La battaglia di Teutoburgo – settembre 9 d.C. (Vell. II 117-119)

Nel 9 d.C., l’esperto generale romano Publio Quintilio Varo, governatore della Germania, seguendo le informazioni fornite da Arminio, fidato comandante cherusco e praefectus di un contingente di auxilia germanico, si pose alla guida di un’armata per reprimere una rivolta scoppiata all’estremità settentrionale dell’Impero in un territorio solo parzialmente sottomesso. Anziché incontrare gli attesi rinforzi promessi dai Cherusci, Varo cadde in un’imboscata, approntata nientemeno che dallo stesso Arminio, nella foresta di Teutoburgo. Circondato su tre lati da pendici boscose, paludi e terrapieni erbosi, l’esercito romano resse l’urto iniziale; durante la marcia in territorio “amico”, le truppe si erano però distanziate in modo talmente disordinato da rendere in definitiva impossibile un disimpegno. I continui attacchi “mordi e fuggi” degli assalitori germanici aumentarono la confusione e il panico nei ranghi di Varo e solo alcuni soldati superstiti riuscirono a riattraversare il Reno. Il sito della catastrofe (clades Variana) è stato localizzato dagli studiosi nei pressi dell’altura di Kalkriese, vicino a Osnabrück.

La distruzione di tre “invincibili” legioni romane a opera dei “barbari” germani scosse Roma fin nel profondo. La battaglia della foresta di Teutoburgo (saltus Teutoburgensis), passata alla storia come una delle più importanti in assoluto, cambiò effettivamente il corso della storia. Secondo Svetonio (Aug. 23, 2), come ricevette la notizia, il princeps avrebbe iniziato a battere violentemente la testa contro le pareti, gridando: Quinctili Vare, legiones redde! («Quintilio Varo, rendimi le legioni!»). Il numero delle unità coinvolte – XVII, XVIII e XIX – non furono mai più utilizzati, in parte per vergogna e in parte per superstizione.

The Varian disaster, 9 CE. Illustrazione di A. McBride.

Il biasimo, comunque, non è da attribuire ai soldati: secondo il contemporaneo Velleio Patercolo, la responsabilità ultima della disgregazione e della distruzione dell’esercito di Varo era dovuta alla mediocrità dello stesso comandante e alla codardia dimostrata dai suoi subalterni. Quella che segue è la versione dei fatti trasmessa dallo storico (Vell. II 117-119):

Tantum quod ultimam imposuerat Pannonico ac Delmatico bello Caesar manum cum intra quinque consummati tanti operis dies funestae ex Germania epistulae caesi Vari trucidatarumque legionum trium totidiemque alarum et sex cohortium ***, velut in hoc saltem tantummodo indulgente nobis Fortuna, ne occupato duce ‹tanta clades inferretur. Sed› et causa ‹et› persona mora exigit.

Varus Quintilius nobili magis quam inlustri ortus familia, vir ingenio mitis, moribus quietus, ut corpore ita animo immobilior, otio magis castrorum quam bellicae adsuetus militiae, pecuniae vero quam non contemptor Syria, cui praefuerat, declaravit, quam pauper divitem ingressus dives pauperem reliquit; is cum exercitui qui erat in Germania praeesset, concepit a se homines qui nihil praeter vocem membraque habent hominum, quique gladiis domari non poterant, posse iure mulceri. Quo proposito mediam ingressus Germaniam velut inter viros pacis gaudentes dulcedine iurisdictionibus agendoque pro tribunali ordine trahebat aestiva. At illi, quod nisi expertus vix credat, in summa feritate versutissimi natumque mendacio genus, simulantes fictas litium series et nunc provocantes alter alterum in iurgia, nunc agentes gratias quod ea Romana iustitia finiret feritasque sua novitate incognitae disciplinae mitesceret et solita armis decerni iure terminarentur, in summam socordiam perduxere Quinctilium, usque eo ut se praetorem urbanum in foro ius dicere, non in mediis Germaniae finibus exercitui praeesse crederet.

Tum iuvenis genere nobilis, manu fortis, sensu celer, ultra barbarum promptus ingenio, nomine Arminius, Segimeri principis gentis eius filius, ardorem animi vultu oculisque praeferens, adsiduus militiae nostrae prioris comes, ‹cum› iure etiam civitatis Rom‹an›ae ius equestris consecutus gradus, segnitia ducis in occasionem sceleris usus est, haud imprudenter suspicatus neminem celerius opprimi quam qui nihil timeret, et frequentissimum initium esse calamitatis securitatem. Primo igitur paucos, mox plures in societatem consilii recepit; opprimi posse Romanos et dicit et persuadet, decretis facta iungit, tempus insidiarum constituit. Id Varo per virum eius gentis fidelem clarique nominis, Segesten, indicatur. Postulabat etiam ‹vinciri socios. Sed praevalebant iam› fata consiliis omnemque animi eius aciem praestrinxerat; quippe ita se res habet ut plerumque cui fortunam mutaturus ‹est› deus consilia corrumpat, efficiatque, quod miserrimum est, ut quod accidit id etiam merito accidisse videatur et casus in culpam transeat. Negat itaque se credere spe‹cie›mque in se benevolentiae ex merito aestimare profitetur. Nec diutius post primum indicem secundo relictus locus.

Ordinem atrocissimae calamitatis, qua nulla post Crassi in Parthis damnum in externis gentibus gravior Romanis fuit, iustis voluminibus ut alii ita nos conabimur exponere: nunc summa deflenda est. Exercitus omnium fortissimus, disciplina, manu experientiaque bellorum inter Romanos milites principes, marcore ducis, perfidia hostis, iniquitate Fortunae circumventus, cum ne pugnandi quidem egrediendive occasio iis, in quantum voluerant, data esset immunis, castigatis etiam quibusdam gravi poena quia Romanis et armis et animis usi fuissent, inclusus silvis paludibus insidiis ab eo hoste ad internecionem more pecudum trucidatus est quem ita semper tractaverat ut vitam aut mortem eius nunc ira nunc venia temperaret. Duci plus ad moriendum quam ad pugnandum animi fuit; quippe paterni avitique exempli successor se ipse transfixit. At e praefectis castrorum duobus quam clarum exemplum L. Eggius, tam turpe Ceionius prodidit, qui, cum longe maximam partem absumpisset acies, auctor deditionis supplicio quam proelio mori maluit. At Vala Numonius, legatus Vari, cetera quietus ac probus, diri auctor exempli, spoliatum equite peditem relinquens fuga cum alis Rhenum petere ingressus est; quod factum eius Fortuna ulta est; non enim desertis superfuit sed desertor occidit. […] Vari corpus semiustum hostis laceraverat feritas; caput eius abscisum latumque ad Maroboduum et ab eo missum ad Caesarem gentilicii tamen tumuli sepultura honoratum est.

Cenotafio di Marco Celio, centurione della legio XVIII (CIL XIII 8648). Edicola con iscrizione, c. 9-14, da Colonia Ulpia Traiana (od. Xanten). Bonn, Rhein. Landesmus.

«Cesare aveva appena portato a termine la campagna dalmato-pannonica, quando, cinque giorni dopo che si era conclusa questa così grande impresa, delle lettere di malaugurio dalla Germania recarono la notizia che Varo era stato ucciso ed erano state massacrate tre legioni, altrettanti squadroni di cavalleria e sei coorti [ausiliarie]***, come se, almeno riguardo a ciò, soltanto la Sorte fosse stata benevola verso di noi, non ci sarebbe stato il pericolo che, impegnato il comandante, ci venisse inferta una simile disfatta. Ma i prodromi [di questa sciagura] e il personaggio richiedono che io mi soffermi un poco.

Quintilio Varo, nato da una famiglia più illustre che nobile, era un uomo di indole mansueta, tranquillo di carattere, alquanto lento sia nel corpo sia nella mente, avvezzo più all’inattività nell’accampamento che alle fatiche della guerra; ma che non disprezzasse il denaro, invero, lo provò la provincia di Siria, della quale era stato governatore, dove entrò povero e se ne uscì ricco, lasciando la regione povera da che era ricca; egli, allorché ebbe assunto il comando dell’armata di stanza in Germania, credette che fossero uomini quegli esseri che non avevano nulla di umano fuorché la voce e le membra e che quelli che non potevano essere domati con le armi, potessero essere ammansiti con il diritto. A questo scopo, penetrato nel cuore della Germania, come se [si trovasse] fra persone che godevano dei frutti della pace, conduceva la campagna estiva amministrando la giustizia civile e presiedendo i tribunali.

Eppure quelli [= i Cheruschi] – cosa che si stenta a credere, senza averne fatta personale esperienza – astutissimi pur nella massima rozzezza, razza nata per la menzogna, simulando una serie di finte querele, ora provocandosi a vicenda in contese e ora mostrandosi riconoscenti, perché quelle fossero ricomposte dalla giustizia romana, la loro indole selvaggia fosse addolcita dalla novità di una disciplina sconosciuta e fossero determinate col diritto quelle cose che si era soliti decidere con le armi, ridussero Quintilio ad un’eccessiva indolenza, al tal punto che egli credeva di esercitare il diritto nel foro come un pretore urbano anziché di avere il comando di un esercito nel bel mezzo della Germania.

Fu allora che un giovane di nobile stirpe, di nome Arminio – figlio di Sigimero, capo di questa tribù, vigoroso, acuto di mente, d’ingegno superiore a quello di un barbaro, che mostrava nello sguardo e nel volto l’ardore del suo animo, fedele compagno d’armi nella nostra precedente campagna, gratificato del diritto di cittadinanza romana, conseguendo anche i diritti dell’ordine equestre – approfittò dell’indolenza del generale per ordire il suo misfatto, poiché non senza saggezza aveva considerato che nessuno può essere eliminato più rapidamente di chi non ha nessun timore e che la troppa sicurezza molto spesso sia il principio di una disgrazia. Dapprima fece partecipi del suo piano pochi dei suoi, poi molti altri. Disse – e li convinse – che i Romani potevano essere schiacciati; fece seguire alla decisione l’azione, stabilì il momento opportuno per l’agguato. Ciò venne riferito a Varo da un uomo fidato, originario di quella gente dal nome illustre, Segeste. Chiedeva anche di ‹arrestare i cospiratori, ma ormai› il destino ‹prevaleva› sulle decisioni [poiché] aveva completamente offuscato il lume della ragione. Così, infatti, vanno le cose che per lo più la divinità, quando intende cambiare la Fortuna di qualcuno, gli sconvolge la mente e fa in modo che – e questa è la cosa più triste – quanto accade gli sembra essere accaduto anche giustamente e la sfortuna si tramuta in colpa. Varo si rifiuta di credergli e dichiara di sperare [da parte dei Germani] in una buona disposizione nei suoi riguardi, adeguata ai meriti. Non rimase ancora tempo, dopo il primo avvertimento, per riceverne un altro.

Anch’io, come altri [scrittori], cercherò di esporre in un’opera di maggior respiro le circostanze dettagliate di quest’orribile disgrazia che causò ai Romani la perdita più grave in terra straniera, dopo quella di Crasso presso i Parti: ora devo accontentarmi di deplorarla sommariamente. L’esercito più forte di tutti, primo tra le truppe romane per disciplina, coraggio ed esperienza in guerra, si trovò intrappolato, vittima dell’indolenza del suo comandante, della perfidia del nemico, dell’iniquità della Sorte e, senza che fosse stata data ai soldati nemmeno la possibilità di tentare una sortita e di combattere liberamente, com’essi avrebbero voluto, poiché alcuni furono anche puniti severamente per aver fatto ricorso alle armi e al coraggio, da veri Romani, chiuso da un’imboscata tra le selve e le paludi, fu ridotto allo sterminio da quel nemico che aveva sempre sgozzato come bestie al punto da regolare la sua vita e la sua morte ora con collera, ora con pietà. Il generale mostrò nella morte maggior coraggio di quanto ne avesse mostrato nel combattere: erede, infatti, dell’esempio del padre e del nonno si trafisse con la sua stessa spada. Ma dei due prefetti del campo, Lucio Eggio lasciò un esempio tanto illustre quanto fu vergognoso quello di Ceionio, il quale, quando la battaglia aveva già portato via la maggior parte dei suoi, propose di arrendersi e preferì morire tra le torture invece che in combattimento. Quanto a Vala Numonio, luogotenente di Varo, per il resto uomo tranquillo e onesto, fu autore di uno scelleratissimo esempio, abbandonando i cavalieri che erano stati privati del cavallo e ridotti a piedi, cercò di fuggire con gli altri verso il Reno. La fortuna, però, fece vendetta del suo gesto. Non sopravvisse, infatti, a quelli che aveva tradito, e morì da traditore. […] La furia selvaggia dei nemici bruciò a metà il corpo di Varo e lo fece a pezzi. La sua testa mozzata e mandata a Maroboduo, che poi la inviò a Cesare, ebbe tuttavia gli onori della sepoltura nella tomba di famiglia».

The Battle of Teutoburg Forest (Germany, AD 9). Illustrazione di A. McBride.

Una delle conseguenze del disastro di Teutoburgo fu il definitivo abbandono dei piani per un eventuale controllo della Germania Magna. Roma non effettuò ulteriori tentativi di annessione dei territori transrenani e per i successivi quattro secoli il fiume segnò il confine dell’Impero romano.

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Riferimenti bibliografici:

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Gaio Sallustio Crispo

di G.B. CONTE, E. PIANEZZOLA, Lezioni di letteratura latina. Corso integrato. 1. L’età arcaica e repubblicana, Milano 2010, 448-457

Il primo grande storico

Sallustio è il primo grande storico della letteratura latina di cui si possono leggere per intero le opere principali, essendo andate perdute le Origines di Catone. La sua novità consiste nell’aver scelto di narrare non un lungo periodo della storia romana, ma singoli avvenimenti (la congiura di Catilina e la guerra di Giugurta) che, pur essendo stati di breve durata, gli sembrarono decisivi per le conseguenze che avrebbero avuto sugli sviluppi successivi. Sallustio scelse dunque il genere della monografia, ovvero della «trattazione isolata».

In realtà, la monografia (dal greco μόνος, «singolo, isolato», e γράφειν, «scrivere») non è un vero e proprio genere letterario, ma un sottogenere della storiografia, che corrisponde alla scelta di trattare non una lunga epoca, ma un periodo circoscritto, un evento o un luogo isolato, che sembrano di particolare interesse per l’autore. Il modello ispiratore della scelta, in questo come in altri ambiti, fu Omero, che nell’Iliade narrò la guerra di Troia, per di più concentrandosi sugli eventi accaduti in cinquantuno giorni dell’ultimo anno di conflitto. Questa abilità di selezione fu lodata già da Aristotele, anche riguardo all’Odissea, in diversi passi della Poetica (p. es., 59a 30-37).

Venendo alla storiografia vera e propria, l’iniziatore della monografia fu l’ateniese Tucidide (c. 460-400 a.C.). Contrapponendosi al suo grande predecessore Erodoto, che aveva narrato la storia e le usanze di più popolazioni dalle origini fino alle guerre persiane, Tucidide decise di raccontare soltanto la guerra del Peloponneso (431-404), affermando nel proemio di aver capito (e a ragione) fin dall’inizio che si trattava di un fatto senza precedenti (I 1). Per sottolineare la novità di questo conflitto rispetto ai precedenti, dopo il proemio Tucidide inserì un lungo excursus sulla storia più antica – chiamato «archeologia» –, una scelta che sarebbe stata imitata da Sallustio nei capp. 6-13 del De Catilinae coniuratione.

Altri storici contemporanei di Tucidide scelsero la forma monografica in base non tanto all’evento, quanto al luogo: così Ellanico di Lesbo e Damaste di Sigeo scrissero opere su singoli Paesi e popoli ricche di notazioni etnografiche o su singole genealogie di eroi, mentre Ippia di Reggio e Antioco di Siracusa si concentrarono sull’Italia meridionale. Nel IV secolo il genere monografico continuò a fiorire (in particolare, i numerosi autori di storie dell’Attica presero il nome di attidografi); alla fine del III secolo vi si affiancarono le monografie dedicate alle straordinarie imprese di Alessandro il Grande (tra gli autori si ricordano Tolemeo, Nearco e Callistene), che però scaddero ben presto nel romanzesco.

Com’è noto, la prima storiografia romana fu di tipo annalistico, ovvero di ampio respiro e scandita anno per anno, fosse essa scritta in poesia (gli Annales di Ennio) o in prosa (le Origines di Catone). Il primo scrittore romano che optò per l’impianto monografico fu Celio Antipatro (II secolo a.C.), autore di un’opera – andata perduta – sulla seconda guerra punica.

La scelta di Celio Antipatro rimase alquanto isolata, finché non fu ripresa da Sallustio, che dedicò le sue due più importanti opere alla congiura di Catilina (63) e alla guerra contro Giugurta (111-105), affermando esplicitamente di voler scrivere «su argomenti scelti» (carptim… perscribere, Cat. 4, 2). Dopo queste due monografie, l’autore praticò anche l’annalistica componendo le Historiae, che narravano i fatti avvenuti dal 78 a.C. in poi.

Anche il più grande storico di età imperiale, Tacito, che ebbe Sallustio come modello di composizione, etica e stile, praticò entrambi i generi: oltre agli Annales e alle Historiae, che raccontano gli accadimenti dalla morte di Augusto, Tacito compose anche una monografia etnografica sui Germani (De origine et situ Germanorum) e un breve De vita Iulii Agricolae, che, pur essendo di per sé un elogio funebre, è in realtà un quadro monografico sul principato di Domiziano.

Insomma, ad avvenimenti brevi Sallustio dedicò opere brevi; malgrado questa caratteristica, le monografie contengono riflessioni che mostrano una lucidità e un’intelligenza proprie di chi ha partecipato attivamente alla vita politica per un lungo tratto della sua vita. il cupo pessimismo dell’autore e la sua tragica visione della Storia si riflettono in uno stile personalissimo, che rifugge dall’eleganza esornativa ciceroniana e fa largo uso di forme poetiche e arcaiche.

Maestro di Marradi. L’espulsione di Tarquinio il Superbo e di suo figlio Sesto da Roma. Tempera e oro su tavola, XV secolo. Collezione privata.

La vita: dalla politica attiva all’otium letterario

Gaio Sallustio Crispo nacque ad Amiternum, in Sabina (oggi vicino a L’Aquila), il 1 ottobre 86, da una famiglia facoltosa che però non aveva mai dato magistrati alla res publica; egli era perciò un homo novus, come il suo conterraneo Marco Porcio Catone il Censore, che fu per lui importante esempio ideologico e letterario. Sallustio compì probabilmente gli studi a Roma, dove i suoi interessi cominciarono a gravitare verso la politica, in un’epoca abbastanza convulsa per lo Stato romano. Una notizia non troppo certa lo vuole questore nel 55 o nel 54. Si legò inizialmente ai populares: tribuno della plebe nel 52, condusse una campagna accanita contro l’uccisore di Clodio, Milone, e contro Cicerone che lo appoggiava. Poco dopo dovette subire la vendetta degli optimates: nel 50 fu espulso dal Senato per indegnità morale.

Dopo lo scoppio della guerra civile, Sallustio combatté per la causa di Cesare e fu riammesso nel venerando consesso dopo la vittoria di quest’ultimo: la sua carriera politica riprese rapida, tanto che nel 46 era già arrivato a essere pretore. Una volta sconfitti i pompeiani anche in Africa a Tapso, Cesare nominò Sallustio governatore della nuova provincia, costituita in gran parte dalle annessioni dal regno di Numidia, tolto a Giuba che aveva appoggiato il nemico. Sallustio dette tuttavia prova di malgoverno e di rapacità, e al suo rientro a Roma, a fine mandato, fu colpito dall’accusa de repetundis. Per evitargli una sicura condanna e una nuova espulsione dal Senato, probabilmente Cesare gli consigliò di ritirarsi una volta per tutte dalla vita politica. Fu da quel momento in poi che, presumibilmente, Sallustio si dedicò alla storiografia. La morte lo colse nel 35 o nel 34, nella sua lussuosa residenza con grande parco tra il Quirinale e il Pincio (i cosiddetti Horti Sallustiani), facendo sì che restasse incompiuta la sua opera maggiore, le Historiae.

Strumenti da scrittura (tabulae ceratae, stilus, volumen). Affresco, ante 79 d.C. da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Le opere

Sallustio, dunque, si dedicò alla storiografia quando le circostanze gli impedirono di partecipare ancora alla vita politica. Questo dato biografico è il punto di partenza della riflessione sulla Storia e sul ruolo dello storico che egli svolge nei proemi delle due monografie, il De Catilinae coniuratione e il Bellum Iugurthinum, composte e pubblicate forse fra il 43 e il 40. Egli segue una prassi propria della storiografia classica, consistente nell’esordire svolgendo alcuni temi di carattere generale e affermando, prima di tutto, l’utilità della Storia: essa è per lo storico latino tanto più importante, rispetto ai suoi predecessori greci, in quanto la mentalità romana considerava assolutamente primaria la partecipazione alla vita pubblica e guardava con sospetto alle attività intellettuali che comportassero il distacco dalla res publica e il prevalere degli interessi privati.

Appunto contro le resistenze di questo sistema di valori tradizionali Sallustio vuole rivendicare l’importanza dell’opera dello storico. Per tale processo di legittimazione egli parte da premesse filosofiche e precisamente dal tema platonico del dualismo dell’essere umano, composto da animus e corpus: il primo è di origine divina ed è chiamato a funzioni di guida, mentre il secondo, che è mortale e che l’uomo ha in comune con gli altri animali, deve obbedire al primo. È dunque solennemente proclamata la superiorità della parte spirituale dell’uomo su quella fisica: all’animus, appunto, l’autore riconduce tutte le occupazioni nobili ed elevate, quelle apportatrici di fama, che consentono di trascendere i limiti mortali della vita umana.

Un’opera di più vasto respiro, le Historiae, iniziata intorno al 39 e rimasta incompiuta al libro V, copriva il periodo fra il 78 e il 67, cioè dalla morte di Silla alla conclusione della guerra piratica di Pompeo, riallacciandosi alla narrazione di Cornelio Sisenna (c. 120-67 a.C.); ne restano numerosi frammenti, fra i quali alcuni di vaste dimensioni ( parte del proemio, quattro discorsi e due lettere). Opere spurie sono considerate le due Epistulae ad Caesarem senem de re publica e l’Invectiva in Ciceronem.

Come si è visto, dopo un’iniziale, intensa partecipazione attiva alla vita pubblica, ovvero al negotium, Sallustio si ritirò a vita privata e si dedicò all’attività letteraria, ovvero all’otium. Poiché i Romani concepivano l’otium in maniera potenzialmente negativa, cioè come tempo sottratto alla cura degli affari e della politica, Sallustio sentì il bisogno di giustificarsi per il passaggio dal negotium all’otium, e lo fece nei due lunghi proemi che antepose alle sue monografie. Sebbene si nutrano di luoghi comuni della filosofia divulgativa, questi proemi rispondono all’esigenza profonda di dare conto della propria attività intellettuale di fronte a un pubblico come quello romano, fedele alla tradizione per cui fare storia era compito più importante che scriverne. Giustificazioni analoghe aveva più volte dovuto fornire Cicerone – anch’egli in testi proemiali – a proposito delle sue opere filosofiche; ma in Cicerone la rivalutazione dell’attività intellettuale è compiuta con un orgoglio senz’altro superiore a quello di Sallustio, che alla storiografia attribuisce un valore di gran lunga inferiore a quello della politica, e comunque non le conferisce un significato “autonomo”. Per Sallustio la storiografia resta infatti strettamente legata alla prassi politica, e la sua maggiore funzione è individuata nel contributo alla formazione dell’uomo politico. Tuttavia, l’attività politica non è più praticabile, a detta di Sallustio, perché a Roma trionfa ormai la corruzione.

I pochi cenni autobiografici contenuti nei proemi di Sallustio sono volti a spiegare l’abbandono della vita politica con la crisi che ha irrimediabilmente corrotto le istituzioni e la società. Sallustio denuncia l’avidità di ricchezza e di potere come i mali che avvelenano la vita pubblica dei cittadini, e in ciò si fa evidente il contrasto fra la pagina scritta e quanto si sa della sua carriera disonesta di amministratore. Ma la cosa più importante è che la stessa storiografia sallustiana tende a configurarsi come indagine sulla crisi. Questo approccio serve a dare conto dell’impianto monografico delle due prime opere storiche, che costituiva una novità quasi totale nella storiografia latina. Proprio l’impostazione monografica serviva in maniera eccellente a delimitare e a mettere a fuoco un singolo problema storico sullo sfondo di una visione organica della storia di Roma. Così il De Catilinae coniuratione illumina il punto più acuto della crisi, il delinearsi di un pericolo sovversivo di qualità fino ad allora ignota alla res publica; il Bellum Iugurthinum, invece, affronta direttamente, attraverso una vicenda paradigmatica, il nodo costituito dall’incapacità della nobilitas ormai corrotta a difendere lo Stato, e insiste sulla prima resistenza vittoriosa dei populares. Contemporaneamente, l’impianto monografico risentiva dell’esigenza di opere brevi di raffinata fattura stilistica, acuitasi dopo l’esperienza neoterica della poesia e la scelta della monografia portò Sallustio a elaborare un nuovo stile storiografico.

Jan Bruegel il Giovane, Allegoria della guerra. Olio su tela, c. 1640. Collezione privata.

Il De Catilinae coniuratione

Sallustio sceglie come argomento della sua prima monografia la congiura di Lucio Sergio Catilina, repressa da Cicerone console nel 63, perché vi scorge una pericolosa novità: il tentativo di coalizzare contro lo strapotere del Senato una sorta di “blocco sociale” costituito dalle masse di diseredati del proletariato urbano, dei poveri delle campagne, dai membri decaduti del patriziato, forse persino da frotte di servi. Il fenomeno catilinario aveva suscitato nei gruppi dirigenti dell’Urbe timori che possono apparire eccessivi, ma senza la paura dei ceti possidenti nei confronti degli strati inferiori della società non si comprende l’importanza che fu attribuita alla congiura.

Sallustio, come molti suoi contemporanei, vedeva nel sovversivismo catilinario uno dei sintomi della ben più grave malattia di cui soffriva la società romana. A essa lo storico, interrompendo la narrazione, dedica un ampio excursus, quasi all’inizio dell’opera (capp. 6-13): si tratta della cosiddetta «archeologia», che, sul modello tucidideo, traccia una rapida storia dell’ascesa e della decadenza di Roma. Anche se con il senno di poi la congiura di Catilina può sembrare un evento di modesta portata, ingigantito da Cicerone per aumentare i propri meriti e da Sallustio per finalità storiografiche, resta il fatto che fece una grande impressione presso i contemporanei. A partire dall’epoca di Gracchi (133-120 a.C.), passando per i tumulti di Saturnino (100) e Druso (91) e per lo scontro tra Mario e Silla (88-82), la violenza civile a Roma era aumentata a dismisura e in modo incontrollato, finché Catilina non fece il grande passo: per la prima volta qualcuno tramava segretamente contro la res publica. Catilina era pronto a massacrare in un attimo i membri di quel Senato che frequentava abitualmente e i magistrati con cui si intratteneva ogni giorno come se nulla fosse. Sallustio, dunque, si è chiesto come sia stato possibile giungere a tanto. Mentre uno storico moderno spiegherebbe i fatti attraverso motivazioni economiche, politiche e sociali, Sallustio – storico moralista e “tragico” – addita una causa di natura collettiva, cioè la decadenza morale di tutta Roma e una di natura individuale, cioè la malvagità d’animo del protagonista e di tutti coloro che avevano scelto di seguirlo.

I capitoli 9-11, che espongono la prima delle due ragioni, sono estratti dalla cosiddetta «archeologia», l’excursus che presenta l’ascesa di Roma dal periodo della fondazione al presente dell’autore. La tesi di Sallustio è che fino alla distruzione di Cartagine (146) i Romani, valorosi in guerra e giusti e miti in tempo di pace, abbiano mantenuto boni mores; ma, una volta scomparso il grande rivale, l’Urbe è precipitata in un baratro di corruzione e violenza, culminato nella dittatura di Lucio Cornelio Silla.

[9.1] Igitur domi militiaeque boni mores colebantur, concordia maxuma, minuma avaritia erat; ius bonumque apud eos non legibus magis quam natura valebat. [2] iurgia discordias simultates cum hostibus exercebant, cives cum civibus de virtute certabant. in suppliciis deorum magnifici, domi parci, in amicos fideles erant. [3] duabus his artibus, audacia in bello, ubi pax evenerat aequitate, seque remque publicam curabant. [4] quarum rerum ego maxuma documenta haec habeo, quod in bello saepius vindicatum est in eos, qui contra imperium in hostem pugnaverant quique tardius revocati proelio excesserant, quam qui signa relinquere aut pulsi loco cedere ausi erant; [5] in pace vero quod beneficiis magis quam metu imperium agitabant et accepta iniuria ignoscere quam persequi malebant.

[10.1] Sed ubi labore atque iustitia res publica crevit, reges magni bello domiti, nationes ferae et populi ingentes vi subacti, Carthago aemula imperi Romani ab stirpe interiit, cuncta maria terraeque patebant, saevire fortuna ac miscere omnia coepit. [2] qui labores, pericula, dubias atque asperas res facile toleraverant, iis otium divitiaeque, optanda alias, oneri miseriaeque fuere. [3] igitur primo pecuniae, deinde imperi cupido crevit: ea quasi materies omnium malorum fuere. [4] namque avaritia fidem probitatem ceterasque artis bonas subvortit; pro his superbiam, crudelitatem, deos neglegere, omnia venalia habere edocuit. [5] ambitio multos mortalis falsos fieri subegit, aliud clausum in pectore, aliud in lingua promptum habere, amicitias inimicitiasque non ex re, sed ex commodo aestumare, magisque voltum quam ingenium bonum habere. [6] haec primo paulatim crescere,interdum vindicari; post ubi contagio quasi pestilentia invasit, civitas inmutata, imperium ex iustissumo atque optumo crudele intolerandumque factum.

[11.1] Sed primo magis ambitio quam avaritia animos hominum exercebat, quod tamen vitium propius virtutem erat. [2] nam gloriam honorem imperium bonus et ignavos aeque sibi exoptant; sed ille vera via nititur, huic quia bonae artes desunt, dolis atque fallaciis contendit. [3] avaritia pecuniae studium habet, quam nemo sapiens concupivit: ea quasi venenis malis inbuta corpus animumque virilem effeminat, semper infinita ‹et› insatiabilis est, neque copia neque inopia minuitur. [4] sed postquam L. Sulla armis recepta re publica bonis initiis malos eventus habuit, rapere omnes, trahere, domum alius, alius agros cupere, neque modum neque modestiam victores habere, foeda crudeliaque in civis facinora facere. [5] huc adcedebat, quod L. Sulla exercitum, quem in Asia ductaverat, quo sibi fidum faceret, contra morem maiorum luxuriose nimisque liberaliter habuerat. Loca amoena, voluptaria facile in otio ferocis militum animos molliverant: [6] ibi primum insuevit exercitus populi Romani amare potare, signa tabulas pictas vasa caelata mirari, ea privatim et publice rapere, delubra spoliare, sacra profanaque omnia polluere. [7] igitur ei milites, postquam victoriam adepti sunt, nihil relicui victis fecere. [8] quippe secundae res sapientium animos fatigant: ne illi conruptis moribus victoriae temperarent.

Scena di vendita e trasporto delle merci. Rilievo, calcare, III sec. Arlon, Musée Luxembourgeois.

[9.1] In pace e in guerra, dunque, era onorata la buona condotta; regnava la concordia, non si conosceva brama di arricchire. Il diritto e l’onestà erano osservati non in forza di leggi ma per impulso naturale. [2] Alterchi, discordie, contese se ne avevano solo con i nemici esterni: tra concittadini si gareggiava soltanto per il valore. Erano splendidi nel culto reso agli dèi, parsimoniosi nella loro vita privata e leali agli amici. [3

]Sia nella vita privata sia in quella pubblica, si attendevano a due principi, spietati in guerra, erano equi quando era tornata la pace. [4] Sono cose di cui potrei addurre documenti irrefutabili, perché in guerra è accaduto di dover punire soldati per essersi lanciati sul nemico contro gli ordini o attardati a combattere dopo il segnale della ritirata, più spesso che per aver disertato o ceduto terreno sotto la pressione degli avversari. [5] In tempo di pace, d’altro canto, esercitavano il loro dominio più con la benevolenza che con il terrore e preferivano perdonare alle offese ricevute anziché punirne i responsabili.

[10.1] Ma come la res publica, con la tenacia e la giustizia, si espanse e i re più potenti furono soggiogati e le genti barbare e le grandi nazioni sottomesse con la forza, e la rivale dell’impero romano, Cartagine, fu rasa al suolo dalle fondamenta e si erano aperti tutti quanti i mari e le terre, la sorte cominciò a infierire e a sovvertire ogni cosa. [2] Per quelle stesse persone che avevano sopportato senza un lamento fatiche, pericoli, sorti incerte e avverse, la tranquillità e il benessere, beni d’altro canto desiderabili, si trasformarono in travagli e sciagure. [3] La brama di ricchezza e di potere aumentò e con essa, si può dire, divamparono tutti i mali. [4] Fu la cupidigia a spazzar via la buona fede, la rettitudine e tutte le norme del vivere onesto, indusse la gente all’arroganza, alla crudeltà, alla noncuranza verso gli dèi, alla convinzione che non ci fosse cosa che non fosse in vendita. [5] L’ambizione indusse molti a fingere, a tener chiuso in cuore un pensiero e ad averne un altro pronto sulla lingua, a considerare amici e nemici non per i loro reali meriti, ma secondo il proprio tornaconto, a sembrare onesti più che a esserlo davvero. [6]

 Sulle prime, questi vizi aumentarono lentamente; a volte, furono anche puniti. Ma più il contagio si diffuse come una pestilenza, la città mutò volto e quel governo che era il più giusto, il migliore, divenne crudele e intollerabile.

[11.1] Nei primi tempi, peraltro, più della cupidigia tormentava gli animi l’ambizione, un difetto sì ma non molto lontano dal pregio. [2] Infatti, alla gloria, agli onori, al potere aspirano tutti allo stesso modo, l’uomo di valore e l’incapace; ma i primi vi tendono percorrendo la retta via, i secondi, privi di qualità, cercano di raggiungere la meta con la frode e il raggiro. [3] L’avidità contiene in sé la brama di denaro, che nessun sapiente ha mai desiderato e desidera. Essa, quasi fosse intrisa di veleni mortali, infiacchisce il corpo e l’anima più virile; non conosce limiti né sazietà, non si attenua né per abbondanza né per difetto. [4] Ma, dopo che Lucio Silla, preso il potere con le armi, fece seguire fatti atroci nonostante i fausti inizi, tutti si diedero a commettere stupri e rapine, chi bramava una casa, chi i poderi, i vincitori non conoscevano freno né misura, compivano atrocità e crudeltà contro i concittadini. [5] A ciò si aggiungeva il fatto che Lucio Silla aveva lasciato vivere nel lusso e trattato con eccessiva liberalità, contrariamente al costume degli avi nostri, l’esercito che aveva condotto con sé in Asia per renderselo leale. L’amenità e la molle piacevolezza dei luoghi avevano rapidamente fiaccato nell’ozio lo spirito fiero di quei soldati. [6] Laggiù per la pima volta un esercito del popolo romano sperimentò piaceri che non conosceva, ad amoreggiare, a bere smodatamente, ad apprezzare opere d’arte, statue, quadri e vasellame cesellato, e incominciò a rubarli dalle case private e dai luoghi pubblici, a spogliare i templi, a profanare ciò che apparteneva agli dèi e agli uomini. [7] Quei soldati, dopo la vittoria, non lasciarono niente ai vinti. [8] La prosperità corrompe perfino l’animo del saggio: figuriamoci se quei degenerati avrebbero saputo moderarsi nella vittoria!

L. Cornelio Silla. Aureo, campagna orientale, 84-83 a.C. AV 10, 76. Recto: L(ucius) Sulla. Testa diademata di Venere voltata a destra con Cupido stante, reggente una foglia di palma.

Nella visione pessimistica di Sallustio, la società romana del suo tempo era ormai minata da un processo irreversibile di degenerazione morale, che aveva rovesciato i boni mores che un tempo avevano fatto la grandezza di Roma. In quest’ottica, un episodio come la congiura di Catilina rappresenta il culmine di una “malattia” che ha progressivamente corroso il tessuto sociale, e per capirne le implicazioni è necessario rileggere lo sviluppo storico che ha portato dagli antichi fasti all’attuale decadenza della res publica. È questa, come più volte si è detto, la funzione della cosiddetta «archeologia», in cui, sul modello dell’analoga digressione di Tucidide, Sallustio interrompe la linea narrativa della monografia per tracciare una sorta di “storia morale” di Roma, dall’età mitica fino al suo presente, una storia di progressiva, inesorabile decadenza.

Mentre i primi quattro capitoli dell’excursus sono dedicati all’elogio della moralità arcaica, gli ultimi quattro, in perfetta simmetria, descrivono la china “discendente” di questa parabola. Il punto di svolta, per l’autore, è la distruzione di Cartagine (10, 1), e da qui in poi si apre l’elenco delle “tappe della rovina”. Sallustio è attento alla scansione temporale dei fenomeni, come mostra l’abbondanza di indicatori cronologici. L’autore cita questo evento come coronamento delle vittorie ottenute da Roma, fra III e II secolo a.C., contro reges magni (Pirro d’Epiro, Perseo di Macedonia e Antioco di Siria), nationes ferae e populi ingentes. L’idea che a partire da questo fatto fosse iniziata la decadenza dell’Urbe circolava già da qualche tempo: nel II secolo, infatti, lo storico Polibio di Megalopoli aveva notato come la paura per il nemico stimolasse la concordia fra i concittadini, mentre il benessere che segue alla sconfitta del nemico e alla conquista di nuovi territori avviasse un processo di decadenza (è la cosiddetta “teoria del metus hostilis”). In quest’ottica, però, è interessante notare come Sallustio attribuisca all’azione della fortuna l’inizio del rovinoso processo, o meglio al fatto che la virtus, indebolendosi, lasciò spazio al gioco della fortuna. Inoltre, i primi segni della decadenza sono l’insorgere della cupido pecuniae e poi della cupido imperii (10, 3), ai cui effetti, avaritia e ambitio, sono dedicati i successivi paragrafi. Si inserisce, a questo punto, il secondo evento cruciale, cioè la dittatura di Silla (11, 4-7), che, nella visione di Sallustio, diede modo all’avaritia di scatenarsi senza più ritegno, tra proscrizioni, permissività nei confronti di militari corrotti, e crudeltà crescente fra concittadini. In chiusura, una frase sentenziosa denuncia il carattere inevitabile di tale processo e l’inconciliabilità delle secundae res con la conservazione dei boni mores (11, 8).

L’immagine della Roma antica che emerge da questa pagina sallustiana è fortemente idealizzata: l’autore evita di fare qualsiasi cenno alle lotte fra patrizi e plebei, che ebbero luogo nei primi secoli della storia repubblicana, per aumentare il contrasto fra questa età e la successiva decadenza, macchiata da ben più cruente stragi fra i cives. Di quel periodo Sallustio ricorda solo gli episodi più edificanti, per quanto sconcertanti, come si scorge in 9, 4: l’immagine del soldato romano che rischia di essere punito più per un eccesso di ardimento che per essere fuggito allude all’episodio di Tito Manlio Torquato, console nel 340, che condannò all’esecuzione capitale il proprio figlio per aver combattuto contravvenendo ai suoi ordini. Il paragrafo 9, 5, invece, celebra l’imperialismo romano come un dominio basato sulla benevolenza e la mitezza, piuttosto che su un regime di terrore nei confronti delle popolazioni sottomesse.

Anche l’idea che i boni mores vigessero più per istinto naturale che per la forza delle leggi è un elemento fortemente idealizzante, che si ritrova nell’immagine “aurea” del virgiliano regno di Saturno (Verg. Aen. VII 203) e diventa ben presto luogo comune (per es., Hor. Carm. III 24, 35-36). Un altro tratto elogiativo è il contrasto fra la parsimonia privata e la magnificenza del culto divino, per cui Sallustio trae probabilmente spunto da un’orazione di Demostene (Dem. 3, 25), che opponeva il fasto dei templi all’umiltà delle abitazioni private nell’antica Atene.

Catilina incarna in sé, portandoli al massimo grado, i vizi della società contemporanea: le sue colpe sono le stesse della civitas, come Sallustio riconosce verso la fine del ritratto del protagonista (5). Perciò, al termine dell’excursus “archeologico”, ecco di nuovo e subito Catilina, che questa degenerazione ricapitola e impersona (14).

[14.1] In tanta tamque conrupta civitate Catilina, id quod factu facillumum erat, omnium flagitiorum atque facinorum circum se tamquam stipatorum catervas habebat. [2] Nam quicumque inpudicus adulter, ganeo manu ventre pene bona patria laceraverat, quique alienum aes grande conflaverat, quo flagitium aut facinus redimeret, [3] praeterea omnes undique parricidae sacrilegi convicti iudiciis aut pro factis iudicium timentes, ad hoc quos manus atque lingua periurio aut sanguine civili alebat, postremo omnes quos flagitium, egestas, conscius animus exagitabat, ii Catilinae proxumi familiaresque erant. [4] Quod si quis etiam a culpa vacuos in amicitiam eius inciderat, cotidiano usu atque inlecebris facile par similisque ceteris efficiebatur. [5] Sed maxume adulescentium familiaritates adpetebat: eorum animi molles et aetate fluxi dolis haud difficulter capiebantur. [6] Nam ut cuiusque studium ex aetate flagrabat, aliis scorta praebere, aliis canis atque equos mercari; postremo neque sumptui neque modestiae suae parcere, dum illos obnoxios fidosque sibi faceret. [7] Scio fuisse nonnullos, qui ita existumarent iuventutem, quae domum Catilinae frequentabat, parum honeste pudicitiam habuisse; sed ex aliis rebus magis quam quod cuiquam id compertum foret haec fama valebat.

Scena di vita quotidiana nel foro. Affresco, ante 79 d.C. da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

[14.1] In una città così grande e così corrotta, non era stato difficile a Catilina raccogliersi attorno tutti i dissipati e i criminali e farne, si può dire, la sua guardia del corpo. [2] Non c’era, infatti, degenerato, adultero, puttaniere, scialacquatore del patrimonio al gioco, al bordello, a tavola, non c’era uno indebitato fino al collo per riscattarsi dall’infamia o dal delitto, [3] non c’era un parricida o un sacrilego d’ogni paese, condannato o in attesa di sentenza, non uno di quei sicari e spergiuri che prosperano sul sangue dei cittadini, non c’era infine coscienza inquieta per il disonore, il bisogno, i rimorsi che non fosse tra i suoi. [4] E se capitava a qualcuno, ancora immune da colpe, di entrare nel giro, i rapporti quotidiani, le tentazioni, ben presto lo facevano diventare come gli altri. [5] Cercava, soprattutto, di attirare i giovani: le loro menti ancora informi e malleabili cadevano facilmente nella pania. [6] Infatti egli li assecondava nelle loro passioni, a uno procurava donne, a un altro comperava cani e cavalli, insomma non lesinava denaro né badava alla dignità pur di farsene amici fidati. [7] So che alcuni hanno sospettato di costumi disonesti i giovani che frequentavano la casa di Catilina; ma erano voci, congetture basate su tutto il contorno, non su fatti accertati.

In questo breve capitolo Sallustio mostra come un Catilina si trovasse perfettamente a suo agio in mezzo alla corruzione di Roma, essendone alimentato e alimentandola a sua volta con i suoi misfatti. In particolare, qui l’autore allude all’immoralità sessuale dei suoi seguaci, sulla quale Catilina poteva fare leva per attirarli: con lui c’era ogni inpudicus, adulter e quicumque… pene bona patria laceraverat, perciò a Catilina bastava scorta praebere («procurare prostitute»). Queste accuse erano sicuramente gravi per la rigida morale sessuale dei Romani, ma ancora tollerabili: la prostituzione era accettata, purché non mettesse in discussione la famiglia e restasse nell’ambito eterosessuale.

L’accusa più grave è quella di pederastia contenuta in 14, 7, espressa per litote con parum honeste pudicitiam habuisse. Sallustio, però, ne prende onestamente le distanze, definendola basata genericamente ex aliis rebus, ben sapendo che nella lotta politica il pettegolezzo sessuale contro gli avversari (soprattutto su forme di sessualità eterodossa) era un’arma diffusissima. Cicerone nell’orazione pro Caelio (56 a.C.) avrebbe riportato le voci sull’amore incestuoso di Clodia (la catulliana Lesbia) con il fratello Clodio, il tribuno che lo aveva mandato in esilio; a sua volta, Cicerone fu accusato di intrattenere rapporti incestuosi con l’amatissima figlia Tullia. E già un secolo prima, il grande commediografo Terenzio era stato accusato di essere l’amasio di Scipione Emiliano e di Gaio Lelio, e di farsi comporre le commedie proprio da loro.

Un secondo excursus, collocato al centro dell’opera (capp. 37-39), denuncia la degenerazione della vita politica romana nel periodo che va dalla dittatura sillana alla guerra civile fra Cesare e Pompeo. La condanna coinvolge in pari modo le due parti in lotta, i populares e gli optimates: da un lato i demagoghi, che con elargizioni e promesse alla plebe ne aizzano l’emotività per farne il piedistallo delle proprie ambizioni; dall’altro i nobiles e gli equites, che si fanno paladini della dignità del Senato, ma combattono in realtà solo per consolidare e ampliare i propri privilegi. Sallustio scorge un legame organico fra la faziosità delle parti contrapposte e il pericolo di sovversione sociale; abolire la “conflittualità” diffusa è necessario per mettere i ceti possidenti definitivamente al riparo da quel pericolo.

La condanna del «regime delle factiones» è in questo senso coerente con le aspettative che Sallustio ripone in Cesare. Da parte di quest’ultimo, lo storico auspicava probabilmente l’attuazione di una politica per certi aspetti non diversa da quella che Cicerone si riprometteva dal suo princeps: un regime autoritario che sapesse porre fine alla crisi della res publica, ristabilendo l’ordine, rinsaldando la concordia fra i ceti possidenti, restituendo prestigio e dignità a un Senato ampliato con uomini nuovi provenienti dall’élite di tutta Italia. La divergenza principale fra l’ideale di Sallustio e la politica effettivamente perseguita da Cesare riguardava probabilmente la funzione che questi aveva attribuito all’esercito: Sallustio – anche qui non troppo diversamente da Cicerone – doveva sentirsi disgustato dall’inquinamento del Senato con l’immissione di personaggi provenienti dai ranghi militari. Questa impostazione generale spiega la parziale deformazione che nel De coniuratione Sallustio ha compiuto del personaggio di Cesare, purificandolo, per così dire, da ogni contatto e legame con i catilinari ed evitando la condanna esplicita della sua politica come capo dei populares.

Nel riferire la seduta del Senato del 5 dicembre 63 a.C., in cui fu decisa la condanna a morte dei complici del complotto (Cat. 51), Sallustio fa pronunciare a Cesare un lungo discorso che, per sconsigliare l’estremo supplizio, fa largo appello a considerazioni legalitarie. Il discorso “rifatto” da Sallustio non è, a quanto pare, una sostanziale falsificazione; ma l’insistenza sulle tematiche legalitarie, se anche trovava qualche appiglio nell’intervento effettivamente pronunciato da Cesare in quell’occasione, è soprattutto coerente con la propaganda cesariana degli ultimi anni, quale mostrano i Commentarii, e con l’ideale politico sallustiano. La preoccupazione per l’ordine e la legalità conteneva, agli occhi dello storico, un valore perenne: mostrandola operante nel pensiero di Cesare fin dal 63, Sallustio implicitamente suggeriva la coerenza e la continuità della sua linea politica.

Immediatamente dopo la narrazione della seduta del Senato, l’autore delinea i ritratti di Marco Porcio Catone e di Cesare, che in quell’occasione avevano espresso pareri opposti (Cat. 54). L’idea del confronto fra i due personaggi non è senza rapporti con la polemica su Catone che si era sviluppata dopo il suo suicidio in Utica, e alla quale aveva preso parte lo stesso Cesare con l’Anticato. Sallustio sembra essere stato il primo a tentare una riflessione pacata, che approda a una sorta di ideale “conciliazione” fra i due personaggi. Il ritratto di Cesare si sofferma da un lato sulla sua liberalità, munificentia, misericordia, e dall’altro sull’infaticabile energia che sorregge la sua brama di gloria; le virtù tipiche di Catone sono invece quelle, radicate nella tradizione, di integritas, severitas, innocentia. Malgrado ciò, «pari era in loro la grandezza d’animo, pari era la fama» (magnitudo animi par, item gloria). Differenziando i mores dei due personaggi, Sallustio voleva affermare che entrambi erano positivi per lo Stato romano, anzi nelle loro virtù individuava aspetti complementari; in particolare, nei principi etico-politici affermati da Catone, Sallustio – al di là dei dissensi sul ruolo del ceto nobiliare cui Catone dava voce – riconosceva un fondamento irrinunciabile per la res publica.

Indicando in Cesare e in Catone i più grandi Romani dell’epoca, Sallustio non perseguiva certo l’intento di denigrare Cicerone; ma è un fatto che, dalla narrazione dei fatti, la figura del console, che si era trovato a reprimere il complotto, appare alquanto ridimensionata a chi abbia presenti i vanti che lo stesso Arpinate si era largamente prodigato. Il Cicerone di Sallustio non è il politico che domina gli eventi grazie alla lucidità della propria mente, ma un magistrato che fa il suo dovere, pur non essendo un eroe, superando inquietudini e incertezze.

Attinge, invece, una sua grandezza, sia pure malefica, il personaggio di Catilina stesso, del quale l’autore delinea un ritratto a tinte forti e contrastanti (Cat. 5), sottolineandone da un lato l’energia indomabile, dall’altro la facile consuetudine con ogni forma di depravazione. Ne emerge il tipo dell’«eroe nero», che con la sua tensione verso il male mette in moto nella Storia le dinamiche più rovinose.

[5.1] L. Catilina, nobili genere natus, fuit magna vi et animi et corporis, sed ingenio malo pravoque. [2] Huic ab adulescentia bella intestina, caedes, rapinae, discordia civilis grata fuere, ibique iuventutem suam exercuit. [3] Corpus patiens inediae, algoris, vigiliae supra quam cuiquam credibile est. [4] Animus audax, subdolus, varius, cuius rei lubet simulator ac dissimulator, alieni adpetens sui profusus, ardens in cupiditatibus; satis eloquentiae, sapientiae parum. [5] Vastus animus inmoderata, incredibilia, nimis alta semper cupiebat. [6] Hunc post dominationem L. Sullae lubido maxuma invaserat rei publicae capiundae; neque id quibus modis adsequeretur, dum sibi regnum pararet, quicquam pensi habebat.[7] Agitabatur magis magisque in dies animus ferox inopia rei familiaris et conscientia scelerum, quae utraque iis artibus auxerat, quas supra memoravi. [8] Incitabant praeterea corrupti civitatis mores, quos pessuma ac divorsa inter se mala, luxuria atque avaritia, vexabant.

Cesare Maccari, Cicerone denuncia la congiura di Catilina in Senato (dettaglio). Affresco, 1882-88. Roma, Palazzo di Villa Madama.

[5.1] Lucio Catilina, di nobile stirpe, fu d’ingegno vivace e di corpo vigoroso, ma d’animo perverso e depravato. [2] Sin da giovane era portato ai disordini, alle violenze, alle rapine, alla discordia civile; in tali esercizi trascorse i suoi anni giovanili. [3] Aveva un fisico incredibilmente resistente al digiuno, al freddo, alla veglia; [4] uno spirito intrepido, subdolo, incostante, abile a simulare e a dissimulare. Avido dell’altrui, prodigo del proprio; ardente nelle passioni, non privo d’eloquenza, ma di poco giudizio; [5] un animo sfrenato, sempre teso a cose smisurate, incredibili, estreme. [6] Finito il dispotismo di Lucio Silla, egli fu preso dalla smania di impadronirsi del potere; pur di raggiungerlo, non aveva scrupoli. [7] Quell’animo impavido era turbato ogni giorno di più dalla penuria di denaro e da cattiva coscienza, rese più gravi dalle male abitudini cui ho accennato. [8] Lo spingeva inoltre su quella china la corruzione della città, nella quale imperavano ormai due vizi diversi ma parimenti funesti, il lusso e la cupidigia.

I ritratti sono dedicati a personalità illustri ed eccezionali, nel bene e nel male; ciò corrisponde a una visione della Storia che è fatta soprattutto dal confronto e dallo scontro di grandi uomini, più che da fattori socio-economici e politici, ai quali uno storico moderno darebbe maggiore importanza. Sicuramente in queste scelta giocano un ruolo notevole anche le esigenze della storiografia antica, comunemente concepita più come operazione letteraria e artistica che come attività divulgativa di tipo scientifico. I ritratti dei grandi personaggi del passato costituiscono un elemento di comune impiego nelle opere storiografiche antiche, dove fornivano esempi illustri ai quali i lettori avrebbero potuto conformarsi. Ebbene, tale funzione paradigmatica in Sallustio viene per lo più a cadere: ciò che egli vuole imprimere nel suo pubblico è l’ammirazione per le potenti manifestazioni di grandi personalità, tanto che anche un personaggio del tutto negativo come Catilina non manca di suscitare una certa forma di rispetto per la sua grandezza perversa e per la sua virtus, benché rivolta al male. Il giudizio morale è netto e senza appello: Catilina, patrizio decaduto, ex sillano, divenuto un popularis estremista in cerca di appoggi presso i diseredati e addirittura fra gli schiavi, non trova benevolenza presso un moderato come Sallustio.

L’introspezione prende la forma dell’antitesi: lo stile raffigura con evidenza il conflitto interiore di aspetti contrari compresenti in una stessa personalità. Per rendere questa opposizione interiore l’autore si serve di una prosa concitata, in cui la variatio riflette la frantumazione della personalità. Infatti, man mano che il ritratto prende forma, anche il soggetto grammaticale non è più il personaggio, ma i singoli elementi che lo compongono (corpo, animo, passioni, ecc.): dopo aver scomposto Catilina in corpus e animus, nella parte conclusiva del ritratto, dove il periodare si fa più disteso, sono le passioni a divenire il soggetto: lubido, inopia e conscientia scelerum “invadono” il personaggio e dilagano sulla pagina.

Il Bellum Iugurthinum

All’inizio della sua seconda monografia, Sallustio spiega che la guerra contro Giugurta (svoltasi tra il 111 e il 105 a.C.) fu la prima occasione in cui «si osò andare contro l’insolenza della nobiltà». In effetti, il Bellum Iugurthinum è largamente indirizzato a mettere in luce le responsabilità della classe dirigente romana nella crisi della res publica.

Giugurta, infatti, dopo essersi impadronito con il crimine del regno di Numidia, aveva corrotto con il denaro gli esponenti dell’aristocrazia capitolina inviati a combatterlo in Africa, riuscendo così a concludere una pace vantaggiosa. Quinto Cecilio Metello, inviato in Africa, aveva ottenuto successi notevoli, ma non decisivi; Gaio Mario, suo luogotenente, dopo lunghe insistenze ottenne da lui il permesso di recarsi a Roma per presentare la candidatura al consolato. Eletto sommo magistrato per il 107, Mario riceve l’incarico di portare a termine la guerra in Africa e modifica la composizione dell’esercito, arruolando i capite censi. Il conflitto riprese con alterne vicende e si concluse solo quando il re di Mauritania, Bocco, tradì Giugurta, suo potente alleato e suocero, e lo consegnò ai Romani.

Nella narrazione sallustiana, la guerra contro l’usurpatore numida acquista rilievo sullo sfondo della rappresentazione della degenerazione della vita politica romana: l’opposizione antinobiliare, cui Sallustio si riallaccia, rivendicava contro le classi superiori corrotte il merito della politica di espansione, della difesa del prestigio di Roma. Come nella monografia precedente, lo storico inserisce al centro dell’opera un excursus (Iug. 41-42), che indica nel «regime delle fazioni» (mos partium et factionum) la causa prima della lacerazione e nella rovina della res publica; ma la condanna è probabilmente più sfumata e, per così dire, meno equanime che nel De coniuratio. Nella seconda monografia, il bersaglio polemico è la nobilitas e nell’excursus traspare, per esempio, la preoccupazione di non condannare la politica graccana in maniera globale, ma solo nei suoi eccessi.

Per certi aspetti, il quadro che emerge dal Bellum Iugurthinum è piuttosto deformante: al fine di rappresentare la nobilitas come un blocco unico guidato da un gruppo corrotto, Sallustio trascura di parlare dell’ala dell’aristocrazia favorevole a un impegno attivo nella guerra, la frangia più legata al mondo degli affari e più incline alla politica di imperialismo espansionistico.

Le linee direttive della politica dei populares sono esemplificate nei discorsi che Sallustio fa tenere dal tribuno Gaio Memmio (Iug. 31) per protestare contro l’operato inconcludente di certa parte del Senato, e successiva da Gaio Mario (Iug. 85), quando quest’ultimo convince la plebe ad arruolarsi in massa. Per Sallustio, ambedue gli interventi rappresentano i migliori valori etico-politici espressi dalla causa mariana nella lotta contro lo strapotere della nobilitas. Memmio invita il popolo alla riscossa contro l’arroganza dei pauci ed enumera i mali del loro regime: il tradimento degli interessi della cosa pubblica, la dilapidazione del denaro pubblico, il monopolio sulle ricchezze, sulle risorse e sulle cariche politiche.

Nel discorso di Mario, d’altra parte, il motivo centrale è fornito dall’affermazione di una nuova aristocrazia, l’aristocrazia della virtus, che si fonda non sulla nascita, ma sui talenti naturali, sulle qualità e le competenze di ciascuno e sul tenace impegno a svilupparli (Iug. 85, 18-30). Mario si richiama ai valori antichi che avevano fatto la grandezza di Roma, quei valori che in un’epoca remota avevano permesso di emergere agli stessi capostipiti delle gentes patrizie, ormai tralignanti e caratterizzate solo da inettitudine.

Presunto ritratto di Gaio Mario. Testa, marmo, I secolo a.C. München, Glyptothek.

[85.18] Invident honori meo: ergo invideant labori, innocentiae, periculis etiam meis, quoniam per haec illum cepi. [19] Verum homines conrupti superbia ita aetatem agunt, quasi vostros honores contemnant; ita hos petunt, quasi honeste vixerint. [20] Ne illi falsi sunt, qui divorsissumas res pariter exspectant, ignaviae voluptatem et praemia virtutis. [21] Atque etiam, cum apud vos aut in senatu verba faciunt, pleraque oratione maiores suos extollunt: eorum fortia facta memorando clariores sese putant. [22] Quod contra est: nam quanto vita illorum praeclarior, tanto horum socordia flagitiosior. [23] Et profecto ita se res habet: maiorum gloria posteris quasi lumen est, neque bona neque mala eorum in occulto patitur. [24] Huiusce rei ego inopiam fateor, Quirites; verum, id quod multo praeclarius est, meamet facta mihi dicere licet. Nunc videte quam iniqui sint. [25] Quod ex aliena virtute sibi adrogant, id mihi ex mea non concedunt, scilicet quia imagines non habeo, et quia mihi nova nobilitas est, quam certe peperisse melius est quam acceptam corrupisse. [26] Equidem ego non ignoro, si iam mihi respondere velint, abunde illis facundam et compositam orationem fore. Sed in vostro maxumo beneficio cum omnibus locis me vosque maledictis lacerent, non placuit reticere, nequis modestiam in conscientiam duceret. [27] Nam me quidem ex animi mei sententia nulla oratio laedere potest: quippe vera necesse est bene praedicet, falsam vita moresque mei superant. [28] Sed quoniam vostra consilia accusantur, qui mihi summum honorem et maxumum negotium inposuistis, etiam atque etiam reputate, num eorum paenitendum sit. [29] Non possum fidei causa imagines neque triumphos aut consulatus maiorum meorum ostentare; at, si res postulet, hastas vexillum phaleras, alia militaria dona, praeterea cicatrices advorso corpore. [30] Hae sunt meae imagines, haec nobilitas, non hereditate relicta, ut illa illis, sed quae egomet meis plurumis laboribus et periculis quaesivi.

[85.18] Sono invidiosi della mia posizione: e che lo siano dunque anche della fatica, dell’integrità che me l’hanno procurata! [19] Invece, uomini bacati dall’ambizione, vivono come se avessero a disdegno le cariche che voi conferite e le brigano come se vivessero onestamente. [20] Quanto s’ingannano nel pretendere di conseguire insieme due cose incompatibili, il piacere dell’ozio e i premi della virtù! [21]Aggiungo che, quando si alzano a parlare davanti a voi o in Senato, riempiono i loro interventi delle lodi degli antenati, convinti di accrescere il proprio lustro con il ricordo delle gesta di quelli. [22] Accade invece l’esatto contrario: quanto più è illustre la gloria degli avi, tanto più è infame la viltà dei posteri! [23] Giacché questa è la verità: la gloria degli antenati, per i discendenti, è una specie di fiaccola che non lascia nell’ombra virtù né vizi. [24] Confesso, o Quiriti, che questa fiaccola mi manca: eppure, cosa molto più onorifica, io sono in grado di elencare le mie proprie gesta! [25] Constatate, ora, l’iniquità del loro atteggiamento: quel che si arrogano in nome del merito altrui non vogliono concedermelo in nome del mio! [26] E il motivo? Io non possiedo stemmi nobiliari ed è di fresco conio la mia nobiltà: ma resta pur vero che è meglio acquistarsela di persona che disonorarla dopo averla ricevuta in eredità! [27] Che con tutto questo riconosco che, se volessero controbattere, avrebbero larga scelta fra discorsi eloquenti e ben elaborati: tuttavia, poiché offendono me e voi a proposito di una carica da voi generosamente conferita, non ho voluto tacere, temendo che il mio silenzio potesse essere interpretato come un’ammissione di colpevolezza! [28] Del resto, sono profondamente convinto che nessun discorso potrebbe nuocermi: giacché, se veritiero, dovrebbe dir bene di me, se falso, sarebbe senz’altro smentito dalla condotta della mia vita. ma, dacché si è messa sotto accusa la vostra decisione di conferirmi la più alta magistratura e il più difficile degli incarichi, esaminate a fondo se dobbiate pentirvene. [29] È vero: non sono in grado di offrirvi in garanzia ritratti, trionfi o consolati di antenati illustri; bensì, se sarà il caso, lance, stendardi, piastrine e altre decorazioni militari, per non parlare delle ferite ricevute in pieno petto! [30] Questi sono i miei stemmi, questa la mia nobiltà: sono titoli che non ho ereditato, come è stato per i miei detrattori, ma che ho acquistato di persona fra sacrifici e rischi innumerevoli!».

Gaio Mario. Busto, marmo, c. I secolo a.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

L’oratore si rivolge ai convenuti chiamandoli con l’appellativo che li indicava nella loro totalità: Quirites, che i Romani derivavano da Quirinus, nome con cui Romolo fu assunto tra gli dèi, ma che deriva, in realtà, da *co-viri, «uomini riuniti». Mario non intende fare come gli altri politici, che, quando cercano voti e consensi, sono pronti a mille promesse e, una volta eletti, se ne dimenticano, diventando da affabili boriosi. Piuttosto, egli vuole presentarsi come l’esatto opposto: per lui la vera fatica non è la campagna elettorale, ma comincia dopo, quando si entra in carica; dovrà dimostrarsi all’altezza dell’incarico affidatogli, perché i suoi rivali aspetteranno solo un suo passo falso, e non potrà difendersi dietro alla gloria della sua stirpe. Ma egli ammette di sentirsi tranquillo da questo punto di vista, perché ha dalla sua l’esperienza pratica. Egli è un homo novus, che non può vantare tra i propri avi nessun console o pretore o edile curule. Il suo discorso ruota attorno all’antitesi fra la presunta nobiltà degli aristocratici, fatta solo di teoria e vuote parole, e la virtus di chi, come Mario, si è fatto da sé. Anzi, a ogni supposta gloria degli avversari egli contrappone, con gesto plateale e quasi patetico, ben altri tipi di trionfo: medaglie, cicatrici e forza fisica. E, siccome Mario tiene questo discorso per convincere il popolo ad arruolarsi, sottolinea con forza che questo è ciò che saprà insegnare a chi vorrà seguirlo.

Nel complesso, l’intervento di Mario esprime soprattutto le aspirazioni dell’élite italica a una maggiore partecipazione al potere; tuttavia, il giudizio complessivo di Sallustio su di lui rimane segnato da ambivalenze e sfumature spesso difficili da cogliere nella loro reale portata. L’ammirazione per l’uomo che ha saputo opporsi all’arroganza dei pauci è in qualche modo limitata dalla consapevolezza delle responsabilità che in futuro Mario si sarebbe assunto nelle guerre civili; ma già l’arruolamento dei capite censi getta ombre inquietanti sulla sua figura. Sallustio non sembra approvare il provvedimento – in cui si individuava comunemente l’origine degli eserciti personali e professionali che avrebbero distrutto la res publica – e pare anzi che egli veda come inquinata dall’affermarsi del proletariato militare quell’aristocrazia della virtus che Mario (con piena coscienza di homo novus) esalta nel proprio discorso. Il fondamentale moderatismo fa sì che Sallustio non possa accantonare importanti riserve sull’uomo che, nella lotta antinobiliare, non aveva esitato ad agitare la feccia plebea e a porre quasi le sorti dello Stato nelle mani del popolino.

Non si può abbandonare la trattazione del Bellum Iugurthinum senza accennare al ritratto di Giugurta (Iug. 6-8): come già nei confronti di Catilina, Sallustio non nasconde la propria perplessa ammirazione per l’energia indomabile che è sicuro segno di virtus, anche se di una virtus depravata. Una differenza importante rispetto al ritratto di Catilina è che la personalità del re numida è rappresentata, per così dire, in evoluzione: la sua natura non è corrotta fin dall’inizio, ma lo diventa progressivamente. Il seme della degenerazione è gettato in lui durante l’assedio di Numantia, da nobili e da homines novi romani. Per il suo personaggio, Sallustio non ha comunque scusanti o attenuanti, né si sforza mai di illuminare la situazione dal punto di vista di Giugurta: quest’ultimo, una volta che la sua indole si è ormai irrimediabilmente traviata, è solo un piccolo e perfido tiranno, ambizioso e privo di scrupoli. Non è certo l’eroe dell’indipendenza numidica che alcuni interpreti hanno creduto di ravvisare in lui: agli occhi dello storico romano le ragioni dell’imperialismo erano tanto evidenti da apparire indiscutibili.

Regno di Numidia. Dramma, Cirta c. 118-106 a.C., AR 3,14 g. Recto: Testa laureata di Giugurta voltata a sinistra.

Le Historiae

La maggiore opera storica di Sallustio rimase incompiuta per la morte dell’autore: le Historiae iniziavano con il 78 a.C., riallacciandosi alla narrazione di Sisenna, ma non è chiaro fino a che punto Sallustio si ripromettesse di condurre il racconto (i frammenti che restano non vanno comunque oltre il 67). Dopo gli esperimenti monografici, l’autore si cimentava ora in un’impresa di vasto respiro: si imponeva il ritorno alla forma annalistica, che del resto anche in seguito avrebbe dato prova di tenace vitalità nella storiografia latina. L’opera (per i moderni perduta, ma nota almeno fino al V secolo) influenzò molto la cultura dell’età augustea. Alcuni frammenti superstiti sono particolarmente ampi. Si tratta di quattro discorsi – per esempio, quello del tribuno Gaio Licinio Macro per la restaurazione della tribunicia potestas, nel 73; quello di Marco Emilio Lepido contro il sistema di governo dei sillani; quello di Lucio Marcio Filippo, una violenta reazione al demagogismo dell’intervento di Lepido – e di un paio di lettere, una di Gneo Pompeo Magno e una di re Mitridate VI Dionisio Eupatore del Ponto. Di queste lettere ha particolare importanza quella che l’autore immagina scritta proprio dal sovrano orientale (Hist. IV F 69 Maurenbrecher): dalle sue parole, infatti, affiorano chiaramente i motivi delle lagnanze dei popoli soggiogati e dominati da Roma e la sola ragione che i Romani hanno di portare guerra a tutte le nazioni è la loro inestinguibile sete di ricchezze e di potere (cupido profunda imperii et divitiarum). Le Historiae dipingono un quadro in cui dominano le tinte cupe: la corruzione dei costumi dilaga senza rimedio; a parte poche nobili eccezioni (come Sertorio, campione di libertas, che, ribelle a Silla e al prepotente potere degli optimates, aveva fondato nella Penisola iberica una nuova res publica), sulla scena politica si affacciano soprattutto avventurieri, demagoghi e nobili corrotti. In generale, il pessimismo sallustiano sembra acuirsi nell’ultima opera: dopo l’uccisione di Cesare e la frustrazione delle aspettative riposte nel dittatore, lo storico non ha più una parte dalla quale schierarsi né aspetta più alcun salvatore.

Mitridate VI del Ponto, con leontea. Busto, copia romana del I sec. d.C. da originale greco di sec. a.C. Paris, Musée du Louvre.

Lo stile

L’epoca che aveva portato alla massima elaborazione formale sia la prosa artistica sia la poesia si aspettava anche la nascita di un nuovo stile storico. A questo riguardo, Cicerone pensava a uno stile armonioso e fluido e considerava la storiografia opus oratorium maxime («un genere che dev’essere più di tutto oratorio»): un’idea che risaliva al retore Isocrate, maestro di alcuni storici molto apprezzati dai Romani e che appare tanto più comprensibile se si pensa che a Roma l’oratoria aveva raggiunto la sua maturità almeno una generazione prima della storiografia.

E, invece, fu proprio Sallustio a fissare lo stile della futura storiografia (anche se non in modo esclusivo): nutrendosi della lezione di Tucidide e di Catone il Censore, egli elaborò uno stile fondato sull’inconcinnitas (il contrario della ricerca ciceroniana della simmetria, il rifiuto di un discorso ampio e regolare, proporzionato), sull’uso frequente di antitesi, asimmetrie, e variationes. Il difficile equilibrio fra questo dinamismo inquieto da una parte e un vigoroso controllo che sapesse frenarlo dall’altra produceva un effetto di gravitas austera e maestosa, un’immagine di meditata essenzialità di pensiero.

A tale gravitas contribuisce parecchio la ricca patina arcaizzante. L’arcaismo, però, non è solo nella scelta di parole desuete, ma anche nella ricerca di una concatenazione delle frasi di tipo paratattico. I pensieri così si giustappongono l’uno all’altro come blocchi autonomi di una costruzione; è evitato il periodare per subordinazione sintattica, in cui un pensiero dipende da un altro come un’espansione ordinata gerarchicamente; sono evitate le strutture bilanciate e le clausole ritmiche care al discorso oratorio elaborato. Estrema è l’economia dell’espressione (asindeti e, in genere, omissione di legami sintattici, ellissi di verbi ausiliari); ma alla condensazione del discorso reagisce il gusto per l’accumulo asindetico di parole quasi ridondanti (con effetto intensivo). L’allitterazione frequente dà colore arcaico, ma potenzia anche il senso delle parole. Uno stile arcaizzante, insomma, ma al contempo innovatore, perché il suo andamento spezzato è del tutto anticonvenzionale e perché lessico e sintassi contrastano di fatto quel processo di standardizzazione che si stava verificando nel linguaggio letterario. Sul piano della tecnica narrativa, l’esigenza di sobrietà e di austerità imponeva la rinuncia a tutta una serie di effetti drammatici tipici della storiografia “tragica”, incline a suscitare emozioni e, perciò, ispirata a uno stile di narrazione vivace e, per così dire, “realistico”. Ma la limitazione approda a una drammaticità più intensa proprio perché più controllata, meno effusa. I protagonisti delle due monografie, Catilina e Giugurta, sono personaggi “tragici”; e gli argomenti delle due opere, oltre che per il loro interesse come sintomi rivelatori della crisi, sono scelti anche in funzione della varietà e della drammaticità dei casi che lo storico può mettere in scena. Lo stile elaborato nelle due monografie doveva acquisire più piena maturità artistica nelle Historiae, tanto da costituire uno dei modello

Il potere militare presso i Germani: parentela e seguito

La ricerca storiografica moderna non si è occupata di nessun’altra coppia concettuale in modo tanto più intenso e incontrastato di quanto non abbia fatto con «dominio» (Herrschaft) e «seguito» (Gefolgschaft), stravolgendola con impegno ideologico e dilettantismo polemico. Un trattamento simile hanno conosciuto le categorie di «parentela» (Sippe) ed «esercito tribale» (Stammesheer). Nelle fonti letterarie, da Cesare a Wulfila, ai testi altomedievali del continente, delle isole britanniche e della Scandinavia, si parla piuttosto di «potere militare» e «seguito», ma questi concetti richiedono una spiegazione più esaustiva.

Che fra le popolazioni germaniche vigesse una monarchia o un’oligarchia, c’era pur sempre un’élite che deteneva il potere, o meglio un legittimo diritto sulle azioni altrui. Questa rivendicazione di potere si basava sulla maggiore ricchezza e coinvolgeva sia gli uomini liberi sia quelli non liberi e meno ricchi. Il potere era prima di tutto sulla casa, cioè l’autorità di comando sulla propria famiglia e sui propri dipendenti, ed era esercitato su un gruppo di persone libere da incombenze quotidiane che, come soldati addestrati, agivano in base agli ordini del loro signore. Quando Arminio assediò il suocero Segeste per liberare la moglie Thusnelda, due gruppi abbastanza numerosi di seguaci si affrontarono per espugnare la casa di Segeste, evidentemente ben fortificata; quando Arminio attaccò il re dei Marcomanni, egli era a capo di un esercito multietnico di seguaci che combattevano schiere di guerrieri strutturate in modo simile da Marobodo, alle quali si erano aggiunti anche lo zio di Arminio e il principe cherusco Inguiomero con il loro seguito (Tac. Ann. I 57-59).

Arminio. Illustrazione di A. Gagelmann.

I resoconti di Cesare e di Tacito, che si riferiscono in modo sistematico a un «seguito» germanico, non presentano vuote astrazioni, ma sono molto concreti: sono i resoconti della vita di una società arcaica, naturalmente, come mostrano i confronti fra le istituzioni germaniche e quelle non germaniche. Le fonti latine si riferiscono al «seguito» con il termine comitatus, un fenomeno sociale che si affermò pienamente durante l’epoca delle migrazioni (IV-V secolo), come mostrano le varie espressioni per indicarlo: þiudans in gotico, fylgja in norreno, þeod in sassone, Truste in franco e Gasindium in longobardico.

Ogni capo militare degno del suo rango aveva il suo «seguito», le dimensioni del quale variavano in proporzione alla fama, al prestigio e al carisma: disporre di un gran numero di seguaci era naturalmente motivo di vanto e la dimostrazione pratica della propria competenza militare. I guerrieri accompagnavano il loro condottiero in ogni occasione, sia in guerra sia nelle adunanze pubbliche, vivendo insieme a lui e per lui, quasi fosse la sua scorta armata personale. Tacito (Germ. 13, 3) lo spiega molto chiaramente: haec dignitas, hae vires: magno semper electorum iuvenum globo circumdari in pace decus, in bello praesidium. Nec solum in sua gente cuique, sed apud finitimas quoque civitates id nomen, ea gloria est, si numero ac virtute comitatus emineat; expetuntur enim legationibus et muneribus ornantur et ipsa plerumque fama bella profligant («Questa è la dignità, questa la manifestazione di forza: essere sempre seguiti da una folta schiera di giovani scelti, decoro in tempo di pace, difesa in tempo di guerra. Per ciascun capo militare è motivo di gloria e di onore, non soltanto presso la sua gente ma anche tra le tribù limitrofe, distinguersi per la consistenza e per il valore del proprio seguito; infatti, essi sono richiesti per incarichi diplomatici, sono gratificati con donativi e combattono vittoriosamente le guerre soprattutto grazie alla propria fama»).

Fondamentale era il rapporto di subordinazione del seguace al comandante, rapporto sancito da un solenne giuramento, che regolava i legami e i vincoli di fiducia fra il signore e gli uomini sotto il suo comando. Tacito (Germ. 14, 1), infatti, osserva che principes pro victoria pugnant, comites pro principe («I condottieri combattono per la vittoria, i seguaci combattono per i capi»). I meriti personali conseguiti dal membro del «seguito» sul campo e la considerazione goduta presso il proprio comandante consentivano ad alcuni di distinguersi dal resto del gruppo: questi gregari erano spesso investiti di importanti responsabilità, prove e missioni. A ciò va aggiunto che il condottiero precedeva i suoi in battaglia, ma anche che il suo «seguito» aveva l’obbligo morale di non sopravvivergli: Cum ventum in aciem, turpe principi virtute vinci, turpe comitatui virtutem principis non adaequare (Tac. Germ. 14, 1, «Non appena si viene alle armi, è vergognoso per un capo essere superato in valore e altrettanto turpe per il gruppo non emulare il proprio condottiero»). Il guerriero doveva al suo capo valore e coraggio, difesa e protezione: sopravvivergli in battaglia era motivo di infamia che poteva pesare sulla coscienza per il resto della vita.

Cavaliere germanico. Disco decorativo, bronzo, VI secolo, da una tomba alamannica a Bräunlingen. Karlsruhe, Badisches Landesmuseum.

Se i comites costituivano la milizia privata del condottiero, anche costui era tenuto a osservare alcuni obblighi, fra i quali garantire fama e ricchezza ai suoi uomini, condurli alla vittoria in guerra e consentire loro di vivere dignitosamente in pace (Tac. Germ. 14, 2): Exigunt enim principis sui liberalitate illum bellatorem equum, illam cruentam victricemque frameam; nam epulae et quamquam incompti, largi tamen apparatus pro stipendio cedunt («Infatti, dalla generosità del loro condottiero i gregari richiedono come ricompensa o quel particolare cavallo da guerra o quella speciale lancia insanguinata e vittoriosa, mentre i pasti e il vitto nel suo complesso, semplice seppur abbondante, costituiscono la loro paga»).

Il peso economico rappresentato dal «seguito» doveva essere ragguardevole, considerata la povertà dell’economia germanica, fondata sull’agricoltura; perciò, soltanto condottieri molto potenti potevano permettersi di supportare un «seguito». La munificenza dei condottieri, pertanto, derivava soprattutto dal bottino razziato ai vicini, che veniva spartito equamente tra i guerrieri in base all’onore riconosciuto a ciascuno (Germ. 15, 2): Mos est civitatibus ultro ac viritim conferre principibus vel armentorum vel frugum, quo pro honore acceptum etiam necessitatibus subvenit. Gaudent praecipue finitimarum gentium donis, quae non modo a singulis, sed et publice mittuntur, electi equi, magnifica arma, phalerae torquesque («È usanza delle tribù offrire spontaneamente e a titolo personale ai condottieri bestiame e prodotti agricoli, che, accolti come segno di distinzione, sopperiscono anche alle loro necessità. Si compiacciono particolarmente dei doni ricevuti dalle tribù vicine, inviate non solo da singole persone, ma anche a nome di tutta la comunità: cavalli di razza, splendide armi, decorazioni militari e monili»).

Guerriero franco. Pietra tombale, VII secolo, da Niederdollendorf (Königswinter). Bonn, Rheinisches Landesmuseum.jpg

D’altra parte, l’adesione al comitatus era volontaria, per il puro piacere di fare la guerra (Tac. Germ. 14, 2): Si civitas, in qua orti sunt longa pace et otio torpeat, plerique nobilium adulescentium petunt ultro eas nationes, quae tum bellum aliquod gerunt («Se la comunità in cui sono nati s’infiacchisce in un prolungato periodo di pace, molti giovani delle famiglie nobili si trasferiscono presso altre popolazioni, che in quel momento sono impegnate in qualche conflitto»). In una società arcaica come quella dei Germani la mera capacità di comando non assicurava di per sé il potere; chi intendeva detenerlo doveva disporre di qualcuno che lo precedesse o lo seguisse. Ogni individuo occupava un certo posto all’interno di un ordine gerarchico ed era tenuto a mantenerlo, persino migliorarlo, se non voleva rischiare di perdere la propria posizione (Germ. 13, 3): Gradus quin etiam ipse comitatus habet, iudicio eius quem sectantur; magnaque et comitum aemulatio, quibus primus apud principem suum locus («Il seguito ha dei gradi, secondo le disposizioni del capo; c’è una certa competizione tra coloro che ne fanno parte, per vedere a chi tocchi il primo posto nella considerazione del capo»).

Analogamente a questo senso di aemulatio, un giovane poteva diventare capo: secondo una concezione tipicamente germanica, l’età decideva di rado l’ordine gerarchico degli individui. L’esperienza militare non era un prerequisito necessario, mentre contavano di più insignis nobilitas aut magna patrum merita («la ragguardevole nobiltà o i grandi meriti dei padri»), che facevano risalire fino ai capostipiti divini il carisma personale e il «credito» che nasceva dal capo. Tra l’altro, i guerrieri più giovani ceteris robustioribus ac iam pridem probatis adgregantur, nec rubor inter comites aspici (Tac. Germ. 13, 2, «si aggregavano ai più forti e ai più esperti e non era motivo di vergogna mostrarsi parte di un seguito»).

La tecnica di combattimento della fanteria germanica, simile alla falange. Illustrazione di A. Gagelmann.

In origine, come per la maggior parte dei barbari, anche la disposizione in battaglia dei Germani era ordinata per famiglie, Sippen e gruppi tribali, ma le forme di organizzazione del seguito finirono per sconvolgere e modificare gli assetti tradizionali. La scelta dei membri del seguito era una decisione che naturalmente spettava a un capo carismatico: coloro che lo avrebbero accompagnato, percorrendo un tratto di strada insieme, costituivano la «compagnia» (das Gesinde < ant. norr. Sinni, «che partecipa a una spedizione, gregario»; a.a.t. sind, «strada, cammino, direzione»).

Senza tutte le premesse materiali, e soprattutto senza il successo in battaglia, il credito e il capitale avevano vita breve. La costituzione di un «seguito» attorno alla figura di un capo carismatico era un atto volontario che comportava, però, determinati obblighi di reciprocità. I guerrieri e il loro leader esercitavano l’uso delle armi, nella convinzione che facilius inter ancipitia clarescunt magnumque comitatum non nisi vi belloque tueare fosse più facile acquisire fama in mezzo ai pericoli dei conflitti e si potesse mantenere un seguito numeroso solo con la forza e per mezzo della guerra»).

Guerriero cherusco (I secolo d.C.). Illustrazione di Pablo Outeiral.

Presso gli antichi popoli germanici era consuetudine che i ragazzi non assumessero le armi fin quando non ne fossero stati degni: si trattava di un diritto ottenuto compiendo con successo una prova, un rito di passaggio, che consisteva generalmente nell’uccisione di una fiera e nel riportarne la carcassa al cospetto degli anziani per dimostrare l’effettivo superamento della prova. Non era raro che all’abbattimento di un animale feroce si sostituisse l’uccisione del primo uomo in combattimento. Per esempio, si può citare questa usanza presso i Chatti, verso le doti belliche dei quali Tacito mostra una certa ammirazione (Germ. 30, 3): Omne robur in pedite, quem super arma ferramentis quoque et copiis onerant: alios ad proelium ire videas, Chattos ad bellum («La loro forza militare risiede interamente nella fanteria, che oltre alle armi caricano anche di arnesi da lavoro e vettovaglie: gli altri li vedi andare in battaglia, i Chatti in campagna militare»). Da loro vigeva l’uso di lasciarsi crescere barba e capelli nel corso dell’adolescenza, per poi radersi al primo avversario ucciso in battaglia (Germ. 31, 1): Super sanguinem et spolia revelant frontem, seque tum demum pretia nascendi rettulisse dignosque patria ac parentibus ferunt («Sul cadavere insanguinato si radono il volto e solo allora ritengono di aver pagato il prezzo della loro nascita e si considerano degni della patria e dei genitori»). Parimenti, il giovane guerriero doveva ritenersi degno della nuova comunità e del nuovo padre (il princeps) solo dopo aver dimostrato il proprio valore sul campo. Sempre presso i Chatti Tacito informa dell’esistenza di una consorteria di guerrieri, un gruppo ristretto e a carattere iniziatico, che richiedeva ai suoi membri il superamento di una certa prova: Fortissimus quisque ferreum insuper anulum (ignominiosum id genti) velut vinculum gestat, donec se caede hostis absolvat. […] Haec prima semper acies, visu nova: nam ne in pace quidem vultu mitiore mansuescunt («Chiunque sia particolarmente forte tra loro indossa un anello di ferro – motivo di vergogna presso questa gente –, come se si trattasse di un simbolo di servitù, finché non se ne libera uccidendo un nemico […]. A costoro spetta l’inizio di ogni combattimento: la loro schiera è sempre la prima, terribile a vedersi; neppure in tempo di pace si addolciscono assumendo un aspetto più mansueto»).

Le battaglie erano situazioni nelle quali era particolarmente richiesto l’aiuto divino e per questo motivo si ricorreva a rituali di culto. Perciò, i membri di una consorteria guerriera dovevano assumere un aspetto spaventoso e terribile sia nei confronti dei nemici umani sia contro ostili forze soprannaturali. A tal proposito, Tacito (Germ. 43, 5) fornisce un’interessante descrizione dei guerrieri arii orientali, i quali truces insitae feritati arte ac tempore lenocinantur: nigra scuta, tincta corpora; atras ad proelia noctes legunt ipsaque formidine atque umbra feralis exercitus terrorem inferunt, nullo hostium sustinente novum ac velut infernum aspectum («truci d’aspetto, accrescono la loro naturale ferocia con l’arte e con la scelta del tempo: portano scudi neri e corpi tinti di scuro; per combattere scelgono le notti senza luna e il solo orrore e l’ombra di questo esercito di fantasmi bastano a seminare il panico, perché non esiste avversario capace di sostenere il loro aspetto insolito»). Il fatto che alcuni Arii si mascherassero come un esercito di fantasmi per la battaglia va visto come un gesto eminentemente sciamanico: se da una parte, come la maggior parte dei guerrieri germanici, non disponevano di proprietà personali, non curavano la propria casa, ma campavano sulle spalle degli altri, dall’altra la loro condizione garantiva loro il privilegio di una vita separata rispetto al resto del*þeuda («popolo»), e di ricevere un addestramento segreto, grazie al quale scendevano in battaglia in preda a un’estasi particolare. Certamente, il loro comportamento non era mera espressione di una ritualità ancestrale, ma il simbolo di un forte legame fra uomini che tendeva a rompere l’ordine gerarchico della Sippe.

Placche di Torslunda. Lamine con rilievi a sbalzo, bronzo, c. VI-VIII secolo, da Torslunda (Öland, Svezia). Stockholm, Historiska museet.

Quanto all’estasi del guerriero (ciò che i Romani chiamavano furor), presso i popoli germanici i casi emblematici furono quelli dei cosiddetti cosiddetti berserkir («vestiti da orsi») e ulfedhnar («teste di lupo») – divenuti assai popolari soprattutto in età vichinga (IX-X secolo). Con ogni probabilità, si trattava di varianti dei guerrieri d’élite arii e chatti: erano soliti andare in battaglia completamente nudi, difesi da uno scudo e coperti dalla pelliccia del loro animale totemico. Dopo essersi consacrati al dio *Wōdanaz (Wuoðan), prima della battaglia, questi guerrieri cadevano in uno stato mentale di furia (berserksgangr), ringhiando, ululando e perfino mordendo gli scudi; probabilmente, il rituale prevedeva l’assunzione di sostanze psicotrope, tali da renderli particolarmente feroci e insensibili al dolore e alla fatica e da convincerli di trasformarsi nella fiera di cui indossavano le pelli. Nella mischia i guerrieri invasati dimostravano una forza sovrumana, non avvertendo il dolore delle ferite subite e, incapaci di distinguere tra amici e nemici, massacravano chiunque capitasse loro a tiro.

Sulla panoplia del guerriero germanico, Tacito (Germ. 6) riferisce queste informazioni: Ne ferrum quidem superest, sicut ex genere telorum colligitur. rari gladiis aut maioribus lanceis utuntur: hastas vel ipsorum vocabulo frameas gerunt angusto et brevi ferro, sed ita acri et ad usum habili, ut eodem telo, prout ratio poscit, vel comminus vel eminus pugnent. et eques quidem scuto frameaque contentus est, pedites et missilia spargunt, pluraque singuli, atque in immensum vibrant, nudi aut sagulo leves. nulla cultus iactatio : scuta tantum lectissimis coloribus distinguunt. paucis loricae, vix uni alterive cassis aut galea. equi non forma, non velocitate conspicui. sed nec variare gyros in morem nostrum docentur: in rectum aut uno flexu dextro agunt, ita coniuncto orbe ut nemo posterior sit. in universum aestimanti plus penes peditem roboris; eoque mixti proeliantur, apta et congruente ad equestrem pugnam velocitate peditum, quos ex omni iuventute delectos ante aciem locant. definitur et numerus: centeni ex singulis pagis sunt, idque ipsum inter suos vocantur, et quod primo numerus fuit, iam nomen et honor est. acies per cuneos componitur. cedere loco, dummodo rursus instes, consilii quam formidinis arbitrantur. corpora suorum etiam in dubiis proeliis referunt. scutum reliquisse praecipuum flagitium, nec aut sacris adesse aut concilium inire ignominioso fas, multique superstites bellorum infamiam laqueo finierunt («Nemmeno il ferro abbonda in Germania, come si può dedurre dal tipo di armi. Pochi usano spade o lance abbastanza lunghe: portano piuttosto certe lance, che chiamano “framee”, dalla punta di ferro stretta e corta, così aguzza e adatta all’impiego che la stessa arma è utilizzata sia per combattere da vicino sia da lontano. Anche i cavalieri si accontentano del solo scudo e della framea; i fanti, nudi o coperti da una tunica leggera, scagliano proiettili (ogni guerriero ne lancia molti) a notevole distanza. Non hanno alcuna ricercatezza nell’ornamentazione, tutt’al più marcano gli scudi con i loro colori preferiti. Pochi indossano una corazza e ancor meno l’elmo, sia esso di metallo o di cuoio. I loro cavalli non si distinguono per bellezza né per velocità; non sono nemmeno addestrati a compiere evoluzioni com’è nostro uso: li conducono in linea retta oppure verso destra, con una rotazione estremamente compatta, in modo che nessuno resti indietro. Secondo una valutazione complessiva, la maggior forza d’urto sta nella fanteria: perciò, cavalieri e fanti combattono misti e i secondi mantengono una velocità di movimento adatta al combattimento equestre; i fanti, scelti tra tutta la gioventù, sono schierati in prima linea. Anche il numero di questi guerrieri è prestabilito: cento per ciascun villaggio e tra i Germani sono detti “i cento”, e quello che in origine era soltanto un numero, ora costituisce un titolo di distinzione. Lo schieramento della fanteria si compone di formazioni a cuneo. La ritirata strategica è considerata manifestazione di prudenza e non di viltà, purché poi si torni appunto all’attacco. Riportano dal campo di battaglia i corpi dei caduti anche in caso di scontri dall’esito incerto e considerano una colpa gravissima l’abbandono dello scudo sul campo: al disertore non è concesso di assistere ai sacrifici né di prendere parte alle assemblee, tanto che molti, sopravvissuti al combattimento, per porre fine alla loro infamante condizione si impiccano»).

Prigioniero germanico (forse suebico). Statuetta, bronzo, II secolo. Wien, Römermuseum.

Il passo è molto interessante: la maggior parte dei guerrieri era dotata principalmente della framea (forse da fram, «in avanti»), una lancia corta, dalla punta stretta e affusolata; doveva essere un’arma molto versatile e maneggevole, sia da lancio (eminus) sia per il combattimento corpo a corpo (comminus). Fra i proiettili (missilia), lanciati a grande distanza e con estrema precisione, probabilmente figuravano giavellotti, frecce e pietre. La spada era uno strumento bellico piuttosto raro tra i popoli germanici del I secolo: avrebbe trovato maggiore diffusione in seguito, ma all’epoca di Tacito costituiva un elemento di distinzione per i guerrieri scelti e i loro condottieri. Come arma di difesa, i guerrieri portavano lo scutum, cioè lo scudo rettangolare. Ogni tribù doveva avere i propri simboli e i propri colori araldici, per poter riconoscere in combattimento i propri compagni. Gli stessi simboli dipinti dovevano possedere proprietà magiche-apotropaiche. Come lo scudo, anche la framea era considerata un oggetto magico, data la sua capacità di togliere la vita. Percio, perdere, o abbandonare al nemico le proprie armi, costituiva il più grave dei disonori: Tacito riferisce che coloro che se ne macchiavano incorrevano nel biasimo generale e non erano più ammessi alle cerimonie sacre né alle assemblee della tribù. Chi commetteva un atto simile, non di rado, non sopportando l’onta si impiccava per la vergogna.

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Gordiano III, un principe troppo giovane

La crisi economica del III secolo non investì allo stesso modo tutte le regioni dell’Impero romano. A soffrirne maggiormente furono le province occidentali e in particolar modo le aree di confine, più esposte agli attacchi dei razziatori alamanni, franchi e burgundi. Spesso i coloni abbandonavano le proprie terre per trovare rifugio in città o all’interno delle fortezze e, di conseguenza, diminuivano drasticamente le eccedenze alimentari da importare a Roma. Nonostante i ripetuti tentativi da parte del governo centrale di creare nuovi insediamenti agricoli e di incentivare il reperimento di manodopera anche fra i prigionieri di guerra, vastissimi territori e non solo nelle zone di frontiera furono definitivamente abbandonati.

Due leoni sbranano un cinghiale. Mosaico, III sec. da Thysdrus (od. El-Jem).

Questo stato di cose non tardò a far sentire forti ripercussioni, con esiti ancor più drastici, anche nei comparti dell’artigianato e del commercio. Se, infatti, i contadini erano facilmente rimpiazzabili, trovare un buon fabbro o un esperto scalpellino divenne sempre più difficile. Nelle Galliae e nelle regioni lungo i grandi fiumi di confine a poco a poco scomparvero le secolari tradizioni artigianali e pare che i commerci abbiano subito un improvviso arresto: nessuno si arrischiava a percorrere grandi distanze se non in ambito strettamente locale.

La situazione si fece tanto seria che i funzionari imperiali per sopperire agli equipaggiamenti militari dovettero improvvisare dal nulla fabricae tessili e d’armi, obbligando talvolta con la forza gli artigiani locali a collaborare.

Diversamente, le province orientali e quelle africane, meno esposte agli attacchi delle popolazioni esterne, riuscirono a conservare ancora per un po’ un certo grado di prosperità. Ciononostante, nel 237, il terzo anno di principato di Massimino il Trace, proprio in Africa proconsularis si verificò un’importante sollevazione. Il procurator fisci inviato in quella provincia, un uomo rapace e di pochi scrupoli, conscio del fatto che il sistema delle confische avrebbe rimpinguato enormemente le casse imperiali, impose un’onerosa ammenda ad alcuni giovani esponenti dell’aristocrazia locale, privandoli di gran parte del loro patrimonio. Il provvedimento innescò una violenta reazione: nei tre giorni di dilazione concessi dal funzionario, i fautori della rivolta misero in piedi un piccolo esercito di servi e contadini, armati di scuri e bastoni, e, approfittando di un’udienza ufficiale, gli insorti eliminarono fisicamente il procuratore e occuparono Thysdrus (od. El-Jem), considerata la «capitale dell’olio» nel commercio mediterraneo (SHA Max. 14, 1).

M. Antonio Gordiano I Semproniano Africano. Sesterzio, Roma 238. Æ 18, 47 g. Recto: Imp(erator) Caes(ar) M. Ant(onius) Gordianus Afr(icanus) Aug(ustus). Busto laureato, drappeggiato e corazzato dell’imperatore, voltato a destra.

Come atto supremo della loro sollevazione i giovani ribelli acclamarono Augustus il loro governatore, Marco Antonio Sempronio Gordiano. Questi, che aveva da poco oltrepassato gli ottant’anni e si trovava al culmine di una brillante carriera politica, fu scosso dall’improvvisa ascesa alla porpora imperiale. Accettato l’incarico dopo un’iniziale riluttanza, come suo primo atto ufficiale Gordiano elevò il proprio figlio al suo stesso rango (SHA Gord. 5-9; Hdn. VII 5).

Il biografo Giulio Capitolino informa che i due neo-imperatori inviarono a Roma una legatio cum litteris per informare il Senato sui recenti sviluppi in Africa e sulle loro intenzioni di governo: la generosità, l’umanità e la limitata pressione fiscale furono opposte alla durezza di Massimino (SHA Gord. 9, 7). La risposta della plebe urbana alla diffusione della notizia fu immediata: l’uccisione dei fautori del Trace da parte della cittadinanza e il subito riconoscimento dei due Gordiani come veri imperatori Senatus consulto lascerebbero sospettare l’ipotesi di un complotto ben orchestrato, o comunque che nell’Urbe alcuni esponenti dell’aristocrazia abbiano seguito con particolare sollecitudine gli eventi africani.

Senonché, appena tre settimane dopo l’avvento dei due Gordiani, il governatore della Numidia, un certo Capelliano, forse per motivi personali fedele a Massimino, avanzò con le sue truppe e un contingente di Mauri contro Cartagine, sede provvisoria dei nuovi Augusti. Il giovane Gordiano morì in combattimento, mentre suo padre, alla notizia della caduta dell’amato figlio, si tolse la vita (Hdn. VII 9, 11; SHA Max. 19, 20, Gord. 15-16; Zon. 12, 17; ILS 8499).

M. Antonio Gordiano I Semproniano Africano. Denario, Roma 238. AR. 3,4 g. Obverso: Romae aeternae. Personificazione dell’Urbe, voltata a sinistra, assisa con scudo, elmo, lancia e palladio.

Nel marzo del 238 i senatori, preoccupati del vuoto di potere e soprattutto delle possibili reazioni delle forze armate, presso le quali da tempo serpeggiava un certo malcontento, e di Massimino, ormai dichiarato decaduto e hostis publicus, in maniera del tutto insospettata e con grande decisione assunsero la direzione del governo, attraverso la commissione speciale dei XXviri rei publicae curandae (Hdn. VII 7, 2-7; SHA Max. 15, 2; Gord. 9-11; Aur. Vict. Caes. 26; ILS 1186).

Il venerando consesso, riunito nel tempio di Giove Capitolino, dopo un confronto concitato, espresse i suoi candidati all’imperium nelle persone di Pupieno Massimo e Calvino Balbino, attribuendo loro i medesimi poteri e concedendo la stessa titolatura. Le fonti antiche e soprattutto l’Historia Augusta li presentano assai differenti fra loro per indole e attitudine: Balbino vantava nobili natali, era uno stimatissimo oratore e un consolare che con liberalità e rettitudine aveva governato diverse province; Pupieno, invece, era di estrazione sociale più bassa, un rude militare che si era guadagnato il rispetto e gli onori della nobiltà sui campi di battaglia contro Sarmati e Germani; di lui la plebe urbana apprezzava soprattutto la semplicità dei modi, che non aveva mai abbandonato nemmeno dopo aver raggiunto il rango senatorio. Insomma, si trattava di due uomini diversissimi, ma complementari, nei quali il Senato riconosceva l’importanza di coniugare la mitezza nella giurisdizione civile a una maggiore decisione nel potere militare.

Nel momento stesso in cui la Curia conferiva in Campidoglio la porpora ai due patres, una sedizione popolare turbò la cerimonia, costringendo a cooptare insieme a Pupieno e Balbino il tredicenne Gordiano, nipote dei due Africani, nominandolo Caesar (Hdn. VII 10; AE 1951, 48).

M. Antonio Gordiano III Pio. Busto, marmo, c. 238-242. Berlin, Altes Museum.

Raggiunto dalle notizie degli eventi, Massimino, che non si era mai degnato di visitare Roma, si mise alla testa del suo esercito e marciò alla volta della capitale. Rimase, tuttavia, invischiato nell’assedio di Aquileia, dove trovò la morte per mano dei suoi stessi soldati della legio II Parthica (Hdn. VII 8; 12, 8; VIII 1-5; SHA Max. 21-23; Balb. 11, 2; Zos. 1, 15). La morte del comune nemico, però, non sortì effetti benefici, ma peggiorò la situazione, aumentando i contrasti tra i due imperatori eletti dal Senato e seminando il malcontento nella guardia, i cui membri temevano di restare esclusi dai giochi. Così, assassinati i due contendenti, i pretoriani acclamarono imperatore Gordiano III (SHA Gord. 22, 5; Hdn. VIII 8).

L’ascesa al trono di Gordiano III fu salutata come l’inizio di una nuova era di pace, giustizia e stabilità, soprattutto dalle classi agiate, sia italiche sia provinciali, per le quali l’eliminazione di Massimino il Trace rappresentava la migliore garanzia di un ritorno alla normalità. Alle spalle del giovanissimo imperatore ci fu una folta schiera di eminenti personalità politiche, tra le quali spiccava l’energico praefectus praetorio (dal 241) C. Furio Sabinio Aquila Timesiteo: a suggellare l’intesa politica e i comuni intenti, Gordiano ne prese in sposa la figlia, Furia Sabina Tranquillina (CIL XIII 1807 = ILS 1330; SHA Gord. 23, 5; 6; 24, 2; 25, 1). Ma la tanto sospirata pace ebbe brevissima durata; all’orizzonte si profilavano oscure e minacciose nubi: sul fronte danubiano facevano la loro ricomparsa Daci, Carpi e Goti, mentre a Oriente i Sassanidi, guidati da Šāpūr I, premevano lungo la linea di confine, mettendo in serie crisi la stabilità dell’Impero.

Contro le popolazioni che premevano sulla frontiera danubiana Gordiano poté valersi del governatore della Moesia inferior, Tullio Menofilo, che con le armi e con la diplomazia riuscì a scacciare Carpi e Goti dalle province balcaniche (FGH IV, pp. 186-187).

M. Antonio Gordiano III Pio. Busto corazzato, marmo, c. 242, da Gabii. Paris, Musée du Louvre.

Ancora nel 241 l’imperatore, consigliato dal suocero, apprestò un’armata per avviare una campagna militare sul fronte orientale: a Roma fu solennemente riaperto il tempio di Giano, a indicare l’inizio delle ostilità (SHA Gord. 23, 6-7). L’anno seguente fu ripresa la Syria e, oltrepassato l’Eufrate, fu riconquistata Carrhae e liberata la provincia di Mesopotamia dai Persiani (SHA Gord. 26, 4-6; 27, 2-8). La spedizione si stava rivelando un vero successo e il giovane imperatore stava pianificando un’offensiva diretta al cuore del territorio nemico, quando Timesiteo, sulla via per Ctesifonte, cadde malato e morì in circostanze non chiare (SHA Gord. 28, 1).

Il vertice del praetorium passò a un suo stretto collaboratore Marco Giulio Filippo, originario della provincia d’Arabia. La campagna militare non subì battute d’arresto, ma proseguì secondo i piani prestabiliti: l’obiettivo ora era la conquista di Ctesifonte, ma l’esercito romano venne sbaragliato nella battaglia di Mesiche (od. Falluja, Iraq), dove trovò la morte lo stesso Gordiano III. Secondo certe fonti, l’imperatore sarebbe stato assassinato dallo stesso Filippo, che, non appena acclamato dalle truppe come successore, si sarebbe preoccupato di stipulare un frettoloso trattato di pace con i nemici (SHA Gord. 29; [Aur. Vict.] Epit. Caes. 27).

Sembra tuttavia più attendibile la versione che vuole Gordiano III morto in battaglia: la fine iniqua e poco dignitosa sarebbe una leggenda costruita a posteriori per screditare Filippo. Un dato certo è piuttosto lo sfruttamento da parte del nuovo Augustus della memoria del predecessore: infatti, responsabile o meno della sua scomparsa, Filippo fu molto attento a onorarne in modo consono la memoria, lasciandone intatte le immagini e impedendone la damnatio memoriae. Non solo: Filippo acconsentì che Gordiano ricevesse la massima onorificenza per un imperatore defunto, l’apoteosi.

Gordiano III (dettaglio). Rilievo, marmo, c. 238, dal Sarcofago di Acilia. Roma, Museo Nazionale Romano di P.zzo Massimo alle Terme.

Quanto ai soldati, essi celebrarono il loro giovane condottiero innalzandogli un cenotafio nel luogo stesso in cui cadde. Il testo dell’iscrizione è tramandato dalle fonti, ma sembra che sia stato inventato di sana pianta, ma non per questo meno arguto. Vi sarebbe infatti stato scritto: Divo Gordiano victori Persarum, victori Gothorum, victori Sarmatarum, depulsori Romanarum seditionum, victori Germanorum, sed non victori Philipporum («Al divo Gordiano, vincitore dei Persiani, dei Goti, dei Sarmati, di ogni sedizione romana, dei Germani, ma non dei Filippi», SHA Gord. 34, 2; cfr. Amm. Marc. XXIII 5, 7).

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La vita di Flavio Giuseppe e il racconto della guerra giudaica

di G. VITUCCI (ed.), Flavio Giuseppe. La guerra giudaica, I, libri I-III, Milano 1974, ix-xxiv.

Giuseppe (più tardi, quando ebbe la cittadinanza romana, Flavio Giuseppe) appartenne a quella generazione di Giudei cui, mentre si appressavano al «mezzo del cammino», toccò di vedere la distruzione di Gerusalemme e la rovina del tempio. A Gerusalemme egli era nato fra il 13 settembre del 37 e il 17 marzo del 38[1]: troppo tardi per rendersi conto dell’ansia disperata di cui la città fu preda intorno al 40, quando da Roma arrivò l’ordine di collocare nel tempio, e farne oggetto di culto, un’immagine di Caligola. Superata, dall’avvento di Claudio, la grave tensione, la vita era ripresa nella più o meno generale rassegnazione agli incomodi del dominio romano, e Giuseppe poté intraprendere gli studi in un’atmosfera meno agitata. Più tardi, rievocando nell’ultima pagina dell’Archeologia quei suoi studi e tutta la sua formazione spirituale, egli distinse tra lo studio della grammatica e della lingua greca (della quale tuttavia confessava di non aver raggiunto una pronuncia perfetta: la sua lingua materna era l’aramaico) e quella che chiamava la παιδεία ἐπιχώριος, παιδεία propriamente giudaica: una παιδεία, aggiungeva, nella quale, per ammissione dei suoi connazionali, andava innanzi a ogni altro. In ogni modo, la preparazione di Giuseppe fu adeguata al suo elevato rango sociale; la sua era infatti una delle famiglie più cospicue, appartenente per parte di padre all’alta nobiltà sacerdotale[2], mentre per parte di madre egli si gloriava di discendere dalla famiglia reale degli Asmonei[3]. In questa preparazione, lo studio della Legge aveva una parte di primo piano, e non v’è ragione di non prestargli fede quando egli aggiunge di aver fatto, grazie alla sua non comune memoria e intelligenza, tali progressi, che al tempo in cui era solo un giovinetto di quattordici anni alcuni sommi sacerdoti e altre personalità di primo piano si recarono da lui a consultarlo[4].

Flavio Giuseppe. Busto (presunto ritratto), marmo, I sec. Copenhagen, Ny Carlsberg Glyptotek

Il quindicesimo anno di vita fu speso in una diretta sperimentazione delle regole teorico-pratiche seguite dalle tre sette che allora tenevano il campo, i Farisei, i Sadducei e gli Esseni, con l’intenzione di prepararsi a una scelta. Dai rapidi accenni della Vita (2, 10) si ricava l’impressione che si sia trattato di una frequentazione cursoria, con una permanenza meno breve presso gli Esseni, cui Giuseppe sembra alludere quando narra di essersi sottoposto a un duro tirocinio, passando attraverso una serie di prove molto severe. Assai più lunga fu invece l’esperienza ascetica vissuta nei tre anni successivi, quando si ritirò nel deserto a far vita di penitenza; il fatto che Giuseppe ricorda anche il nome del maestro che gli fu allora di guida lascia pensare che per lui si trattò di un impegno superiore al normale, e di un’adesione spirituale che i posteriori contatti con il mondo greco-romano non avrebbero potuto cancellare. Comunque, quand’egli fece ritorno in città, fu alla setta dei Farisei che andò la sua preferenza piuttosto che a quella dei Sadducei, verso cui era in genere orientata l’aristocrazia delle grandi famiglie sacerdotali[5], e il giovane Giuseppe continuò a esercitare il suo ingegno nel lavoro di interpretazione della Legge e il suo zelo nel praticarne i precetti.

Una prova di zelo esemplare il giovane la diede nel 64, quando intraprese un viaggio a Roma per perorare la causa di alcuni sacerdoti deferiti qualche anno prima al tribunale imperiale dal procuratore M. Antonio Felice, quello di cui Tacito ricorderà con frase efficacissima che tiranneggiò i sudditi come solo un individuo di estrazione servile poteva fare[6]. Nel ricordare l’episodio, Giuseppe (Vit. 13 ss.) si limita a osservare che le imputazioni erano di scarsa rilevanza, mentre sembra assai probabile che negli indiziati il funzionario romano avesse fiutato degli esponenti del movimento di resistenza, astenendosi peraltro, per una qualche ragione prudenziale, dall’applicare direttamente i suoi poteri coercitivi. Il viaggio di Giuseppe, anche se si svolse in condizioni più fortunose del solito per un drammatico naufragio in mare aperto, si concluse felicemente. Egli sbarcò a Pozzuoli, ove poté assicurarsi l’appoggio di un attore di origine giudaica, un tale Alituro, che era nelle grazie di Nerone sia, possiamo pensare, per il suo talento artistico, sia (e questo lo dice Giuseppe) perché godeva delle simpatie di Poppea, e l’imperatrice non solo assicurò il proscioglimento degli imputati, ma colmò anche di doni Giuseppe[7].

Un dottore della Legge e un fariseo.

Quando questi fece ritorno a Gerusalemme (nell’autunno del 65, a quel che sembra) trovò che la situazione creata dai gruppi di resistenza antiromana si avviava a grandi passi verso la rottura.

La tensione, cominciata oltre cent’anni prima ai tempi della presa di Gerusalemme e della profanazione del tempio da parte di Pompeo, era cresciuta di pari passo con l’ingerenza dei Romani nelle cose di Giudea, provocata sia dal protrarsi della lotta fra il sommo sacerdote Ircano II e suo fratello Aristobulo (cui più tardi subentrò il figlio Antigono), sia delle ripercussioni che in terra d’Oriente ebbero le vicende della guerra fra cesariani e pompeiani. Contro tale ingerenza, che nel 47, per volere di Cesare, aveva portato ad affiancare (di fatto, a sovrapporre) ai tradizionali poteri del sommo sacerdote quelli di un «viceré» con la nomina dell’idumeo Antipatro a ἐπίτροπος[8], era sorto in Galilea un movimento nazionalistico di resistenza con a capo Ezechia, capostipite di una famiglia di patrioti. Ma poco dopo, nello stesso anno 47, la sua banda venne battuta da un corpo di spedizione agli ordini di uno dei figli di Antipatro, Erode, il quale non si fece scrupolo di passarlo per le armi. Accennando a questo episodio (BJ I 204), Giuseppe chiama Ezechia ἀρχιλῃστής (“capo-brigante”) e λῃσταί i suoi uomini, con una nomenclatura che rifletteva il punto di vista dei Romani, per i quali erano latrones i provinciali che cercavano di opporsi con le armi in pugno al loro dominio. Ma da un punto di vista diverso, e non meno valido salvo che rispecchiava il pensiero dei vinti, ben altro che un delinquente comune era stato Ezechia, e per la sua morte i Sadducei avevano sollecitato il sommo sacerdote Ircano II a istruire un regolare processo. Insabbiato questo processo per l’intervento di Sesto Giulio Cesare, un procugino del dittatore che teneva allora il comando delle forze romane in Syria, l’impresa contro Ezechia era diventata il punto di partenza di una fortunata ascesa che avrebbe fatto di Erode, sotto la protezione di Marco Antonio e poi di Augusto, uno dei maggiori potenti del suo tempo. Era perciò naturale che i nazionalisti accomunassero Erode nel loro odio contro i Romani[9]; e fu da questi spiriti di intransigente difesa dei valori del Giudaismo che prese allora avvio il movimento di resistenza degli Zeloti, di cui divenne poi animatore Giuda, figlio di Ezechia, l’alfiere della rivolta scoppiata nel 6 d.C., quando la Giudea cessò di essere un protettorato e venne direttamente assoggettata al dominio romano. Ispirato inizialmente al dovere dell’ubbidienza verso il solo Jahvé (e, dunque, non verso l’«usurpatore» Erode né, tantomeno, verso i Romani), il movimento zelotico si era poi arricchito di motivi di carattere economico-sociale. Infatti, all’acquiescenza, in linea di massima predominante presso i ceti più elevati, che dalla pax Romana si vedevano propiziato il godimento di antichi privilegi, si era contrapposta l’azione degli attivisti a sostegno delle masse più umili, ansiose di novità e, magari, di un rivolgimento totale da realizzare con una lotta concepita in termini di guerra di religione[10].

Fenicia, Celesiria, Decapoli e Giudea sotto la dinastia degli Erodiadi. Karl von Spruner (1865.

Allorché nel 66 la situazione, dopo aver subito un continuo deterioramento, diventò insostenibile per l’azione provocatoria del governatore Gessio Floro, e a Gerusalemme presero a serpeggiare le fiamme della rivolta, fu Menahem, figlio di Giuda e nipote di Ezechia, quello che assunse e per qualche tempo tenne il comando delle operazioni. Il massacro della guarnigione romana aveva reso ormai inevitabile una spedizione punitiva delle truppe di stanza nella vicina provincia di Syria; ma queste forze, quando già sembrava che stessero per impadronirsi di Gerusalemme, vennero travolte assieme al legato Cestio Gallo in un’inaspettata quanto umiliante disfatta. La guerra voluta dagli estremisti, rappresentati oltre che dagli Zeloti anche dai cosiddetti “sicari”, era ormai alle porte, e coinvolse assieme agli altri il nostro storico.

Giuseppe dovette avervi fin da principio una parte di primo piano, anche se molti importanti particolari della sua azione restano in ombra. Ciò dipende anche dalle discrepanze fra il racconto che egli ne fece nel Bellum Iudaicum e quello dato nella Vita oltre vent’anni più tardi. A ogni modo, è soltanto nella Vita (17 ss.) che Giuseppe dà qualche cenno sulla posizione da lui assunta di fronte al problema della guerra, dal momento del suo ritorno da Roma fino allo scoppio delle ostilità: una posizione che lo vide allineato con i maggiorenti dei Farisei in una cauta (perché molto pericolosa) polemica contro le mene dei bellicisti, nel vano sforzo di richiamare costoro a una più realistica valutazione dei pericoli verso cui spingevano il Paese. Ma poi l’inopinato disastro della spedizione punitiva di Cestio Gallo sopraggiunse a rendere incontenibile l’esaltazione dei fautori della guerra; questi presero il sopravvento e nel Sinedrio, anche se con scarso entusiasmo, si deliberarono i provvedimenti richiesti dallo stato di guerra, in vista dell’immancabile ritorno offensivo dei Romani. A Giuseppe, ignoriamo per quali particolari considerazioni, ma certo in grazia della prudenza cui appariva ispirato il suo atteggiamento, venne subito affidato un incarico di rilievo; nel racconto di BJ II 568 quello di assumere il comando delle operazioni difensive nel settore della Galilea, mentre, secondo quanto narra in Vita 29, egli fu chiamato a far parte di una commissione di tre sacerdoti inviati in Galilea per dar ordine ai patrioti di deporre le armi e uniformarsi alla linea di cauto attendismo deciso a Gerusalemme. Nelle due notizie si è creduto di poter cogliere una grande divergenza, tanto da considerare come abusiva l’azione di comando esercitata in seguito da Giuseppe nella Galilea[11].

Truppe romane sopraffatte da un’imboscata dei ribelli giudei. Illustrazione di P. Dennis.

Ma questa teoria si rivela poco convincente; infatti, da quanto viene riferito nella Vita pare debba ricavarsi non la natura dell’incarico affidato a Giuseppe, ma il primo compito assegnatogli nell’esercizio delle sue attribuzioni, premessa indispensabile all’addestramento degli uomini e all’apprestamento delle opere difensive. Tale esercizio, che in partenza poteva fare affidamento sul sentimento patriottico della popolazione, rimasta per lo più sorda ai richiami dell’ellenizzazione[12], nei primi tempi venne reso assai arduo dallo scoppio di gravi episodi di insubordinazione: se si considera che a darcene notizia è lo stesso Giuseppe, e con lunga e dettagliata esposizione, è difficile dubitare della gravità della situazione che gli si trovò a fronteggiare. Nel suo racconto, se solo a prezzo di molti stenti e pericoli gli riuscì di affermare la sua autorità nei centri principali della regione, come Sepphoris, Tiberiade e Tarichee, ciò avvenne per le mene di Giovanni di Giscala, un esponente della resistenza locale che gli diede molto filo da torcere, fino a cercare di provocare la sua destituzione[13].

È un racconto, questo di Giuseppe, che appare attendibile anche in vari particolari, ma che sorvola, naturalmente, sul punto più importante: l’arrivo da Gerusalemme di un comandante superiore (a un certo momento rimasto solo per la partenza degli altri due colleghi con cui era arrivato, cfr. Vit. 77) non fu visto di buon occhio dai patrioti di Galilea, anche perché essi non tardarono a constatare che si trattava di un uomo non senza riserve verso gli ideali della resistenza, e che non credeva nella vittoria finale[14]. Era un difetto per niente trascurabile, capace anzi di neutralizzare i pregi di un comandante, anche il più accorto e valente di tutti quale Giuseppe si vantava di essere (cfr. BJ III 144); ed è notevole, per concludere su questo punto, rilevare che il comitato dei Settanta, da lui istituito come organo consultivo di governo, gli serviva in realtà per tenere in pugno come ostaggi i notabili del Paese[15].

In simili condizioni, non dovevano essere gran cosa gli apparecchi difensivi che Giuseppe era riuscito a realizzare in Galilea, il settore che per ragioni geografiche era esposto a ricevere per primo l’urto dei Romani. In BJ II 572 ss. egli dà l’elenco delle città che furono fortificate[16], e il numero degli uomini da lui arruolati e istruiti secondo gli ordinamenti e la tattica romana per renderli, appunto, capaci di misurarsi con i Romani; si sarebbe trattato di 100.000 uomini (BJ II 576), che poco dopo (II 583) diventano 60.000 fanti e 350 cavalieri, oltre 400.500 mercenari e una guardia del corpo di 600 uomini. A parte la discrepanza delle cifre (che potrebbe spiegarsi distinguendo fra un totale e una parte già pronta per l’impiego), e anche a non voler considerare ugualmente esagerata quella più bassa, si trattava di una forza raccogliticcia provvista in linea di massima soltanto di armamento leggero, e quindi non in grado di affrontare in una battaglia campale la fanteria pesante nemica[17]. Nelle più ottimistiche prospettive non poteva esserci altra speranza se non quella che la potenza d’urto del nemico si esaurisse nel passare dall’assedio dell’una a quello dell’altra fra le più importanti città fortificate, ma era una speranza che non teneva nel debito conto le comparativamente enormi capacità logistiche dell’esercito avversario. Affidato da Nerone a un capo sperimentato e prudente come Tito Flavio Vespasiano, quest’esercito aveva il suo nerbo in tre legioni e, con il consueto contorno di truppe ausiliarie, era più vicino ai 60.000 che ai 50.000 uomini[18].

Processione trionfale con l’esibizione delle spoglie del tempio di Gerusalemme. Pannello interno, rilievo, marmo, c. 81 dall’Arco di Tito a Roma.

Coadiuvato dal figlio Tito, che faceva parte del suo stato maggiore come comandante di una delle legioni, Vespasiano nell’inverno del 66/7 portò a termine la raccolta delle forze concentrandole a Tolemaide, e di lì si addentrò verso l’interno puntando sul grosso centro di Sepphoris, i cui abitanti, impressionati dalla bufera, si erano affrettati a far atto di sottomissione ai Romani, aprendo le porte a un grosso presidio. L’inizio delle operazioni non poteva essere più infausto per Giuseppe; abbandonato dalla maggior parte degli uomini che aveva raccolto a Garis, non lontano da Sepphoris, e che si erano dispersi in fuga, egli si ritirò verso l’interno portandosi a Tiberiade[19], donde inviò a Gerusalemme un rapporto che si chiudeva con la richiesta di inviargli immediatamente rinforzi o, altrimenti, di intavolare trattative di pace. Poi, saputo che il nemico si apprestava a investire l’importante centro di Iotapata, accorse ad assumervi il comando della difesa, e fece appena in tempo a entrare nella città prima che Vespasiano la stringesse d’assedio. Quest’assedio durò circa un mese e mezzo[20] e si concluse con l’espugnazione, nonostante le ingegnose trovate di Giuseppe, che si sofferma a riferirle con grande compiacimento (BJ III 141-339). Mentre la città veniva messa a ferro e fuoco, cominciarono le ricerche per catturare Giuseppe, che assieme a una quarantina di notabili si era rifugiato in una profonda cisterna. Scoperto il nascondiglio, egli si mostrò incline a consegnarsi al nemico, ma la sua arrendevolezza suscitò l’ira degli altri che, decisi a non farsi prendere vivi, gli imposero di scegliere se morire di propria mano o per mano dei compagni. Con un abile espediente, che ancora una volta Giuseppe si compiace di raccontare per filo e per segno con un’abbondanza di particolari a volte romanzeschi (BJ III 340-391), egli riuscì a liberarsi dell’incomoda compagnia e a consegnarsi nelle mani dei Romani.

L’assedio di Iotapata (67 d.C.). Illustrazione di A. Hook.

Sarebbe impossibile, ma soprattutto inutile, controllare la sua veridicità a proposito di arrendersi, perché quelle circostanze corrisposero a una verità psicologica assai più importante di quella che fu la verità storica, in questo caso per noi trascurabile. Vista la piega che fin dal principio avevano preso le operazioni, Giuseppe si era più che mai confermato nella convinzione che quella guerra conduceva alla rovina della patria, e che per salvare il salvabile si doveva cercare di trattare col nemico. A muovere il primo passo in questa direzione egli si era poi sentito prescelto dal dio d’Israele quando alla sua virtù profetica aveva concesso l’ispirazione di predire a Vespasiano il dominio dell’Impero: «Tu, o Vespasiano, sarai Cesare e imperatore, tu e tuo figlio. Fammi ora legare ancora più forte e custodiscimi per te stesso; perché tu, Cesare, non sei soltanto il mio padrone, ma il padrone anche della terra e del mare e di tutto il genere umano»[21].

T. Flavio Vespasiano. Busto, marmo greco, 70-80 d.C. Firenze, Galleria degli Uffizi.

Solo per portare tale messaggio, secondo l’incarico ricevuto dal dio, Giuseppe non aveva osservato l’eroica usanza, già in onore al tempo della riscossa maccabaica (2 Mac. 14, 41 ss.), di darsi la morte per non cadere nelle mani del nemico. Bisognava, inoltre, liberare il campo dalla dannosa «ambiguità» di una profezia che parlava del prossimo avvento di un re che dall’Oriente avrebbe esteso il suo dominio sul mondo intero: ciò era stato interpretato «da molti sapienti giudaici» (BJ VI 312) come allusivo all’avvento di un messia, mentre ora Giuseppe sapeva, e doveva far sapere, che la predizione riguardava invece l’ascesa al trono di Vespasiano. Che in realtà corresse una simile profezia è indubitato[22], così come altrettanto sicuro sembra che essa fosse nata in ambiente zelotico sotto l’influenza di antiche aspettazioni escatologiche. Pertanto, a ispirare la profezia era stata certamente la speranza nell’avvento di un uomo che da Israele avrebbe allargato il suo regno messianico su tutto il mondo, sì che l’interpretazione giusta era quella datane dai «sapienti giudaici», a torto contraddetti da Giuseppe con la sua speciosa interpretazione dell’attesto avvento messianico in chiave di un adventus Augusti. Ciò non vuol dire, assolutamente, che il giudeo-ellenizzato Giuseppe abbia distorto con spregiudicata disinvoltura il significato di un testo ritenuto ispirato: l’impressione è che egli sentisse di parlare in piena coscienza, sinceramente convinto che nei disegni divini a Vespasiano era serbato il dominio sull’Impero universale di Roma, sì che per i Giudei il meglio era cessare al più presto di trattarlo ostilmente. Questa convinzione (che, ripeto, sembra da ritenere autentica) dovette essergli di qualche conforto per la nuova vita che ora si apriva dinanzi a lui.

Avveratasi, di lì a un paio d’anni, la sua profezia con l’acclamazione a imperatore di Vespasiano (1 luglio 69), il nuovo «padrone della terra e del mare e di tutto il genere umano» si ricordò con simpatia del giovane sacerdote giudeo che si trascinava dietro in catene dal tempo della presa di Iotapata, e nell’euforia dell’ora ordinò che fosse liberato dalla schiavitù (in cui quello era caduto come prigioniero di guerra[23]). In tal modo, anche per le simpatie personali che seppe destare in Tito, Giuseppe diventò fautore, e poi anche cordiale collaboratore, di un nemico che, al termine di una durissima guerra, avrebbe distrutto Gerusalemme. Per molti aspetti il suo caso richiamava quello di Polibio, che oltre due secoli prima, persuasosi della superiorità politica della Repubblica romana, aveva scritto per chiarire a sé e ai suoi connazionali greci i motivi che ne giustificavano l’egemonia sui Paesi del mondo mediterraneo. Ma a Giuseppe era toccato non di teorizzare le ragioni del primato di un popolo straniero, ma di vivere nell’accampamento dello straniero che assediava Gerusalemme, di prestare la sua opera come interprete e strumento di propaganda, insomma di comportarsi in modo da essere bollato come traditore da chiunque non condividesse le sue riserve sull’opportunità della guerra scatenata dalla resistenza antiromana[24].

Per uno come lui, pur dopo l’acquisto della cittadinanza romana, restava aperto alle suggestioni dell’orgoglio nazionale[25], la taccia del rinnegato dové sempre essere un gran peso sul cuore; ciò appare, del resto, anche dal fatto che egli non si lasciò sfuggire nessuna occasione per difendersene, ritorcendo sui rivoluzionari l’accusa di aver essi, con la loro follia bellicista, tradito la causa della patria fino a provocarne la distruzione. Dopo aver seguito l’esercito romano nel 67 durante l’occupazione del resto della Galilea, nel 68 durante la sottomissione della Perea, dell’Idumea e della Giudea (finché Vespasiano fu raggiunto dalla notizia della morte di Nerone, che causò una lunga stasi della guerra fino alla sua elezione imperiale), dopo aver assistito alla ripresa delle operazioni sotto il comando di Tito fino all’espugnazione di Gerusalemme (settembre 70), Giuseppe vide nella serie ininterrotta dei rovesci patiti dai Giudei la conferma della sua convinzione che il dio era passato dalla parte dei Romani. Nella propaganda dei bellicisti l’incitamento alla resistenza si accompagnava alla promessa di un intervento del divino alleato che già tante volte aveva salvato Israele: Giuseppe replicava che tale intervento era certo, ma questa volta per colpire l’empietà degli uomini della resistenza, i quali per realizzare il loro intento non si erano astenuti dalle più orribili atrocità, calpestando ogni legge umana e divina (BJ V 400 ss.). Così, secondo lui, l’ingiustizia aveva preso a trionfare in Israele (in contrasto con la giustizia dei Romani, che si erano invece sempre limitati a non esigere che il tributo) costringendo il dio ad abbandonare l’alleanza col suo popolo per divenire σύμμαχος dei Romani, da lui scelti a strumento delle sue vendette e, perciò, protetti e premiati (BJ V 409-410). Questo era ritenuto da Giuseppe il vero tradimento che, privando Gerusalemme dell’aiuto divino, l’aveva condannata alla distruzione. Lui, se mai, aveva cercato di mitigare la furia vendicatrice dei vincitori, ricorrendo ogni volta che si poteva alla clemenza di Tito, specialmente nei giorni terribili che seguirono la caduta della città.

T. Flavio Vespasiano (jr.). Statua, marmo bianco, 79 d.C. dalla basilica di Ercolano. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

L’odio e il disprezzo verso il «rinnegato» dovettero placarsi, ma non estinguersi, dopo che egli si fu ritirato a Roma; a rinverdire la memoria contribuivano l’invidia per le terre donategli in Iudaea da Tito e poi anche da Vespasiano, l’ospitalità da questi offertagli a Roma nella casa che abitavano prima di trasferirsi nei palazzi imperiali, l’assegnazione di una pensione annua (Vit. 442-443). Più volte venne addirittura fatto oggetto di calunniose denunce (BJ VII 437 ss.; Vit. 424-425), peraltro rimaste sempre senza alcun effetto. Libero dal peso di ogni preoccupazione materiale, circondato dall’affetto di tre figli e dalla moglie[26], Giuseppe poté attendere alla composizione di una storia della guerra giudaica, cui sembra già avesse in qualche modo pensato nel corso dell’assedio di Gerusalemme, quando aveva preso una serie di appunti, come egli stesso ricorderà più tardi[27]. Per prima cosa scrisse un’opera in aramaico, destinata ai Giudei della diaspora mesopotamica, cui in sostanza si allude con l’ampollosa espressione «ai Parti, ai Babilonesi, agli Arabi, ai Giudei d’oltre Eufrate e agli Adiabeni» di BJ I 6. Questi primi passi dell’attività storiografica di Giuseppe furono certamente seguiti con compiacimento dai suoi imperiali patroni, ai cui occhi l’opera si presentava, fra l’altro, come un ammonimento per quelle genti a non voler mai più covare o favorire propositi di ribellione antiromana[28]. Quando poi Giuseppe approntò una «traduzione» in greco (Ἑλλάδι γλώσσῃ μεταβαλών) della sua opera, sì che questa potesse andare nelle mani di una più larga cerchia di lettori in tutto l’Impero, l’interesse dei Flavi per il suo lavoro crebbe enormemente (anche se resta solo una congettura che fossero loro a ispirarlo). Quella di Giuseppe poteva diventare, come in effetti diventò, la storia ufficiale della gloriosa impresa che aveva portato in primo piano Vespasiano per la scalata al trono dei Cesari, e non per niente all’atto della pubblicazione essa portava l’imprimatur di Tito[29].

Naturalmente, si trattava di una «traduzione» solo per modo di dire: bastava il cambiamento (toto coelo) del pubblico cui l’opera era diretta per imporre una serie di ritocchi, a partire da quelli di carattere formale apportati dai collaboratori greci, alla cui opera Giuseppe dovette far ricorso non essendo in grado di scrivere in greco[30]. Certamente non poche dovettero essere le pagine ritoccate, soppresse o aggiunte: fra queste ultime, per esempio, tutte quelle relative alla minuta informazione geo-topografica sui Paesi che erano stati teatro della guerra e, in particolare, la descrizione della città e del tempio di Gerusalemme (V 136-247), nonché quella del trionfo di Vespasiano e di Tito (BJ VII 123 ss.)[31]. Anche a non voler mettere in discussione (per mancanza di elementi concreti) se nello scrivere l’opera in lingua aramaica Giuseppe avesse già avvertito l’opportunità di inquadrare la storia della guerra rifacendosi alla presa di Gerusalemme da parte di Antioco Epifane, è assai probabile che gli antefatti della guerra scoppiata nel 66 vi fossero trattati con maggiore concisione rispetto alla «traduzione» destinata poi al pubblico greco-romano[32].

Lawrence Alma-Tadema, Il trionfo di Tito. Olio su tela, 1885.

Dopo la pubblicazione del Bellum Iudaicum in greco, che ebbe luogo fra il 75 e il 79[33], Giuseppe poté continuare la sua attività storiografica sotto la protezione di Tito (che proprio negli anni fra il 75 e il 79 aveva convissuto a Roma more uxorio con la principessa giudaica Berenice, sorella di Agrippa II) e poi di Domiziano, che ai precedenti benefici aggiunse quello dell’esenzione fiscale per le proprietà fondiarie in Giudea (Vit. 428-429). Difficile invece, se non impossibile, farsi un’idea anche approssimativa del vantaggio che nell’ambiente di corte Giuseppe poté trarre da un suo eventuale accostarsi ai circoli giudeo-cristiani, di cui furono esponenti Flavio Clemente (cos. 95) e sua moglie Flavia Domitilla[34]. Sta di fatto che nel 93-94 egli riuscì a pubblicare una grossa opera di storia patria, la Ἰουδαϊκὴ ἀρχαιολογία («Storia antica dei Giudei», latinamente Antiquitates Iudaicae, dalle origini allo scoppio della guerra del 66), incoraggiato e sostenuto anche da un influente amico, che egli chiama Epafrodito e che sembra da identificare col noto liberto di Nerone[35]. Allo stesso Epafrodito furono poi dedicati anche la Vita, redatta dopo il 100 in polemica con Giusto di Tiberiade[36], che della guerra giudaica aveva pubblicato una storia in cui cercava di compromettere agli occhi dei Romani la figura di Giuseppe[37], e il contra Apionem, l’ultima delle sue opere, scritta in difesa del Giudaismo contro le denigratorie e calunniose invenzioni propalate soprattutto dai Greci col loro sprezzante spirito di superiorità. Nella chiusa delle Antiquitates Giuseppe dichiara di voler preparare un’edizione abbreviata della storia della guerra giudaica con un’appendice di aggiornamento nella parte finale[38]. Tale progetto non risulta sia mai stato realizzato, e perciò qualcuno ha avanzato la congettura, poco convincente, che qui lo storico si riferisse al suo proposito di scrivere la Vita, che fu pubblicata in appendice alla seconda edizione delle Antiquitates[39]. Certo è, invece, che non fu Giuseppe l’autore del cosiddetto “quarto libro dei Maccabei”, a torto attribuitogli, fra gli altri, da Eusebio (Hist. Eccl. III 10). La morte dovette coglierlo in uno dei primi anni del II secolo.

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[1] Il 18 marzo del 38 segnò l’inizio del secondo anno di principato di Gaio Caligola, mentre Giuseppe (Vit. 5) afferma di esser nato nel primo anno. Il termine iniziale, il 13 settembre del 37, si ricava da AJ XX 267, dove Giuseppe dichiara di aver compiuto i 56 anni nel corso del tredicesimo anno di principato di Domiziano, che andò dal 13 settembre 93 al 12 settembre 94.

[2] Cfr. BJ III 352; Ap. I 54; in Vit. 2 si specifica che il casato di Giuseppe rientrava nella prima delle ventiquattro «famiglie» sacerdotali.

[3] Di questa discendenza egli si vanta in Vit. 2, dove Giuseppe è in polemica con qualcuno che gli rinfacciava – quelli erano i tempi – l’oscurità dei natali. Pertanto, non è escluso che egli abbia esagerato in senso opposto, e sarei più incline a condividere le riserve di Hölscher 1916, 1935, che le giustificazioni di Radin 1929.

[4] Vit. 9, un racconto che richiama quello di Luc. 2, 41 ss. Tali progressi possono spiegare, per converso, alcune deficienze “culturali” che ai nostri occhi destano un certo stupore. Così, p. es., la pretesa (cfr. BJ IV 5) che gli abitanti di Gamala (da “cammello”, in ebraico gamal, in aramaico gamla) sbagliassero a chiamare con quel nome la loro città, che avrebbe dovuto chiamarsi piuttosto Kamala (alla greca! da κάμηλος), o l’affermazione che Melchisedek coniò il nome di Gerusalemme, aggiungendo a quello precedente di Salem l’epiteto (greco!) di ἱερόν (cfr. BJ VI 438). Solo più tardi, nel contra Apionem, polemizzando con uno scrittore antisemita, il quale faceva derivare il nome della città da un Ἱερόσυλα, un nome che avrebbe conservato il ricordo delle spoliazioni di templi perpetrate dai suoi fondatori, Giuseppe capirà l’assurdo di una simile etimologia, osservando che quello scrittore (I 319) οὐ συνῆκεν, ὅτι ἱεροσυλεῖν οὐ κατὰ τὴν αὐτὴν φωνὴν Ἰουδαῖοι τοῖς Ἕλλησιν ὀνομάζομεν («non considerò che noi Giudei non usiamo lo stesso vocabolo dei Greci per dire “spogliare i templi”»).

[5] Col che non deve considerarsi in contrasto l’atteggiamento critico che Giuseppe assume nei confronti dei Farisei in BJ I 67; 110-111; e AJ XIII 41.

[6] Tac. Hist. V 9, 3: ius regium servili ingenio exercuit («esercitò un’autorità di re con animo servile»).

[7] Sulla θεοσέβεια di Poppea, cfr. Smallwood 1959. È strano (o, almeno, a noi non può non sembrar strano) che in questo non troppo succinto racconto del viaggio a Roma siano rimasti senza eco il grande incendio che distrusse interi quartieri dell’Urbe e la successiva persecuzione anticristiana, due grossi fatti che accaddero appunto nell’anno 64. Che Giuseppe non ne abbia ricavato un’indimenticabile impressione pare da escludere; pertanto, egli avrà deliberatamente sorvolato su di essi per non deviare dal filo del racconto.

[8] Così in BJ I 199; cfr. 209; ἐπιμελητής, in AJ XIV 127.

[9] E con loro due anche il sommo sacerdote Ircano II, il «sacerdote empio» esecrato assieme ai Romani e all’«uomo di menzogna» (Erode) nel Commentario di Habacuc, uno dei testi più importanti fra quelli conservati dai manoscritti del Mar Morto. Cfr. BJ I 270.

[10] Cfr. BJ II 118; IV 161.

[11] Così Laqueur 1920.

[12] Cfr. Oepke 1941.

[13] BJ II 626-631; Vit. 189-332.

[14] Meno attendibile mi sembra su questo punto particolare la rappresentazione di Ricciotti (I, 39-40), che tratteggia la figura di Giuseppe come quella di un arrivista divorato dall’ambizione di diventare «una specie di monarca della regione, atteggiandosi a patriota insurrezionista». L’intento di Giuseppe fu in realtà quello di assicurarsi il controllo sulle varie componenti della resistenza locale, ed egli cercò di riuscirvi in ogni modo, anche vietando a Giovanni di Giscala di attingere dai magazzini dei viveri, come si legge in Vit. 72. Se qui Giuseppe scrisse che egli lo fece con l’intenzione di conservare il grano per i Romani (con ciò stesso inavvertitamente attribuendosi la figura del traditore), la cosa si spiega pensando che egli compose la propria autobiografia proprio per controbattere le accuse di attività antiromane rivoltegli da Giusto di Tiberiade, e di qui l’invenzione della poca gloriosa benemerenza. Sulla preferenza da accordare, in genere, al racconto della Vita rispetto a quello del Bellum Iudaicum, cfr. Gelzer 1952.

[15] Vit. 79 τοὺς δ’ ἐν τέλει τῶν Γαλιλαίων ὅσον ἑβδομήκοντα πάντας βουλόμενος ἐν προφάσει φιλίας καθάπερ ὅμηρα τῆς πίστεως ἔχειν φίλους τε καὶ συνεκδήμους ἐποιησάμην («I maggiorenti dei Galilei, complessivamente in numero di settanta, volendo con l’apparenza dell’amicizia tenermeli come ostaggi della fedeltà della religione, li feci miei amici e compagni nei miei spostamenti»).

[16] Un elenco non molto diverso da quello di Vit. 187 ss.

[17] Cfr. l’andamento dello scontro dinanzi a Iotapata di cui si parla in BJ III 113.

[18] Vd. BJ III 69.

[19] Cfr. BJ III 129 ss.; Vit. 395-412.

[20] Cfr. BJ III 142.

[21] BJ III 402. Che la profezia dell’impero fosse fatta a Vespasiano proprio da Giuseppe risulta confermato dal cenno di Svetonio (Vesp. 5, 9). La tradizione rabbinica, ostile al «rinnegato» Giuseppe, cercò poi di privarlo di un tal vanto e attribuì la profezia al rabbino Johann ben Zakkai.

[22] Ne parlano anche Tacito (Hist. I 10, 3; II 1, 2; V 13, 2), Svetonio (Vesp. 4, 9 ss.) e Cassio Dione (LXVI 1, 4).

[23] Come appare dal racconto di BJ IV 622 ss., dové allora trattarsi probabilmente di una manumissio inter amicos, la quale non era compresa tra le forme solenni di liberazione (manumissio) e pertanto non conferiva al servo, assieme allo status libertatis, anche il ius civitatis (sulla manumissio inter amicos, cfr. Albanese 1964, 7 ss.). A ogni modo, secondo il posteriore racconto di Vit. 423, fu solamente al suo arrivo a Roma al seguito di Tito, dopo la presa di Gerusalemme, che Vespasiano concesse a Giuseppe la cittadinanza romana, e Giuseppe da quel momento come civis Romanus si chiamò Flavio Giuseppe, assumendo il nomen dell’ex padrone.

[24] Cfr. BJ III 431 ss.

[25] Un orgoglio che nel Bellum Iudaicum si manifesta in varie occasioni, p. es., nel sottolineare la gravità della sconfitta inflitta dai Giudei all’esercito di Cestio Gallo (II 555); vd. anche I 1, e III 43. Più tardi fu lo stesso orgoglio patriottico a ispirargli la composizione delle Antiquitates Iudaicae e a spingerlo a controbattere nel contra Apionem le calunnie dell’antisemitismo dell’epoca.

[26] Fu questa la quarta e ultima moglie di Giuseppe, una nobile e virtuosa giudea cretese (Vit. 427), che egli sposò a Roma e da cui ebbe due figli, Giusto, nato nel settimo anno di Vespasiano (1 luglio 75-30 giugno 76), e Agrippa, di due anni più piccolo. Precedentemente, Giuseppe era stato unito con una donna alessandrina, ripudiata per dissapori coniugali dopo la nascita del figlio Ircano (Vit. 415), una giudea fatta prigioniera a Cesarea, che Vespasiano gli aveva data in moglie dopo la profezia dell’Impero (Vit. 414), e una giudea che egli aveva lasciato a casa quando si era recato ad assumere il comando delle operazioni in Galilea e che era rimasta assediata in Gerusalemme (BJ V 419).

[27] Ap. I 49 ἐν ᾧ χρόνῳ γενομένην τῶν πραττομένων οὐκ ἔστιν ὃ τὴν ἐμὴν γνῶσιν διέφυγεν· καὶ γὰρ τὰ κατὰ τὸ στρατόπεδον τὸ Ῥωμαίων ὁρῶν ἐπιμελῶς ἀνέγραφον καὶ τὰ παρὰ τῶν αὐτομόλων ἀπαγγελλόμενα μόνος αὐτὸς συνίειν («In quel tempo non vi fu un avvenimento di cui non venissi a conoscenza; infatti, prendevo diligentemente nota di ciò che vedevo nell’accampamento romano ed ero il solo in grado di comprendere quanto riferivano i disertori»).

[28] Di quest’ammonizione la più chiara formulazione sarà poi quella di BJ III 108, ove Giuseppe, al termine di un ampio excursus sull’eccellenza dell’organizzazione militare romana, conclude: «Su tutto ciò mi sono dilungato non tanto con l’intenzione di magnificare i Romani, quanto di consolare quelli che ne furono assoggettati e di dissuadere coloro che pensassero di ribellarsi». Questi non meglio precisati, ipotetici ribelli non possono essere se non i «connazionali dell’Adiabene», nominati nel discorso messo in bocca a re Agrippa II (BJ II 388) per distogliere i Giudei dai loro propositi di guerra.

[29] Cfr. Vit. 363 ὁ μὲν γὰρ αὐτοκράτωρ Τίτος ἐκ μόνων αὐτῶν ἐβουλήθη τὴν γνῶσιν τοῖς ἀνθρώποις παραδοῦναι τῶν πράξεων, ὥστε χαράξας τῇ ἑαυτοῦ χειρὶ τὰ βιβλία δημοσιῶσαι προσέταξεν («A tal punto, infatti, l’imperatore Tito era desideroso che soltanto attraverso quei libri il mondo fosse informato di quei fatti, che vi appose il suo visto e diede ordini per la loro pubblicazione»).

[30] Ap. I 50 χρησάμενός τισι πρὸς τὴν Ἑλληνίδα φωνὴν συνεργοῖς («avvalendomi di alcuni collaboratori per la lingua greca»). Che questi collaboratori si limitassero a un semplice lavoro di rifinitura è stato sostenuto da Shutt 1961, 33, in base ad argomenti ricavati da un esame stilistico, ma vd. le giuste riserve di Schreckenberg 1963. Ugualmente da sottoporre a cautela le troppo fidenti conclusioni cui Thackeray 1929, 100 ss., pervenne circa la personalità di alcuni di questi collaboratori; cfr. Petersen 1958, 260 n. 1.

[31] Poiché a I 29, nel sommario che Giuseppe dà della sua opera, il trionfo viene presentato come punto finale di essa, Eisler 1929, 252, ha congetturato che tutta la parte successiva del libro VII fosse stata composta in un secondo momento. In una prima stesura, approntata per essere offerta nel 71 in occasione del trionfo, l’opera sarebbe stata finita proprio con l’accenno alla pompa trionfale. Sembra però credibile che la Guerra potesse venir composta in così poco tempo, anche perché Giuseppe aveva bisogno dei collaboratori per la lingua greca, mentre nel sommario la menzione del trionfo per indicare la fine dell’opera può spiegarsi pensando che ivi uscisse dalla scena la figura del protagonista, Tito.

[32] Così Niese 1896, 201. Petersen 1958, 268 ss., spiega appunto come effetto di queste aggiunte la maggior mole dei libri I-II rispetto agli altri.

[33] Il terminus post quem non è la morte di Vespasiano, 23 maggio 79, cui l’opera fu offerta in omaggio (Vit. 361; Ap. I 51); il terminus ante quem non si ricava dalla menzione in BJ VII 158 ss., come di un’opera portata a compimento, del tempio della Pace, che fu dedicato nel 75 (DCass. LXVI 15, 1). Quest’ultimo dei due termini vale evidentemente per la pubblicazione dell’opera, non per la sua composizione, come invece pare intendere Hölscher 1916, 1940, e 1942.

[34] Vd. BJ IV 321; cfr. AJ XX 199; cfr. Mazzarino 1966, II 2, 101 ss.

[35] Cfr. PIR² III 80, n. 69.

[36] Cfr. FGrHist. 734. Poco convincente il tentativo di Frankfort 1961 per alzare la data di composizione dell’autobiografia al periodo tra il 93-94 e il settembre del 96.

[37] Sì che la Vita, più che una biografia, come vorrebbe il titolo, risulta essere per la massima parte una particolareggiata esposizione dell’attività di Giuseppe come comandante della difesa della Galilea nei sei mesi circa che precedettero l’assedio di Iotapata e la sua cattura.

[38] AJ XX 267 Ἐπὶ τούτοις δὲ καταπαύσω τὴν ἀρχαιολογίαν βιβλίοις μὲν εἴκοσι περιειλημμένην, ἓξ δὲ μυριάσι στίχων, κἂν τὸ θεῖον ἐπιτρέπῃ κατὰ περιδρομὴν ὑπομνήσω πάλιν τοῦ τε πολέμου καὶ τῶν συμβεβηκότων ἡμῖν μέχρι τῆς νῦν ἐνεστώσης ἡμέρας, ἥτις ἐστὶν τρισκαιδεκάτου μὲν ἔτους τῆς Δομετιανοῦ Καίσαρος ἀρχῆς, ἐμοὶ δ’ ἀπὸ γενέσεως πεντηκοστοῦ τε καὶ ἕκτου («Con questo terminerò la mia “archeologia”, che è compresa in venti libri con sessantamila righe. Se il dio me lo concederà, tornerò di nuovo a scrivere una storia abbreviata della guerra e di ciò che ci è accaduto fino a oggi, vale a dire fino al tredicesimo anno di Domiziano e al cinquantaseiesimo della mia vita»).

[39] Petersen 1958, ma vd. Feldmann 1965, 530-531. Di una seconda edizione della Vita, e non di una seconda edizione delle Antiquitates, preferiva parlare Motzo 1924, 214 ss.