναξ, sia il riferimento del primo ai cavalli, costoso appannaggio dell’aristocrazia, sono ingredienti caratteristici di nomi nobiliari. A questo proposito, altri fattori confermerebbero l’appartenenza a questa classe sociale. Ci sono infatti frammenti in cui il poeta lamenta la propria povertà e inveisce contro la cecità di Pluto, che non gli ha mai detto (F 36 West, 3-4):

“… δίδωμί τοι μνεας ἀργύρου τριήκοντα

καὶ πόλλ’ ἔτ’ ἄλλα” …

“… Io ti concedo qui trenta mine d’argento

e molto altro ancora”…,

altri in cui supplica Ermes perché gli regali un mantello e dei sandali felpati (F 32 West, 4-6):

δὸς χλαῖναν Ἱππώνακτι καὶ κυπασσίσκον

καὶ σαμβαλίσκα κἀσκερίσκα καὶ χρυσοῦ

στατῆρας ἑξήκοντα τοὐτέρου τοίχου.

Da’ un mantello a Ipponatte e una tunichetta,

sandaletti e pantofoline e sessanta stateri

d’oro puro metti dell’altra parte;

altri in cui si dichiara tormentato dal freddo e dai geloni ai piedi (cfr. F 34 West): tutto questo e il fatto che il suo lessico sia spesso attinto al parlare quotidiano e incline all’oscenità hanno indotto gli studiosi a vedere in Ipponatte la tipica figura del «nobile decaduto», con la mano sempre tesa a elemosinare. Per contro, la critica più recente (Degani) ha messo luce come l’elemento «popolare» e i contenuti volgari vadano ricondotti alle convenzioni del genere giambico. Tra le norme e i ruoli tipici c’è infatti «la maschera» del miserabile intirizzito dal freddo e morto di fame. Se questa precisazione costituisce un salutare correttivo alla vecchia immagine del poeta autobiograficamente pitocco, analogamente al caso di Archiloco, non si deve arrivare a escludere che il riconoscimento di un «io» mimetico-drammatico (per cui il poeta assume la posa del miserabile) riduca a semplici invenzioni fittizie le figurazioni e le vicende che affiorano in diversi frammenti.

Fyodor Bronnikov, Mendicante romano. Olio su tela, 1855. Collezione privata.jpeg

Un mondo di artigiani, commercianti, osti, indovini, prostitute, ladri, truffatori, e soprattutto artisti emergenti, quali gli scultori Bupalo e Atenide, il loro collega Bione, il pittore Mimne, il vasaio Eschilide, il musico e guaritore Cicone, i suoi accoliti Codalo e Babi, l’affamato pitocco Sanno, il crapulone Eurimedontiade e, infine, Arete.

Maestro dell’insulto, dell’escrologia, del violento attacco personale, Ipponatte riempì la propria poesia simposiale di furti, aggressioni, violenze, sesso a volontà, e la propria lingua di immagini colorite, di paragoni animaleschi, di metafore popolari rivisitate, di proverbi e formule magiche, di parole gergali o straniere opportunamente “tradotte” e spiegate, di esilaranti parodie dell’ἔπος, di roboanti neoformazioni. Queste molteplici capacità espressive, il tono divertito e irriverente, l’amore per il paradosso e il rifiuto del páthos fecero di Ipponatte il precursore della commedia e poi della disincantata poesia alessandrina.

D’altronde, come ha assai opportunamente evidenziato Enzo Degani, il tratto fortemente innovativo della produzione ipponattea consiste proprio nell’uso della lingua: la patina dialettale che riveste i suoi componimenti è lo ionico d’Asia, ma il poeta sa far propri elementi linguistici di altre aree geografiche e addirittura di parlate non greche; così si trovano impiegati vocaboli nuovi, numerosi termini altrimenti attestati (hápax legómena), parole composte. Proprio per queste sue caratteristiche la produzione di Ipponatte fu oggetto di frequenti citazioni da parte di grammatici, lessicografi ed eruditi dei secoli successivi, che hanno conservato in questo modo molti suoi frammenti.

Pittore della fonderia. Un fabbro e il suo servo alla fornace. Pittura vascolare a una κύλιξ attica a figure rosse, c. 490-480 a.C. da Vulci. Berlin, Antikensammlung.

Tra le vittime del “biasimo giambico” caddero i fratelli scultori Bupalo e Atenide, che avrebbero realizzato un ritratto caricaturale del poeta e che questi con una serie di violentissime invettive avrebbe indotto al suicidio per impiccagione. Con Bupalo, soprattutto, Ipponatte sarebbe entrato in rivalità per una certa Arete, donna di molto liberi costumi; e come Archiloco nel celebre Epodo di Colonia aveva rievocato a denigrazione di Neobule la propria scappatella con la di lei sorella minore, così Ipponatte raccontava del suo incontro notturno con Arete (F 13-14, 16-17 West):

ἐκ πελλίδος πίνοντες· οὐ γὰρ ἦν αὐτῆι

κύλιξ, ὁ παῖς γὰρ ἐμπεσὼν κατήραξε,

bevendo essi dal secchio: lei non aveva

una coppa, perché il servo, cadutovi sopra, l’aveva frantumata,

ἐκ δὲ τῆς πέλλης

ἔπινον· ἄλλοτ’ αὐτός, ἄλλοτ’ Ἀρήτη

προύπινεν.

                      dal secchio

bevevano: una volta era lui, l’altra Arete

a fare il brindisi.

ἐγὼ δὲ δεξιῶι παρ’ Ἀρήτην

κνεφαῖος ἐλθὼν ‘ρωιδιῶι κατηυλίσθην.

Ed io, giunto da Arete di notte,

mentre un airone volava da destra, vi piantai il campo.

κύψασα γάρ μοι πρὸς τὸ λύχνον Ἀρήτη

Chinatasi infatti su di me, a lume di lucerna, Arete…

Quello ritratto da Ipponatte è uno sgangherato simposio, focalizzato su un «secchio per mungitura» (πελλίς), termine che attirò l’attenzione dei testimoni antichi (Ath. XI 495c-d; Eust. ad Od. V 244, 1531, 53 ss.) e che qui sostituisce la coppa (κύλιξ) di una inusuale simposiasta, probabilmente l’impudica Arete, inopinatamente fracassata da un servo (παῖς) cadutovi sopra; si tratta forse di un giovane amante con cui la donna si sarebbe intrattenuta (?). Clima ebbro, gesti goffi e volgari – forse favoriti da prolungate bevute – costituiscono l’orizzonte privilegiato della poesia ipponattea, vasto repertorio di trovate comiche cui attingeranno i poeti di ogni tempo: il gioco sulla «coppa», anzi sul «secchio», sarà mutuato da Aristofane (Th. 633) e dal giambografo ellenistico Fenice di Colofone (F 4, 3; 5, 1-2 Pow.), mentre il motivo del servo che rompe il calice si diffonderà nella poesia latina, da Mazio (F 11, 2 Blänsdorf), a Orazio (Sat. II 8, 72; 81), a Petronio (52).

Pittore della Forgia. Un’etera urina in uno σκύφος. Pittura vascolare dal tondo di una κύλιξ attica a figure rosse, c. 480 a.C. Berlin, Antikensammlung.

Ecco l’arrivo improvviso del poeta, giunto per un’erotica visita notturna, ironicamente propiziata da fausti, omerici auspici: un «airone» (l’ἐρῳδιός, su cui si sofferma il grammatico Erodiano, GG III/1 116, 21-117, 3; III/2 924, 12-19, testimone principale del frammento), che vola da destra, come quello che annunciò il successo, nell’iliadica “Doloneia” (Il. X 274-276), a Odisseo e Diomede; e la notte, che serve a «piantare la tenda» (v. 2) dalla solita Arete, donna rotta a esperienze sessuali di ogni tipo. In questo triviale contesto Ipponatte riprende la nobile equazione fra eros e guerra, che precorre l’immaginario della lirica greca.

La continuazione dell’incontro furtivo – segnalata dalla ripresa del nome della donna – coglie al chiarore di una lucerna la stessa disponibile Arete curva sull’io parlante nella posizione della fellatrix di archilochea memoria (cfr. F 42 West): che il contesto fosse quello di una fellatio pare garantito dal parallelo archilocheo e dalle occorrenze erotiche del verbo κύπτειν («curvarsi», «chinarsi sopra», «mettersi a testa in giù»), tanto realistico. Topica spettatrice di appassionati convegni amorosi diverrà poi la lucerna in commedia (cfr. Aristoph. Ec. 7-13; Adesp. Com. F 724, 1 K.-A.) e soprattutto nella poesia epigrammatica (cfr. AP V 4-5; 7-8; 128; Hor. Sat. II 7, 48; Mart. X 38, 7; XIV 39).

Pur nella grave lacunosità del testo si coglie un’inclinazione a ritrarre per istantanee puntuali, in una progressione di dettagli che costituiscono (o, piuttosto, demoliscono) una figura femminile che certo appare tipizzata nel ruolo della donna incontinente – così nel bere come nell’eros –, ma che doveva riuscire tanto più godibile al gruppo degli ascoltatori partecipi al simposio, in quanto attratta nell’orbita di un «effetto di verità» che il narratore intendeva conseguire, sfruttando nomi, cose, situazioni appartenenti al concreto loro ambito sociale. In altre parole, udendo il nome di Arete il pubblico di Ipponatte doveva riconoscere la deformazione grottesca (la “caricatura”) di un personaggio noto dalla realtà.

Pittore Kleophrades. Incontri galanti tra etere e clienti. Pittura vascolare da un’ὑδρία attica a figure rosse, c. 490 a.C. Berlin, Staatliche Antikensammlungen.

Non meno che nell’episodio dell’incontro notturno con Arete che altrove Ipponatte si rivela un artista della narrativa osée, quasi boccaccesca, ben più portato dello stesso Archiloco all’oscenità spregiudicata. Così nel F 84 West viene rievocato un altro, frettoloso, convegno, scandito da morsi e baci e bruscamente interrotto dal sopraggiungere del rivale Bupalo, che caccia il poeta sul più bello. Nei frammenti riferibili al litigio con l’odiato scultore si avverte tutta la rabbia del poeta (F 120-121 West):

λάβετέ μεο ταἰμάτια, κόψω Βουπάλωι τὸν ὀφθαλμόν.

ἀμφιδέξιος γάρ εἰμι κοὐκ ἁμαρτάνω κόπτων.

Tenetemi il mantello, pesterò l’occhio a Bupalo.

Infatti, sono ambidestro e non sbaglio, se picchio.

Putroppo, la millantata abilità dello sfidante è destinata, di lì a poco, a sgonfiarsi in una malinconica constatazione (F 73 West, 4-5):

οἱ δέ μεο ὀδόντες

ἐν ταῖς γνάθοισι πάντες ‹ἐκ›κεκινέαται.

tutti i denti

mi ballano sulle gengive.

Anche in questo caso, il linguaggio, in apparenza sboccato e plebeo, dell’aggressione ad personam, degno di una rissa da osteria, rivela aristocratiche reminiscenze letterarie; esso ha infatti un precedente illustre nell’epica omerica e riecheggia le parole millantatrici con cui il mendicante Iro sfidò Odisseo, scambiato per un rivale nell’accattonaggio, uscendo poi dallo scontro con le ossa rotte. Anzi, il rapporto di Ipponatte con l’archetipo è così evidente da indurre alcuni studiosi a supporre che l’intento parodistico del passo omerico sia stato suggerito al poeta proprio dall’ascolto recente di una recitazione agonale di rapsodi (Od. XVIII 27-29): … ὃν ἂν κακὰ μητισαίμην / κόπτων ἀμφοτέρῃσι, χαμαὶ δέ κε πάντας ὀδόντας / γναθμῶν ἐξελάσαιμι συὸς ὣς ληϊβοτείρης («… io potrei conciarlo male, / colpendolo con ambo le mani, e fargli cadere tutti i denti / dalle mascelle, come quelli di una scrofa che rovina i raccolti»).

Pittore Epitteto. Lotta fra due pugili. Pittura vascolare dal fondo di una κύλιξ attica a figure rosse, c. 520 a.C. ca. London, British Museum.

Talvolta l’invettiva abbandona gli ambiti propriamente letterari per collegarsi alle pratiche di purificazione, che ogni comunità effettua con scadenze regolari. Dai resti del F 92 West si vede ricostruito un rituale magico eseguito con una sferza di fico battuta sui genitali dell’«io» narrante a opera di una donna lidia nello sconfortante scenario di una latrina. Altrove, il poeta mostra l’abitudine di apostrofare l’avversario con l’appellativo infamante di φαρμακός («avvelenatore di città», «liberatore dai mali»), connesso con φάρμακον («veleno», «rimedio», «farmaco»): nelle città ioniche si trattava di un individuo, scelto annualmente, in genere tra le persone più umili ed emarginate (servi, criminali, straccioni, soggetti affetti da deformità, ecc.), che veniva allontanato dalla comunità cittadina nel corso di rituali più o meno violenti, che potevano portare alla morte; la cerimonia apotropaica prevedeva che il malcapitato, dopo essere stato percosso con rami di fico e mazzi di cipolle (σκίλλαι) in una processione lungo le strade della città, fosse da ultimo lapidato o bruciato vivo, o meno crudamente espulso dalla città. In tal modo, si riteneva di allontanare, insieme con il “capro espiatorio”, le sventure che avrebbero potuto abbattersi sulla società intera. Augurare a un cittadino di fare la fine del φαρμακός equivale, insomma, ad assimilarlo a un individuo della peggiore specie, destinato a una fine violenta. Così, infatti, la frasca di fico (κράδη) è un emblema ricorrente in Ipponatte in connessione con il rito del capro espiatorio, a cui si riferisce una serie di frammenti (F 5-10 West), appartenenti forse a componimenti diversi, ma citati insieme dall’erudito Giovanni Tzetze (Tz. Chil. V 728 ss.):

πόλιν καθαίρειν καὶ κράδηισι βάλλεσθαι.

Purificare la città e farsi battere con frasche di fico.

βάλλοντες ἐν χειμῶνι καὶ ῥαπίζοντες

κράδηισι καὶ σκίλληισιν ὥσπερ φαρμακόν.

Battendolo in un prato e con frasche

di fico e di cipolle, come un capro espiatorio.

δεῖ δ’ αὐτὸν ἐς φαρμακὸν ἐκποιήσασθαι.

Bisogna renderlo un capro espiatorio.

κἀφῆι παρέξειν ἰσχάδας τε καὶ μᾶζαν

καὶ τυρόν, οἷον ἐσθίουσι φαρμακοί.

E alla sua mano porgere fichi secchi e focaccia

e cacio, quale mangiano i capri espiatori.

πάλαι γὰρ αὐτοὺς προσδέκονται χάσκοντες

κράδας ἔχοντες ὡς ἔχουσι φαρμακοῖς.

Da molto tempo, infatti, li aspettano a bocca aperta

con frasche di fico, come le hanno per i capri espiatori.

… λιμῶι γένηται ξηρός· ἐν δὲ τῶι θύμωι

φαρμακὸς ἀχθεὶς ἑπτάκις ῥαπισθείη.

… che rinsecchisca per la fame; e nell’anima,

portato via qual capro espiatorio, sette volte lo si sferzi.

Pittore di Pan. Pan che insegue un capraio. Pittura vascolare da un cratere a campana a figure rosse, c. 470 a.C. Boston, Museum of Fine Arts.

Oltre che ritrattista di figure in azione Ipponatte è anche maestro dell’immagine bloccata, con personaggi fissati in tratti fisiognomici che denunciano il vizio che si cela in loro, come nell’epodo dedicato all’ingordo Sanno (F 118 West, 1-9):

ὦ Σάνν’, ἐπειδὴ ῥῖνα θεό[συλιν φύ]εις,

καὶ γαστρὸς οὐ κατακρα[τεῖς,

λαιμᾶι δέ σοι τὸ χεῖλος ὡς ἐρωιδιοῦ

[ ]

τοὖς μοι παράσχες [ ]

σύν τοί τι βουλεῦσαι θέ[λω.

(. . . .)

τοὺς] βρα[χίονας

καὶ τὸ]ν τράχ[ηλον ἔφθισαι,

κα[τεσθίεις δέ·] μ̣ή σε γαστρίη [λάβηι

O Sanno, poiché quel naso empio coltivi

e il ventre non sai dominare,

e il tuo labbro è ingordo come il becco di un airone

. . . .

Porgimi l’orecchio…

Ti voglio dare un consiglio.

. . . .

Nelle braccia

e nel collo sei rovinato,

eppur ti ingozzi: attento che non ti prenda una colica…

Pittore della Gigantomachia di Parigi. Scena simposiale. Pittura vascolare dal tondo di una κύλιξ attica a figure rosse, c. 490-480 a.C. da Vulci. London, British Museum.

La caricatura e la satira possono sfociare nell’invettiva senza mezze misure in quel primo Epodo di Strasburgo (F 115 West) di pur controversa autenticità, che appare tanto violento nell’augurio di un impietoso naufragio a un traditore (un προπεμπτικόν alla rovescia lo definiva Perrotta) quanto letterariamente cosciente nella sottile ripresa di un celebre brano odissiaco (Od. VI 226 ss.):

.[

η[

π.[ ]ν[…]….[

κύμ[ατι] πλα[ζόμ]ενος

κἀν Σαλμυδ[ησσ]ῶ̣ι̣ γυμνὸν εὐφρονέσ[τατα

Θρήϊκες ἀκρό[κ]ομοι

λάβοιεν ‑ ἔνθα πόλλ’ ἀναπλήσαι κακὰ

δούλιον ἄρτον ἔδων ‑

ῥίγει πεπηγότ’ αὐτόν· ἐκ δὲ τοῦ χνόου

φυκία πόλλ’ ἐπέ̣χοι,

κροτέοι δ’ ὀδόντας, ὡς [κ]ύ̣ων ἐπὶ στόμα

κείμενος ἀκρασίηι

ἄκρον παρὰ ῥηγμῖνι κυμαντῷ ˘ x

ταῦτ’ ἐθέλοιμ’ ἂ̣ν ἰδεῖ̣ν,

ὅς μ’ ἠδίκησε, λ̣[ὰ]ξ δ’ ἐπ’ ὁρκίοις ἔβη,

τὸ πρὶν ἑταῖρος [ἐ]ών.

. . . .

. . . .

sbattuto dalle onde

e nudo in Salmidesso con somma gentilezza

i Traci dalle alte chiome

lo accolgano – là patirà molti mali,

mangiando pane da servo –,

lui, intirizzito dal gelo! E fuori dalla schiuma

molte alghe lo ricoprano,

batta i denti, giacendo riverso

come un cane per sfinimento

sul limitare della battigia…

vorrei che vivesse queste pene,

lui, che mi fece torto, che calpestò i giuramenti,

che in passato mi fu compagno.

Pittore delle Sirene. Odisseo e le Sirene. Pittura vascolare da uno στάμνος attico a figure rosse, 480-470 a.C. ca. da Vulci. London, British Museum.

Non stupisce allora se questo poeta, che aveva al suo arco tanto le frecce della finzione plebeo-satirica quanto quelle del lusus letterario, fosse considerato dagli antichi come l’inventore (il πρῶτος εὑρετής) del genere della parodia letteraria, di cui si possiede un esempio negli esametri del F 128 West:

Μοῦσά μοι Εὐρυμεδοντιάδεα τὴν ποντοχάρυβδιν,

τὴν ἐν γαστρὶ μάχαιραν, ὃς ἐσθίει οὐ κατὰ κόσμον,

ἔννεφ’, ὅπως ψηφῖδι ‹κακῇ › κακὸν οἶτον ὀλεῖται

βουλῆι δημοσίηι παρὰ θῖν’ ἁλὸς ἀτρυγέτοιο.

Musa, dell’Eurimedontiade, Cariddi che divora l’oceano,

la lama-in-pancia di quel mangione senza ritegno

dimmi, sì che per malo suffragio di mala morte perisca,

per volontà del popolo, lungo la riva del mare infecondo!

Pittore di Cadmo. Eracle e Dioniso a banchetto. Pittura vascolare da una πελίκη attica a figure rosse, c. fine V sec. a.C. London, British Museum.

Il ritratto grottesco di un ghiottone volgare, dal patronimico e dagli epiteti altisonanti, ma destinato a una misera fine, dà libero sfogo all’invettiva linguistica di Ipponatte, i cui interminabili e mirabolanti composti, ovviamente nuovi di zecca, insegneranno schemi compositivi ben precisi al rutilante lessico comico. Espressa in esametri eroici e chiaramente memore, con la sua risibilmente solenne invocazione alla Musa, l’esquisse di questo misterioso cialtrone rappresenta altresì il primo chiaro esempio di poesia parodica; è proprio per questo che il testimone, Polemone di Ilio (F 45 Preller), cita questi quattro versi. La contaminazione dei celeberrimi incipit dell’Iliade e dell’Odissea introduce solennemente non già l’epica ira di un Pelide, o l’instancabile e variegata mobilità di un Laertiade, ma la «Cariddi che divora l’oceano» (ποντοχάρυβδιν) e il ventre ben fornito di un coltellaccio trincia-tutto (ἐν γαστρὶ μάχαιραν) di un non meglio precisato Eurimedontiade (sotto le cui fattezze qualcuno ha voluto riconoscere l’ombra del solito Bupalo), le cui assunzioni di cibo, di conseguenza, non sono precisamente ispirate al decoro e all’etichetta. L’allure parodicamente solenne dell’invocazione alla Musa è acuita dall’iperbato del verbo, «narrami», che occorre solo nell’incipit del v. 3, dove l’iperbolica descrizione satirica, attraverso lo snodo dell’invocazione, cede il posto alla giambica maledizione. Ed è quanto mai significativo che la rovina dell’ignobile personaggio – espulso come l’ennesimo capro espiatorio – sia auspicata con un voto negativo, chiasticamente accostato a una «mala morte» che esso determina, e con una «deliberazione popolare», quasi a sottolineare come sia per le scelte del popolo che gli odiosi parvenu del popolo precipitano infine nella fame e nella miseria, «lungo la riva del mare infecondo», epico confine e pietra tombale dello sconfinato stomaco dell’Eurimedontiade.

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“Come le foglie”

La similitudine che mette in relazione la stirpe umana con le foglie ricorre, con accenti e significati differenti, tre volte nei poemi omerici.

La prima – e più celebre – occorrenza dell’immagine è quella di Il. VI 145-149. Sul campo di battaglia si incontrano per la prima volta l’acheo Diomede e Glauco, greco d’origine ma naturalizzato licio e alleato dei Troiani. Diomede domanda allo sconosciuto avversario la sua identità – teme di trovarsi di fronte a un dio – e Glauco risponde:

Τυδεΐδη μεγάθυμε τί ἢ γενεὴν ἐρεείνεις;

οἵη περ φύλλων γενεὴ τοίη δὲ καὶ ἀνδρῶν.

φύλλα τὰ μέν τ’ ἄνεμος χαμάδις χέει, ἄλλα δέ θ’ ὕλη

τηλεθόωσα φύει, ἔαρος δ’ ἐπιγίγνεται ὥρη·

ὣς ἀνδρῶν γενεὴ ἣ μὲν φύει ἣ δ’ ἀπολήγε.

Grande Tidide, perché mi chiedi la stirpe?

Tale e quale la stirpe delle foglie è quella degli uomini.

Le foglie il vento fa cadere a terra, ma altre sugli alberi

in fiore ne spuntano, quando arriva la primavera;

così le stirpi degli uomini, una nasce l’altra svanisce.

Glauco e Diomede. Ricostruzione a disegno di una gemma. W.H. Roscher, Ausfürliches Lexikon der griechisches und römisches Mythologie, 1884 [www.maikar.com].

Il tertium comparationis, ovvero l’elemento che accomuna i due termini messi a confronto, è la mancanza di rapporto fra una progenie (di uomini come di foglie) e quella precedente: il legame di stirpe sembra essere qui svuotato di significato e sostituito dal sentimento di appartenenza a una medesima generazione di coetanei. Senonché, subito dopo, Glauco indugia nel racconto della storia di suo nonno Bellerofonte, ed è proprio la constatazione di un’antica amicizia fra la stirpe di Glauco e quella di Diomede a determinare la conclusione positiva dell’episodio.

Con un significato leggermente diverso l’immagine delle foglie ritorna in Il. XXI 462-466, dove, a Poseidone che gli propone di intervenire in battaglia in aiuto degli Achei, Apollo risponde:

ἐννοσίγαι’ οὐκ ἄν με σαόφρονα μυθήσαιο

ἔμμεναι, εἰ δὴ σοί γε βροτῶν ἕνεκα πτολεμίξω

δειλῶν, οἳ φύλλοισιν ἐοικότες ἄλλοτε μέν τε

ζαφλεγέες τελέθουσιν ἀρούρης καρπὸν ἔδοντες,

ἄλλοτε δὲ φθινύθουσιν ἀκήριοι.

Scuotitore della terra, tu dovresti dirmi che non son saggio,

se con te mi mettessi a combattere per far piacere ai mortali

miserabili, che simili a foglie una volta si mostrano

pieni di forza, quando mangiano il frutto dei campi,

un’altra volta cadono privi di vita.

Il tertium comparationis è in questo caso la brevità e la caducità della vita umana, contrapposta all’immortalità degli dèi.

Poseidone e Apollo. Frammento di rilievo (particolare), marmo, V secolo a.C. dal fregio degli dèi del Partenone. Atene, Museo dell’Acropoli.jpg

Infine, il paragone tra uomini e foglie ricorre in Od. IX 51-52: i Ciconi sopraggiungono a vendicare la scorreria di Odisseo e dei suoi compagni ὅσα φύλλα καὶ ἄνθεα γίνεται ὥρῃ, / ἠέριοι («quante spuntano in primavera le foglie e i fiori, al mattino»). Qui ciò che accomuna i due elementi del confronto è la quantità, grande, e il palesarsi improvviso; le foglie sono osservate sul nascere come i nemici sopraggiungono al mattino.

La similitudine omerica ha avuto una notevole fortuna, nell’antichità e poi nella moderna letteratura europea. Tra le numerose riprese dell’immagine, quella del poeta lirico Mimnermo (VII-VI secolo a.C.) contiene una significativa innovazione rispetto al modello: mentre nel VI libro dell’Iliade il tema è quello del succedersi ininterrotto delle generazioni, nella continuità del ciclo naturale, in Mimnermo il paragone dà espressione al motivo della brevità della giovinezza, destinata a dileguarsi in fretta e a non fare mai più ritorno. Il poeta, cioè, ricorre alla similitudine non più per alludere al rinnovarsi ciclico delle stirpi, ma per connotare un’età dell’esistenza individuale, la giovinezza appunto, piacevole, ma destinata a breve durata (F 2 West², vv. 1-8):

ἡμεῖς δ’, οἷά τε φύλλα φύει πολυάνθεμος ὥρη

ἦρος, ὅτ’ αἶψ’ αὐγῇς αὔξεται ἠελίου,

τοῖς ἴκελοι πήχυιον ἐπὶ χρόνον ἄνθεσιν ἥβης

τερπόμεθα, πρὸς θεῶν εἰδότες οὔτε κακὸν

οὔτ’ ἀγαθόν· Κῆρες δὲ παρεστήκασι μέλαιναι,

ἡ μὲν ἔχουσα τέλος γήραος ἀργαλέου,

ἡ δ’ ἑτέρη θανάτοιο· μίνυνθα δὲ γίνεται ἥβης

καρπός, ὅσον τ’ ἐπὶ γῆν κίδναται ἠέλιος.

E noi, come foglie che produce la primavera ricca di germogli,

quando ai raggi del Sole crescono tutt’a un tratto –,

simili a quelle, in un cubito di tempo, dei fiori della gioventù

godiamo, senza che dagli dèi ci giunga la nozione del male

né del bene: le nere Chere ci stanno addosso ormai,

e l’una regge il termine della penosa vecchiaia,

l’altra quello della morte; per un istante appena vive il frutto

della gioventù, per quanto si spande sulla Terra il Sole.

I primi due versi rimandano al passo di Il. VI, ma la prospettiva è diversa: la voce di Mimnermo non è distaccata come quella di Glauco e non si tratta più della vanità delle genealogie e dei vanti aristocratici, ma della brevità della giovinezza e dei piaceri della vita; non più eroica accettazione, dunque, ma drammatica protesta.

Pittore Cleofrade. Simposiasta che gioca al κότταβος. Pittura vascolare sul tondo di una κύλιξ attica a figure rose, 480 a.C. ca. New York, Metropolitan Museum of Art.

Il poeta lirico Simonide di Ceo (VI-V secolo a.C.) risente sia di Omero sia di Mimnermo; egli cita esplicitamente il primo, «l’uomo di Chio» (una delle località che si vantava di essere stata la patria di Omero), ma, come Mimnermo, si serve del paragone fra uomini e foglie per lamentare la brevità dell’esistenza e della giovinezza, di cui gli uomini peraltro, nutrendo speranze irrealizzabili, mostrano di non essere consapevoli (F 8 West²):

ἓν δὲ τὸ κάλλιστον Χῖος ἔειπεν ἀνήρ·

‘οἵη περ φύλλων γενεή, τοίη δὲ καὶ ἀνδρῶν’·

παῦροί μιν θνητῶν οὔασι δεξάμενοι

στέρνοις ἐγκατέθεντο· πάρεστι γὰρ ἐλπὶς ἑκάστῳ

ἀνδρῶν, ἥ τε νέων στήθεσιν ἐμφύεται.

θνητῶν δ’ ὄφρά τις ἄνθος ἔχῃ πολυήρατον ἥβης,

κοῦφον ἔχων θυμὸν πόλλ’ ἀτέλεστα νοεῖ·

οὔτε γὰρ ἐλπίδ’ ἔχει γηρασέμεν οὔτε θανεῖσθαι,

οὐδ’, ὑγιὴς ὅταν ᾖ, φροντίδ’ ἔχει καμάτου.

νήπιοι, οἷς ταύτῃ κεῖται νόος, οὐδὲ ἴσασιν

ὡς χρόνος ἔσθ’ ἥβης καὶ βιότου ὀλίγος

θηντοῖς. ἀλλὰ σὺ ταῦτα μαθὼν βιότου ποτὶ τέρμα

ψυχῇ τῶν ἀγαθῶν τλῆθι χαριζόμενος.

Una sola cosa, bellissima, disse l’uomo di Chio:

“Quale la stirpe delle foglie, tale quella degli uomini”.

Pochi tra i mortali, dopo aver accolto nelle orecchie

queste parole, se le impressero in cuore: in ciascuno,

infatti, innata è la speranza, che sboccia nel cuore dei giovani.

Quando qualcuno dei mortali possiede l’amabile fiore di gioventù,

con animo leggero progetta cose irrealizzabili;

né ha alcun pensiero della vecchiaia o della morte,

né, quando è sano, si preoccupa della malattia.

Sciocchi, quelli che hanno questa mentalità, e non sanno

che il tempo della giovinezza e dell’esistenza è breve

per i mortali. Ma tu che l’hai capito, al limitare della vita,

fatti forza, godendoti nell’anima i beni.

(trad. it. I. Biondi)

Statua del vecchio (forse un indovino). Marmo, 454 a.C. ca. opera del ‘Maestro di Olimpia’, dal frontone orientale del Tempio di Zeus Olimpico. Museo Archeologico di Olimpia.

Anche Virgilio riprende nell’Eneide (VI 306-310) l’immagine delle foglie che in autunno cadono a terra numerose, come termine di paragone per la condizione delle anime dei defunti che si accalcano sulla riva dell’Acheronte:

huc omnis turba ad ripas effuse ruebat,

matres atque viri defunctaque corpora vita

magnanimum heroum, pueri innuptaeque puellae,

impositique rogis iuvenes ante ora parentum:

quam multa in silvis autumni frigore primo

lapsa cadunt folia.

Qui tutta una folla dispersa si precipitava alle rive,

donne e uomini, i corpi privati della vita

di magnanimi eroi, fanciulli e intatte ragazze,

e giovani posti sul rogo davanti agli occhi dei padri:

quante nelle selve al primo freddo d’autunno

cadono scosse le foglie.

(trad. it. R. Calzecchi Onesti)

Maestro della Leggenda dell’Eneide, La discesa di Enea negli Inferi. Smalto dipinto su rame argentato, c. 1530-1540. Baltimora, Walters Art Museum.

Come nel passo dell’Odissea ricordato sopra, qui il tertium comparationis è la quantità (quam multa): le foglie, numerose, sono però questa volta osservate alla fine della loro stagione, non all’inizio, coerentemente con la situazione dei defunti nell’Oltretomba.

Di questo passo virgiliano si sarebbe ricordato Dante (1265-1321) nell’Inferno (III 112-117):

Come d’autunno si levan le foglie

una appresso de l’altra, fin che ’l ramo

vede a terra tutte le sue spoglie,

similemente il mal seme d’Adamo

gittansi di quel lito ad una ad una,

per cenni come augel per suo richiamo.

Le anime si gettano nella barca di Caronte come le foglie, una dietro l’altra, in ottobre cadono dal ramo; a «levan» corrisponde «gittansi», a «una appresso de l’altra» corrisponde «ad una ad una».

Michelangelo Buonarroti, Giudizio Universale. Dettaglio: I dannati sulla barca infernale. Affresco, c. 1536-1541. Cappella Sistina, Città del Vaticano.

Lorenzo de’ Medici (1449-1492) nel poemetto Corinto, ricco di reminiscenze letterarie, riprende il parallelo fra uomini e foglie: il tema è quello del rimpianto del tempo breve della giovinezza. Il pastore Corinto, proiezione autobiografica del Magnifico, effonde al lume della Luna i suoi lamenti d’amore per la giovane e bella ninfa Galatea, ritrosa a ogni suo approccio; il suo discorso si conclude con l’immagine delle rose candide e rosse, appena sbocciate nel giardino e ben presto sfiorite. Il malinconico motivo delle rose, che si vedono nascere e morire «in men d’un’ora» (v. 177), offre lo spunto per un invito a cogliere senza indugio il fiore della gioventù e della bellezza, destinato inesorabilmente ad appassire nel più breve spazio di tempo (vv. 178-183):

Quando languenti e pallidi vidi ire

le foglie a terra, allor mi venne in mente

che vana cosa è il giovenil fiorire.

Nostro solo è quel poco ch’è presente,

né il passato o il futuro è nostro tempo:

un non è più, e l’altro è ancor nïente.

Infine, Giuseppe Ungaretti (1888-1970), nella lirica Soldati, composta nel bosco di Courton, in Francia, sul limitare della Grande guerra (nel luglio 1918), attraverso la similitudine uomini-foglie, resa in forma epigrammatica, sottolinea, come già Mimnermo, la fragilità della condizione umana, accentuata in questo caso dalla drammatica esperienza bellica:

Soldati

Si sta come

d’autunno

sugli alberi

le foglie

Il titolo, Soldati, è il primo termine del paragone che viene svolto nei quattro versi del testo; il tertium comparationis è il modo di stare, precario: quello dei soldati in attesa del distacco definitivo e inevitabile della vita e quello delle foglie in autunno, quando un soffio di vento basta per farle cadere.

***

Riferimenti bibliografici:

M. Barbi, Per due similitudini dell’Inferno, SD 11 (1927), 121-128.

B. Maier, Lorenzo de’ Medici, in W. Binni (ed.), Da Dante al Tasso, I, Firenze 1954, 257-276.

G. Regoliosi, Il tertium comparationis fra uomini e foglie, Zetesis 1 (1994) [www.rivistazetesis.it].

Stesicoro

Per i colonizzatori dell’Italia meridionale il mito non rappresentava soltanto un veicolo per la sopravvivenza dei legami con la madrepatria, ma anche un modo per interpretare e giustificare l’impulso migratorio, collegando le storie di Eracle, degli Argonauti, di Diomede e degli altri reduci dalla guerra troiana alla scelta dei siti in cui le nuove colonie sarebbero sorte. In quest’ottica, l’eroe protettore della nuova comunità si configurava spesso come una sorta di proiezione del capo aristocratico (οἰκιστής) che aveva guidato la spedizione e che, con il tempo, avrebbe potuto diventare egli stesso oggetto di culto eroico. In più, il mito, con le tensioni implicite delle multiformi vicende degli eroi, permetteva di alludere attraverso figure e atteggiamenti esemplari ai problemi che agitavano l’attualità coloniale e in special modo a quei contrasti sociali forieri di στάσεις, che ben presto emersero all’interno delle nuove πολεῖς, dopo un iniziale momento egalitario della lotta per l’insediamento e dell’organizzazione del nuovo spazio territoriale.

Pittore anonimo. Un poeta (dettaglio). Pittura vascolare su un λήκυθος attico a figure rosse, c. 480 a.C. da Atene. Los Angeles-Malibu, Villa Getty Museum.

Massimo interprete della tradizione mitica all’interno del mondo magno-greco nelle forme, verosimilmente, della lirica citarodica fu Stesicoro (Στησίχορος), figlio di Eufemo (o di Euclide?). Gli antichi, in genere, associavano questo poeta alla siciliana Imera, dove si era presumibilmente trasferito dall’originaria Matauro (colonia locrese nell’Italia meridionale). Stesicoro avrebbe soggiornato anche in altre località magno-greche e siceliote (PMGF TA 8-13).

Le testimonianze antiche sulla sua cronologia sono alquanto incerte, forse perché lo si confuse con omonimi più tardi oppure perché fu considerato l’«inventore» (πρῶτος εὑρετής) della lirica corale: secondo la testimonianza del lessico Sud. σ 1095 (IV 433. 16-20 Adler = Stes. TA 10, 1-5 Ercoles1), il nome stesso Stesicoro sarebbe stato un epiteto derivato dal fatto che egli «per primo, istituì un coro con la citarodia, mentre il suo vero nome era Tisia» (πρῶτος κιθαρῳδίᾳ χορὸν ἔστησεν· ἐπεί τοι πρότερον Τισίας ἐκαλεῖτο).

Comunque stessero le cose, mentre è sicuramente da escludere la data registrata dal Marmor Parium (FGrHist. 239, 50 = PMGF TA 6, che riferisce di un suo arrivo nella Grecia continentale nel 485/4 a.C., in sincronia con la prima vittoria di Eschilo nei concorsi tragici e con la nascita di Euripide), sembra probabile una sua collocazione tra la fine del VII e la prima metà del VI secolo a.C.: nell’ultimo periodo, in particolare, Stesicoro doveva essere ancora in vita, se Aristotele (Rhet. 1393b) lo connetté con il tiranno di Agrigento Falaride (570-554 a.C.), da cui il poeta avrebbe invano cercato di mettere in guardia gli abitanti di Imera, quando essi gli si assoggettarono. Non lontana dal vero appare dunque la datazione già suggerita da Sud. σ 1095, che collocava la sua vita fra la XXXVII e la LVI Olimpiade, cioè fra il 632/629 e il 556/553, anche se andrebbe posticipata di poco la data di morte, se si presta fede alle testimonianze che collegano Stesicoro alla battaglia del fiume Sagra, combattuta fra Locresi e Crotoniati verso il 550 a.C. (cfr. [Luc.]Macr. 26, I 81 Macleod = PMGF TA 7, che riferisce che il poeta visse fino a 85 anni).

Più incerta è la notizia secondo cui il poeta avrebbe soggiornato per un certo tempo a Pallantio, in Arcadia, donde sarebbe tornato in Sicilia, a Catania. E a Catania (oppure a Imera) sarebbe morto.

Pittore di Dana. Scena musicale (dettaglio): due donne in atto di ascoltare una terza mentre canta e suona la lira. Pittura vascolare da un cratere a campana attico a figure rosse, c. 460 a.C. New York, Metropolitan Museum of Art.

I componimenti di Stesicoro furono raccolti dai filologi alessandrini in 26 libri. Di questa produzione, di cui ora si sa con certezza che era davvero enorme e che aveva incontrato nel mondo antico una vasta diffusione, era nota fino al secolo scorso solo una cinquantina di versi (frammenti desunti da citazioni, per lo più assai brevi), mentre già si conosceva un buon numero di titoli (probabilmente stabiliti dai grammatici alessandrini), che per la maggior parte si riferiscono a fatti e personaggi della leggenda: Giochi per Pelia, Gerioneide, Elena, Palinodie per Elena, Distruzione di Ilio, Cerbero, Cicno, Ritorni, Orestea, Scilla, Cacciatori del cinghiale. Si confermava, comunque, la sentenza di Quintiliano (X 1, 62), secondo cui Stesicoro epici carminis onera lyra sustinentem («sostenne con la cetra il peso dell’epos»).

Parecchi studiosi contemporanei attribuiscono non a Stesicoro, ma a un omonimo imerese vissuto nel IV secolo a.C. altri carmi che, a giudicare dai titoli, trattavano storie d’amore a triste fine: Calica, Radina, Dafni (la storia del pastore che muore d’amore, nota dall’Idillio I di Teocrito). Stesicoro avrebbe infine composto, secondo la dubbia testimonianza di Ateneo (XIII 601a), anche carmi omoerotici.

Se nel 1936 il filologo inglese Cecil M. Bowra poteva parlare di Stesicoro come dell’«ombra indistinta di un grande nome agli inizi della poesia greca», oggi quest’ombra è certamente assai meno vaga, perché un considerevole incremento alla conoscenza dell’opera stesicorea è venuto da una serie di scoperte papiracee, che hanno restituito brani più o meno estesi inseribili nella Gerioneide (F S7-S87), nella Distruzione di Ilio (F S88-S147), nei Ritorni (PMGF 209) e nella Tebaide (PMGF 222b).

Pittore Nicone. Un poeta con barbiton. Pittura vascolare da un λήκυθος attico a figure rosse, c. 460-450 a.C. New York, Metropolitan Museum of Art.

I nuovi frammenti papiracei hanno permesso di accertare le dimensioni davvero cospicue dei testi: un’indicazione sticometrica contenuta in P. Oxy. 2617, che conserva frammenti della Gerioneide, documenta che questo carme superava i 1.300 versi! In particolare, è ora possibile chiarire il rapporto di innovazione/continuazione, se non di concorrenzialità, che legava i carmi stesicorei con l’epica non solo a livello lessicale e stilistico, ma anche nella costruzione di ampi intrecci e di estese sezioni narrative, intercalate da scambi dialogici.

Discusse sono le modalità di esecuzione di queste composizioni, la cui struttura strofica, detta “triadica” (PMGF TA 19), era caratterizzata dalla ripetizione ad libitum di segmenti composti da una strofe, un’antistrofe (metricamente equivalente) e un epodo (metricamente autonomo, ma ritmicamente connesso alle precedenti) e dall’innovativo impiego dei metri dattilo-epitriti. Questa articolazione “triadica” è documentata al di là di ogni dubbio dalla testimonianza dei papiri e gli antichi ne assegnavano l’invenzione allo stesso Stesicoro.

Oggi l’opinione dei più è che l’esecuzione dei carmi non fosse (o almeno non sempre) realizzata da un coro, come si riteneva in passato, ma da un solista (di solito, il poeta in persona), che si accompagnava con la cetra alla maniera della citarodia lirica pre-omerica (della quale Stesicoro sarebbe stato un continuatore).

È pur vero che la stessa articolazione triadica rende probabile, insieme con le testimonianze antiche, la presenza di un coro, che doveva pertanto limitarsi a eseguire mute evoluzioni di danza destinate a porsi in un rapporto mimetico nei confronti dello sviluppo del tema mitico di volta in volta affrontato.

Quale luogo privilegiato delle esecuzioni dei carmi stesicorei Luigi Enrico Rossi (1983) individuò l’ambito di quelle gare citarodiche che si svolgevano all’interno delle riunioni festive diffuse in tutto il mondo greco arcaico: in tale contesto Stesicoro avrebbe cantato le sue composizioni di epica lirica “alternativa” fianco a fianco con rapsodi che recitavano brani di Omero o nuovi brani di epica esametrica. E con la necessità di soddisfare le richieste di un pubblico di cui dipendeva la vittoria agonale si spiegherebbe anche la frequente rifunzionalizzazione “regionale” del mito.

Pittore di Londra E. Apollo musico. Pittura vascolare dal tondo di una κύλιξ attica a figure rosse, c. 480-470 a.C. da Chiusi. London British Museum.

La proposta di Giocasta(PMGF 222b)

È la colonna meglio conservata (A II) di una serie di frustoli papiracei (P. Lille 76A II + 73 I) recuperati dal cartonnage di una mummia e pubblicati nel 1977 da G. Archer e C. Meillier nel Cahier de Recherches de l’Istitut de Papyrologie et d’Egyptologie de Lille 4, 287 ss. Contengono brani di un carme in triadi strofiche e nell’impasto linguistico tipico della lirica corale – attribuibile con quasi assoluta certezza a Stesicoro – sulla divisione dell’eredità paterna tra i figli di Edipo, Eteocle e Polinice: un soggetto trattato già nella Tebaide epica e poi ripreso ripetutamente dalla tragedia attica (Sette contro Tebe di Eschilo; Fenicie di Euripide, Edipo a Colono di Sofocle – sulla trattazione stesicorea della leggenda, cfr. A. Carlini, QUCC 25 [1977], 61-67, e Bremer 1987).

Il brano qui riprodotto inizia nel mezzo di una risposta della madre Giocasta all’indovino Tiresia, perché non voglia aggiungere nuovi mali a quelli esistenti. La soluzione prospettata dalla regina consiste nel proporre un sorteggio in base al quale uno dei fratelli otterrà il regno, mentre l’altro se ne andrà in esilio portando con sé i tesori paterni.

La colonna successiva (73 II + 76C I + 111C) a quella riportata qui doveva appunto contenere, come possiamo arguire dai miseri monconi superstiti, una rapida descrizione del sorteggio e della raccolta dei beni paterni da parte di Polinice, a cui la sorte assegnava l’esilio, seguita da uno scambio dialogico (cfr. v. 253 μῦθον ἔειπε), di cui non possiamo identificare gli interlocutori. Poi, nella colonna ancora seguente (76C II + B), l’indovino prediceva le nozze che Polinice avrebbe contratto in Argo con la figlia di Adrasto (vv. 274 ss.) e annunciava i mali che avrebbero colpito Tebe, se l’accordo fosse stato infranto. Dagli ultimi residui di testo (vv. 291 ss.) si deduce che, appena terminato l’ultimo intervento di Tiresia, Polinice partiva in direzione di Argo, giungendo all’Istmo di Corinto.

Scena tebana con Eteocle, Polinice, Giocasta, Antigone e Creonte. Rilievo, marmo, II sec. da un sarcofago in stile attico. Roma, Villa Doria Pamphilj.

(P. Lille 76 A II + 73 I Bremer 1987a)

‹Ἰοκάστη› (?)

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

ἐπ’ ἄλγεσι μὴ χαλεπὰς ποίει μερίμνας

μηδέ μοι ἐξοπίσω

πρόφαινε ἐλπίδας βαρείας.

οὔτε γὰρ αἰὲν ὁμῶς

θεοὶ θέσαν ἀθάνατοι κατ’ αἶαν ἱρὰν

νεῖκος ἔμπεδον βροτοῖσιν

οὐδέ γα μὰν φιλότατ’, ἐπὶ δ’ ἁμέρα‹ι ἐ›ν νόον ἀνδρῶν

θεοὶ τιθεῖσι.

μαντοσύνας δὲ τεὰς ἄναξ ἑκάεργος Ἀπόλλων

μὴ πάσας τελέσσαι[1].

αἰ δέ με παίδας ἰδέσθαι ὑπ’ ἀλλάλοισι δαμέντας

μόρσιμόν ἐστιν, ἐπεκλώσαν δὲ Μοίρα[ι,

αὐτίκα μοι θανάτου τέλος{ο}στυγερο[ῖο] γέν[οιτο,

πρίν ποκα ταῦτ’ ἐσιδεῖν

ἄλγεσ‹σ›ι πολύστονα δακρυόεντa ἀ[γεῖσαν

παίδας ἐνὶ μεγάροις

θανόντας ἢ πόλιν ἁλοίσαν.

ἀλλ’ ἄγε παίδες ἐμοῖς μύθοις φίλα[ τέκνα, πίθεσθε,

τᾶιδε γὰρ ὑμὶν ἐγὼν τέλος προφα[ίνω,

τὸν μὲν ἔχοντα δόμους ναίειν πό[λιν εὐκλέα Κάδμου,

τὸν δ’ ἀπίμεν κτεάνη

καὶ χρυσὸν ἔχοντα φίλου σύμπαντα [πατρός,

κλαροπαληδὸν ὃς ἄν

πρᾶτος λάχῃ ἕκατι Μοιρᾶν[2].

τοῦτο γὰρ ἂν δοκέω

λυτήριον ὔμμι κακοῦ γένοιτο πότμο[υ,

μάντιος φραδαῖσι θείου,

εἴ γε νέον Κρονίδας γένος τε καὶ ἄστυ [σαώσει

Κάδμου ἄνακτος

ἀμβάλλων κακότατα πολὺν χρόνον[, ἃ περὶ Θήβα]ς

πέπρωται γενέ[σ]θαι.

ὣς φάτ[ο] δῖα γυνά, μύθοις ἀγ[α]νοῖς ἐνέποισα,

νείκεος ἐμ μεγάροις π[αύο]ισα παίδας,

σὺν δ’ ἅμα Τειρ[ε]σίας τ[ερασπό]λος, οἱ δὲ πίθο[ντο[3].

Giovanni Silvagni, Il duello tra Eteocle e Polinice. Olio su tela, 1820. Roma, Galleria dell’Accademia di San Luca.

[1] vv. 201-210. La colonna A II inizia col terzultimo colon di un’antistrofe, nel corso della replica di Giocasta all’indovino Tiresia: «… “Non creare ansie opprimenti (χαλεπὰς… μερίμνας costituisce un nesso formulare arcaico estraneo a Omero, attestato in Hes. Erga 178 χαλεπὰς δὲ θεοὶ δώσουσι μερίμνας; Mimn. 1, 7 ἀμφὶ κακαὶ τείρουσι μέριμναι; Sapph. 1, 25 χαλέπαν …/ἐκ μερίμναν) in aggiunta ai dolori (presenti: forse si allude al lutto per la morte di Edipo, o più in generale alla sequela di sciagure che hanno colpito la regina tebana a partire dalla morte del marito Laio) e a me non predire (πρόφαινε: il verbo ha spesso questa accezione in relazione a oracoli e indovini: cfr. Soph. Trach. 849, Hdt. VII 37, 2; cfr. R. Tosi, MCr 13-14 [1978/1979], 125-142 [126] Bremer, 137) d’ora in poi (ἐξοπίσω) gravi attese (ἐλπίς ha generalmente connotazione positiva, “speranza”, ma di per sé è una vox media, “attesa”, e può essere associata ad aggettivi con qualificazione negativa, cfr. Soph. Ajax 606 κακὰν ἐλπίδ’ ἔχων). Né, infatti, sempre (αἰὲν = ἀεί) allo stesso modo (ὁμῶς) gli dèi immortali provocano (θέσαν = ἔθεσαν, aoristo gnomico: il nesso paretimologico θεοὶ θέσαν, che tende a prospettare gli dèi come coloro che, per definizione, dispongono degli eventi e degli uomini, è tradizionale) ai mortali sulla sacra (ἱρὰν = ἱεράν: l’aggettivo è spesso riferito nell’epica a singole località, non alla terra intera) terra discordia incessante, e neppure (οὐδέ γα μὰν = οὐδέ γε μὴν) concordia (la presenza della polarità νεῖκος/φιλότης, centrale nella cosmologia di Empedocle 31 B 17,7-20; 26,5-6; 33,3-13 D.-K., induceva J. Bollack a datare il nostro brano al V secolo a.C., negando l’attribuzione a Stesicoro; ma si è opportunamente osservato che già Esiodo include Φιλότης ed Ἔρις nel catalogo delle forze cosmiche in Th. 211 ss.), ma gli dèi dispongono la mente (τιθεῖσι di v. 208 riprende θέσαν 205) degli uomini secondo gli eventi del giorno (ἁμέριον = ἡμέριον, in contrasto con αἰὲν di v. 204). Ma il sire Apollo lungisaettante (ἄναξ ἑκάεργος Ἀπόλλων è clausola formulare, cfr. Il. XV 253; XXI 461, ecc.) non porti a compimento (τελέσσαι = τελέσαι, ottativo deprecativo, non infinito) tutte le tue (τεὰς = σὰς) profezie (μαντοσύνας, cfr. Emped. 31 B 112, 10 D.-K.)».

[2] vv. 211-224. «Ma se (αἰ = εἰ) è destino, e le Moire (le dee del destino, figlie di Zeus e di Themis: Cloto, Lachesi e Atropo, secondo Hes. Th. 904-906 Μοίρας θ’, ᾗς πλείστην τιμὴν πόρε μητίετα Ζεύς,/Κλωθώ τε Λάχεσίν τε καὶ Ἄτροπον, αἵ τε διδοῦσι/θνητοῖς ἀνθρώποισιν ἔχειν ἀγαθόν τε κακόν τε) hanno filato (l’immagine è ridondante dopo μόρσιμόν, ma tradizionale), che io veda i figli uccisi l’uno dall’altro, subito a me venga il termine (il modulo del “potessi morire prima di…” compare più volte in Omero) dell’odiosa morte (θανάτου…στυγεροῖο/-ροῦ rappresenta lo smembramento di una formula omerica, cfr. Od. XII 341 στυγεροὶ θάνατοι; XXIV 414 στυγερὸν θάνατον), prima di veder mai (ποκα = ποτε) queste molto lamentevoli (e) lacrimevoli (giustapposizione asindetica con effetto patetico) cose per i dolori (ἄλγεσ‹σ›ι = ἄλγεσι), i figli morti nel (ἐνὶ = ἐν) palazzo o (con riferimento alla profezia resa da Apollo a Laio, il dilemma stirpe/città ricomparirà in Aesch. Theb. 745-749 …Ἀπόλλωνος εὖτε Λάιος/βίᾳ, τρὶς εἰπόντος ἐν/μεσομφάλοις Πυθικοῖς/χρηστηρίοις θνῄσκοντα γέν-/νας ἄτερ σῴζειν πόλιν) la città conquistata (ἁλοίσαν = ἁλοῦσαν < ἁλίσκομαι). Suvvia, figli (παίδες = παῖδες), alle mie parole date ascolto, figli (τέκνα) diletti, io a voi (ὑμὶν = ὑμῖν) propongo (προφαίνω, con intenzionale antitesi, ma con diversa valenza semantica, rispetto al πρόφαινε di v. 203) questa (τᾶιδε = τῇδε, prolettico) soluzione: l’uno abiti ‹la celebre città di Cadmo› (πό[λιν εὐκλέα Κάδμου), tenendo (ἔχοντα) la reggia, l’altro se ne vada (ἀπίμεν = ἀπιέναι) tenendo (ἔχοντα, con ricercata simmetria dell’ἔχοντα di v. 220) il bestiame (κτεάνη) e tutto quanto l’oro di suo padre, colui che per primo (πρᾶτος = πρῶτος) per volere (ἕκατι = ἕκητι) delle Moire ottenga il verdetto col getto delle sorti (κλαροπαληδὸν, avverbio non attestato altrove, formato su *κλαροπαλέω; l’aggettivo κληροπαλής è presentein H. Herm. 129)». La relativaὃς…Μοιρᾶν è agganciata al secondo corno del dilemma essendo stato prefissato che colui la cui sorte fosse stata estratta per prima avrebbe preso la parte maggiore.

[3] vv. 225-234. «E ciò io credo (con δοκέω parentetico) che sarebbe per voi (ὔμμι = ὑμῖν) un riscatto (λυτήριον: è la prima attestazione del termine; cfr. Soph. Elect. 1489-1490 κακῶν/…λυτήριον) dal maligno destino, secondo i suggerimenti del vate divino, se il Cronide ‹proteggerà› (σαώσει) la nuova progenie (Eteocle e Polinice, opposti a Laio e a Edipo; cfr. Pind. Paean. IX, 20; Soph. OT 1) e la città di Cadmo sovrano, allontanando (ἀμβάλλων = ἀναβάλλων) per molto tempo la sventura, che è destinata (πέπρωται, forma di perfetto dalla radice * πορ-, donde l’aor. πορεῖν) ad abbattersi su Tebe”. Così disse (ὣς φάτο = ἔφατο, modulo frequentissimo nell’epica per chiudere la “cornice” di un discorso diretto) la donna divina (δῖα γυνά) parlando (ἐνέποισα = ἐνέπουσα) con miti parole, ricomponendo (π[αύο]ισα = παύουσα) la lite dei figli nel palazzo, e insieme (ἅμα) con Tiresia interprete di prodigi (τ[ερασπό]λος, integrazione su analogia con τερασκόπος, “profeta”, e ὀνειροπόλος, “interprete di sogni”), e quelli obbedirono».


Sette contro Tebe. Rilievo, marmo pario, II sec. da un sarcofago romano. Corinto, Museo Archeologico.

Il passo presenta un ritratto tutt’altro che convenzionale di una donna impegnata a prendere una decisione cruciale sotto la pressione di un forte e improvviso impatto emotivo prodotto in lei da una dolorosa profezia: Tiresia ha profetizzato che la contesa fra Eteocle e Polinice potrà risolversi solo con la mutua uccisione dei fratelli o con la distruzione di Tebe (cfr. vv. 214-217: alternativa – marcata dalla disgiuntiva ἢ – fra morte dei figli e città distrutta). Di fronte a questo dilemma soffocante la regina non si abbandona a uno sfogo patetico (anche il modulo, impiegato ai vv. 213 ss., del «potessi morire prima di…[se non…]» – cfr. p. es. Il. XXIV 244-246; Od. XVI 106-111; Mimn. F 1, 2 ss.; Theogn. 342-343 – non esprime una reale volontà di suicidio), bensì elabora una personale risposta intesa ad affrontare il problema sia sul piano ideologico che su quello operativo.

Quanto al primo, ella nega che esista alcunché di immutabile, tanto meno odio e amore, «sulla sacra terra»: tutto cambia e gli dèi adattano la mente degli uomini agli accadimenti che di giorno in giorno si verificano (il motivo compare già in Od. XVIII 136-137: «perché così è la mente degli uomini sopra la terra, /come l’ispira di giorno in giorno il padre dei numi e degli uomini»; e in Archil. F 131-132 West2: «Glauco, figlio di Leptine, l’indole degli uomini/ha la patina dei giorni che via via ci porta Zeus,/e all’azione che li impegna uniformano l’idea»). È una considerazione di sapore esistenziale che tuttavia – come ha opportunamente osservato A. Burnett, CA 7 (1988), 107-154 (114) – veniva ad assumere un’importante valenza politica in quanto rispondeva alle esigenze di una ristretta comunità oligarchica: significativa a questo proposito la possibilità di un confronto sia con una delle norme che si tramandano codificate da uno dei grandi “legislatori” arcaici, Zaleuco di Locri, secondo cui (cfr. Diod. XII 20, 3) «non bisogna avere nessuno dei concittadini come nemico inconciliabile, ma considerare l’inimicizia come se in futuro potrà di nuovo volgersi in riconciliazione e amicizia», sia con un passo dell’Aiace di Sofocle (vv. 678-683), dove il protagonista dichiara, sia pure con ironia, di aver preso consapevolezza del fatto che «i nemici odiati/ci potranno anche amare, più tardi,/e gli amici a cui farò del bene, non saranno amici per sempre; l’amicizia non è un porto sicuro per gli uomini».

Era un messaggio che, trasposto nella relazione fra Stesicoro e il pubblico delle città magnogreche presso il quale i suoi canti venivano eseguiti, poteva cooperare al tentativo, a cui anche le feste religiose e gli agoni poetici contribuivano, di frenare i contrasti tra le fazioni in lotta, secondo un ruolo del poeta e più in generale del “saggio” che le fonti antiche dichiarano esercitato proprio da Stesicoro a proposito di tensioni interne alla comunità di Locri Epizefiri.

Non meno significativa è la dimensione operativa della risposta elaborata dalla regina. Rispetto ai due schemi di sorteggio tradizionalmente usati nella Grecia arcaica – sorteggio attraverso cui si opera la divisione in lotti o porzioni uguali, ad esempio in occasione di un’eredità (cfr. Od. XIV 209-210) o della fondazione di una colonia, e sorteggio in cui si sceglie qualcuno all’interno di un gruppo – Giocasta cerca infatti di contaminare i due procedimenti, mirando simultaneamente a dividere i beni parteni fra beni immobili e beni mobili (oro e armenti) e a scegliere chi fra i due dovrà tenere i primi insieme con il regno e chi invece dovrà prendersi i secondi andando in esilio.

Si tratta di un’ingegnosa soluzione di compromesso, fondato su una personale «opinione» (δοκέω v. 225) che cerca di sfruttare le pieghe dei responsi, ma che sembra tuttavia condannata al fallimento. La simultanea salvezza della stirpe e della città può infatti realizzarsi solo temporaneamente: la stessa regina invoca da Zeus non l’eliminazione ma solo un «rinvio» (ἀμβάλλων v. 230) della rovina incombente. E nel contempo una tale spartizione non avrebbe fatto che esacerbare il figlio esiliato e insieme indebolire il regno di colui che restava (Eteocle): «regnare», nel mondo della monarchia eroica, comportava non solo autorità su uomini e cose, ma anche il disporre di armenti e di quel metallo che «voleva dire strumenti e armi», nonché disponibilità di κειμήλια (“tesori”), in quanto simboli di ricchezza e di prestigio (cfr. Finley, 70 s.).

Sul piano espressivo, dunque, è possibile cogliere nell’arte di Stesicoro una puntigliosa aderenza a moduli già noti dall’epica, ma non è possibile accertare in che misura essi derivino direttamente da quella tradizione o da una ancora più antica. D’altra parte, una tale impressione è verificabile solo nell’ambito del discorso diretto di Giocasta, mentre le sezioni narrative (come, p. es., quella della partenza e del viaggio di Polinice e dei suoi compagni alla volta di Argo) dovevano procedere con un ritmo molto veloce e una selezione estremamente sintetica dei dettagli. Si può, ancora, osservare, anche all’interno della replica di «Giocasta», che la dizione tradizionale, con un procedimento che si potrebbe definire “manieristico”, viene caricata e appesantita dalle Stesichori… graves Camenae di oraziana memoria. Si riscontra, infatti, la costante ricerca di un’enfasi espressiva che va spesso al di là della misura epica, determinata da fenomeni peculiari, come la ripetizione di nozioni già espresse, l’accumulo di sinonimi, la contrapposizione polare di concetti antitetici.

La lettura del testo evidenzia, insomma, uno stile che rende ora meglio comprensibile il giudizio di Quintiliano (X 1, 62), che se elogiava in Stesicoro la capacità di attribuire ai suoi personaggi l’appropriato rilievo sia nell’agire sia nel parlare (reddit enim personis in agendo simul loquendoque debitam dignitatem) ne sottolineava, d’altra parte, l’effusa ridondanza (sed redundat atque effunditur).

La Gerioneide (F S11; S13, 2-6; S15, col. II)

Non meno interessanti del brano della Tebaide appaiono i frammenti provenienti dalla Gerioneide, che presenta la rievocazione di una di quelle saghe legate all’esplorazione e alla colonizzazione di nuove terre occidentali. Generalmente, Gerione è rappresentato come un mostro gigante dotato di tre teste e tre busti (ma due gambe), che possedeva una mandria di buoi, custodita dal pastore Eurizione e dal cane a due teste Ortro. Nei suoi versi Stesicoro narrava della cattura da parte di Eracle, come una delle sue proverbiali fatiche, delle vacche di Gerione nell’isola di Erizia, situata nell’estremo Occidente presso Cadice, di fronte alla foce del fiume Tartesso, oggi Guadalquivir (cfr. Strab. III 2, 11).

Sia pure a costo di qualche lacuna, oggi, grazie a un fortunato ritrovamento papiraceo, possiamo leggere almeno tre parti: il dialogo fra qualcuno (probabilmente un guardiano delle mandrie, in genere chiamato Eurizione nella tradizione mitografica) che cerca di dissuadere il gigante dal battersi con Eracle e Gerione stesso che, sul punto di affrontare lo scontro, ne prevede l’esito mortale ma rifiuta di dar prova di viltà (F S11); la supplica della madre Calliroe a Gerione perché rinunci allo scontro (F S13, 2-6); infine la rappresentazione della morte patita dallo sventurato mandriano (F S15, col. II).

Pittori del Gruppo di Priceton. Il gigante Gerione. Pittura vascolare su anfora a collo con figure nere, 540-530 a.C. ca. dall’Attica. New York, Metropolitan Museum of Art.

S11

χηρσὶν δ[     τὸν

     δ᾽ ἀπαμ[ειβόμενος

ποτέφα̣ [κρατερὸς Χρυσάορος ἀ-

     θανάτοιο̣ [γόνος καὶ Καλλιρόας[1]·

«μή μοι θά[νατον προφέρων κρυόεν-

     τα, δεδίσκ[ε’ ἀγάνορα θυμόν,

μηδεμελ[

     Αἰ μὲν γὰ[ρ γένος ἀθάνατος πέλο-

μαι καὶ ἀγή̣[ραος ὥστε βίου πεδέχειν

     ἐν Ὀλύμπ[ῳ,

κρέσσον[ ἐ-

     λέγχεα δ̣[

καὶ τ[

κεραϊ[ζομένας ἐπιδῆν βόας ἁ-

     μετέρω[ν ἀπόνοσφιν ἐπαύλων

Αἰ δ᾽ ὦ φί̣[λε χρὴ στυγερόν μ᾽ ἐπὶ γῆ-

     ρας [ἱκ]έ̣σ̣θαι̣,

ζώ[ει]ν τ᾽ ἐν̣ ἐ̣[φαμερίοις ἀπάνευ-

     θε θ̣[ε]ῶ̣ν μακάρω[ν,

νῦν μοι πο̣λ̣ὺ̣ κ̣ά̣[λλιόν ἐστι παθῆν

     ὅ τι μόρσιμ[ον

καὶ ὀνείδε[     α

καὶ παντὶ γέ[νει                                     ἐξ-

     ὀπίσω Χρυς[άο]ρ̣ο[ς υ]ἱ̣ό̣ν̣·

μ]ὴ τοῦτο φ[ί]λ̣ον μακά̣[ρε]σσι θε[ο]ῖ-

     σι γ]ένοιτο

….].[.].κ̣ε[..].[.] περὶ βουσὶν ἐμαῖς

     ……………]

     ]κ̣λεος̣.[[2]

S13

     ……] ἐ̣γ̣ὼν̣ [μελέ]α καὶ ἀλασ-

     τοτόκος κ]αὶ ἄλ̣[ας]τ̣α̣ π̣α̣θοῖσα

…… Γ]αρυόνα γωνάζομα[ι,

     αἴ ποκ᾽ ἐμ]όν τιν μαζ[ὸν] ἐ̣[πέσχον[3]

S15

                   ]ων̣ στυγε[ρ]οῦ

     θανάτοι]ο ..[ ]

κ]ε̣φ[αλ]ᾷ πέρι̣ [ ] ἔ̣χων, πεφορυ-

     γ]μένος αἵματ[ι …..]..[..]ι̣ τε χολᾷ,

ὀλεσάνορος αἰολοδε[ίρ]ου

ὀδύναισιν Ὕδρας· σιγᾷ δ᾽ ὅ γ᾽ ἐπι-

     κλοπάδαν [ἐ]νέρεισε μετώπῳ·

διὰ δ᾽ ἔσχισε σάρκα [καὶ] ὀ̣[στ]έ̣α δαί-

     μονος αἴσᾳ·

διὰ δ᾽ ἀντικρὺ σχέθεν οἰ[σ]τ̣ὸς ἐπ᾽ ἀ-

     κροτάταν κορυφάν,

ἐμίαινε δ᾽ ἄρ᾽ αἵματι πο̣ρ̣φ̣[υρέῳ

     θώρακά τε καὶ βροτό̣ε̣ντ̣[α μέλεα·

ἀπέκλινε δ᾽ ἄρ᾽ αὐχένα Γ̣α̣ρ̣[υόνας

     ἐπικάρσιον, ὡς ὅκα μ[ά]κ̣ω̣[ν

ἅτε καταισχύνοισ᾽ ἁπ̣α̣λ̣ὸ̣ν̣ [δέμας     

αἶψ’ ἀπὸ φύλλα βαλοῖσα̣ ν̣[[4]

Pittore delle Iscrizioni. Eracle combatte contro Gerione e gli ruba il bestiame. Pittura vascolare da un’anfora calcidica a figure nere, c. 540 a.C. dall’Italia meridionale. Paris, Cabinet des Médailles.


[1] vv. 1-4. «… con le mani ‹…A lui› rispondendo diceva (ποτέφα = προσέφη: calco dell’omerico τὸν δ᾽ ἀπαμειβόμενος προσέφη) ‹il forte figlio di Crisaore› immortale ‹e di Calliroe› (la genealogia è quella già fissata da Hes. Th. 287 ss.; 979-983;Crisaore, “Spada d’oro” era balzato fuori dal capo di Medusa insieme con il cavallo Pegaso, quando Perseo le aveva mozzato latesta)».

[2] vv. 6-29: «“No, ‹preannunciando› a me una morte ‹agghiacciante› (κρυόεν-]|-τα), non cercare di terrorizzarmi ‹l’animo fiero›, né… Se (αἰ = εἰ), infatti, ‹fossi immune da morte› e da vecchiezza ‹così da vivere› sull’Olimpo, ‹sarebbe› meglio ‹…› e i biasimi… ‹osservare (ἐπιδῆν = ἐπιδεῖν) le mie vacche› razziate ‹via› dalle nostre ‹stalle›. Ma se, o mio caro, ‹mi tocca› arrivare alla vecchiezza e vivere tra ‹gli effimeri› (l’uso di ἐφήμεροι / ἐφημέριοι per indicare gli uomini – in quanto sottoposti agli influssi della sorte e dei loro stessi volubili pensieri e tali quindi da mutare condizione ogni giorno – non è omerico ma è attestato fra i lirici in Semon. F 1, 3 W2; Pind. Pyth. VIII 95; F 157, 1; 182, 1) lungi dagli dèi beati, ora per me è molto più nobile ‹patire› (παθῆν = παθεῖν) ciò che è mio destino patire e che il figlio di Crisaore ‹non attacchi› le infamie ‹ai suoi nati› e a tutta la stirpe futura (ἐξοπίσω, cfr. Sol. F 13, 32 W2): questo non sia caro agli dèi beati, che ‹…› per le mie vacche ‹…› la fama… (l’accento batte sul fatto che il κλέος è qualcosa di strettamente legato alla condizione mortale, che non conosce altra risorsa per affermare il proprio valore)».

[3] vv. 2-5. «… io, ‹misera› e che ho generato un figlio sventurato e sventure indimenticabili ho sofferto (παθοῖσα = παθοῦσα),… supplico (γωνάζομαι = γουνάζομαι, propriamente “stringo le tue ginocchia”, cfr. Od. XI 66 νῦν δέ σε τῶν ὄπιθεν γουνάζομαι) ‹te›, o Gerione, ‹se mai› (αἴ ποκ’ = εἰ ποτ’) ti (τιν = σοι) ‹porsi› il mio seno».

[4] vv. 1-17. «… ‹la freccia› che aveva intorno alla punta ‹il termine› della morte odiosa, intrisa del sangue e della bile ‹…› dell’Idra (l’Idra di Lerna, nell’Argolide, nata da Tifone e da Echidna, un serpente mostruoso dalle molte teste che ricrescevano ogni volta che fossero state mozzate: Eracle la uccise nel corso della seconda delle sue “fatiche” con l’aiuto del nipote Iolao, che diede fuoco a una vicina foresta, procurando all’eroe rami infuocati con cui l’eroe cicatrizzava la pelle dell’Idra, là dove ne aveva appena tagliato una testa) omicida dal collo screziato (altrove in età arcaica e classica αἰολοδείρος compare solo in Ibyc. PMGF 317a, 2, in relazione a delle anatre; l’accostamento con ὀλεσάνορος = ὀλεσήνορος crea un effetto di violento chiaroscuro) ‹…› per gli spasimi di dolore. In silenzio, furtivamente (ἐπικλοπάδαν, sonante avverbio formato su ἐπίκλοπος), essa si conficcò nella fronte e lacerò la carne ‹e› le ossa per volere di un nume (cfr. Od. XI 61 δαίμονος αἶσα κακὴ). Da parte a parte la freccia raggiunse (σχέθεν = ἔσχεν) l’apice del capo e macchiava di sangue purpureo (cfr. da un lato Il. IV 146 μιάνθην αἵματι μηροὶ; XVI 795796 μιάνθησαν δὲ ἔθειραι / αἵματι; dall’altro Il. XVII 360-361 αἵματι δὲ χθὼν / δεύετο πορφυρέῳ: Stesicoro fonde i due nessi omericicreando un’espressione più enfatica) la corazza e ‹le membra› (già) insanguinate (Stesicoro trasferisce alle membra un aggettivo che Omero riferiva alle “spoglie”, le armi tolte al nemico ucciso), e Gerione piegò il collo di lato,  come quando (ὅκα = ὅτε) un papavero, sfigurando (καταισχύνοισα = καταισχύνουσα: ἅτε conferisce al participio un tenue valore causale) la delicata ‹figura›, d’un tratto lasciando cadere (ἀπὸ …βαλοῖσα = ἀποβαλοῦσα) i petali…».


Ercole e Gerione. Rilievo, marmo, III sec. d.C. ca. Toulouse, Musée Saint-Raymond.

Soprattutto nel primo brano si trovano, come nella Tebaide, scansioni elaborate e simmetriche: il discorso diretto viene introdotto, omericamente, con l’espressione di dire e il nesso nome/epiteto del parlante; l’invito iniziale («non indurmi a temere la morte») viene allargato con una motivazione sviluppata attraverso due ipotesi in contrasto avviate rispettivamente da αἰ μὲν (v. 8) e αἰ δ’ (v. 16) in principio di colon metrico; infine balza agli occhi il parallelismo fra ἐλέγχεα (vv. 11-12) e ὀνείδε[α (v. 22) e tra κρέσσον (v. 11) e κά[λλιον (v. 20).

Di qui una “liricizzazione” che espande in calme geometrie un modello epico più energico ed essenziale che si può ravvisare nel discorso rivolto da Sarpedonte a Glauco in Il. XII 322-328: «Amico mio, se sfuggendo a questa battaglia potessimo vivere eterni senza vecchiaia né morte, certo non mi batterei in prima fila né spingerei te alla lotta gloriosa; ma poiché a migliaia incombono i destini di morte, e nessun uomo mortale può sfuggirli o evitarli, andiamo, dunque, daremo gloria ad altri o altri a noi la daranno» (tr. M. G. Ciani).

Anche nel secondo brano, relativo al dialogo fra madre e figlio, è riconoscibile la memoria di un modello epico illustre, ossia la supplica di Ecuba al figlio Ettore perché non affronti Achille in campo aperto (Il. XXII 82-85): «Ettore, figlio mio, rispetta questo seno; e abbi pietà di me che te lo offrivo un tempo per calmare il tuo pianto; ricordalo, figlio mio, e respingi il nemico restando dentro le mura, al riparo, non affrontarlo in campo» (tr. M. G. Ciani); d’altra parte, è presente anche la propensione stesicorea a variare l’epos con l’epos: il raffinato composto ἀλαστοτόκος («che ha generato ἄλαστα, cose indimenticabili», da ἀ- privativo e tema verbale di λανθάνω) non compare nella supplica di Ecuba a Ettore ma ha dietro di sé un diverso aggettivo epico, δυσαριστοτόκεια «che ha generato in modo sventurato [δυσ-] un figlio eccelso»), usato anch’esso per l’apostrofe di una madre a un figlio sventurato (Teti ad Achille in Il. XVIII 54).

Nel terzo brano, infine, il gesto di reclinare il collo e il paragone con il papavero richiamano la descrizione omerica della morte di Gorgizione figlio di Priamo, colpito per errore da una freccia scagliata da Teucro in Il. VIII 306-308 – «Come un papavero, in un orto, piega la corolla di lato sotto il peso dei semi e delle piogge primaverili, così si piegò la testa dell’eroe, sotto il peso dell’elmo» (tr. M. G. Ciani) –, e più genericamente tradizionale si più considerare l’osservazione analitica del percorso compiuto dal dardo, mentre nuovo sembra il tentativo di suggerire preliminarmente l’atmosfera della scena attraverso la giustapposizione iniziale degli avverbi σιγᾷ («in silenzio», v.6) e ἐπικλοπάδαν («furtivamente», vv. 6-7). Più in generale, appare innovativo nella Gerioneide soprattutto il dato per cui Stesicoro attribuisce a Gerione, un essere deforme che la tradizione letteraria e iconografica dipinge in genere come dotato di tre teste e tre busti (ma due gambe), lo statuto di eroe valoroso provvisto di un’acuta sensibilità umana, e dunque rifiuta implicitamente la concezione tradizionale per cui la bellezza fisica era componente essenziale dell’eroismo.

Pittore Eutimide. Elena rapita da Teseo (particolare). Anfora attica a figure rosse, V sec. a.C. ca., da Vulci. München, Staatliche Antikensammlung.

Le παλινῳδὶαι per Elena

L’atteggiamento assai libero di Stesicoro nei confronti della mitologia e la sua disponibilità a conformare le singole versioni di una storia al gusto dei diversi contesti di pubblico a cui erano destinati i suoi carmi sono eloquentemente documentati dai suoi interventi sulla figura di Elena (PMGF 192-193). Dell’eroina il poeta doveva aver narrato una prima volta la vicenda nella forma tradizionale (omerica), che presentava la donna come un’adultera e traditrice della patria Sparta. In un secondo momento, però, sullo stesso mito Stesicoro avrebbe composto due παλινῳδὶαι («ritrattazioni»), probabilmente perché sollecitato da un uditorio magno-greco insoddisfatto della memoria dell’eroina dorica. Secondo una tradizione aneddotica, il poeta avrebbe cercato per questa via di recuperare la vista perduta, dopo che l’eroina divinizzata, incollerita con lui, lo aveva reso cieco. È plausibile che questa leggenda si sia sviluppata a partire da qualche dichiarazione di Stesicoro stesso che, per giustificare il mutamento della versione e ammettere che «non era vero» il suo racconto precedente, aveva forse affermato di essere stato metaforicamente «accecato», perché non aveva saputo «vedere» la verità (così Cameleonte e Conone, FGrHist. 26 F 1, 18; e Ireneo, Haer. I 23, 2).

La prima delle due palinodie – ammesso che non si trattasse di una sola, articolata in due fasi –, che iniziava con δεῦρ’ αὖτε θεὰ φιλόμολπε («Orsù, di nuovo, o dea amica del canto», PMGF 193), rigettò la precedente presentazione della storia, condotta sulla falsariga di Omero, proponendo la versione per cui Elena partì da Sparta con Paride, ma non sarebbe mai andata a Troia: durante una sosta in Egitto, ella sarebbe stata sostituita da un εἴδωλον, un «fantasma» della bellissima donna, creato da Hera, che, desiderosa di scatenare la guerra fra Achei e Troiani, voleva anche vendicarsi di Paride, impedendogli di godere del premio promessogli da Afrodite. Perciò, il conflitto si sarebbe risolto per questa falsa immagine della regina spartana; questa, infatti, sarebbe stata ritrovata da Menelao al ritorno dalla guerra: si tratta di una versione del mito attestata per la prima volta in Esiodo, F 358 Merkelbach-West, e che si ritrova in seguito anche nell’Elena di Euripide.

La seconda palinodia, che iniziava con χρυσόπτερε παρθένε («O vergine dalle ali dorate», PMGF 193), doveva proporre un’ulteriore versione ancora più assolutoria, secondo la quale Elena non avrebbe mai messo piede sulla nave di Paride: non solo l’eroina non sarebbe mai giunta a Troia, ma non avrebbe neppure abbandonato Sparta. A questa seconda palinodia appartiene il tristico, costituito da due enopli (vv. 1 e 3) e da una pentapodia trocaica catalettica (v. 2), il cui principale testimone è Platone (Plat. Phaedr. 243a-b = PMGF 192):

οὐκ ἔστ’ ἔτυμος λόγος οὗτος,

οὐδ’ ἔβας ἐν νηυσὶν ἐυσσέλμοις

οὐδ’ ἵκεο πέργαμα Τροίας.

Non è veritiera questa storia:

tu non salisti sulla nave dai bei banchi,

né giungesti alla rocca di Troia.

Oltre al prologo dell’Elena e al finale dell’Ecuba euripidee, la retractatio stesicorea influenzò l’Encomio di Elena di Gorgia e quello di Isocrate, e a Roma le composizioni di Orazio (Hor. Carm. I 16, 34; Epod. 17, 37-45) e di Tibullo (Tib. I 5, 1-18).

Pittore di Amasis. Ricongiungimento fra Elena e Menelao. Pittura vascolare su anfora attica (lato B) a figure nere, 550 a.C. ca. München, Staatliche Antikensammlungen.

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Pacuvio e la nascita del ‘pathos’ tragico

Marco Pacuvio, di famiglia osca, nacque a Brundisium intorno al 220. Secondo Plinio il Vecchio (Plin. Nat. hist. XXXV 7, 19), era figlio di una sorella di Quinto Ennio (Enni sorore genitus) e probabilmente già in giovane età raggiunse lo zio a Roma, dove condusse un’esistenza agevolata dall’illustre parentela: si occupò della sua formazione Ennio stesso, da cui Pacuvio ereditò gli interessi filosofici e le tendenze razionalistiche; introdotto grazie allo zio negli ambienti ellenizzanti dell’Urbe, in particolare nel «circolo» scipionico, Pacuvio intraprese l’attività di pittore – ancora ai tempi di Plinio il Vecchio si ammirava un suo quadro nel tempio di Ercole, nel Foro Boario (Plin. ibid.) – e quella di poeta. Evidentemente, il rango rispettabile, che, per il mos maiorum, non ammetteva una vita dedicata alle arti, non gli impedì di impegnarsi in vari campi artistici, che anzi contribuì con ogni probabilità a nobilitare agli occhi dell’aristocrazia romana. Stando a Cicerone (Cic. Lael. 24), Pacuvio strinse amicizia con Gaio Lelio, ma è probabile che si tratti di una finzione letteraria dello stesso Arpinate. Rispettato e stimato da molti, negli ultimi anni della sua lunga vita Pacuvio si ritirò a Tarentum, dove morì, quasi novantenne, intorno al 130.

Pacuvio forse, ispirato all’attività letteraria dello zio, scrisse anche delle Saturae, ma è più verosimile che l’ambito nel quale si specializzò fosse quello del teatro tragico. Di lui restano, infatti, dodici titoli e circa quattrocento frammenti di tragedie cothurnatae, ovvero drammi incentrati sulla mitologia greca: Antiopa, Armorum iudicium, Atalanta, Chryses, Dulorestes, Hermion, Iliona, Medus, Niptra, Pentheus, Periboea, Teucer. Si conosce anche il titolo di una praetexta, ovvero una tragedia di argomento romano: il Paulus, che probabilmente narrava le gesta di Lucio Emilio Paolo e della sua vittoria su Perseo di Macedonia a Pidna (168), rappresentata durante il trionfo del condottiero o durante i ludi funebres dello stesso nel 160.

Mentre Ennio si era ispirato soprattutto al tragediografo Euripide come fonte per le proprie cothurnatae, Pacuvio sembra aver attinto ugualmente a tutt’e tre i grandi tragici ateniesi e forse ad altri drammaturghi perduti.

Dai frammenti superstiti e dai titoli delle tragedie emerge comunque una predilezione per vicende e varianti mitiche per molti versi marginali, spesso con personaggi secondari assurti a protagonisti, ma che presentavano ampie potenzialità per costruire intrecci complicati, ricchi di scene strazianti e sorprendenti. L’Antiopa trattava di Antiope, vittima delle angherie degli zii Lico e Dirce e salvata da Anfione e Zeto, i figli che aveva avuto da Zeus, abbandonati in tenera età e creduti morti da tutti; l’Armorum iudicium era incentrato sullo scontro tra Aiace e Odisseo per ottenere, dopo la sua morte, le armi di Achille; il Dulorestes vedeva Oreste vestire i panni di uno schiavo per punire gli uccisori del padre, Clitemnestra ed Egisto; il protagonista del Medus era l’omonimo figlio di Medea, fondatore del regno di Media, mentre nei Niptra («I lavacri») il protagonista era Odisseo tornato a Itaca. In questo dramma lo spunto tratto dall’Odissea (il riconoscimento dell’eroe, durante il bagno che dava il titolo alla tragedia, grazie a una cicatrice sulla gamba) era combinato con un episodio estraneo alla saga omerica, ovvero l’arrivo di Telegono, il figlio che il Laerziade aveva avuto da Circe e dal quale viene ucciso per errore.

Maschera tragica. Mosaico, I sec. d.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

Alcune scene delle tragedie di Pacuvio rimasero famose per la loro carica di altissimo e virtuosistico patetismo. Cicerone (Cic. Tusc. I 106, 1) ricorda in particolare l’incipit dell’Iliona, in cui alla protagonista appariva, per mezzo di una macchina scenica, in sogno il fantasma del figlio Deipilo, ucciso dal padre e rimasto insepolto (vv. 197-201 Ribbeck = vv. 227-231 D’Anna):

Mater, te appello; tu quae curam somno suspensam levas

neque te mei miseret, surge et sepeli natum ‹tuum› prius

quam ferae volucresque…

neu reliquias sic meas sireis denudatis ossibus

per terram sanie delibutas foede divexarier.

Madre, te io chiamo; tu che con il sonno dai requie e sollievo

alla pena e non hai pietà di me; alzati e da’ sepoltura a tuo figlio, prima

che fiere e uccelli…

non lasciare che le mie spoglie semidivorate, con le ossa messe a nudo,

siano sconciamente lacerate e disperse per terra, grondanti putredine.

Allegoria della Fortuna (memento mori). Mosaico, I sec. a.C. ca., da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Nell’Iliade Polidoro, il più giovane dei figli di Priamo, re di Troia, confidando nella propria rapidità nella corsa, partecipa ai combattimenti contro il volere del padre e cade per mano di Achille. Ma fin dalla tragedia attica si diffuse un’altra versione della leggenda: affidato dal padre al re di Tracia Polimestore insieme a molti tesori, garanzia di un futuro degno del suo rango, Polidoro è ucciso a tradimento dal suo ospite, gettato in mare e ritrovato sulla costa della Troade dalla madre Ecuba durante i preparativi per il funerale di Polissena, la figlia sacrificata sulla tomba di Achille. È Ecuba a vendicarsi su Polimestore, attirato al campo acheo con una scusa e accecato in modo orrendo.

Virgilio avrebbe variato la versione euripidea, immaginando che il corpo del principe troiano non fosse stato gettato in mare, ma lasciato sulla spiaggia dov’era caduto, trafitto da un nugolo di dardi, poi trasformati in un boschetto di mirto: approdato in Tracia, Enea scoprì l’orrenda fine di Polidoro, svellendo un arboscello dalla pianta che dal suo corpo traeva la linfa vitale.

In Pacuvio, dunque, la storia conobbe ancora un’altra variante: Polidoro era stato affidato neonato a Iliona, figlia maggiore di Priamo e sposa del crudele e sanguinario re trace; la donna per proteggere il fratellino lo aveva sostituito al figlio appena nato, facendo passare quest’ultimo come il proprio fratello. Dopo la caduta di Troia, d’accordo con gli Achei, Polimestore acconsente a sopprimere l’ultimogenito di Priamo, ma per l’inganno di Iliona uccide suo figlio Deifilo. Quando, consultato l’oracolo di Delfi, Polidoro scopre la verità sulle proprie origini, trama vendetta contro Polimestore, che muore accecato da Iliona.

Cicerone, che conserva il frammento pacuviano, attesta che le parole del piccolo Deifilo, declamate con l’accompagnamento di una musica atta a suscitare il pianto, provocavano nel pubblico forte emozione e commozione. Come in altri testi dello stesso poeta, anche qui si rintracciano caratteristiche simili a quelle del teatro tragico enniano – che si possono considerare tipiche della tragedia romana, fino a Seneca: nell’adattamento dei modelli greci, infatti, si tende ad accrescere e a “caricare” il pathos e la sublimità, in una direzione che certa critica moderna ha definito “espressionistica”. L’apostrofe di Deifilo alla madre esibisce proprio questi tratti, ovvero l’accentuazione patetica e l’espressionismo orrido: la preghiera è enfatizzata dall’anafora (variata dal poliptoto) del pronome di seconda persona te… tu… te, efficacemente accostato al nesso allitterante mei miseret e chiuso dal possessivo tuum…, e dalla studiata allitterazione in sibilante che contrappone somno suspensam (l’oblio della colpa nel sonno) alla coppia paratattica di imperativi surge et sepeli. L’insistenza sui dettagli orridi del corpo in decomposizione è sottolineata ancora dalla catena fonica che lega gli elementi verbali successivi denudatis… delibutas… divexarier.

Il supplizio di Dirce: Anfione e Zeto vendicano la madre Antiope. Affresco pompeiano, ante 79 d.C. dalla Casa dei Vettii. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

È noto che Pacuvio eccelleva, in particolare, nelle scene a effetto, dotate di una forte carica drammatica, come, per esempio, nel Teucer, l’invettiva di Telamone contro il figlio Teucro, maledetto e ripudiato perché era tornato dalla guerra di Troia senza il fratello Aiace e senza averne impedito o vendicato la morte; o come nei Niptra, l’agonia di Ulisse, ferito a morte da Telegono, in mezzo ad atroci sofferenze.

L’accentuazione del pathos e la ricerca del patetismo si manifestava talora con l’insistenza su particolari orridi e raccapriccianti, destinati a commuovere e a impressionare gli spettatori. Per esempio, nell’Antiopa, la protagonista, ridotta in miseria e nello squallore, era descritta con un cumulus di aggettivi (vv. 20-21 Ribbeck = vv. 17-18 D’Anna):

inluvie corporis

et coma prolixa, impexa, conglomerata atque horrida.

Con il corpo sudicio

e i capelli lunghi, scarmigliati, arruffati e irti.

E, ancora, nel Chryses fece sensazione la scena in cui gli inseparabili amici, Oreste e Pilade, fatti prigionieri da re Toante intenzionato a uccidere Oreste, sostenevano entrambi di esserlo, per salvarsi reciprocamente: Ego sum Orestes! – Immo enimvero ego sum, inquam, Orestes! (v. 365 Ribbeck, «Io sono Oreste!» «Niente affatto! Sono io, lo ripeto, Oreste!»).

Pilade, Oreste ed Ifigenia (da sx a dx). Affresco, ante 79 d.C., dal triclinium del procurator, Casa del Centenario (IX 8, 3-6), Pompei.

Anche l’alta frequenza di protagoniste femminili, che sembra emergere dai titoli delle tragedie, appare collegata a questa ricerca del patetismo, all’esasperazione dell’emotività, alla carica espressionistica.

Il teatro di Pacuvio, comunque, non si esauriva soltanto nella ricerca di trame a effetto, nelle atmosfere tragicamente cupe (simili, per certi versi, a quelle del moderno horror), nei soggetti angosciosi e nelle visioni orripilanti (apparizioni spettrali, cadaveri insepolti, tempeste sconvolgenti, ecc.), negli «effetti speciali»; il poeta sapeva anche ricorrere alla suspence ottenuta attraverso la dilazione dello scioglimento finale, l’inserzione di elementi a sorpresa, le scene di agnizione. Talvolta le rheseis («discorsi») dei personaggi contenevano dei brillanti excursus narrativi, come la celebre descrizione della tempesta del Teucer, conservata da Cicerone (Cic. Div. 1, 24 = vv. 409-416 Ribbeck):

profectione laeti piscium lasciviam          

intuentur, nec tuendi satietas capier potest.

interea prope iam occidente sole inhorrescit mare,               

tenebrae conduplicantur, noctisque et nimbum obcaecat nigror,   

flamma inter nubes coruscat, caelum tonitru contremit,   

grando mixta imbri largifico subita praecipitans cadit,    

undique omnes venti erumpunt, saevi existunt turbines,

fervit aestu pelagus.

Lieti per la partenza, osserviamo i giochi dei delfini

e non possiamo saziarci di guardarli.

Ma ecco che, verso il tramonto del Sole, il mare s’increspa,

le tenebre si fanno più fitte e il nero della notte e dei nembi ci acceca,

i fulmini balenano fra le nubi, il cielo trema per i tuoni,

grandine mista a pioggia dirotta si rovescia d’improvviso,

da ogni lato i venti irrompono, s’abbattono raffiche crudeli,

il mare ribolle di flutti.

Nave. Affresco, ante 79 d.C. da Pompei. Boscoreale, Antiquarium.

Il poeta mostra di conoscere già tutti gli ingredienti topici della tempesta letteraria: la natura improvvisa, imprevedibile del fenomeno, annunciato dall’incresparsi del mare, il raddoppiarsi dell’oscurità che cancella la distinzione tra cielo e mare, il balenare dei lampi seguito dal fragore dei tuoni, la grandine che scroscia a dirotto, la violenza dei venti in lotta, che soffiano in tutte le direzioni, il ribollire del mare. Ogni tratto descrittivo sembra sviluppato da Pacuvio attingendo da tutte le risorse dell’espressionismo: ne risulta uno stile ridondante, ripetitivo ed enfatico. Enfatici sono appunto verbi come conduplicantur e contremit, mentre la ricerca di suoni duri (t, c, r, s) e nasali (n, m) intende evocare le sonorità orride del mare in burrasca.

La ricercatezza di Pacuvio, evidente nella scelta degli argomenti e nell’attenzione alle problematiche etiche, emergeva anche nella sua cura attentissima per la forma. Gli antichi parlavano della sua ubertas («magniloquenza») e, come si vede, i suoi frammenti sono appunto contraddistinti dalla fitta presenza di coppie sinonimiche e dall’insistenza delle figure di suono – tutti tratti che fecero dire a Cicerone summum… Pacuvium tragicum (Cic. Opt. gen. 2). Emblematico, a tal riguardo, risulta un altro verso dal Teucer: periere Danai, plera pars pessum datast (v. 320 Ribbeck, «Sono periti i Danai, e per la massima parte sono andati in rovina»), passo nel quale tutte le parole sono legate da allitterazione e omeoarco (accostamento di parole di significato diverso che iniziano con la stessa sillaba).

Certi frammenti costituiscono, per esempio, vere e proprie massime morali, che rispecchiano gli ideali romani dell’autocontrollo e della gravitas, ovvero compostezza e dignità, come, per esempio, la seguente, tratta dai Niptra (vv. 268-269 Ribbeck = vv. 317-318 D’Anna, apud Gell. N.A. II 26, 13):

conqueri fortunam advorsam, non lamentari decet;

id viri est officium, fletus muliebri ingenio additust.

È ammissibile lamentarsi della sorte avversa, non piangere;

questo è il comportamento di un uomo, mentre le lacrime sono proprie dell’indole femminile.

In altre tragedie comparivano dibattiti etici, in cui si discuteva se la virtus fosse da intendere come valore militare o come superiorità intellettuale e spirituale (qualità incarnate rispettivamente da Aiace e da Ulisse nell’Armorum iudicium); in altri casi al centro del dibattito compariva il confronto tra vita attiva e vita contemplativa (rappresentate da Zeto e Anfione nell’Antiopa). A questo si aggiungeva l’interesse dell’autore per la scienza e la filosofia naturale, che contribuì a circondarlo della fama di poeta doctus. Come tale, oltre ad applicare per primo la tecnica della contaminatio alla tragedia (per esempio, fondendo nel Chryses elementi dell’omonimo dramma di Sofocle con dettagli dell’Ifigenia in Tauride di Euripide), la cothurnata di Pacuvio riecheggia i temi del razionalismo greco di stampo euripideo. Sempre nel Chryses, infatti, ora presenta il cielo come il principio spirituale che anima l’universo, ora disquisisce sul concetto di fortuna, ora polemizza contro gli indovini, gente che merita soltanto di essere udita, non ascoltata (magis audiendum quam auscultandum censeo).

Cupido che cavalca una coppia di delfini. Mosaico, c. 120-80 a.C. Delos, Casa dei Delfini.

Oltre a considerarlo il massimo autore scenico romano, Cicerone lodava lo stile accurato di Pacuvio (Cic. de orat. 36), giudicandolo più elegante di quello di Ennio: la ricerca della sublimità si spingeva sino ad ardite sperimentazioni. Famoso, anzi famigerato, perché deriso già dal poeta satirico Lucilio (v. 212 Marx, apud Gell. N.A. XVIII 8, 2) e poi criticato da Quintiliano (Quint. Inst. I 5, 67), fu il tentativo di Pacuvio di coniare composti ricalcati sull’uso epico-tragico greco. È il caso dei delfini, che Livio Andronico nell’Aegisthus aveva definito Nerei simum pecus («il camuso gregge di Nereo», F 2, 1 Ribbeck) e che Pacuvio con un’iperbolica perifrasi chiamò Nerei repandirostrum incurvicervicum pecus («il gregge di Nereo dal muso rivolto in alto e dal collo incurvato», v. 408 Ribbeck = v. 366 D’Anna). I neologismi dalla struttura linguistica troppo audace sia per l’eccessiva lunghezza, sia per il tipo di composizione (aggettivo più sostantivo) assai più congeniale alla lingua greca che a quella latina, non ebbero alcun seguito nella tradizione romana e simili forzate innovazioni sarebbero state criticate anche da grammatici e da puristi.

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Timoclea

Tebe, che si era ribellata ad Alessandro, fu distrutta dall’esercito macedone nell’ottobre del 335 a.C. a monito di chiunque avesse osato ostacolare il nuovo re: la città fu saccheggiata con l’entusiastica partecipazione dei Beoti ostili ai Tebani (Plateesi, Tespiesi, Orcomeni), 6.000 cittadini rimasero uccisi e i 30.000 superstiti furono fatti prigionieri e venduti come schiavi. Durante il saccheggio, tra le diverse disgrazie che colpirono la città, la tradizione plutarchea risalente ad Aristobulo di Cassandrea (FGrHist. 139 F 2b, apud Plut. Mul. virt. 259d-260d) riporta l’episodio di Timoclea, sorella di Teagene, il generale che tre anni prima aveva guidato la falange tebana contro l’armata di Filippo ed era caduto sul campo a Cheronea.

Domenichino, Timoclea prigioniera davanti ad Alessandro Magno. Olio su tela, c. 1610. Paris, Musée du Louvre.

[259e] ἀποθανόντι δ’ αὐτῷ περιῆν ἀδελφὴ μαρτυροῦσα κἀκεῖνον ἀρετῇ γένους καὶ φύσει μέγαν ἄνδρα καὶ λαμπρὸν γενέσθαι· πλὴν ταύτῃ γε καὶ χρηστὸν ἀπολαῦσαί τι τῆς ἀρετῆς ὑπῆρξεν, ὥστε κουφότερον, ὅσον τῶν κοινῶν ἀτυχημάτων εἰς αὐτὴν ἦλθεν, ἐνεγκεῖν. ἐπεὶ γὰρ ἐκράτησε Θηβαίων Ἀλέξανδρος, ἄλλοι δ’ ἄλλα τῆς πόλεως ἐπόρθουν ἐπιόντες, ἔτυχε τῆς Τιμοκλείας τὴν οἰκίαν καταλαβὼν ἄνθρωπος οὐκ ἐπιεικὴς οὐδ’ ἥμερος ἀλλ’ ὑβριστὴς καὶ ἀνόητος· ἦρχε δὲ Θρᾳκίου τινὸς ἴλης καὶ ὁμώνυμος ἦν τοῦ βασιλέως οὐδὲν δ’ ὅμοιος. οὔτε γὰρ τὸ γένος οὔτε τὸν βίον αἰδεσθεὶς τῆς γυναικός, ὡς ἐνέπλησεν [f] ἑαυτὸν οἴνου, μετὰ δεῖπνον ἐκάλει συναναπαυσομένην. καὶ τοῦτο πέρας οὐκ ἦν· ἀλλὰ καὶ χρυσὸν ἐζήτει καὶ ἄργυρον, εἴ τις εἴη κεκρυμμένος ὑπ’ αὐτῆς, τὰ μὲν [ὡς] ἀπειλῶν τὰ δ’ ὡς ἕξων διὰ παντὸς ἐν τάξει γυναικός. ἡ δὲ δεξαμένη λαβὴν αὐτοῦ διδόντος ‘ὤφελον μέν’ εἶπε ‘τεθνάναι πρὸ ταύτης ἐγὼ τῆς νυκτὸς ἢ ζῆν, ‹ὥστε› τὸ γοῦν σῶμα πάντων ἀπολλυμένων ἀπείρατον ὕβρεως διαφυλάξαι· [260a] πεπραγμένων δ’ οὕτως, εἴ σε κηδεμόνα καὶ δεσπότην καὶ ἄνδρα δεῖ νομίζειν, τοῦ δαίμονος διδόντος, οὐκ ἀποστερήσω σε τῶν σῶν· ἐμαυτὴν γάρ, ὅ τι βούλῃ σύ, ὁρῶ γεγενημένην. ἐμοὶ περὶ σῶμα κόσμος ἦν καὶ ἄργυρος ἐν ἐκπώμασιν, ἦν τι καὶ χρυσοῦ καὶ νομίσματος. ὡς δ’ ἡ πόλις ἡλίσκετο, πάντα συλλαβεῖν κελεύσασα τὰς θεραπαινίδας ἔρριψα, μᾶλλον δὲ κατεθέμην εἰς φρέαρ ὕδωρ οὐκ ἔχον· οὐδ’ ἴσασιν αὐτὸ πολλοί· πῶμα γὰρ ἔπεστι καὶ κύκλῳ περιπέφυκεν ὕλη σύσκιος. ταῦτα σὺ μὲν εὐτυχοίης λαβών, ἐμοὶ δ’ ἔσται πρός σε μαρτύρια [b] καὶ γνωρίσματα τῆς περὶ τὸν οἶκον εὐτυχίας καὶ λαμπρότητος.’ ἀκούσας οὖν ὁ Μακεδὼν οὐ περιέμεινε τὴν ἡμέραν, ἀλλ’ εὐθὺς ἐβάδιζεν ἐπὶ τὸν τόπον, ἡγουμένης τῆς Τιμοκλείας· καὶ τὸν κῆπον ἀποκλεῖσαι κελεύσας, ὅπως αἴσθοιτο μηδείς, κατέβαινεν ἐν τῷ χιτῶνι. στυγερὰ δ’ ἡγεῖτο Κλωθὼ τιμωρὸς ὑπὲρ τῆς Τιμοκλείας ἐφεστώσης ἄνωθεν. ὡς δ’ ᾔσθετο τῇ φωνῇ κάτω γεγονότος, πολλοὺς μὲν αὐτὴ τῶν λίθων ἐπέφερε πολλοὺς δὲ καὶ μεγάλους αἱ θεραπαινίδες ἐπεκυλίνδουν, ἄχρι οὗ κατέκοψαν αὐτὸν καὶ κατέχωσαν. ὡς δ’ ἔγνωσαν οἱ Μακεδόνες καὶ τὸν νεκρὸν ἀνείλοντο κηρύγματος ἤδη γεγονότος [c] μηδένα κτείνειν Θηβαίων, ἦγον αὐτὴν συλλαβόντες ἐπὶ τὸν βασιλέα καὶ προσήγγειλαν τὸ τετολμημένον. ὁ δὲ καὶ τῇ καταστάσει τοῦ προσώπου καὶ τῷ σχολαίῳ τοῦ βαδίσματος ἀξιωματικόν τι καὶ γενναῖον ἐνιδὼν πρῶτον ἀνέκρινεν αὐτὴν τίς εἴη γυναικῶν. ἡ δ’ ἀνεκπλήκτως πάνυ καὶ τεθαρρηκότως εἶπεν ‘ἐμοὶ Θεαγένης ἦν ἀδελφός, ὃς ἐν Χαιρωνείᾳ στρατηγῶν καὶ μαχόμενος πρὸς ὑμᾶς ὑπὲρ τῆς τῶν Ἑλλήνων ἐλευθερίας ἔπεσεν, ὅπως ἡμεῖς μηδὲν τοιοῦτον πάθωμεν· ἐπεὶ δὲ πεπόνθαμεν ἀνάξια τοῦ γένους, ἀποθανεῖν οὐ φεύγομεν· οὐδὲ γὰρ ἄμεινον ἴσως ζῶσαν ἑτέρας πειρᾶσθαι νυκτός, εἰ σὺ [d] τοῦτο μὴ κωλύσεις.’ οἱ μὲν οὖν ἐπιεικέστατοι τῶν παρόντων ἐδάκρυσαν, Ἀλεξάνδρῳ δ’ οἰκτείρειν μὲν οὐκ ἐπῄει τὴν ἄνθρωπον ὡς μείζονα συγγνώμης πράξασαν, θαυμάσας δὲ τὴν ἀρετὴν καὶ τὸν λόγον εὖ μάλα καθαψάμενον αὐτοῦ, τοῖς μὲν ἡγεμόσι παρήγγειλε προσέχειν καὶ φυλάττειν, μὴ πάλιν ὕβρισμα τοιοῦτον εἰς οἰκίαν ἔνδοξον γένηται, τὴν δὲ Τιμόκλειαν ἀφῆκεν αὐτήν τε καὶ πάντας, ὅσοι κατὰ γένος αὐτῇ προσήκοντες εὑρέθησαν.

«… Morendo, aveva lasciato una sorella a testimoniare di essere stato, per valore della stirpe e per carattere, un uomo grande e illustre. Inoltre, trasse lei stessa beneficio dalle proprie virtù, cosicché riuscì a sopportare più facilmente quanto, delle sventure comuni, capitò a lei. Quando infatti Alessandro sconfisse i Tebani, chi andava da una parte della città, chi dall’altra, saccheggiando, accadde che un uomo, non certo mite e ragionevole, ma anzi, arrogante e violento, s’impadronì della casa di Timoclea. Era il comandante di uno squadrone di Traci e, sebbene fosse omonimo del re, non era in nulla simile a lui. Non avendo rispetto per la nobiltà della donna né per la vita di lei, dopo essersi riempito di vino, dopo cena, la mandava a chiamare, per passare la notte con lei. E questo non era tutto: cercava anche oro e argento, se per caso lei ne tenesse nascosto in casa, da una parte minacciando di ucciderla, dall’altra promettendo di tenersela con sé come una moglie. Timoclea, colta al volo l’occasione che le si presentava, disse: “Meglio sarebbe stato essere morta prima di questa notte, piuttosto che continuare a vivere! Ora che tutto è perduto, avrei almeno preservato il mio corpo dalla violenza! Ma stando così le cose, se devo considerarti come protettore, signore e marito, poiché lo vogliono gli dèi, non ti priverò di ciò che è tuo. Io stessa, come vedo, sono diventata ciò che vuoi tu. Avevo dei gioielli personali e coppe d’argento, e anche un po’ di oro e denaro. Quando la città fu presa, ho ordinato alle mie ancelle di raccogliere tutto e poi ho gettato, o meglio, ho depositato il tutto in un pozzo prosciugato. Non lo conoscono in molti; infatti, c’è una copertura sopra ed è circondato da fitta vegetazione. Spero che tu abbia fortuna nel prenderli, saranno per te la prova e la testimonianza di quanto fosse felice e prospera questa casa!”. Non appena il Macedone ebbe udito ciò, non aspettò nemmeno che facesse giorno, ma subito si recò al luogo indicatogli, facendosi condurre da Timoclea: e, dopo aver ordinato che il giardino fosse chiuso, per non essere visto da nessuno, si calò nel pozzo con indosso solo la tunica. Ma l’orrenda Cloto lo guidava, vendicatrice per mano di Timoclea, che era rimasta in superficie. Quando, dalla voce, capì che quello era giunto sul fondo, lei stessa portò molte pietre, mentre le serve facevano rotolare quelle più grandi e continuarono a colpirlo finché non lo seppellirono. Quando i Macedoni vennero a sapere del misfatto e recuperarono il cadavere, siccome era già stato dato l’ordine di non uccidere altri Tebani, catturarono Timoclea e la condussero davanti al re, a cui raccontò ciò che aveva osato fare. Ma quello, riconoscendo nell’espressione del suo viso e nella gravità del suo incedere l’alto rango e la nobiltà di stirpe, per prima cosa le chiese chi fosse. E lei, per nulla intimorita e con grande coraggio, rispose: “Teagene era mio fratello, che fu generale a Cheronea ed è caduto combattendo contro di voi per la libertà dei Greci, affinché non dovessimo subire ciò che ora ci sta capitando. Ma, dopo aver tollerato cose tanto indegne della mia stirpe, io non temo la morte. Anzi, forse sarebbe meglio, piuttosto che vivere per sopportare un’altra notte come questa, a meno che tu non ponga fine a tutto questo!”. Allora, i più sensibili tra i presenti si commossero, ma ad Alessandro non capitò di compatire quella donna, avendo lei commesso cose tanto gravi per essere perdonata, ma piuttosto, avendone ammirato il valore e le parole, sebbene lo attaccassero apertamente, ordinò ai suoi generali di fare attenzione e di impedire che non accadessero simili violenze nei confronti delle famiglie illustri. Infine, rilasciò Timoclea e tutti quelli che furono riconosciuti come suoi parenti».

(Plut. Mul. virt. 259e-260d)

La medesima vicenda è narrata da Plutarco anche nella Vita Alexandri, pur con qualche lieve differenza:

[12. 1] Ἐν δὲ τοῖς πολλοῖς πάθεσι καὶ χαλεποῖς ἐκείνοις ἃ τὴν πόλιν κατεῖχε Θρᾷκές τινες ἐκκόψαντες οἰκίαν Τιμοκλείας, γυναικὸς ἐνδόξου καὶ σώφρονος, αὐτοὶ μὲν τὰ χρήματα διήρπαζον, ὁ δ’ ἡγεμὼν τῇ γυναικὶ πρὸς βίαν συγγενόμενος καὶ καταισχύνας, ἀνέκρινεν εἴ που χρυσίον [2] ἔχοι κεκρυμμένον ἢ ἀργύριον. ἡ δ’ ἔχειν ὡμολόγησε, καὶ μόνον εἰς τὸν κῆπον ἀγαγοῦσα καὶ δείξασα φρέαρ, ἐνταῦθ’ ἔφη τῆς πόλεως ἁλισκομένης καταβαλεῖν αὐτὴ τὰ τιμιώτατα [3] τῶν χρημάτων. ἐγκύπτοντος δὲ τοῦ Θρᾳκὸς καὶ κατασκεπτομένου τὸν τόπον, ἔωσεν αὐτὸν ἐξόπισθεν γενομένη, καὶ τῶν λίθων ἐπεμβαλοῦσα πολλοὺς ἀπέκτεινεν.

[4] ὡς δ’ ἀνήχθη πρὸς Ἀλέξανδρον ὑπὸ τῶν Θρᾳκῶν δεδεμένη, πρῶτον μὲν ἀπὸ τῆς ὄψεως καὶ τῆς βαδίσεως ἐφάνη τις ἀξιωματικὴ καὶ μεγαλόφρων, ἀνεκπλήκτως καὶ [5] ἀδεῶς ἑπομένη τοῖς ἄγουσιν· ἔπειτα τοῦ βασιλέως ἐρωτήσαντος ἥτις εἴη γυναικῶν, ἀπεκρίνατο Θεαγένους ἀδελφὴ γεγονέναι τοῦ παραταξαμένου πρὸς Φίλιππον ὑπὲρ τῆς τῶν Ἑλλήνων ἐλευθερίας καὶ πεσόντος ἐν Χαιρωνείᾳ [6] στρατηγοῦντος. θαυμάσας οὖν ὁ Ἀλέξανδρος αὐτῆς καὶ τὴν ἀπόκρισιν καὶ τὴν πρᾶξιν, ἐκέλευσεν ἐλευθέραν ἀπιέναι μετὰ τῶν τέκνων.

«Tra le molte sventure e le gravi crudeltà che la città patì, ci fu questa: alcuni Traci irruppero con la forza in casa di Timoclea, donna onorata e saggia, e ne rapinarono le ricchezze, mentre il loro comandante, dopo averle fatto vergognosa violenza, le chiese se avesse nascosto da qualche parte dell’oro e dell’argento. Ella ammise di averne, lo condusse, lui solo, in giardino e gli indicò il pozzo nel quale disse di aver personalmente gettato, mentre la città veniva presa, quanto di più prezioso possedeva. Il Trace si sporse a esaminare il luogo ed ella, alle sue spalle, lo spinse giù e, lanciategli addosso parecchie pietre, lo uccise.

Quando fu condotta in catene dai Traci da Alessandro, dal suo modo d’incedere e di guardare ella apparve anzitutto donna degna di ossequio e magnanima, tanto grandi erano la sicurezza e la calma con le quali seguiva le guardie; poi, come il re le chiese chi fosse, lei rispose di essere la sorella di Teagene, colui che era sceso in campo contro Filippo per la libertà dei Greci e che era caduto a Cheronea da generale. Alessandro, ammirandone la risposta e la vicenda, ordinò che andasse libera insieme con i suoi figli».

(Plut. Alex. 12)

Elisabetta Sirani, Timoclea uccide il capitano di Alessandro Magno. Olio su tela, 1659.

In entrambe le versioni l’atteggiamento magnanimo di Alessandro nei confronti della donna tebana suggerisce che Plutarco abbia voluto narrare questo episodio per dimostrare che il saccheggio e la distruzione di Tebe da parte del giovane sovrano non fu soltanto un atto di aggressione e di brutalità (Pearson 1960, 155); inoltre, questa vicenda costituisce anche la prima di una serie di storie in cui Alessandro mostrò benevolenza e clemenza ai parenti dei propri nemici sconfitti (ibid. n. 32; Stadter 1965, 113). Benché il passo della Vita Alexandri sia una versione più breve dell’aneddoto delle Mulierum virtutes, è indubbio che l’opera di Aristobulo di Cassandrea sia la fonte comune; inoltre, pur integrando la storia di Timoclea nella narrazione biografica, Plutarco sembra aver conservato lo stile dell’originale nelle Mulierum virtutes con la sua descrizione drammatica e il vivido ricorso ai dettagli, soprattutto nella scena del giardino (Stadter 1965, 113-114). In seguito, anche Polieno riprese la vicenda di Timoclea nei suoi Stratagemata (Pol. VIII 40), inserendovi alcune piccole variazioni.

L’aneddoto divenne fonte di ispirazione anche per i pittori del Barocco italiano, come testimoniano la Timoclea prigioniera davanti ad Alessandro Magno (c. 1610) di Domenichino, la Timoclea innanzi ad Alessandro (c. 1650) di Pietro della Vecchia e la Timoclea che uccide il capitano di Alessandro Magno (1659) di Elisabetta Sirani (Spencer 2002, 40; Baynham 2009, 303).

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