Sui questori

di G. Urso, Cassio Dione e i magistrati. Le origini della repubblica nei frammenti della Storia romana, Milano 2005, pp. 37-43.

 

 

M. Giunio Bruto (oppure C. Sosio?). Obolo, Provincia di Syria, I sec. a.C. AE 18, 04 gr. Verso: tre attributi del magistrato – l’hasta, la sella quaestoria e il fiscus. In exergo: Q(uaestor).

 

Dopo i “consoli” (ἄρχοντες, στρατηγοί, ὕπατοι), i primi magistrati menzionati da Dione sono i questori, di cui la nostra fonte parla subito dopo l’accenno all’esilio di Tarquinio il Superbo a Cuma. Dal contesto del racconto di Zonara (VII 13) sembra che la notizia spetti al 509 vulg. (o comunque ai primissimi anni della repubblica):

 

καὶ τὴν τῶν χρημάτων διοίκησιν ἄλλοις ἀπένειμεν [scil. Ποπλικόλας], ἵνα μὴ τούτῶν ἐγκρατεῖς ὄντες οἱ ὑπατεύοντες μέγα δύνωνται. ὅτε πρῶτον οἱ ταμίαι γίνεσθαι ἤρξαντο· κοιαίστωρας δ’ ἐκάλουν αὐτούς. οἲ πρῶτον μὲν τὰς θανασίμους δίκας ἐδίκαζον, ὅθεν καὶ τὴν προσηγορίαυ ταύτην διὰ τὰς ἀνακρίσεις ἐσχήκασι καὶ διὰ τὴν τῆς ἀληθείας ἐκ τῶν ἀνακρίσεων ζήτησιν· ὕστερον δὲ καὶ τὴν τῶν κοινόν χρημάτων διοίκησιν ἔλαχον, καὶ ταμίαι προσωνομάσθησαν. μετὰ ταῦτα δ’ ἑτέροις μὲν ἐπετράπη τὰ δικαστήρια, ἐκεῖνοι δὲ τῶν χρημάτων ἤσαν διοικηταί.

 

«E Publicola destinò l’amministrazione del tesoro ad altri, affinché quelli che detenevano il consolato non acquisissero troppo potere, essendone responsabili. Allora per la prima volta cominciarono ad esserci i tesorieri. Li chiamavano “questori”. Essi in un primo tempo giudicavano nei processi capitali, da cui hanno ricevuto anche la loro denominazione, perché interrogavano [quaerere] e perché cercavano la verità per mezzo delle loro domande. In seguito ottennero anche l’amministrazione del tesoro pubblico e furono chiamati tesorieri. Più tardi i giudizi vennero riservati ad altri ed essi rimasero i responsabili del tesoro».

 

Dione si riferisce dunque ad una doppia funzione di questi magistrati, quella giudiziaria e quella amministrativa, che rimase più tardi l’unico compito dei questori. La funzione giudiziaria è evidentemente quella attribuita ai cosiddetti quaestores parricidii[1], da cui si distinguono i quaestores (aerarii) propriamente detti.

A questa doppia funzione dei questori sembra riferirsi una breve allusione di Varrone (ling. V 81), riguardante l’etimologia del nome: quaestores a quaerendo, qui conquirerent publicas pecunias et maleficia, quae triumviri capitales nunc conquirunt. Ma Dione non si limita ad affermare che i questori potevano svolgere funzioni diverse; egli, più esattamente, distingue tre fasi nell’evoluzione della magistratura: una prima fase (πρῶτον), in cui le competenze dei questori sono soltanto di natura giudiziaria; una seconda fase (ὕστερον), in cui vi si aggiungono le competenze amministrative; e infine una terza (μετὰ ταῦτα), in cui solo queste ultime sopravvivono[2]. Qui ci troviamo, evidentemente, nella seconda fase: lo si ricava dal confronto fra ὅτε πρῶτον οἱ ταμίαι γίνεσθαι ἤρξαντο e il successivo καὶ ταμίαι προσωνομάσθησαν: è chiaro dunque che per Dione i questori esistevano già nell’epoca dei re[3].

Questa ricostruzione inserisce la nostra fonte in una tradizione abbastanza ben attestata, a livello giuridico e antiquario. Infatti, diverse altre fonti (Giunio Graccano, citato nel De officio quaestoris di Ulpiano, Tacito ed Ulpiano stesso) pongono i questori già in età monarchica, anche se le loro opinioni divergono riguardo al meccanismo della nomina di questi magistrati: da parte del popolo già sotto i re secondo Graccano; prima da parte dei re, poi dei “consoli”, infine del popolo secondo Tacito (Ulpiano non fornisce indicazioni al riguardo):

 

Tacito ann. XI 22, 4: sed quaestores regibus etiam tum imperantibus insituti sunt, quod lex curiata ostendit a L. Bruto repetita. Mansitque consulibus potestas deligendi, donec eum quoque honorem populus mandaret. Creatique primum Valerius Potitus et Aemilius Mamercus sexagesimo tertio anno post Tarquinios exactos [secondo la cronologia tradizionale, nel 446], ut rem militarem comitarentur[4].

 

Ulpiano D. 1.13.1.pr. -1: origo quaestoribus creandis antiquissima est et paene ante omnes magistratus. Gracchanus denique Iunius libro septimo de potestatibus etiam ipsum Romulum et Numam Pompilium binos quaestores habuisse, qui non sua voce, sed populi suffragio crearent, refert. Sed sicuti dubium est, an Romulo et Numa regnantibus quaestor fuerit, ita Tullo Hostilio rege quaestores fuisse certum est: et sane crebrior apud veteres opinio est Hostilium primum in rem publicam induxisse quaestores. Et a genere quaerendi quaestores initio dictos et Iunius et Trebatius et Fenestella dicunt[5].

 

 

Aesillas, questore. Tetradramma, Provincia di Macedonia, 85-70 a.C. Ar 16, 37 gr. Verso: cassa monetale, clava e sella quaestoria all’interno di una corona di quercia.

 

In Zonara, l’uso del verbo γίνεσθαι non permette di comprendere se qui Dione pensasse ad una nomina da parte dei “consoli” o ad una elezione[6].

Mentre Graccano, Tacito ed Ulpiano sono concordi nell’attribuire a questa magistratura un’origine risalente all’epoca monarchica, pur divergendo nei particolari, diversa è invece la tradizione attestata nell’Enchiridion di Pomponio (D. 1.2.2.22-23):

 

deinde cum aerarium populi auctius esse coepisset, ut essent qui illi praeessent, constituti sunt quaestores dicti ab eo quod inquirendae et conservandae pecuniae causa creati erant. Et quia, ut diximus, de capite civis Romani iniussu populi non erat lege permissum consulibus ius dicere, propterea quaestores constituebantur a populo, qui capitalibus rebus praeessent: hi appellabantur quaestores parricidii, quorum etiam meminit lex duodecim tabularum.

 

Pomponio pone l’origine dei questori nella prima metà del V secolo, dopo i tribuni della plebe e gli edili (di cui parla subito prima) e prima dei decemviri[7]. La tradizione da cui il giurista dipende faceva a quanto sembra coincidere la nascita dei quaestores aerarii e quella dei quaestores parricidii[8], a differenza di Dione che come si è detto conosce una scansione cronologica più articolata. Anzi, l’etimologia del nome viene fatta risalire da Pomponio proprio alle competenze finanziarie dei questori, non a quelle in materia giudiziaria, come invece troviamo in Dione e in Festo[9].

 

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C’è infine la testimonianza di Plutarco (Publ. 12, 34), che presenta diversi punti di contatto con Dione e su cui dobbiamo soffermarci maggiormente, anche perché, come si è detto, è l’altra fonte di cui Zonara si serve per questa sezione:

 

ἐπῃνέθη δὲ καὶ διὰ τὸν ταμιευτικὸν νόμον [scil. Ποπλικόλας]. ἐπεὶ γὰρ ἔδει χρήματα πρὸς τὸν πόλεμον εἰσενεγκεῖν ἀπὸ τῶν οὐσιῶν τοὺς πολίτας, οὔτ᾽ αὐτὸς ἅψασθαι τῆς οἰκονομίας οὔτε τοὺς φίλους ἐᾶσαι βουλόμενος οὔθ᾽ ὅλως εἰς οἶκον ἰδιώτου παρελθεῖν δημόσια χρήματα, ταμιεῖον μὲν ἀπέδειξε τὸν τοῦ Κρόνου ναόν, ᾧ μέχρι νῦν χρώμενοι διατελοῦσι, ταμίας δὲ τῷ δήμῳ δύο τῶν νέων ἔδωκεν ἀποδεῖξαι καὶ ἀπεδείχθησαν οἱ πρῶτοι Πούπλιος Οὐετούριος καὶ Μινούκιος Μᾶρκος καὶ χρήματα συνήχθη πολλά, τρισκαίδεκα γὰρ ἀπεγράψαντο μυριάδες, ὀρφανοῖς παισὶ καὶ χήραις γυναιξὶν ἀνεθείσης τῆς εἰσφορᾶς.

 

«Publicola fu lodato anche per la legge finanziaria. Poiché infatti bisognava che i cittadini contribuissero con le loro sostanze alle spese di guerra e non volendo egli amministrare quelle entrate né lasciare che lo facessero i suoi amici, né che, in genere, il pubblico denaro andasse a finire in casa di un cittadino privato, fissò come pubblico erario il tempio di Saturno, di cui fino a oggi continuano a servirsi, e dette al popolo la facoltà di eleggere due uomini nuovi come questori [ταμίας]. Furono eletti per primi a questa carica Publio Veturio e Marco Minucio, e furono raccolti ingenti somme; i censiti furono 130.000, essendo stati esentati dal tributo gli orfani e le vedove»[10].

 

Colonne del tempio di Saturno. Roma, fori imperiali.

 

I punti di contatto con Dione/Zonara sono due: anzitutto la data, coincidente col primo anno della repubblica[11]; e poi, la premessa, che è simile, anche se non identica: Publicola non vuole amministrare le entrate dello stato, né vuole che lo facciano i suoi amici (Zonara dice che Publicola non vuole che lo facciano gli ἄρχοντες). Altri particolari in Zonara mancano (la precisazione sulla elezione da parte del popolo, il nome dei primi questori, l’accenno all’aerarium Saturni, che parrebbe anacronistico[12]); in Plutarco invece manca l’excursus sulla “doppia funzione” dei questori e l’etimologia del nome.

All’origine delle due notizie di Plutarco e di Dione sembra esserci una tradizione comune (che collocava i primi ταμίαι all’inizio della repubblica) diversamente confluita nei due autori, che a mio avviso attingono a fonti diverse. Mentre a Plutarco interessa più da vicino il ruolo di Publicola nella creazione di questi nuovi magistrati, Dione nega che la magistratura sia nata con Publicola (cfr. l’accenno, assente in Plutarco, ai quaestores parricidii di età monarchica) ed è più attento ai risvolti storico-costituzionali della notizia.

Mi sembra significativo il fatto che per Dione la questura (i quaestores aerarii) nasca come una prima limitazione dei poteri esercitati dai “consoli” (καὶ τὴν τῶν χρημάτων διοίκησιν ἄλλοις ἀπένειμεν, ἵνα μὴ τούτῶν ἐγκρατεῖς ὄντες οἱ ὑπατεύοντες μέγα δύνωνται), a loro volta diretta derivazione dei poteri dei re. Emerge dunque nuovamente che per Dione la nascita delle magistrature repubblicane, al di là dell’occasione materiale che la determina (la rivolta contro i Tarquini), non costituisce, sotto il profilo giuridico, un fatto rivoluzionario. Su questo tema l’orientamento della nostra fonte sembra molto netto e preciso e le sue affermazioni del tutto coerenti[13].

Vale infine la pena di notare che Dione non dipende certamente né da Dionigi né da Livio, che non accennano alla costituzione della magistratura. Tuttavia Dionigi ammette implicitamente, come Dione, l’origine proto-repubblicana dei questores aerarii (di cui parla subito dopo la partenza di Porsenna da Roma)[14], mentre Livio ammette per lo meno l’esistenza, a quest’epoca, dei questores parricidii (di cui parla in relazione all’uccisione di Spurio Cassio, del 485)[15]. Inoltre, tra tutte le fonti che ci parlano della questura, Dione è l’unico ad individuare tre fasi evolutive di questa magistratura. A prescindere dalla sua attendibilità, il forte interesse della fonte di Dione e di Dione stesso per la storia costituzionale arcaica sembra chiaramente confermato.

C. Publilio. Obolo, Provincia di Macedonia, 168-167 a.C. AE 11, 89 gr. Verso: la leggenda "ΜΑΚΕΔΟΝΩΝ ΤΑΜΙΟΥ ΓΑΙΟΥ ΠΟΠΛΙΛΙΟΥ" iscritta su tre linee all’interno di una corona di quercia.
C. Publilio. Obolo, Provincia di Macedonia, 168-167 a.C. AE 11, 89 gr. Verso: la leggenda “ΜΑΚΕΔΟΝΩΝ ΤΑΜΙΟΥ ΓΑΙΟΥ ΠΟΠΛΙΛΙΟΥ” iscritta su tre linee all’interno di una corona di quercia.

 

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[1] Fest. 221M (247L): parricidii quaestores appellabantur qui solebant creari causa rerum capitalium quaerendarum.

[2] Il problema dell’originaria identità, oppure della reciproca indipendenza, dei quaestores parricidii e dei quaestores aerarii è variamente risolto dai moderni. A favore dell’originaria unicità della magistratura, E. Herzog, Geschichte und System der römischen Staatsverfassung, I, Leipzig 1884, p. 816; O. Karlowa, Römische Rechtsgeschichte, I, Lepizig 1885, p. 257; T. Mommsen, Römische Forschungen, II, Hildesheim 1962 (= Berlin 1879), p. 538; E.S. Staveley, Provocatio during the fifth and fourth centuries B.C., Historia 3 (1954-1955), p. 425; G. De Sanctis, Storia dei Romani, I, Firenze 19562, pp. 404-405 (nota che l’identità dei quaestores parricidii ed aerarii è affermata esplicitamente da Varrone e da Dione, ma implicitamente da tutta la tradizione tranne Pomponio, su cui però cfr. infra pp. 39-41); B. Santalucia, Diritto e processo penale nell’antica Roma, Milano 1989, p. 33. Contra, K. Latte, The origin of the Roman quaestorship, TAPhA 67 (1936), pp. 24-33 (che però non tiene conto né di Dione, né di Varrone); J. Bleicken, Das Volkstribunat der klassischen Republik. Studien zu seiner Entwicklung zwischen 287 und 133 v.Chr., München 1955, p. 112 (che cita tutte le fonti tranne proprio Dione); W. Kunkel, Untersuchungen zur Entwicklung des römischen Kriminalverfahrens in vorsullanischer Zeit, München 1962, pp. 37-45 (a p. 44 rovescia, in un certo senso, le affermazioni di De Sanctis: solo Dione attesta esplicitamente l’originaria identità; e il passo di Varrone, tutto incentrato sull’etimologia del nome, è troppo breve per consentire conclusioni sicure); Staatsordnung und Staatspraxis der römischen Republik, II, München 1995, pp. 510-512; M. Kaser, Römische Rechtsgeschichte, Göttingen 19672, p. 46 («Mit den schon der Frühzeit angehörigen quaestores parricidii… haben sie offenbar [sic!] nichts zu tun»); A Drummond, Rome in the fifth century. II. The citizen community, in AA.VV., Cambridge ancient history, VII.2, edd. F.W. Walbank – A.E. Astin – M.W. Frederiksen – R.M. Ogilvie, Cambridge (ecc.) 19892, p. 196.

[3] Cfr. J.D. Cloud, Parricidium: from the lex Numae to the lex Pompeia de parricidiis, ZRG 88 (1971), p. 4.

[4] Secondo S. Mazzarino (Intorno all’origine della repubblica romana e delle magistrature, ANRW 1.1 [1972], p. 459) l’indicazione temporale post Tarquinios exactos «è sicura indicazione che ci troviamo dinanzi a un filone di pensiero giuridico che poi, per varie connessioni, arriverà a Ioannes Lydus» e segnale quindi l’impiego di una fonte antiquaria-giuridica («recht glaubwürdig» secondo G. Wesener, Questor, in RE XXIV, 1963, cc. 811-812).

[5] Da questo passo deriva, con ogni evidenza, Giovanni Lido (mag. I 24), che pure afferma di utilizzare direttamente Graccano, ma corrisponde ad Ulpiano anche nella menzione di Graccano, Trebazio e Fenestella (Ἰούνιος καὶ Τρεβάτιος καὶ Φενεστέλλας εἶπον) e comunque cita Ulpiano subito dopo (ταῦτα μὲν ὁ Ἰούνιος, ὁ νομικὸς δὲ Οὐλπιανὸς ἐν τῷ De Officio Quaestoris, … περὶ κυαὶστωρος ἀποχρώντως διαλέγεται). È invece più complesso il problema relativo alla fonte di un successivo passo di Lido riguardante, di nuovo, i questori (mag. I 26; cfr. infra n. 8). Su Graccano, Trebazio e Fenestella, cfr. infra pp. 183-185; 188-189.

[6] A. Lintott (The constitution of the Roman republic, Oxford 1999, p. 134), citando anche Zonara (ma trascurando Plutarco), parla senz’altro di “elezione”: ma il nostro testo non consente di accettare senza riserve questa lettura.

[7] Non proprio quindi nel periodo «immediately following the expulsion of Tarquinius Superbus», come scrive Cloud, Parricidium…, p. 4.

[8] Dalla descrizione di Pomponio sembrerebbe trattarsi di due magistrature distinte fin dall’inizio (così Wesener, Quaestor, c. 811; De Sanctis, Storia…, I, pp. 404-405; cfr. anche M. D’Orta, Trebazio Testa e la questura, SDHI 59 [1993], p. 280), non di un’unica magistratura con più funzioni (come afferma Dione): tuttavia è per lo meno singolare che Pomponio ponga la nascita delle “due” magistrature nello stesso periodo, perché ciò suggerisce implicitamente un legame. A questo passo sembra da collegarsi una notizia di Giovanni Lido (mag. I 26) in cui l’autore ritorna sulla nascita dei quaestores aerarii, aggiungendo però una notizia sui quaestores parricidii: «ὡς δὲ τὸ γαζοφυλάκιον τοῦ δήμου εἰς ἐπίδοσιν ἦλθεν, προεχειρίσθησαν κυαίστωρες ὑπὲρ τῆς αὐτοῦ φροντίδος ἀπὸ τῆς περιποιήσεως καὶ φυλακῆς τῶν χρημάτων οὕτως ὀνομασθέντες. ἐπειδὴ δὲ περὶ κεφαλικῆς τιμωρίας οὐκ ἐξῆν τοῖς ἄρχουσι κατὰ Ῥωμαίου πολίτου ψηφίσασθαι, προεβλήθησαν κυαίστωρες παρρικιδίου, ὡς ἂν εἰ κριταὶ καὶ δικασταὶ τῶν πολίτας ἀνελόντων («quando il tesoro del popolo venne a crescere, elessero dei questori che se ne occupassero, avendoli chiamati così perché raccoglievano e conservavano le ricchezze. E poiché nei processi capitali non era consentito ai magistrati votare contro un cittadino romano, furono costituiti i questori parricidii, affinché fossero arbitri e giudici di chi avesse ucciso dei cittadini»). Lido cita espressamente la sua fonte: si tratterebbe del commentario di Gaio alle Dodici tavole, che egli dice di aver citato alla lettera (Γάϊος τοίνυν ὁ νομικὸς ἐν τῷ ἐπιγραφομένῳ παρ’ αὐτοῦ Ad Legem XII Tabularum – οἷον Εἰς τὸν Νόμον τοῦ ∆υοκαιδεκαδέλτου – αὐτοῖς ῥήμασι πρὸς ἑρμηνείαν ταῦτά φησιν, «il giurista Gaio nel suo commento alle Dodici tavole fornisce questa spiegazione, con queste precise parole…»). Gli editori hanno in genere rilevato come il passo presenti notevoli somiglianze con il testo di Pomponio citato sopra (anzi la prima parte è del tutto identica a D. 1.2.2.22), concludendo che qui in realtà Lido sbaglia a citare la sua fonte, che sarebbe appunto Pomponio, non Gaio. All’origine dell’errore ci sarebbe il fatto che il testo di Pomponio fa parte del secondo, lungo frammento del titolo De origine iuris et omnium magistratuum et successione prudentium del Digesto (D. 1.2.2), mentre il primo frammento (1.2.1) è proprio derivato dal primo libro di Gaio ad legem duodecim tabularum, Lido non si sarebbe accorto del cambio di fonte tra primo e secondo frammento e da qui sarebbe derivata la citazione erronea di Gaio al posto di Pomponio. Cloud (Parricidium…, pp. 18-26) ritiene invece che la citazione di Lido sia attendibile e che quindi la sua fonte sia proprio Gaio, mettendo in evidenza alcune differenze tra i due testi che, in effetti, riguardano la parte relativa ai quaestores parricidii (una in particolare ha un certo rilievo per noi: dove in Pomponio leggiamo consules, nella citazione gaiana di Lido troviamo ἄρχουσι): secondo Cloud, Gaio utilizzava Pomponio, modificandolo dove lo riteneva necessario, oppure utilizzava la stessa fonte di Pomponio. È evidente in ogni caso che questa notizia appartiene, se non altro per la differente cronologia, ad una tradizione diversa rispetto a quella confluita in Dione e poi in Zonara.

[9] In Varrone troviamo invece una sintesi delle due posizioni. Che Dione faccia risalire il termine alle competenze giudiziarie dei questori è coerente con la sua ricostruzione secondo cui appunto questa funzione era originariamente la sola da essi ricoperta.

[10] Traduzione di A. Traglia (Torino 1992). La notizia relativa al censimento pare un po’ strana in questo contesto, dato che la nostra fonte non sta parlando dei censori e che comunque prima della loro istituzione i loro compiti erano svolti dai consoli (cfr. infra n. 13). È interessante osservare qui che per Pomponio i primi magistrati creati dopo i consoli furono proprio i censori (D. 1.2.2.17: post deinde cum census iam maiori tempore agendus esset et consules non sufficerent huic quoque officio, censores constituti sunt). Mi chiedo se non ci sia un legame tra questa notizia (dopo i consoli vengono creati i censori) e quella di Plutarco (dopo i consoli vengono creati i questori, che procedono al censimento): si noti che la notizia di questo censimento si trova anche in Dionigi (V 75, 3), senza però riferimenti ai questori (la cifra dei censiti è ritenuta attendibile da T. Frank, Roman census statistic from 508 to 225 b.C., AJPh 51 [1930], pp. 313-316).

[11] Secondo F. De Martino (Storia della costituzione romana, I, Napoli 1958, p. 231) sarebbe questa l’unica notizia che ponga l’origine della questura nel primo anno della repubblica. Questa era in realtà anche la cronologia di Dione, almeno per quanto riguarda i quaestores aerarii.

[12] L’accenno all’aerarium si trova anche in Pomponio, dove però non si forniscono date assolute. La data della dedica dell’aedes Saturni, sede dell’aerarium, è controversa nelle nostre fonti (Cn. Gell., fr. 24; Varro, in Macr. Sat. 1 8, 1; Liv. II 21, 2; e soprattutto Dion. Hal. VI 1, 4 che menziona esplicitamente differenti versioni a lui note): la datazione più alta è comunque quella proposta da Varrone, sotto la dittatura di Larcio (quindi, come vedremo, nel 501 o nel 498 vulg.). Per un’analisi critica di queste notizie, cfr. W. Kunkel, Staatsordnung und Staatspraxis der römischen Republik, II, München 1995, pp. 510-512.

[13] Sulle nuove magistrature repubblicane concepite come definizione e limitazione progressiva dei poteri dei “consoli”, Dione tornerà, e in modo esplicito, quando parlerà della creazione dei censori, decisa perché i consoli non erano più in grado di adempiere le funzioni legati al censimento dei cittadini (Zon. VII 19: χειροτόνηντο δὲ ὅτι οἱ ὕπατοι ἀδύνατοι ἐπὶ πάντας διὰ τὸ πλῆθος ἐξαρκεῖν ἦσαν. τὰ γὰρ τοῖς τιμηταῖς ἀπονεμηθέντα προνόμια ἐκεῖνοι μέχρι τότε ἐποίουν, «furono eletti perché i consoli non erano in grado di adempiere tutti i loro compiti, dato il gran numero di questi. Fino ad allora infatti erano stati i consoli a svolgere i compiti attribuiti ai censori»; abbiamo visto già in Pomponio un’affermazione analoga, cfr. supra n. 10). Sui primi censimenti, cfr. A. Giovannini, Il passaggio dalle istituzioni monarchiche alle istituzioni repubblicane, in AA. VV., Bilancio critico su Roma arcaica fra monarchia e repubblica. In memoria di Ferdinando Castagnoli (Roma, 3-4 giugno 1991), Roma 1993, p. 92: «Non sappiamo chi fosse stato, nell’età regia, responsabile del censimento; ma c’è poco dubbio che agli inizi della repubblica furono proprio i praetores a farlo e a prendere il giuramento d’ubbidienza che integrava […] i cittadini nel corpo civico con i doveri e i diritti corrispondenti»: in effetti, questa ipotesi è sostenibile anche sulla base della nostra fonte. Sui censori in Dione cfr. infra. pp. 136-155.

[14] Dion. Hal. V 34, 4: οὐ μικρὰν τῇ πόλει χαρισάμενος εἰς χρημάτων λόγον δωρεάν. ἐδήλωσε δ᾽ ἡ πράσις, ἣν ἐποιήσαντο μετὰ τὴν ἀπαλλαγὴν τοῦ βασιλέως οἱ ταμίαι («egli [scil. Porsenna] offrì quindi alla città un dono di valore non certo scarso: lo dimostrò, in seguito, la vendita effettuata dai questori dopo la partenza del re»). Qui e infra la traduzione è di F. Cantarelli (Milano 1984).

[15] Liv. II 41, 11: invenio apud quosdam, idque propius fidem est, a quaestoribus Caesone Fabio et L. Valerio diem dictam perduellonis, damnatum populi iudicio, dirutas publice aedes (una versione che, secondo H.S. Jones – H. Last, La prima repubblica, in AA.VV., Le monarchie ellenistiche e l’ascesa di Roma (= Cambridge Ancient History VII1), edd. S.A. Cook – F.E. Adcock – M.P. Charlesworth, trad. it., Milano 1974, p. 538, «possiamo tranquillamente trascurare»). Sotto il 421 Livio registrerà una proposta di allargamento del collegio (IV 43, 4): in urbe ex tranquillo necopinata moles discordiarum inter plebem ac patres exorta est, coepta ab duplicando quaestorum numero. Quam rem, praeter duos urbanosut alii crearentur quaestores duo, qui consulibus ad ministeria belli praesto essent, a consulibus relatam cum et patres summa ope adprobassent, tribuni plebi certamen intulerunt ut pars quaestorum – nam ad id tempus patricii creati erant – ex plebe fieret…

Diodoro e i Celti

I. Bekker, L. Dindorf, F. Vogel (edd.), Diodori Bibliotheca Historica, voll. 1-2, Teubner, Leipzig 1888-90 (testo greco). Tr. it., lievemente modificata, di D.P. Orsi (in Diodoro Siculo, Biblioteca storica, libri I-V (a cura di L. Canfora), Palermo 1988, pp. 262 s.).

24. [1] […] Τῆς Κελτικῆς τοίνυν τὸ παλαιόν, ὥς φασιν, ἐδυνάστευσεν ἐπιφανὴς ἀνήρ, ᾧ θυγάτηρ ἐγένετο τῷ μεγέθει τοῦ σώματος ὑπερφυής, τῇ δ᾽εὐπρεπείᾳ πολὺ διέχουσα τῶν ἄλλων. Αὕτη δὲδιά τε τὴν τοῦ σώματος ῥώμην· καὶ τὴν θαυμαζομένην εὐπρέπειαν πεφρονηματισμένη παντὸς τοῦ μνηστεύοντος τὸν γάμον ἀπηρνεῖτο, νομίζουσα μηδένα [2] τούτων ἄξιον ἑαυτῆς εἶναι. Κατὰ δὲ τὴν Ἡρακλέους ἐπὶ Γηρυόνην στρατείαν, καταντήσαντος εἰς τὴν Κελτικὴν αὐτοῦ καὶ πόλιν Ἀλησίαν ἐν ταύτῃ κτίσαντος, θεασαμένη τὸν Ἡρακλέα καὶ θαυμάσασα τήν τε ἀρετὴν αὐτοῦ καὶ τὴν τοῦ σώματος ὑπεροχήν, προσεδέξατο τὴν ἐπιπλοκὴν μετὰ πάσης προθυμίας, [3] συγκατανευσάντων καὶ τῶν γονέων. Μιγεῖσα δὲ τῷ Ἡρακλεῖ ἐγέννησεν υἱὸν ὀνόματι Γαλάτην, πολὺ προέχοντα τῶν ὁμοεθνῶν ἀρετῇ τε ψυχῆς καὶ ῥώμῃ σώματος. Ἀνδρωθεὶς δὲ τὴν ἡλικίαν καὶ διαδεξάμενος τὴν πατρῴαν βασιλείαν, πολλὴν μὲν τῆς προσοριζούσης χώρας κατεκτήσατο, μεγάλας δὲ πράξεις πολεμικὰς συνετέλεσε. Περιβόητος δὲ γενόμενος ἐπ᾽ἀνδρείᾳ τοὺς ὑφ᾽αὑτὸν τεταγμένους ὠνόμασεν ἀφ᾽ἑαυτοῦ Γαλάτας· ἀφ᾽ὧν ἡ σύμπασα Γαλατία προσηγορεύθη.

24. [1] […] Nei tempi antichi regnava nella Celtica[1] – così si racconta – un uomo famoso che aveva una figlia di statura eccezionale e molto più bella delle altre. Ella, orgogliosa della sua forza fisica e della sua ammirata bellezza, respingeva tutti coloro che aspiravano a sposarla, ritenendo che nessuno fosse degno di lei. [2] Al tempo della sua spedizione contro Gerione, Eracle venne nella terra dei Celti dove fondò la città di Alesia; la fanciulla lo vide e ne ammirò il valore e l’eccellenza fisica, accettò con grande entusiasmo di unirsi a lui e anche i genitori furono d’accordo. [3] Dall’unione con Eracle nacque un figlio di nome Galate che superava di molto gli appartenenti alla sua stessa tribù per virtù d’animo e forza fisica. Diventato adulto e avendo ereditato il regno avito, egli conquistò molte terre confinanti e compì grandi imprese militari. Ormai famoso per il suo coraggio, Galate chiamò i suoi sudditi “Galati” con il proprio nome: da questi poi prese nome tutta la “Galatia”.

Statua di divinità guerriera. Lamina di bronzo sbalzato e occhi di pasta vitrea, I secolo a.C. da Beauvais. Musée Départmental de l’Oise.

25. [1] Ἐπεὶ δὲ περὶ τῆς τῶν Γαλατῶν προσηγορίας διήλθομεν, καὶ περὶ τῆς χώρας αὐτῶν δέον ἐστὶν εἰπεῖν. Ἡ τοίνυν Γαλατία κατοικεῖται μὲν ὑπὸ πολλῶν ἐθνῶν διαφόρων τοῖς μεγέθεσι· τὰ μέγιστα γὰρ αὐτῶν σχεδὸν εἴκοσι μυριάδας ἀνδρῶν ἔχει, τὰ δ᾽ἐλάχιστα πέντε μυριάδας, ὧν ἕν ἐστι πρὸς Ῥωμαίους ἔχον συγγένειαν παλαιὰν καὶ φιλίαν τὴν μέχρι τῶν καθ᾽ἡμᾶς χρόνων διαμένουσαν. [2] Κειμένη δὲ κατὰ τὸ πλεῖστον ὑπὸ τὰς ἄρκτους χειμέριός ἐστι καὶ ψυχρὰ διαφερόντως. Κατὰ γὰρ τὴν χειμερινὴν ὥραν ἐν ταῖς συννεφέσιν ἡμέραις ἀντὶ μὲν τῶν ὄμβρων χιόνι πολλῇ νίφεται, κατὰ δὲ τὰς αἰθρίας κρυστάλλῳ καὶ πάγοις ἐξαισίοις πλήθει, δι᾽ὧν οἱ ποταμοὶ πηγνύμενοι διὰ τῆς ἰδίας φύσεως γεφυροῦνται· οὐ μόνον γὰρ οἱ τυχόντες ὁδῖται κατ᾽ὀλίγους κατὰ τοῦ κρυστάλλου πορευόμενοι διαβαίνουσιν, ἀλλὰ καὶ στρατοπέδων μυριάδες μετὰ σκευοφόρων καὶ ἁμαξῶν γεμουσῶν ἀσφαλῶς περαιοῦνται. [3] Πολλῶν δὲ καὶ μεγάλων ποταμῶν ῥεόντωνδιὰ τῆς Γαλατίας καὶ τοῖς ῥείθροις ποικίλως τὴν πεδιάδα γῆν τεμνόντων, οἱ μὲν ἐκ λιμνῶν ἀβύσσωνῥέουσιν, οἱ δ᾽ἐκ τῶν ὀρῶν ἔχουσι τὰς πηγὰς καὶ τὰς ἐπιρροίας· τὴν δ᾽ἐκβολὴν οἱ μὲν εἰς τὸν ὠκεανὸν ποιοῦνται, οἱ δ᾽εἰς τὴν καθ᾽ἡμᾶς θάλατταν. [4] Μέγιστος δ᾽ἐστὶ τῶν εἰς τὸ καθ᾽ἡμᾶς πέλαγος ῥεόντων ὁ Ῥοδανός, τὰς μὲν πηγὰς ἔχωνἐν τοῖς Ἀλπείοις ὄρεσι, πέντε δὲ στόμασιν ἐξερευγόμενος εἰς τὴν θάλατταν. Τῶν δ᾽εἰς τὸν ὠκεανὸν ῥεόντων μέγιστοι δοκοῦσιν ὑπάρχειν ὅ τε Δανούβιος καὶ ὁ Ῥῆνος, ὃν ἐν τοῖς καθ᾽ἡμᾶς χρόνοις Καῖσαρ ὁ κληθεὶς θεὸς ἔζευξε παραδόξως, καὶ περαιώσας πεζῇ τὴν δύναμιν ἐχειρώσατο τοὺς πέραν κατοικοῦντας αὐτοῦ Γαλάτας. [5] Πολλοὶ δὲ καὶ ἄλλοι πλωτοὶ ποταμοὶ κατὰ τὴν Κελτικήν εἰσι, περὶ ὧν μακρὸν ἂν εἴη γράφειν. Πάντες δὲ σχεδὸν ὑπὸ τοῦ πάγου πηγνύμενοι γεφυροῦσι τὰ ῥεῖθρα, καὶ τοῦ κρυστάλλου διὰ τὴν φυσικὴν λειότητα ποιοῦντος τοὺς διαβαίνοντας ὀλισθάνειν, ἀχύρων ἐπιβαλλομένων ἐπ᾽αὐτοὺς ἀσφαλῆ τὴν διάβασιν ἔχουσιν.

Testa (forse di un dio). Argilla, 150 a.C. da Keltské Nálezy (Rep. Ceca).

25. [1] Dopo aver parlato del nome dei Galati, bisogna dire qualcosa anche sul loro territorio. La Galatia è abitata da molte tribù di diversa grandezza: quelle più grandi contano circa 200.000 uomini, mentre le più piccole 50.000; una di queste ultime è legata ai Romani da antica parentela e amicizia che si è conservata fino ai nostri tempi. [2] La regione, situata prevalentemente a settentrione, gode di un clima invernale ed è straordinariamente fredda; durante l’inverno, infatti, nei giorni nuvolosi, cade non pioggia bensì neve abbondante, mentre nei giorni di sereno v’è molto ghiaccio e gelo intenso, a causa del quale i fiumi, ghiacciati, si trasformano da soli in ponti: non soltanto i viandanti occasionali, in piccoli gruppi, li attraversano camminando sulla superficie gelata, ma anche interi eserciti con decine di migliaia di uomini, accompagnati da bestie da soma e da carri ricolmi, vi passano sopra indenni. [3] Attraverso la Galatia scorrono numerosi e ampi fiumi che tagliano variamente la pianura con i loro corsi; gli uni scorrono alimentati da laghi estesissimi, gli altri traggono origine e alimentazione dai monti; gli uni sboccano nell’oceano, gli altri nel nostro mare. [4] Il più grande fra quelli che scorrono fino al nostro mare è il Rodano, il quale nasce dalle Alpi e si getta in mare attraverso cinque bocche. Di quelli che scorrono verso l’oceano, i maggiori sembrano essere il Danubio e il Reno, sul quale, ai nostri tempi, Cesare, detto “il Divo”, gettò con meraviglia di tutti un ponte, vi fece passare a piedi l’esercito e assoggettò i Galati che abitavano oltre il fiume. [5] Nella terra dei Celti vi sono anche molti altri fiumi navigabili ma occorrerebbe troppo tempo per descriverli. Quasi tutti, però, solidificati dal gelo, trasformano i loro letti in ponti ma, poiché il ghiaccio, a causa della sua levigatezza, fa scivolare coloro che li attraversano, i locali vi spargono sopra della paglia e si rendono sicuro il passaggio.

26. [1] Ἴδιον δέ τι καὶ παράδοξον συμβαίνει κατὰ τὴν πλείστην τῆς Γαλατίας, περὶ οὗ παραλιπεῖν οὐκ ἄξιον ἡγούμεθα. Ἀπὸ γὰρ θερινῆς δύσεως καὶ ἄρκτου πνεῖν εἰώθασιν ἄνεμοι τηλικαύτην ἔχοντες σφοδρότητα καὶ δύναμιν, ὥστε ἀναρπάζειν ἀπὸ τῆς γῆς λίθους χειροπληθιαίους τοῖς μεγέθεσι καὶ τῶν ψηφίδων ἁδρομερῆ κονιορτόν· καθόλου δὲ καταιγίζοντες λάβρως ἁρπάζουσιν ἀπὸ μὲν τῶν ἀνδρῶν τὰ ὅπλα καὶ τὰς ἐσθῆτας, ἀπὸ δὲ τῶν ἵππων τοὺς ἀναβάτας. [2] Διὰ δὲ τὴν ὑπερβολὴν τοῦ ψύχους διαφθειρομένης τῆς κατὰ τὸν ἀέρα κράσεως οὔτ᾽οἶνον οὔτ᾽ἔλαιον φέρει· διόπερ τῶν Γαλατῶν οἱ τούτων τῶν καρπῶν στερισκόμενοι πόμα κατασκευάζουσιν ἐκ τῆς κριθῆς τὸ προσαγορευόμενον ζῦθος, καὶ τὰ κηρία πλύνοντες τῷ τούτων ἀποπλύματι χρῶνται. [3] Κάτοινοι δ᾽ὄντες καθ᾽ὑπερβολὴν τὸν εἰσαγόμενον ὑπὸ τῶν ἐμπόρων οἶνον ἄκρατον ἐμφοροῦνται, καὶ διὰ τὴν ἐπιθυμίαν λάβρῳ χρώμενοι τῷ ποτῷ καὶ μεθυσθέντες εἰς ὕπνον ἢ μανιώδεις διαθέσεις τρέπονται. Διὸ καὶ πολλοὶ τῶν Ἰταλικῶν ἐμπόρων διὰ τὴν συνήθη φιλαργυρίαν ἕρμαιον ἡγοῦνται τὴν τῶν Γαλατῶν φιλοινίαν. Οὗτοι γὰρ διὰ μὲν τῶν πλωτῶν ποταμῶν πλοίοις, διὰ δὲ τῆς πεδιάδος χώρας ἁμάξαις κομίζοντες τὸν οἶνον, ἀντιλαμβάνουσι τιμῆς πλῆθος ἄπιστον· διδόντες γὰρ οἴνου κεράμιον ἀντιλαμβάνουσι παῖδα, τοῦ πόματος διάκονον ἀμειβόμενοι.

Cernumno assiso in trono fra Apollo e Mercurio. Bassorilievo, calcare, I sec. d.C., da Reims.

 

26. [1] In gran parte della Galatia si verifica un fenomeno particolare e strano che non ci è sembrato opportuno trascurare. Dalla regione dove il sole tramonta e da settentrione, in estate, soffiano abitualmente dei venti di tale impetuosità e violenza da sollevare in alto da terra pietre grosse tanto da empire una mano e una fitta nube di pietrisco: insomma, questi venti, infuriando con veemenza, strappano agli uomini armi e vesti, strappano ai cavalli i cavalieri. Poiché il clima è vessato dal freddo eccessivo, la Galatia non produce né vino né olio. [2] Perciò, tra i Galati quanti sono sprovvisti di tali prodotti, ricavano dall’orzo una bevanda che si chiama zythos e fanno uso dell’acqua con cui lavano i favi di miele. [3] Ma, amando smodatamente il vino, bevono a sazietà e senza diluirlo quello importato dai mercanti; poiché ne fanno dunque un uso selvaggio, spinti dalla loro passione, si ubriacano e cedono al sonno o a stati di furore. Per questo molti mercanti italici, avidi come sempre, ritengono un dono di Ermes la passione dei Galati per il vino. Essi lo trasportano su barche, attraverso i fiumi navigabili, o su carri, attraverso la pianura, e ne ricevono in cambio un utile incredibilmente elevato: cedono un’anfora di vino e ricevono un ragazzino, scambiando, dunque, la bevanda con un servo.

27. [1] Kατὰ γοῦν τὴν Γαλατίαν ἄργυρος μὲν οὐ γίνεται τὸ σύνολον, χρυσὸς δὲ πολύς, ὃν τοῖς ἐγχωρίοις ἡ φύσις ἄνευ μεταλλείας καὶ κακοπαθείας ὑπουργεῖ. Ἡ γὰρ τῶν ποταμῶν ῥύσις σκολιοὺς τοὺς ἀγκῶνας ἔχουσα, καὶ τοῖς τῶν παρακειμένων ὀρῶν ὄχθοις προσαράττουσα καὶ μεγάλους ἀπορρηγνῦσα κολωνούς, πληροῖ χρυσοῦ ψήγματος. [2] Τοῦτο δ᾽οἱπερὶ τὰς ἐργασίας ἀσχολούμενοι συνάγοντες ἀλήθουσινἢ συγκόπτουσι τὰς ἐχούσας τὸ ψῆγμα βώλους, διὰ δὲ τῶν ὑδάτων τῆς φύσεως τὸ γεῶδες πλύναντες παραδιδόασιν ἐν ταῖς καμίνοις εἰς τὴν χωνείαν. [3] Τούτῳ δὲ τῷ τρόπῳ σωρεύοντες χρυσοῦ πλῆθος καταχρῶνται πρὸς κόσμον οὐ μόνον αἱ γυναῖκες, ἀλλὰ καὶ οἱ ἄνδρες. Περὶ μὲν γὰρ τοὺς καρποὺς καὶ τοὺς βραχίονας ψέλια φοροῦσι, περὶ δὲ τοὺς αὐχένας κρίκους παχεῖς ὁλοχρύσους καὶ δακτυλίους ἀξιολόγους, ἔτι δὲ χρυσοῦς θώρακας. [4] Ἴδιον δέ τι καὶ παράδοξον παρὰ τοῖς ἄνω Κελτοῖς ἐστι περὶ τὰ τεμένη τῶν θεῶν γινόμενον· ἐν γὰρ τοῖς ἱεροῖς καὶ τεμένεσιν ἐπὶ τῆς χώρας ἀνειμένοις ἔρριπται πολὺς χρυσὸς ἀνατεθειμένος τοῖς θεοῖς, καὶ τῶν ἐγχωρίων οὐδεὶς ἅπτεται τούτου διὰ τὴν δεισιδαιμονίαν, καίπερ ὄντων τῶν Κελτῶν φιλαργύρων καθ᾽ὑπερβολήν.

27. [1] In Galatia manca totalmente l’argento, ma c’è molto oro che la natura fornisce agli abitanti senza bisogno di miniere e patimenti. Infatti, la corrente dei fiumi, che attraversa anse tortuose e, urtando con violenza contro i fianchi dei monti adiacenti e strappando grossi massi, si riempie d’oro. [2] Gli addetti a tale attività lo raccolgono, frantumano le zolle che lo contengono, eliminano la terra con la forza dell’acqua e consegnano l’oro perché sia fuso nelle fornaci. [3] In questo modo accumulano una grande quantità d’oro e se ne servono come ornamento non solo le donne, ma anche gli uomini. Portano, infatti, intorno al collo, anelli di grande valore e persino corazze d’oro. [4] Presso i Celti del Nord accade un fenomeno particolare e strano riguardo ai recinti dedicati agli dèi: nei templi e nei santuari che si trovano sul territorio, giace abbandonato molto oro che è stato offerto agli dèi; nessuno degli abitanti lo tocca, impediti da timore religioso, per quanto i Celti siano persino troppo avidi di ricchezza.

Torque gallico. Bronzo e oro, 480 a.C. ca. da Vix (Francia). Historisches Museum Bern.

28. [1] Oἱ δὲ Γαλάται τοῖς μὲν σώμασίν εἰσιν εὐμήκεις, ταῖς δὲ σαρξὶ κάθυγροι καὶ λευκοί, ταῖς δὲ κόμαις οὐ μόνον ἐκ φύσεως ξανθοί, ἀλλὰ καὶ διὰ τῆς κατασκευῆςἐπιτηδεύουσιν αὔξειν τὴν φυσικὴν τῆς χρόας ἰδιότητα. [2] Τιτάνου γὰρ ἀποπλύματι σμῶντες τὰςτρίχας συνεχῶς καὶ ἀπὸ τῶν μετώπων ἐπὶ τὴν κορυφὴν καὶ τοὺς τένοντας ἀνασπῶσιν, ὥστε τὴν πρόσοψιν αὐτῶν φαίνεσθαι Σατύροις καὶ Πᾶσιν ἐοικυῖαν· παχύνονται γὰρ αἱ τρίχες ἀπὸ τῆς κατεργασίας, ὥστε μηδὲν τῆς τῶν ἵππων χαίτης διαφέρειν. [3] Τὰ δὲ γένεια τινὲς μὲν ξυρῶνται, τινὲς δὲ μετρίως ὑποτρέφουσιν· οἱ δ᾽εὐγενεῖς τὰς μὲν παρειὰς ἀπολειαίνουσι, τὰς δ᾽ὑπήνας ἀνειμένας ἐῶσιν, ὥστε τὰ στόματα αὐτῶν ἐπικαλύπτεσθαι. Διόπερ ἐσθιόντων μὲν αὐτῶν ἐμπλέκονται ταῖς τροφαῖς, πινόντων δὲ καθαπερεὶ διά τινος ἡθμοῦ φέρεται τὸ πόμα. [4] Δειπνοῦσι δὲ καθήμενοι πάντες οὐκ ἐπὶ θρόνων, ἀλλ᾽ἐπὶ τῆς γῆς, ὑποστρώμασι χρώμενοι λύκων ἢ κυνῶν δέρμασι. Διακονοῦνται δ᾽ὑπὸ τῶν νεωτάτων παίδων ἐχόντων ἡλικίαν, ἀρρένων τε καὶ θηλειῶν. Πλησίον δ᾽αὐτῶν ἐσχάραι κεῖνται γέμουσαι πυρὸς καὶ λέβητας ἔχουσαι καὶ ὀβελοὺς πλήρεις κρεῶν ὁλομερῶν. Τοὺς δ᾽ἀγαθοὺς ἄνδρας ταῖς καλλίσταις τῶν κρεῶν μοίραις γεραίρουσι, καθάπερ καὶ ὁ ποιητὴς τὸν Αἴαντα παρεισάγει τιμώμενον ὑπὸ τῶν ἀριστέων, ὅτε πρὸς Ἕκτορα μονομαχήσας ἐνίκησε, «Νώτοισιν δ᾽Αἴαντα διηνεκέεσσι γέραιρε». [5] Καλοῦσι δὲ καὶ τοὺς ξένους ἐπὶ τὰς εὐωχίας, καὶ μετὰ τὸ δεῖπνον ἐπερωτῶσι, τίνες εἰσὶ καὶ τίνων χρείαν ἔχουσιν. Εἰώθασι δὲ καὶ παρὰ τὸ δεῖπνον ἐκ τῶν τυχόντων πρὸς τὴν διὰ τῶν λόγων ἅμιλλαν καταστάντες, ἐκ προκλήσεως μονομαχεῖν πρὸς ἀλλήλους, παρ᾽οὐδὲν τιθέμενοι τὴν τοῦ βίου τελευτήν· ἐνισχύει γὰρ παρ᾽ αὐτοῖς ὁ Πυθαγόρου λόγος, [6] ὅτιτὰς ψυχὰς τῶν ἀνθρώπων ἀθανάτους εἶναι συμβέβηκε καὶ δι᾽ἐτῶν ὡρισμένων πάλιν βιοῦν, εἰς ἕτερον σῶμα τῆς ψυχῆς εἰσδυομένης. Διὸ καὶ κατὰ τὰς ταφὰς τῶν τετελευτηκότων ἐνίους ἐπιστολὰς γεγραμμένας τοῖς οἰκείοις τετελευτηκόσιν ἐμβάλλειν εἰς τὴν πυράν, ὡς τῶν τετελευτηκότων ἀναγνωσομένων ταύτας.

28. [1] I Galati sono alti di statura, muscoli flaccidi, pelle bianca, capelli naturalmente biondi ed essi, anche con artifici, sogliono accentuare la particolarità naturale del colore. [2] Lavano, infatti, frequentemente le chiome con acqua di calce e li tirano indietro dalla fronte alla sommità della testa e già fino alla nuca, così da sembrare simili nell’aspetto ai Satiri o a Pan: a seguito di questo trattamento, i capelli diventano tanto pesanti da non differire in nulla dalla criniera dei cavalli. [3] Alcuni radono la barba, altri la fanno un po’ crescere; i nobili radono le guance, lasciando crescere i baffi in modo tale da nascondere la bocca. Perciò quando mangiano, i baffi si riempiono di cibo, quando bevono, la bevanda passa come attraverso un filtro. [4] Tutti mangiano seduti non su sedili, ma per terra, adoperando come tappeti pelli di lupo o di cane. Sono serviti dai più giovani, maschi e femmine, che abbiano l’età adatta. Vicino a loro vi sono camini traboccanti di fuoco, con calderoni e spiedi pieni di pezzi di carne. Ricompensano gli uomini valorosi, donando loro i pezzi di carne migliori: e così il Poeta presenta Aiace, onorato dai capi quando riuscì vincitore nel duello con Ettore: «il filetto allungato lo donò in premio ad Aiace»[2]. [5] Invitano anche gli stranieri ai banchetti e dopo il pranzo chiedono loro chi siano e di che cosa abbiano bisogno. Anche durante il convito, venuti a diverbio per motivi occasionali, sono soliti sfidarsi e affrontarsi in duello, senza dare alcuna importanza alla morte. Presso di loro, infatti, si è imposta la dottrina pitagorica, [6] secondo la quale, le anime degli uomini sono immortali e, dopo un certo numero di anni, l’anima penetra in un altro corpo e torna a vivere. Perciò alcuni, in occasione di esequie funebri, gettano sul rogo le lettere che hanno scritto ai loro parenti morti, convinti che i defunti un giorno potranno leggerle.

Gaesate gallico. Illustrazione di Miłek Jakubiec.

 

29. [1] Ἐν δὲ ταῖς ὁδοιπορίαις καὶ ταῖς μάχαις χρῶνται συνωρίσιν, ἔχοντος τοῦ ἅρματος ἡνίοχον καὶ παραβάτην. Ἀπαντῶντες δὲ τοῖς ἐφιππεύουσιν ἐν τοῖς πολέμοις σαυνιάζουσι τοὺς ἐναντίους, καὶ καταβάντες τὴν ἀπὸ τοῦ ξίφους συνίστανται μάχην. [2] Ἔνιοι δ᾽αὐτῶν ἐπὶ τοσοῦτο τοῦ θανάτου καταφρονοῦσιν, ὥστε γυμνοὺς καὶ περιεζωσμένους καταβαίνειν εἰς τὸν κίνδυνον. Ἐπάγονται δὲ καὶ θεράποντας ἐλευθέρους ἐκ τῶν πενήτων καταλέγοντες, οἷς ἡνιόχοις καὶ παρασπισταῖς χρῶνται κατὰ τὰς μάχας. Κατὰ δὲ τὰς παρατάξεις εἰώθασι προάγειν τῆς παρατάξεως καὶ προκαλεῖσθαι τῶν ἀντιτεταγμένων τοὺς ἀρίστους εἰς μονομαχίαν, προανασείοντες τὰ ὅπλα καὶ καταπληττόμενοι τοὺς ἐναντίους. [3] Ὅταν δέ τις ὑπακούσῃ πρὸςτὴν μάχην, τάς τε τῶν προγόνων ἀνδραγαθίας ἐξυμνοῦσι καὶ τὰς ἑαυτῶν ἀρετὰς προφέρονται, καὶτὸν ἀντιταττόμενον ἐξονειδίζουσι καὶ ταπεινοῦσι καὶ τὸ σύνολον τὸ θάρσος τῆς ψυχῆς τοῖς λόγοις προαφαιροῦνται. [4] Τῶν δὲ πεσόντων πολεμίων τὰς κεφαλὰς ἀφαιροῦντες περιάπτουσι τοῖς αὐχέσι τῶν ἵππων· τὰ δὲ σκῦλα τοῖς θεράπουσι παραδόντες ᾑ μαγμένα λαφυραγωγοῦσιν, ἐπιπαιανίζοντες καὶ ᾄδοντες ὕμνον ἐπινίκιον, καὶ τὰ ἀκροθίνια ταῦτα ταῖς οἰκίαις προσηλοῦσιν ὥσπερ οἱ ἐν κυνηγίοις τισὶ κεχειρωμένοι τὰ θηρία. [5] Τῶν δ᾽ἐπιφανεστάτων πολεμίων κεδρώσαντες τὰς κεφαλὰς ἐπιμελῶς τηροῦσιν ἐν λάρνακι, καὶ τοῖς ξένοις ἐπιδεικνύουσι σεμνυνόμενοι διότι τῆσδε τῆς κεφαλῆς τῶν προγόνων τις ἢ πατὴρ ἢ καὶ αὐτὸς πολλὰ χρήματα διδόμενα οὐκ ἔλαβε. Φασὶ δέ τινας αὐτῶν καυχᾶσθαι διότι χρυσὸν ἀντίσταθμον τῆς κεφαλῆς οὐκ ἐδέξαντο, βάρβαρόν τινα μεγαλοψυχίαν ἐπιδεικνύμενοι· οὐ γὰρ τὸ μὴ πωλεῖν τὰ σύσσημα τῆς ἀρετῆς εὐγενές, ἀλλὰ τὸ πολεμεῖν τὸ ὁμόφυλον τετελευτηκὸς θηριῶδες.

29. [1] Nei viaggi e in battaglia essi si servono di cocchi a due cavalli, sui quali viaggiano un auriga e un guerriero. Quando in guerra s’imbattono in cavalieri nemici, lanciano contro di loro il giavellotto e, poi, scesi dal carro, li affrontano con la spada. [2] Alcuni di loro disprezzano a tal punto la morte da farsi incontro al pericolo nudi con addosso soltanto una fascia. Si fanno accompagnare anche da assistenti di nascita libera, scelti fra i poveri, dei quali si servono in combattimento come aurighi e scudieri. In occasione delle battaglie campali, sono soliti spingersi oltre la prima linea dello schieramento e sfidare a duello i più valorosi fra i nemici, scuotendo le armi per spaventare gli avversari. [3] Quando qualcuno accetta di combattere, celebrano con canti il coraggio degli avi e vantano il proprio valore; ingiuriano e umiliano l’avversario e, in generale, cercano di fargli perdere le staffe con insulti prima del combattimento. [4] Tagliano le teste dei nemici caduti in battaglia e le appendono ai finimenti del cavallo; consegnano ai servi le armi insanguinate e le portano via come bottino, innalzando un peana e un canto di vittoria; appendono con chiodi in casa queste prede di guerra, come quelli che hanno ucciso delle belve feroci a caccia. [5] Imbalsamano con olio di cedro le teste dei nemici più illustri e le custodiscono con cura in casse, mostrandole agli ospiti e vantandosi se qualcuno degli avi o i padri o loro stessi non vollero accettare il lauto riscatto offerto per la testa: dicono che alcuni di loro vadano orgogliosi per non aver accettato una quantità d’oro pari al peso della testa, mostrando così una certa barbarica magnitudo animi. Eppure, se è atto nobile non vendere la prova tangibile del proprio valore guerriero, è parimenti da belve continuare a far guerra a un morto che appartenga alla propria stirpe.

Illustrazione ricostruttiva di un tipico carro da guerra celta. A. McBride.

30. [1] Ἐσθῆσι δὲ χρῶνται καταπληκτικαῖς, χιτῶσι μὲν βαπτοῖς χρώμασι παντοδαποῖς διηνθισμένοις καὶ ἀναξυρίσιν, ἃς ἐκεῖνοι βράκας προσαγορεύουσιν· ἐπιπορποῦνται δὲ σάγους ῥαβδωτοὺς ἐν μὲν τοῖς χειμῶσι δασεῖς, κατὰ δὲ τὸ θέρος ψιλούς, πλινθίοις πυκνοῖς καὶ πολυανθέσι διειλημμένους. [2] Ὅπλοις δὲ χρῶνται θυρεοῖς μὲν ἀνδρομήκεσι, πεποικιλμένοις ἰδιοτρόπως· τινὲς δὲ καὶ ζῴων χαλκῶν ἐξοχὰς ἔχουσιν, οὐ μόνον πρὸς κόσμον, ἀλλὰ καὶ πρὸς ἀσφάλειαν εὖ δεδημιουργημένας. Κράνη δὲ χαλκᾶ περιτίθενται μεγάλας ἐξοχὰς ἐξ ἑαυτῶν ἔχοντα καὶ παμμεγέθη φαντασίαν ἐπιφέροντα τοῖς χρωμένοις, ὧν τοῖς μὲν πρόσκειται συμφυῆ κέρατα, τοῖς δὲ ὀρνέων ἢ τετραπόδων ζῴων ἐκτετυπωμέναι προτομαί. [3] Σάλπιγγας δ᾽ἔχουσιν ἰδιοφυεῖς καὶ βαρβαρικάς· ἐμφυσῶσι γὰρ ταύταις καὶ προβάλλουσιν ἦχον τραχὺν καὶ πολεμικῆς ταραχῆς οἰκεῖον. Θώρακας δ᾽ἔχουσιν οἱ μὲν σιδηροῦς ἁλυσιδωτούς, οἱ δὲ τοῖς ὑπὸ τῆς φύσεως δεδομένοις ἀρκοῦνται, γυμνοὶ μαχόμενοι. Ἀντὶ δὲ τοῦ ξίφους σπάθας ἔχουσι μακρὰς σιδηραῖς ἢ χαλκαῖς ἁλύσεσιν ἐξηρτημένας, παρὰ τὴνδεξιὰν λαγόνα παρατεταμένας. Τινὲς δὲ τοὺς χιτῶνας ἐπιχρύσοις ἢ καταργύροις ζωστῆρσι συνέζωνται. [4] Προβάλλονται δὲ λόγχας, ἃς ἐκεῖνοι λαγκίας καλοῦσι, πηχυαῖα τῷ μήκει τοῦ σιδήρου καὶ ἔτι μείζω τὰ ἐπιθήματα ἐχούσας, πλάτει δὲ βραχὺ λείποντα διπαλαίστων· τὰ μὲν γὰρ ξίφη τῶν παρ᾽ἑτέροις σαυνίων εἰσὶν οὐκ ἐλάττω, τὰ δὲ σαυνία τὰς ἀκμὰς ἔχει τῶν ξιφῶν μείζους. Τούτων δὲ τὰ μὲν ἐπ᾽εὐθείας κεχάλκευται, τὰ δ᾽ἑλικοειδῆ δι᾽ὅλων ἀνάκλασιν ἔχει πρὸς τὸ καὶ κατὰ τὴν πληγὴν μὴ μόνον τέμνειν, ἀλλὰ καὶ θραύειν τὰς σάρκας καὶ κατὰ τὴν ἀνακομιδὴν τοῦ δόρατος σπαράττειν τὸ τραῦμα.

30. [1] Fanno uso di vestiti terrificanti: tuniche tinte e ricamate con vari colori, pantaloni che essi chiamano brachæ; sulle spalle assicurano con fibbie dei mantelli a righe, pesanti d’inverno e leggeri d’estate, sui quali alternano fittamente quadrati di diversi colori. [2] Usano come armi scudi alti quanto un uomo, ornati in modo vario e particolare; alcuni di essi presentano figure bronzee di animali ben lavorate a sbalzo, non a scopo ornamentale, ma al fine di proteggere. Indossano sul capo elmi di bronzo, ornati con grandi figure a sbalzo, che danno un aspetto di grande imponenza a chi li usi: ad alcuni elmi sono applicate, in modo da formare un tutt’uno, delle corna, mentre su altri sono rappresentate teste d’uccello o di quadrupede. [3] Hanno trombe di tipo particolare e barbarico: soffiandovi dentro, emettono un suono aspro, adatto alla mischia di guerra. Gli uni portano corazze lavorate a maglia di ferro, altri ritengono sufficiente quanto hanno ricevuto dalla natura e vanno nudi in battaglia. Hanno spade non corte, ma lunghe, legate con catene di ferro o di bronzo e portate a destra. Alcuni hanno sulle tuniche cinture dorate o argentate. [4] Impugnano delle aste (loro le chiamano lanciæ), che hanno punte di ferro lunghe anche più di un cubito e larghe poco meno di due palmi. Le loro spade non sono più piccole dei giavellotti usati da altri popoli, i loro hanno la punta più larga di quella delle spade; alcuni giavellotti sono stati fabbricati con la punta dritta, altri presentano una ripiegatura tortuosa su tutta la punta, affinché non solo taglino per effetto del colpo, ma persino lacerino le carni e, tirando indietro l’asta, squarcino la ferita.

Spade hallstattiane. Disegno ricostruttivo di J.G. Ramsauer.

 

31. [1] Aὐτοὶ δ᾽εἰσὶ τὴν πρόσοψιν καταπληκτικοὶ καὶ ταῖς φωναῖς βαρυηχεῖς καὶ παντελῶς τραχύφωνοι, κατὰ δὲ τὰς ὁμιλίας βραχυλόγοι καὶ αἰνιγματίαικαὶ τὰ πολλὰ αἰνιττόμενοι συνεκδοχικῶς· πολλὰ δὲ λέγοντες ἐν ὑπερβολαῖς ἐπ᾽αὐξήσει μὲν ἑαυτῶν, μειώσει δὲ τῶν ἄλλων, ἀπειληταί τε καὶ ἀνατατικοὶ καὶ τετραγῳδημένοι ὑπάρχουσι, ταῖς δὲ διανοίαις ὀξεῖς καὶ πρὸς μάθησιν οὐκ ἀφυεῖς. [2] Εἰσὶ δὲ παρ᾽αὐτοῖς καὶ ποιηταὶ μελῶν, οὓς βάρδους ὀνομάζουσιν. Οὗτοι δὲ μετ᾽ὀργάνων ταῖς λύραις ὁμοίων ᾄδοντες οὓς μὲν ὑμνοῦσιν, οὓς δὲ βλασφημοῦσι. Φιλόσοφοί τέ τινές εἰσι καὶ θεολόγοι περιττῶς τιμώμενοι, οὓς δρουίδας ὀνομάζουσι. [3] Χρῶνται δὲ καὶ μάντεσιν, ἀποδοχῆς μεγάλης ἀξιοῦντες αὐτούς· οὗτοι δὲ διά τε τῆς οἰωνοσκοπίας καὶ διὰ τῆς τῶν ἱερείων θυσίας τὰ μέλλοντα προλέγουσι, καὶ πᾶν τὸ πλῆθος ἔχουσιν ὑπήκοον. Μάλιστα δ᾽ὅταν περί τινων μεγάλων ἐπισκέπτωνται, παράδοξον καὶ ἄπιστον ἔχουσι νόμιμον· ἄνθρωπον γὰρ κατασπείσαντες τύπτουσι μαχαίρᾳ κατὰ τὸν ὑπὲρ τὸ διάφραγμα τόπον, καὶ πεσόντος τοῦ πληγέντος ἐκ τῆς πτώσεως καὶ τοῦ σπαραγμοῦ τῶν μελῶν, ἔτι δὲ τῆς τοῦ αἵματος ῥύσεως τὸ μέλλον νοοῦσι, παλαιᾷ τινι καὶ πολυχρονίῳ παρατηρήσει περὶ τούτων πεπιστευκότες. [4] Ἔθος δ᾽αὐτοῖς ἐστι μηδένα θυσίαν ποιεῖν ἄνευ φιλοσόφου· διὰ γὰρ τῶν ἐμπείρων τῆς θείας φύσεως ὡσπερεί τινων ὁμοφώνων τὰ χαριστήρια τοῖς θεοῖς φασι δεῖν προσφέρειν, καὶ διὰ τούτων οἴονται δεῖν τἀγαθὰ αἰτεῖσθαι. [5] Οὐ μόνον δ᾽ἐν ταῖς εἰρηνικαῖς χρείαις, ἀλλὰ καὶ κατὰ τοὺς πολέμους τούτοις μάλιστα πείθονται καὶ τοῖς μελῳδοῦσι ποιηταῖς, οὐ μόνον οἱ φίλοι, ἀλλὰ καὶ οἱ πολέμιοι· πολλάκις δ᾽ἐν ταῖς παρατάξεσι πλησιαζόντων ἀλλήλοις τῶν στρατοπέδων καὶ τοῖς ξίφεσιν ἀνατεταμένοις καὶ ταῖς λόγχαις προβεβλημέναις, εἰς τὸ μέσον οὗτοι προελθόντες παύουσιν αὐτούς, ὥσπερ τινὰ θηρία κατεπᾴσαντες. Οὕτω καὶπαρὰ τοῖς ἀγριωτάτοις βαρβάροις ὁ θυμὸς εἴκει τῇσοφίᾳ καὶ ὁ Ἄρης αἰδεῖται τὰς Μούσας.

31. [1] Essi sono terrificanti nell’aspetto e hanno una voce sorda e molto aspra; sono di poche parole e oscuri nelle conversazioni [e alludono prevalentemente per sineddoche], chiacchieroni ed esagerati quando si tratti di aumentare i propri meriti e di sminuire quelli degli altri; sono spavaldi, minacciosi e teatrali, acuti nel pensare, disposti naturalmente ad apprendere. [2] Presso di loro vi sono anche poeti lirici, che chiamano “bardi”. Costoro, cantando con strumenti simili alle lire, celebrano alcuni personaggi e vituperano altri. Vi sono poi filosofi e teologi che godono di straordinario onore e si chiamano “druidi”. [3] Si servono anche d’indovini che ritengono degni di grande rispetto: questi predicono il futuro osservando il volo degli uccelli e sacrificando vittime; tutto il popolo è loro soggetto. Osservano un’usanza strana e terrificante, soprattutto quando devono indagare su qualche importante decisione: offrono in sacrificio un uomo e lo colpiscono con un coltello poco sopra il diaframma; l’uomo, colpito, cade a terra: osservando come cade, come le membra si contraggono, come scorra il sangue, gli indovini comprendono il futuro, mantenendosi fedeli in ciò a un modo di indagare antico e da molto tempo praticato. [4] È invalso l’uso presso di loro di non offrire sacrifici in assenza di un filosofo: a loro avviso, infatti, bisogna offrire primizie in ringraziamento agli dèi per mezzo di persone esperte della natura divina e che parlano – per così dire – la stessa lingua degli dèi; ritengono pure che occorra chiedere i favori con l’aiuto di tali esperti. [5] Non solo in pace, ma anche in tempo di guerra obbediscono ciecamente ai filosofi e ai poeti lirici, e obbediscono non solo agli amici ma anche ai nemici. Spesso, in occasione di battaglie campali, quando le armate si stanno avvicinando con le spade sguainate e le lance protese, essi avanzano nel mezzo e li fermano, come se stessero incantando delle belve. Così, anche fra i barbari più selvaggi, il furore cede alla sapienza e Ares ha rispetto delle Muse.

Carnyx. Bronzo, II-I sec. a.C. dal santuario di Tintignac (Francia).

32. [1] Χρήσιμον δ᾽ἐστὶ διορίσαι τὸ παρὰ πολλοῖς ἀγνοούμενον. Τοὺς γὰρ ὑπὲρ Μασσαλίας κατοικοῦντας ἐν τῷ μεσογείῳ καὶ τοὺς παρὰ τὰς Ἄλπεις, ἔτι δὲ τοὺς ἐπὶ τάδε τῶν Πυρηναίων ὀρῶν Κελτοὺς ὀνομάζουσι, τοὺς δ᾽ὑπὲρ ταύτης τῆς Κελτικῆς εἰς τὰ πρὸς ἄρκτον νεύοντα μέρη παρά τε τὸν ὠκεανὸν καὶ τὸ Ἑρκύνιον ὄρος καθιδρυμένους καὶ πάντας τοὺς ἑξῆς μέχρι τῆς Σκυθίας Γαλάτας προσαγορεύουσιν· οἱ δὲ Ῥωμαῖοι πάλιν πάντα ταῦτα τὰἔθνη συλλήβδην μιᾷ προσηγορίᾳ περιλαμβάνουσιν, ὀνομάζοντες Γαλάτας ἅπαντας. [2] Αἱ δὲ γυναῖκες τῶνΓαλατῶν οὐ μόνον τοῖς μεγέθεσι παραπλήσιοι τοῖς ἀνδράσιν εἰσίν, ἀλλὰ καὶ ταῖς ἀλκαῖς ἐνάμιλλοι. Τὰ δὲ παιδία παρ᾽αὐτοῖς ἐκ γενετῆς ὑπάρχει πολιὰκατὰ τὸ πλεῖστον· προβαίνοντα δὲ ταῖς ἡλικίαις εἰς τὸ τῶν πατέρων χρῶμα ταῖς χρόαις μετασχηματίζεται. [3] Ἀγριωτάτων δ᾽ὄντων τῶν ὑπὸ τὰς ἄρκτους κατοικούντων καὶ τῶν τῇ Σκυθίᾳ πλησιοχώρων, φασί τινας ἀνθρώπους ἐσθίειν, ὥσπερ καὶ τῶν Πρεττανῶν τοὺς κατοικοῦντας τὴν ὀνομαζομένην Ἴριν. [4] Διαβεβοημένης δὲ τῆς τούτων ἀλκῆς καὶ ἀγριότητος, φασί τινες ἐν τοῖς παλαιοῖς χρόνοις τοὺς τὴν Ἀσίαν ἅπασαν καταδραμόντας, ὀνομαζομένους δὲ Κιμμερίους, τούτους εἶναι, βραχὺ τοῦ χρόνου τὴν λέξιν φθείραντος ἐν τῇ τῶν καλουμένων Κίμβρων προσηγορίᾳ. Ζηλοῦσι γὰρ ἐκ παλαιοῦ λῃστεύειν ἐπὶ τὰς ἀλλοτρίας χώρας ἐπερχόμενοι καὶ καταφρονεῖν ἁπάντων. [5] Οὗτοι γάρ εἰσιν οἱ τὴν μὲν Ῥώμην ἑλόντες, τὸ δὲ ἱερὸν τὸ ἐν Δελφοῖς συλήσαντες, καὶ πολλὴν μὲν τῆς Εὐρώπης, οὐκ ὀλίγην δὲ καὶ τῆς Ἀσίας φορολογήσαντες, καὶ τῶν καταπολεμηθέντων τὴν χώραν κατοικήσαντες, οἱ διὰ τὴν πρὸς τοὺς Ἕλληνας ἐπιπλοκὴν Ἑλληνογαλάται κληθέντες, τὸ δὲ τελευταῖον πολλὰ καὶ μεγάλα στρατόπεδα Ῥωμαίων συντρίψαντες. [6] Ἀκολούθως δὲ τῇ κατ᾽αὐτοὺς ἀγριότητι καὶ περὶ τὰς θυσίας ἐκτόπως ἀσεβοῦσι· τοὺς γὰρ κακούργους κατὰ πενταετηρίδα φυλάξαντες ἀνασκολοπίζουσι τοῖς θεοῖς καὶ μετ᾽ἄλλων πολλῶν ἀπαρχῶν καθαγίζουσι, πυρὰς παμμεγέθεις κατασκευάζοντες. Χρῶνται δὲ καὶ τοῖς αἰχμαλώτοις ὡς ἱερείοις πρὸς τὰς τῶν θεῶν τιμάς. Τινὲς δ᾽αὐτῶν καὶ τὰ κατὰ πόλεμον ληφθέντα ζῷα μετὰ τῶν ἀνθρώπων ἀποκτείνουσιν ἢ κατακάουσιν ἤ τισιν ἄλλαις τιμωρίαις ἀφανίζουσι. [7] Γυναῖκας δ᾽ἔχοντες εὐειδεῖς ἥκιστα ταύταις προσέχουσιν, ἀλλὰ πρὸς τὰς τῶν ἀρρένων ἐπιπλοκὰς ἐκτόπως λυττῶσιν. Εἰώθασι δ᾽ἐπὶ δοραῖς θηρίων χαμαὶ καθεύδοντες ἐξ ἀμφοτέρων τῶν μερῶν παρακοίτοις συγκυλίεσθαι. Τὸ δὲ πάντων παραδοξότατον, τῆς ἰδίας εὐσχημοσύνης ἀφροντιστοῦντες τὴν τοῦ σώματος ὥραν ἑτέροις εὐκόλως προΐενται, καὶ τοῦτο αἰσχρὸν οὐχ ἡγοῦνται, ἀλλὰ μᾶλλον ὅταν τις αὐτῶν χαριζομένων μὴ προσδέξηται τὴν διδομένην χάριν, ἄτιμον ἡγοῦνται.

32. [1] È utile fare una distinzione ignorata da molti. Si chiamano Celti quelli che abitano nella regione interna a nord di Marsiglia, lungo le Alpi e sopra i Pirenei; si chiamano invece Galatai, quelli che sono stanziati al di sopra della «zona celtica», verso le terre settentrionali, sia lungo l’Oceano, sia lungo il monte Ercinio, e tutti gli altri di seguito fino alla Scizia. I Romani, invece, comprendono insieme sotto un’unica denominazione tutti questi gruppi etnici e li chiamano complessivamente Galli. [2] Le donne dei Galati non solo sono simili agli uomini nell’imponenza fisica ma possono competere con loro anche in coraggio. I loro bambini, quando nascono, sono per lo più di carnagione chiara; con il passare degli anni mutano colore fino ad assumere quello dei padri. [3] Essendo particolarmente selvaggi quelli di loro che abitano nel Nord e quelli che confinano con la Scizia, che alcuni di loro – si dice – mangino uomini, come i Britanni che popolano l’isola chiamata Iris[3]. [4] Ovunque sono rinomati il loro coraggio e la loro ferocia e, infatti, secondo alcuni, i popoli chiamati «Cimmeri», che in tempi antichi scorrazzarono per l’Asia intera, erano proprio i Galati, poiché la denominazione «Cimmeri» si corruppe presto in quella di «Cimbri», nome con il quale sono chiamati ancor oggi. Fin da tempi remoti essi amano assalire, depredare i territori altrui e disprezzare tutti. [5] Sono proprio loro, infatti, che presero Roma, saccheggiarono il santuario di Delfi, imposero tributi a gran parte dell’Europa e, persino, a non piccola parte dell’Asia, che si stanziarono sul territorio degli sconfitti e furono chiamati «Ellenogalli», per i loro stretti rapporti con i Greci, che infine distrussero molti e grandi eserciti dei Romani. [6] Proprio perché così selvaggi, essi si macchiano di rara empietà anche quando compiono sacrifici: dopo aver tenuto in prigionia i delinquenti per cinque anni, infatti, li impalano in onore degli dèi; alcuni di costoro vengono uccisi insieme con gli animali catturati in guerra, oppure li bruciano, o li sopprimono con qualche altro supplizio. [7] Pur avendo donne di gradevole aspetto, non se ne curano per niente ma vanno pazzi – oltre ogni dire – per le relazioni omosessuali. Hanno l’abitudine di dormire per terra o su pelli di animali e di voltolarsi con due compagni, uno per parte. La cosa più strana di tutte è la seguente: incuranti del decoro, concedono facilmente ad altri il proprio corpo nel fiore dell’età né ritengono turpe un simile atto, considerando piuttosto disonorevole che qualcuno non accetti il favore concesso quando essi siano disposti a compiacerlo.

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Note:

[1] Κελτική sta per Γαλατία; con questo termine l’autore si riferisce alla regione chiamata Gallia dai Romani. I Γαλάται sono dunque i Galli.

[2] (Il., VII 321).

[3] Ἶρις, cioè l’Irlanda (lat. Hibernia).

«Vae victis!»

da N. Sekunda – S. Northwood, La nascita di Roma (or. The Rise of Rome), Osprey Publishing. Madrid 2010. pp. 32-34.

L’espansione di Roma fu temporaneamente fermata dall’arrivo di un nuovo nemico da nord. Dall’inizio del V secolo a.C., le tribù di Celti e Galli avevano preso ad attraversare le Alpi e a minacciare gli insediamenti etruschi nella pianura del Po. La tradizione vuole che gli Insubri abbiano occupato Mediolanum nel 396 a.C. Attorno al 397 Brenno, il capo dei Galli, condusse i Senoni nella prima grande invasione gallica della penisola italica. Il suo grande e agguerrito esercito di barbari indisciplinati si fece strada distruggendo e saccheggiando fino all’Etruria, e assediò Clusium (l’odierna Chiusi).

Sebbene non fossero alleati dei Romani, gli abitanti di Chiusi ne chiesero l’aiuto, e Roma inviò tre delegati per negoziare le condizioni. Tuttavia, durante un’accesa discussione uno dei Romani, Quinto Fabio, uccise un capo gallico e la delegazione dovette ritirarsi in tutta fretta. Brenno ne chiese il ritorno; Roma non solo rifiutò, ma, secondo Livio, «coloro che avrebbero dovuto essere puniti furono invece nominati tribuni militari con poteri consolari per l’anno successivo». Ovviamente, i Galli inferociti minacciarono di vendicare l’insulto e marciarono su Roma.

Opliti romani in fuga da due guerrieri celti. Illustrazione di A. McBride.
Opliti romani in fuga da due guerrieri celti. Illustrazione di A. McBride.

Un esercito romano di circa 24.000 uomini fu inviato per controllare la loro avanzata; i due contingenti si scontrarono probabilmente nell’estate del 387 a.C., sulle rive del fiume Allia. I Romani misero in campo sei legioni. All’epoca, una legione era costituita da 4200 uomini, ma era raramente completa. L’esercito romano era una formazione militare con schieramento a falange greca che presentava al centro opliti pesanti (rappresentanti i cittadini romani più ricchi) e sui fianchi i coscritti più poveri e scarsamente armati. Forse i Romani furono sorpresi dalle insolite tattiche, oppure rimasero semplicemente terrorizzati dalla ferocia della carica dei Galli. Qualunque sia il motivo, i fianchi romani non riuscirono a resistere all’attacco furibondo e furono sbaragliati, lasciando che il centro venisse circondato e massacrato. Il centro era costituito da molti cittadini romani anziani, che sarebbero stati dolorosamente rimpianti durante l’imminente calamità. Ciò che rimaneva dell’esercito romano si ritirò disordinatamente verso la distrutta città di Veio.
Brenno marciò quindi su Roma e catturò l’intera città ad eccezione del Campidoglio, dove una guarnigione romana riuscì a tenergli testa. (Secondo la leggenda, la guarnigione fu avvisata dall’attacco dallo starnazzare delle oche sacre a Giunone). I Galli rapinarono e occuparono la città per sei mesi, saccheggiando le zone circostanti alla ricerca di viveri. I Romani disperati cercarono di riscattare la città con l’oro. Durante una disputa sulla precisione della bilancia che doveva verificarne la quantità, Brenno vi lanciò sopra la spada pronunciando le famose parole «Væ victis!» («Guai ai vinti!»).
Mentre Brenno e i Romani discutevano sul riscatto, il dittatore esiliato Camillo arrivò al momento giusto e rifiutò di concedere l’oro. Secondo la tradizione, Camillo gettò la sua spada nel piatto della bilancia e replicò a Brenno, «Non con l’oro, ma col ferro si riscatta la Patria!».
Camillo e le sue forze liberarono la città dagli invasori sconfiggendoli in una cruenta battaglia fuori le mura. I Galli si ritirarono verso nord e Camillo si guadagnò il titolo di Pater patriae (il secondo fondatore di Roma) per aver salvato la città.
L’invasione e il sacco di Roma del 387-86 a.C. non parevano aver avuto conseguenze negative per i Romani, tranne che per un timore e un odio viscerale nei riguardi dei “barbari” del nord. Furono costruite mura difensive ancora più solide a protezione dei sette colli e si diede inizio alla riforma dell’esercito, un’iniziativa che avrebbe determinato la superiorità sui nemici che usavano o antiche tattiche etrusche o, nel caso di bande disorganizzate di tribù di predatori, praticamente nessuna tattica. In tre anni, Roma avrebbe recuperato forze sufficienti per conquistare l’Etruria meridionale.
Camillo continuò a mietere successi in campo militare, dopo essere stato nominato nuovamente dittatore romano nel 385 a.C. Quando gli Etruschi assediarono Roma, egli li sconfisse sulle colline marciane appiccando il fuoco alle loro palizzate quando spirava il vento alle prime ore dell’alba. In seguito sconfisse i Volsci nella battaglia ad Mæcium (nei pressi di Lanuvium) e quindi gli Equi. Con Camillo, i Romani avevano dimostrato che le loro ambizioni erano adeguatamente supportate da una notevole forza militare.
Le successive guerre di Roma furono intraprese contro le città latine di Tivoli (Tibur) e Palestrina (Prænestre). Queste non avevano mai fatto parte della Lega latina, alleata di Roma, ma ora costituivano una minaccia al predominio romano nel Lazio, forse come difensori dei Latini contro Roma. Entrambe queste città furono definitivamente sconfitte nel 354 a.C. Poco tempo dopo, le concomitanti guerre in Etruria si conclusero con un successo: quarant’anni di tregue vennero assicurati a Cære (Cere) nel 353 e a Tarquinia e Falerii nel 351. Intrecci successivi avrebbero portato Roma ad operare in nuovi teatri di guerra.

Taranis, dio del tuono

Cesare afferma che i Galli conferiscono a Iuppiter (Giove) l’imperium caelestium, cioè il “comando supremo sui cieli”; secondo alcuni studiosi (quali Vittore Pisani, glottologo e studioso di religione celtica), questo nume è solitamente identificato con il dio celtico Taranis o Taranus, il dio del tuono. Egli è uno dei tre dèi che si ritrova menzionato in un passo di Lucano in Pharsalia, I.446, dove il poeta lo nomina insieme ad altri due numi, Teutates ed Esus, i quali, a suo parere, costituiscono una sorta di “triade” suprema. Due commentari tardo-antichi alla Pharsalia – i Commenta Bernensia e le Adnotationes super Lucanum – identificano entrambi Taranis celtico con “Giove” romano. A lui venivano offerti sacrifici umani.

Taranis, con fulmine e ruota celeste. Statuetta, bronzo, I secolo d.C. ca. da Le Châtelet de Gourzon (Bayard-sur-Marne). Musée d’archéologie nationale di Saint-Germain-en-Laye.

In qualità di Dio del Tuono, il suo nome è connesso all’anglosassone Þunor (cfr. norr. Þórr /Thor, a.a.ted. Donar, protogerm. *þunraz/*þonar-oz, irl. Tuireann, itt. Tarhun, trac. Zbel-thurdos, sami Horagalles). Propriamente il nome stesso di “Taranis” non è stato ancora scoperto dalle iscrizioni galliche, ma ne sono state trovate varianti simili (Taranucno-, Taranuo-, e Taraino-). Il lessico ricostruito del linguaggio Proto-celtico circa questo teonimo è *Toranos, cioè “tuono” (cfr. engl. thunder). Nell’odierno Galles, infatti, taranu significa “tuonare” e taran è il sostantivo corrispondente (cfr. le rispettive traduzioni in bret. taraniñ e taran; e irl. Tarann, “tuono”). Esso, secondo alcuni, è connesso lontanamente al greco antico ouranós (“ouranos”, cioè “cielo”), o più propriamente a toû ouranoû (“del cielo” o “dal cielo”), forse per indicare appunto l’origine del “tuono”.

Il simbolo della ruota – sicuramente una ruota da carro, a sei o otto raggi – è un attributo assai importante per il culto celtico antico, probabilmente associato ad un dio specifico, noto come Dio della ruota, da identificare con un nume celeste o solare, quale fu sicuramente Taranis. Numerose monete provenienti dalla Gallia identificano il dio con la ruota. Si ritiene che questo simbolo corrisponda ad un antico culto europeo praticato nell’Età del Bronzo, in onore del sole.