Il culto di Iside a Roma

Come nel Mediterraneo orientale, durante il periodo ellenistico, il culto di Iside attecchì presto in Sicilia, Sardegna e Italia, al punto che, nelle città portuali della Penisola, come Puteoli, Pompeii e Ostia, questa religione era ormai ben radicata intorno all’88 a.C. La fondazione di un Iseum a Pompei risale alla fine del II secolo a.C., così come un santuario dedicato alle divinità alessandrine fu eretto a Puteoli nel 105. Con il ritorno forzato dei mercanti italici dall’Oriente, a causa della guerra mitridatica, era solo questione di tempo perché il culto isiaco da essi abbracciato si diffondesse e si affermasse anche in Roma: Lucio Apuleio racconta che il primo collegium pastophorum dell’Urbe fu istituito ai tempi di Silla (Apul. Met.  XI 30). La religione della dea, comunque, conobbe in età repubblicana vicende alterne: le reazioni contro il culto isiaco negli anni 58, 53 e 48 a.C. (Tert. Ad nat. 1, 10; DCass. XL 47; XLII 26) furono di natura eminentemente politica, visto che l’élite senatoria si sentiva sempre più limitata nell’esercizio del potere. Infatti, una delle prerogative del venerando consesso consisteva nell’approvazione e nell’introduzione di culti stranieri nel sistema religioso romano. In quelle occasioni, fu la rivendicazione dei propri privilegi e la salvaguardia della propria autorità a indurre i patres a sanzionare la soppressione e l’espulsione delle associazioni isiache da Roma. Tuttavia, l’approvazione e l’inaugurazione di un tempio votato alla dea da parte del secondo collegio triumvirale nel 43 a.C. dimostra chiaramente che il culto di Iside non era scomparso del tutto (DCass. XLVII 15, 4). Dopo la vittoria di Ottaviano ad Azio e il consolidamento del suo potere, il princeps varò due provvedimenti (nel 28 e nel 21 a.C.: DCass. LIII 2, 4; LIV 6, 6) con i quali bandì la religione isiaca dall’Urbe: queste disposizioni rientravano a pieno titolo nel suo programma di restitutio rei publicae e di restaurazione del mos maiorum, in una fase di definizione dell’autorità e dei poteri del primo imperatore.

Frederick Arthur Bridgman, Navigium Isidis. Olio su tela, 1902.

Il decreto di Tiberio di proibire a Roma le religioni straniere e le cerimonie egizie e giudaiche, espellendone i cultori (Tac. Ann. II 85, 4; Ios. AI XVIII 72; Suet. Tib. 36, 1), può essere inteso come un’ulteriore misura atta a preservare la morale tradizionale, sebbene sia più probabile che fosse legato agli eventi occorsi in Egitto nell’inverno 18-19 d.C., in occasione del soggiorno di Germanico nel Paese: il figlio adottivo dell’imperatore, infatti, aveva visitato il Paese per conoscerne le antichità, ma sembra che il reale motivo di quel viaggio fosse la carestia che vessava l’Egitto. Così, Germanico aveva ordinato l’apertura dei granai di Stato, facendo diminuire il prezzo delle derrate alimentari. Queste disposizioni, insieme ad altri atteggiamenti tenuti dal condottiero, suscitarono la disapprovazione del principe, anche perché Germanico era entrato in Alessandria, trasgredendo le disposizioni di Augusto e senza l’autorizzazione del principe (Tac. Ann. II 59). A ogni modo, l’allontanamento dall’Urbe dei seguaci di Iside e dei giudei fu un atto pubblico che Tiberio assunse per confermare la propria autorità politica e religiosa, come garante dell’ordine. La taccia di superstitio, che da allora colpì il culto isiaco, decadde con il consolidamento del principato e la progressiva assimilazione dell’Egitto come parte integrante dell’Impero romano. Difatti, già nell’ultimo periodo di Caligola la religione della dea fece il suo ingresso ufficiale a Roma, quando fu eretto il tempio di Iside Campense in Campo Marzio e all’inizio del principato di Claudio il culto fu riconosciuto tra i sacra publica.

Iside. Statua, marmo, prima metà del II secolo. Roma, Musei Capitolini.

Il legame tra Iside e la domus Augusta si rafforzò durante il governo di Vespasiano: questi, non a caso, era stato acclamato imperator dalle truppe di stanza ad Alessandria il 1 luglio del 70 (Ios. BI IV 10, 6) e, in seguito, aveva trascorso la notte prima del trionfo congiunto con il figlio Tito nell’Iseum Campense (Ios. BI VII 5, 3-6; Suet. Vesp. 8). La devozione e l’atteggiamento di pietas rivolto alle divinità alessandrine, mostrati dalla gens Flavia, si manifestarono dopo l’incendio dell’80, con la ricostruzione del santuario voluta da Domiziano (DCass. LXVI 24, 2; Eutrop. VII 23, 5). Tre iscrizioni romane rivelano il collegamento fra Marco Aurelio e gli dèi alessandrini, benché l’imperatore non ne fosse un diretto cultore (CIL 6, 570; 573; IG XIV 1024 = IGRR 2, 101). Nel corso del II secolo il culto isiaco si estese attraverso la città portuali e le vie militari in tutte le province dell’Impero, raggiungendo anche la Germania meridionale e il Noricum, in particolare dopo la vittoria di Marco Aurelio su Quadi e Marcomanni (DCass. LXXI 8). Dopo gli interventi di restauro al tempio in Campo Marzio voluti da Severo Alessandro (SHA Alex. 26, 8), la religione della dea rimase in vita fino all’abolizione dei culti tradizionali e l’avvento del Cristianesimo.

Il sacerdote di Iside e alcuni fedeli durante una cerimonia. Affresco, I secolo, da Ercolano. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Due sono le grandi festività associate alla dea Iside durante l’età imperiale romana: il cosiddetto navigium Isidis (o πλοιαφέσια), celebrato il 5 marzo (Apul. Met. XI 8-17; Lyd. Mens. 4, 45), e l’inventio (εὕρεσις) Osiridis, che si teneva dal 28 ottobre al 3 novembre; entrambe le solennità erano strettamente connesse al mito egizio di Iside e Osiride. La ricorrenza di primavera, stagione che coincideva con la ripresa della navigazione marittima, ricordava il viaggio di Iside a Biblo, in Libano, per ritrovare lo sposo Osiride. Apuleio fornisce una descrizione piuttosto vivace della processione mascherata (Apul. Met. VIII 17). L’altra cerimonia, con la sua progressione dal dolore alla gioia, commemorava la conclusione della ricerca di Iside con il ritrovamento del cadavere smembrato del divino marito, la sua ricomposizione e la sua resurrezione. Diversamente, i riti misterici legati alla dea sono, per loro stessa natura, difficili da spiegare: sempre Apuleio (Met. XI) a tal proposito traccia un ampio quadro dei rituali preparatori (comando onirico dell’iniziazione, bagno lustrale, digiuno, vestizione con il lino) e le cerimonie conclusive (vestizione con le dodici – cosmiche? – vesti, presentazione dell’iniziato alla comunità dei fedeli), ma si limita a circoscrivere il rito notturno come una sorta di viaggio nell’Oltretomba, l’incontro con la morte e gli dèi inferi.

Scena del Navigium Isidis. Affresco, I secolo, dal Sacrarium del tempio di Iside a Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Le comunità isiache presentavano un collegio di cinque intermediari del culto, variamente detti antistites o παστοφόροι, capeggiati da un sacerdote superiore e ben distinguibili durante le processioni grazie ai paramenti indossati (Apul. Met. XI 10). Ciascun ministro di culto, uomo o donna, ricopriva questa onorificenza per almeno un anno e in certi casi perfino a vita. Nelle iscrizioni votive e nelle dediche onorifiche compaiono figure di custodi templari, come νεωκόροι o ζάκοροι, che probabilmente assistevano anche gli officianti durante i sacrifici. I παστοφόροι (“portatori di reliquie”) di cui si ha notizia in Occidente erano equiparati agli ἱεροφόροι e agli ἁγιοφόροι di altre religioni. Ad Alessandria il grande sacerdote della dea era noto come προφήτης e inferiore a lui di un grado nella gerarchia compariva lo στολιστής (“vestitore”). Si possiede un’unica testimonianza di una ornatrix fani (“decoratrice del santuario”) in Occidente (SIRIS 731).

Sacerdote tenente nelle mani una corona di rose con serpente. Affresco, I secolo, dal Tempio di Iside a Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Allo στολιστής era direttamente subordinato lo scriba della comunità (Apul. Met. XI 17), che però, come gli astrologi (ὡροσκόποι, ὡρολόγοι) e i cantori (ὑμνῳδοί), non trova attestazione al di fuori dell’Egitto. C’erano poi i cosiddetti θεραπευταί o cultores, gli adepti privi di rango o funzione nella gerarchia. Infine, sui reperti epigrafici compaiono figure variamente note come ναύαρχοι o ναυβάται: si trattava spesso di membri del culto che officiavano la πλοιαφέσια. Nel complesso, si può notare come i sacerdoti quanto i funzionari delle associazioni cultuali laici potessero essere insigniti delle medesime dignità. Spesso non tutti i dedicanti o i destinatari di un’iscrizione erano iniziati al culto della dea: anzi, la maggior parte dei documenti iscritti è costituita da ex voto prodotti da fedeli e da cultori, mentre le epigrafi ufficiali (soprattutto quelle pro salute imperatoris) erano di natura eminentemente politica.

Iside. Statua, marmo, prima metà del I sec. d.C. dall’angolo nordorientale del porticus nel tempio di Iside a Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Ora, in tutti gli aspetti del culto, del mito e dell’immagine di Iside predominano gli elementi egiziani: nell’antico Egitto ella era una divinità salvatrice, legata alla fertilità della terra, e la concezione di lei come guaritrice, protettrice e madre era assai diffusa in tutto il Mediterraneo antico. Le statue di epoca ellenistica e imperiale la ritraggono come una divinità greca o romana, assimilata a Demetra/Cerere, ma i tratti caratteristici sono la presenza dell’ankh nella mano sinistra, simbolo egizio della vita, e vesti molto aderenti, che lasciano intravedere le curve. L’erotismo fu senz’altro una componente che contribuì al sincretismo fra la dea e Afrodite/Venere. D’altra parte, la statua di Iside, ora conservata presso i Musei Capitolini, mostra una dea pienamente romanizzata: ella è raffigurata con un’acconciatura tipicamente romana con i capelli coperti da un velo, un segno di rispettabilità degno di una matrona dell’alta società. Sembra che il culto di Iside abbia inciso profondamente sulla cultura occidentale nell’epoca della praeparatio evangelica, proponendo l’immagine di una figura femminile materna che allatta il bambino (Horus), capace di infondere pace e serenità.

L’antropologo inglese James George Frazer (1854-1941) individuò interessanti analogie tra il culto di Iside e quello cristiano della Vergine Maria, avanzando l’ipotesi che la religione dell’Antico Egitto possa aver influenzato il simbolismo cattolico e le sue astrazioni teologiche:

«I Greci concepivano Iside come divinità del grano, identificandola con Demetra. Un epigramma greco la descrive come “colei che ha partorito i frutti della Terra” e come “madre delle spighe di grano”, e, in un inno composto in suo onore, lei stessa si definisce “regina dei campi di grano”, e viene identificata come “colei che si prende cura del sentiero ricco di grano del solco fecondo”. Spesso, quindi, gli artisti greci e romani la raffiguravano con spighe di grano fra i capelli o tra le mani. Possiamo dunque supporre che, anticamente, Iside fosse un’agreste madre del grano, adorata con ingenue cerimonie dai contadini egiziani. Ma sarebbe difficile rintracciare le rustiche fattezze della zotica dea nell’elegante e ieratica immagine, affinata da secoli di evoluzione religiosa, che si presentava ai suoi fedeli in epoca assai più tarda: moglie fedele, tenera madre, benefica sovrana della natura, circonfusa da un nimbo di purezza morale, di arcaica e misteriosa santità. Così purificata e trasfigurata, conquistò molti cuori, ben oltre i confini della sua terra natale. In quella babele di religioni che accompagnò il declino della vita nazionale dell’antichità, il suo culto fu uno dei più popolari a Roma e in tutto l’Impero. Perfino alcuni imperatori romani le furono apertamente devoti. E, benché la religione di Iside, come altre religioni, possa spesso essere servita da copertura a uomini e donne di liberi costumi, i suoi riti ci appaiono, nel complesso, contraddistinti da una dignitosa compostezza, una decorosa solennità, pienamente idonee a placare una mente turbata, a lenire un cuore oppresso. Essi attiravano quindi le anime sensibili, soprattutto le donne, disgustate e scandalizzate dai riti cruenti e licenziosi di altre divinità orientali. Non fa meraviglia quindi che, in un’epoca di decadenza, quando ogni fede tradizionale era scossa, quando i sistemi crollavano, le menti erano turbate e il tessuto stesso dell’Impero, considerato un tempo eterno, cominciava a mostrare strappi e lacerazioni sinistre, la serena immagine di Iside, con la sua pacatezza spirituale, la sua benevola promessa di immortalità, apparisse agli occhi di molti come una stella in un cielo tempestoso, suscitando nei loro cuori una devozione estatica non dissimile da quella che, nel Medioevo, fu tributata alla Vergine Maria. In realtà, il suo rituale solenne, con i sacerdoti sbarbati e tonsurati, i suoi mattutini e i suoi vespri, la sua musica argentina e melodiosa, il battesimo e l’aspersione con l’acqua santa, le imponenti processioni, le immagini ingioiellate della Madre di Dio, presentavano molti punti in comune con le pompe e le cerimonie del Cattolicesimo. E non è detto che si tratti di una somiglianza puramente accidentale. L’antico Egitto può aver contribuito al sontuoso simbolismo della Chiesa cattolica e alle sue rarefatte astrazioni della sua teologia. Senza dubbio nell’iconografia, l’immagine di Iside che allatta il bimbo Horo è così simile a quella della Madonna col Bambino che, a volte, riceveva l’adorazione di cristiani inconsapevoli. E a Iside, nella sua successiva connotazione di patrona dei marinai, la Vergine Maria deve forse il suo stupendo appellativo di Stella Maris, con cui la invocavano i naviganti nella tempesta. Gli attributi della divinità marina vennero forse conferiti a Iside dai navigatori greci di Alessandria. Sono totalmente estranei alle caratteristiche innate e alle abitudini degli Egizi che non amavano il mare. In base a questa ipotesi Sirio, l’astro di Iside che sorge dalle acque del Mediterraneo orientale, foriero di un cielo sereno, era per i naviganti la vera Stella Maris, la “Stella del Mare”».

(J.G. Frazer, Il ramo d’oro, Roma 1992, 436-437)

Isis lactans. Affresco, IV secolo, dalle rovine di un’abitazione a Karanis (Egitto).

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Come bisogna impartire i primi insegnamenti (Quint. Inst. I 1, 1-7)

Il pensiero che sta alla base dell’Institutio oratoria di Quintiliano mostra che l’autore non si accontentò del proprio ruolo di intellettuale-funzionario e rifiutò orgogliosamente e con coerenza di considerare l’oratoria come semplice strumento dell’amministrazione imperiale. Al contrario, sul grande modello di Cicerone, anch’egli attribuiva alla formazione retorica il valore centrale di un’educazione globale, che facesse del cittadino essenzialmente un individuo morale.

Nel primo capitolo dell’opera, che i grammatici medievali hanno trasmesso sotto il titolo di Quemadmodum prima elementa tradenda sunt, Quintiliano esamina quella che deve essere l’educazione del futuro oratore dai primissimi anni di vita fino ai sette anni, quando il bambino cominciava a frequentare il ludus litterarius, corrispondente all’odierna scuola primaria; l’autore spiega che occorre avere la massima cura per la formazione dei bambini, che sono tutti – per la stessa predisposizione naturale – portati a imparare e a usare il pensiero. Primo degli scrittori latini di cui si ha notizia a occuparsene, Quintiliano passa in esame i più importanti problemi pedagogici inerenti alla prima infanzia, discutendo delle doti e delle capacità di nutrici e tutori, raccomandando agli stessi genitori una buona preparazione culturale e analizzando quale sia l’età più adatta per introdurre i bambini agli studi.

Siccome la prima età è estremamente duttile rispetto a ciò che le viene proposto, bisogna evitare che le persone con cui l’infante si relaziona possano trasmettergli insegnamenti sbagliati, che sarebbero difficili da correggere in seguito. Per questo è bene che le nutrici, i genitori e i pedagoghi (per lo più servi di origine greca che svolgevano il ruolo di maestri nell’ambito domestico) siano non solo moralmente irreprensibili, ma anche il più possibile colti e corretti, anche nel linguaggio.

In questo capitolo, l’Institutio oratoria offre un’idea abbastanza chiara di quello che doveva essere l’insegnamento in Roma antica e delle idee di Quintiliano in proposito. L’autore, infatti, appare come un educatore umano e comprensivo, ottimisticamente convinto – e lo dice quasi fin da subito – che nessuno sia del tutto negato per lo studio.

Una madre che allatta il figlio alla presenza del padre (dettaglio). Rilievo, marmo, 150 d.C. dal sarcofago di M. Cornelio Stazio. Paris, Musée du Louvre.

[1, 1] Igitur nato filio pater spem de illo primum quam optimam capiat: ita diligentior a principiis fiet. falsa enim est querela, paucissimis hominibus uim percipiendi quae tradantur esse concessam, plerosque uero laborem ac tempora tarditate ingenii perdere. nam contra plures reperias et faciles in excogitando et ad discendum promptos. quippe id est homini naturale, ac sicut aues ad uolatum, equi ad cursum, ad saeuitiam ferae gignuntur, ita nobis propria est mentis agitatio atque sollertia: unde origo animi caelestis creditur. [2] Hebetes uero et indociles non magis secundum naturam hominis eduntur quam prodigiosa corpora et monstris insignia, sed hi pauci admodum fuerunt. argumentum, quod in pueris elucet spes plurimorum: quae cum emoritur aetate, manifestum est non naturam defecisse sed curam. «Praestat tamen ingenio alius alium». [3] Concedo; sed plus efficiet aut minus: nemo reperitur qui sit studio nihil consecutus. hoc qui peruiderit, protinus ut erit parens factus, acrem quam maxime datur curam spei futuri oratoris inpendat. [4] Ante omnia ne sit uitiosus sermo nutricibus: quas, si fieri posset, sapientes Chrysippus optauit, certe quantum res pateretur optimas eligi uoluit. et morum quidem in his haud dubie prior ratio est, recte tamen etiam loquantur. [5] Has primum audiet puer, harum uerba effingere imitando conabitur, et natura tenacissimi sumus eorum quae rudibus animis percepimus: ut sapor quo noua inbuas durat, nec lanarum colores quibus simplex ille candor mutatus est elui possunt. et haec ipsa magis pertinaciter haerent quae deteriora sunt. nam bona facile mutantur in peius: quando in bonum uerteris uitia? non adsuescat ergo, ne dum infans quidem est, sermoni qui dediscendus sit. [6] In parentibus uero quam plurimum esse eruditionis optauerim. nec de patribus tantum loquor: nam Gracchorum eloquentiae multum contulisse accepimus Corneliam matrem, cuius doctissimus sermo in posteros quoque est epistulis traditus, et Laelia C. filia reddidisse in loquendo paternam elegantiam dicitur, et Hortensiae Q. filiae oratio apud triumuiros habita legitur non tantum in sexus honorem. [7] Nec tamen ii quibus discere ipsis non contigit minorem curam docendi liberos habeant, sed sint propter hoc ipsum ad cetera magis diligentes.

Ercole bambino uccide i serpenti. Affresco pompeiano. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

[1, 1] Ordunque, un padre, appena gli è nato un figlio, concepisca per lui le migliori speranze possibili: così ne avrà più cura fin dagli inizi della sua educazione. Falsa è, infatti, la lamentela, che a pochissimi sia stata concessa la capacità di assimilare ciò che viene insegnato e che, invece, i più perdano tempo e fatica per lentezza d’ingegno. Vero è, al contrario, che si trovano tanti dotati di buona penetrazione e inclini a imparare. Perché ciò è naturale per l’uomo; e a quella guisa che gli uccelli sono generati per volare, i cavalli per correre, le fiere per incrudelire, così è tipicamente nostra la solerte attività dello spirito, per cui si crede che l’animo umano abbia origine divina. [2] Quelli duri di comprendonio, invece, e coloro che sono refrattari all’apprendimento non sono conformi alla natura umana più di quanto non lo siano i corpi anomali e straordinari per mostruosità, ma costoro sono sempre stati una rarità. Prova, questa, del fatto che nei ragazzi brilla la speranza di moltissime possibilità: e, quando queste svaniscono con il passare degli anni, è chiaro che è venuta meno non la natura, ma la diligenza degli educatori. «Non tutti hanno la stessa intelligenza». [3] D’accordo; ma conseguirà risultati più o meno buoni: non si trova nessuno che non abbia raggiunto con l’applicazione una pur minima meta. Chi si sarà ben reso conto di ciò, non appena divenuto genitore, dedichi la maggiore attenzione che si possa avere alla speranza del futuro oratore. [4] Tanto per cominciare, le nutrici dovranno esprimersi con un linguaggio corretto: di loro Crisippo si augurava che fossero, se possibile, esperte di filosofia o, quantomeno, voleva che si scegliessero le migliori, per quanto permesso dalle circostanze. Non c’è dubbio che per prima cosa bisogna tener conto della loro moralità: occorre però che parlino anche correttamente. [5] È la nutrice che il bambino ascolterà per prima, sono le sue parole che egli cercherà di ripetere balbettando. E per natura noi siamo attaccatissimi alle prime suggestioni dell’innocenza: così come il sapore, del quale si impregnano i recipienti nuovi, rimane persistente né si potrà mai più cancellare la tinta della lana, che ne ha mutato l’originario candore. Il guaio è che proprio le suggestioni peggiori restano maggiormente impresse. Ciò che è buono si cambia facilmente nel peggio: quando mai potresti trasformare i difetti in virtù? Perciò, l’allievo, nemmeno finché è ancora nell’infanzia, si abitui a un linguaggio che dovrebbe poi disimparare. [6] Sarebbe ugualmente auspicabile che i genitori fossero istruiti quanto più possibile. E non parlo solo del padre. È noto, per esempio, che alla formazione oratoria dei Gracchi contribuì non poco la madre Cornelia, il cui stile coltissimo è stato tramandato anche ai posteri per mezzo delle sue lettere; e si dice che Lelia, figlia di Gaio, si esprimeva nel parlare con la medesima raffinatezza del padre; l’orazione tenuta da Ortensia, figlia di Quinto, davanti ai Triumviri si legge ancora oggi e non solo in omaggio al suo sesso. [7] Ciò non vuol dire che coloro ai quali non toccò in sorte di poter studiare essi stessi debbano aver minore cura nell’educazione dei figli; anzi, proprio per questo dovranno essere più attenti in tutto il resto.

Contrariamente alla pratica degli altri trattati antichi sull’eloquenza, che si concentravano sulla formazione oratoria in senso tecnico (quella che cominciava alla sequela di un rhetor professionista), l’Institutio quintilianea prende le mosse proprio dall’infanzia del futuro oratore, dedicando pagine celebri all’educazione domestica. Dopo il proemio, che enuncia e chiarisce gli obiettivi che sostengono la composizione dell’opera e ne riporta il piano complessivo, tutto il primo capitolo del I libro è dedicato ai criteri che devono regolare la scelta e la cura dell’ambiente umano più idoneo alla crescita culturale e personale del bambino, nell’ipotesi di base che qualsiasi individuo possa, in futuro, diventare un oratore perfetto. L’interesse particolare insito in questa pagina sta, oltre che nelle consuete ragioni specifiche interne all’opera e al profilo dell’autore, nel fatto che precedenti trattati pedagogici a cui Quintiliano può essersi ricollegato sono andati perduti (tra gli altri, il Περὶ παίδων ἀγωγῆς, De liberis educandis di Crisippo di Soli, a cui l’autore fa espressamente riferimento, talvolta per dissentirne); dunque, si devono a questa sezione alcune delle nozioni pervenute sugli orientamenti pedagogici e didattici del mondo antico.

L’invito iniziale al padre rientra nel più ampio quadro di quella pedagogia tesa verso un ideale di perfezione, al quale Quintiliano si attiene scrupolosamente, riprendendo e approfondendo uno spunto già ciceroniano. A tale perfezione ideale possono teoricamente accedere tutti; dunque, gli educatori dovranno trattare qualsiasi bambino come potenzialmente diretto a raggiungerla. È vero che non tutti hanno le stesse qualità intellettuali, ma ognuno può ottenere significativi risultati attraverso lo studio (parr. 1-3).

Scena di allattamento. Statuetta, terracotta, II-III sec. d.C., da Bordeaux. Saint-Germain-en-Laye, Musée Archéologie Nationale.

E così, Quintiliano inizia le proprie raccomandazioni a partire dai primi contatti che il bambino ha con il mondo delle parole: l’ambiente domestico con le balie (parr. 4-5). Nutrix va inteso in senso più ampio di quello di «balia che allatta», e cioè come «governante», quella figura che si prendeva cura dei bambini anche successivamente all’allattamento; poteva essere una serva di origini greche e allora aveva il compito di familiarizzare i piccoli con la sua lingua-madre (i sostenitori della tradizione erano contrari a quest’impiego, preferendo che le madri stesse provvedessero all’allattamento, alla cura e all’educazione dei figli). Quest’importanza accordata alla correttezza linguistica delle nutrici pare interesse autenticamente quintilianeo ed è legato alla constatazione che il primo approccio del bambino al linguaggio avviene per imitazione.

Dopo aver parlato delle nutrici, l’autore passa ai genitori (parr. 6-7), per i quali insiste particolarmente sull’importanza anche della partecipazione materna alla formazione dell’infante (nec de patribus tantum loquor), adducendo exempla illustri di madri colte.

L’incipit dell’Institutio manifesta con evidenza, sul piano stilistico, la ricerca di chiarezza e armoniosità che Quintiliano persegue sul modello ciceroniano. Alcuni nessi e scelte terminologiche infatti sono ripresi dall’Arpinate. Per esempio, tarditate ingenii è nesso già ciceroniano (cfr. Cic. orat. 229); agitatio, deverbativo di agito (frequentativo di ago), si trova più di una volta nel lessico filosofico di Cicerone, in riferimento alla mens con il significato appunto di «attività»; si è ben lontani dal senso negativo che Seneca attribuiva al termine o ai suoi sinonimi, in riferimento all’assenza di equilibrio interiore.

Per quanto riguarda la costruzione del periodo, si nota il chiasmo et facile in excogitando et ad discendum promptos (I 1, 1), che accosta i due gerundi con variatio del caso. Tutto il paragrafo si segnala per la ricerca accurata di concinnitas. Un altro chiasmo compare poco dopo, sicut aves ad volatum, equi ad cursum, ad saevitiam ferae… ita nobis…; qui l’esempio costruito sulle diverse specie animali è di ascendenza ciceroniana ed è funzionale a inserire anche l’uomo all’interno della varietà delle specie.

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Gli dèi omerici

di G. SISSA, M. DETIENNE, La vita quotidiana degli dèi greci, Roma-Bari 1987, 7 ss.

Una serie di giornate assolate e di notti scure: accadimenti singolari e improvvisi si susseguono sullo sfondo di una temporalità sicura, continua, piena di abitudini, nutrita di inezie. In primo piano, nel movimento del racconto, si urtano gli incidenti e i sussulti di una guerra che, d’un tratto, è divenuta epica e febbrile allorché, per una questione d’onore, è esplosa la collera di un eroe. Il campo di battaglia si trova nel paese degli uomini, sulle rive dello Scamandro, ma gli dèi vi sono ben più che coinvolti: la dirigono, la fomentano, si ostinano in essa. Prendono le decisioni e le armi. La guerra di Troia appartiene a loro. Chi strappa gli eserciti al torpore, alla tensione immobile, all’attesa vana in cui sono inutilmente trascorsi anni interi? Chi stabilisce la strategia di quelle memorabili giornate di sortite, imboscate, assalti e duelli? È Zeus, il padre degli dèi e degli uomini, a spezzare la monotonia dell’assedio, nel momento in cui risponde alle lagnanze di una dea offesa nella persona di suo figlio. È lui a decidere quando ordinare la risoluzione e la fine del conflitto.

Divinità barbata (Zeus o Hermes). Testa, marmo pentelico, 450-440 a.C. ca. dal Pireo. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

Al re degli Argivi egli invia un messaggio, un sogno mendace, e scatena così il terribile scontro che si concluderà con la presa della città. E il sogno, pur ingannando Agamennone riguardo ai suoi successi immediati, non nasconde la natura divina della sua origine. L’immagine parlante che appare al re addormentato, col viso di Nestore, venerabile consigliere, evoca infatti l’assemblea degli abitanti dell’Olimpo: «Gli Immortali, abitanti dell’Olimpo, non hanno più opinioni divergenti. Tutti si sono piegati alla preghiera di Hera. I Troiani sono ormai votati alla sventura». Una discordia fra gli dèi paralizzava ogni attività; il segno di un dio riscuote dall’inerzia.

Per il poeta dell’Iliade, la dinamica della guerra di Troia e la storia frenetica delle sue battaglie sono nelle mani degli abitanti dell’Olimpo. La lite tra Achille e il suo re costituisce un’occasione, un accidente originario. «Canta, o dea, l’ira di Achille, figlio di Peleo»; così ha inizio il poema. Ma l’autore, il motore affatto mobile di tale diverbio fra un eroe, figlio di una dea, e un re di ceppo mortale, è un dio. Certo, il poeta chiede alla dea che il racconto si svolga a partire dal momento «in cui una lite improvvisa oppose il figlio di Atreo, protettore del suo popolo, e il divino Achille». Ma questo inizio ne cela un altro. All’origine della disputa che oppone l’uno all’altro un re e il suo miglior paladino si delinea un’altra causa, decisiva e divina. «Quale degli dèi, dunque, ha seminato discordia fra loro in una tale lite e battaglia?», domanda il poeta. E Apollo fa la sua comparsa, da protagonista. All’origine della lite sta dunque il figlio di Latona e di Zeus: è lui che ha visto il capo degli Achei trattare sprezzantemente uno dei suoi sacerdoti, è lui che «scende dalle vette dell’Olimpo, con cuore corrucciato», per vendicarsi. Agamennone ha rifiutato di restituire a Crise, sacerdote di Apollo, la figlia, una giovane che egli aveva scelto come sua parte di bottino in occasione della conquista di Crisea. Ma è lo stesso Apollo a ritenersi oltraggiato nella persona del suo ministro: la tracotanza del re lo riguarda e lo colpisce. Reagisce. Fa irruzione in quel tempo uggioso nel quale ormai nulla più accadeva. È lui, dunque, a inaugurare il tempo della guerra movimentata e narrata. Quanto all’origine prima dell’offesa recata da Agamennone al sacerdote e al suo dio, questa sembra essere l’effetto dell’arroganza tutta umana del re. Ma l’intero svolgimento della guerra si inscrive, non bisogna dimenticarlo, nei disegni di Zeus.

Pittore di Villa Giulia. Scena con coro femminile. Pittura vascolare a figure rosse da un calyx-krater, 460 a.C. c. da Falerii. Roma, Museo Nazionale di Villa Giulia.

Per la sua incursione nel mondo umano, per venire ad appostarsi, simile alla notte, presso le navi greche, Apollo lascia la sua casa, una dimora ben costruita nel feudo montano degli Immortali, il massiccio dell’Olimpo, nella parte nord-orientale della Grecia continentale. Come tutti i suoi simili, quando si mescolano agli uomini, Apollo all’inizio dell’Iliade deve fare un viaggio, vale a dire percorrere molto velocemente la distanza che separa due spazi: quello delle sue azioni puntuali, nel caso specifico la pianura di Troia, e quello della sua esistenza quotidiana. Due spazi, due tempi: l’intrigo cavalleresco, il dramma che occupa il proscenio, si staglia – come abbiamo detto – su un fondale di costumi, abitudini, gesti ripetuti. Questo secondo piano è talora percepibile grazie a notazioni rapide, che si insinuano nel racconto, en passant, con l’aiuto di una pausa, come l’allusione alla grossa nuvola che le Ore spostano, a mo’ di porta, all’ingresso dell’Olimpo, o l’evocazione delle maniere a tavola. Ma gli indizi di una vita divina, quasi un paesaggio appena delineato in prospettiva, compongono di fatto un altro quadro, obbligano a presupporre l’esistenza di un altro teatro per le imprese degli dèi. Quello di una vita loro propria, autonoma e parallela. Lunghe scene vi si svolgono: assemblee e conversazioni, banchetti e alterchi, nel palazzo di Zeus o sulle vette che lo circondano. Viaggi, incontri, liti: gli dèi si muovono in questo altrove in cui i giorni succedono ai giorni, secondo un ritmo assolutamente simile a quello noto ai mortali. Si muovono, agiscono, si spostano, ma anche si riposano: sanno abbandonarsi allo scorrere del tempo, all’ozio, al ritorno delle ore. Il lettore di Omero ha l’illusione perfetta che gli abitanti dell’Olimpo formino una società a parte, completa e indipendente: relativamente animata, essa ha una storia evenemenziale che non sempre si intreccia a quella dei mangiatori di pane. Ha conosciuto passaggi di potere e sedizioni. La sua struttura gerarchica e genealogica è continuamente esposta al rischio del conflitto. Ma questa società possiede anche una profonda stabilità, fondata su un sistema di comportamenti e di rappresentazioni: gli abitanti dell’Olimpo obbediscono a regole, seguono costumi, hanno una coscienza assai precisa della loro identità etnica.

La società degli Immortali invita alla storia e all’etnografia. La grande partizione culturale che divide in due il mondo iliadico non è quella che distingue i Greci dai Troiani: la somiglianza degli uomini tra loro è pressoché totale. Tutti i mortali, quale che sia la loro origine, ellenica o asiatica, parlano la stessa lingua, indossano armature che possono scambiarsi senza alcun problema, mangiano allo stesso modo lo stesso cibo, sacrificano agli stessi dèi. Rispetto a essi nel loro insieme, sono gli Immortali a figurare come nazione eterogenea. Hanno una propria lingua, un cibo specifico, fanno un uso dei metalli che è loro peculiare: il bronzo per le case, l’oro per le suppellettili e i mobili; essi stessi sono colmi di una sostanza vitale che non è sangue. Accanto alle caratteristiche propriamente divine, agli innumerevoli poteri di cui danno prova – spostarsi con una velocità che annulla il tempo, mutare di forma, rendersi invisibili, dare o sottrarre forza – gli abitanti dell’Olimpo mostrano un insieme di tratti culturali in senso proprio. Essi non sono semplicemente dèi, esseri sovrannaturali caratterizzati da un’onnipotenza virtuale e immobile. Sono gli abitanti dell’Olimpo, mangiatori d’ambrosia, amatori di musica apollinea […].

Assemblea degli dèi. Bassorilievo, marmo, 530-525 a.C. ca., dal Tesoro dei Sifni, Santuario di Apollo Delfico. Delfi, Museo Archeologico Nazionale.

L’amore […] introduce un intero campo dove la dissomiglianza fra dèi e mortali sembra sfumare definitivamente, dove nulla viene a rammentare che gli uni sarebbero meglio equipaggiati degli altri per condurre la propria esistenza. È, questa, la dimensione degli umori e dei luoghi del corpo – cuore (θυμός e κῆρ), diaframma (φρήν), petto (στῆθος) – corrispondenti alla causa e alla sede dei movimenti affettivi. È il registro delle passioni: collera, pietà, odio, amicizia. La loro dieta alimentare priva forse gli dèi di sangue, ma tutto il loro comportamento sociale riposa su una “biologia delle passioni”, un’iscrizione nel corpo, nella quale i Greci dovevano riconoscere facilmente la propria.

La bile, vale a dire la collera, costituisce uno degli ingredienti più attivi della trama dell’Iliade. Se si percorre il suo campo semantico, si incontrano dèi in preda al rancore (μῆνις), al furore (μένος); abitanti dell’Olimpo corrucciati (χωόμενοι), beati che s’indignano (ὀχθέω) e si irritano (νεμεσσάω). E ciò non può essere ridotto a episodiche manifestazioni del carattere. Si tratta, al contrario, di fattori dinamici del racconto. Ricostruire, giorno dopo giorno, la vita degli dèi Olimpici significa confrontarsi con il fatto evidente che la volontà strategica di Zeus, il quale, si ritiene, determina e dispone gli eventi, è in realtà soltanto l’effetto secondario, la decantazione di un impulso più immediato e meno mediato: la grande irritazione del dio contro Agamennone. Rabbia divina che è il risultato di una catena di reazioni passionali, perché Agamennone ha suscitato la furia e il rancore di Achille, che ha fatto appello alla pietà di Teti, la quale, a sua volta, ha saputo suscitare il corruccio di Zeus. E la collera di Zeus non viene forse a dare il cambio a quella di Apollo, il cui sacerdote ha subito uno scatto d’ira da parte di Agamennone e ha invocato il dio di vendicarlo? L’agire degli dèi si narra di furia in furia. Zeus e Apollo, Hera e Atena, Ares e Poseidone funzionano soprattutto in questo modo; allo stimolo dell’offesa rispondono con un eccesso di bile e, rapidi, si lanciano all’azione efficace. La collera si rivela come motore della loro vita frenetica e, conseguentemente, della storia degli uomini. Essa fa cominciare il racconto e ne decide la fine. Infatti, nell’Iliade tutto si ferma proprio con una tregua di tutte le ire e gli odi, quando gli dèi, cominciando da Apollo e Zeus, rinunciano alla loro violenza reciproca, alle opinioni divergenti e alla discordia che li spinge a battersi e ad affrontarsi. Irritati, per una volta all’unisono, dall’accanimento di Achille contro il cadavere di Ettore, solidali in una nuova e ultima collera rivolta all’eroe […] folli di rabbia, decretano la fine delle ostilità e, con ciò stesso, del racconto che da queste traeva la sua energia e ispirazione.

“Atena Mattei”. Statua, copia romana di I secolo a.C. da un originale bronzeo di IV secolo a.C., opera di Cefisodoto. Paris, Musée du Louvre.

Ma gli dèi manifestano anche l’intera gamma delle facoltà deliberative e intellettuali: volontà (βουλή), cuore (θυμός), intelletto (νοῦς). A loro appartengono gli aspetti più avviti della soggettività; il θυμός, in particolare, sede dei sentimenti come anche degli slanci volontari e delle decisioni che s’impongono all’io umano, funziona anche negli dèi in maniera assolutamente normale. Volere è, per Atena, essere spinta dal suo grande cuore (θυμός); esprimere il suo pensiero è, per Zeus, quel che il cuore gli detta nel petto; fare scelte divergenti equivale, per gli dèi nel loro insieme, ad avere cuori divisi, così come, per uno di loro, vuol dire meditare nel proprio diaframma per giungere alla scelta che gli sembra migliore nel cuore… Insomma, gli dèi dell’Olimpo dipendono dal loro θυμός né più né meno dei mortali.

Il teatro e gli strumenti della μίμησις

di I. BIONDI, Storia e antologia della letteratura greca, 2, A. Il teatro, Messina-Firenze 2004, 17-19.

Gli studi sul teatro greco di Siracusa e su quelli più antichi del mondo greco (fra cui quelli di Atene e di Epidauro) consentono una conoscenza abbastanza chiara della struttura architettonica dell’edificio e delle tecniche scenografiche in uso nel V secolo a.C., l’età d’oro del dramma attico. Per quanto concerne l’architettura teatrale, la cavea e l’orchestra, in cui agiva il coro, avevano una forma trapezoidale; la scena vera e propria (σκηνή), su cui svolgeva l’azione, era un edificio lungo e basso, a pianta rettangolare, con una fronte decorata rivolta al pubblico. Esso occupava la base dello spazio dell’orchestra ed era coperto da un tetto piano, a cui si poteva accedere dall’interno per mezzo di scalette; vi si trovavano anche i camerini per gli attori e per i coreuti. Il muro della σκηνή, posto di fronte all’orchestra, sosteneva un sistema di meccanismi scenici, consistenti in alti pali formati da più parti a incastro; su di essi venivano montati i telai delle varie scene, dipinti su stoffa o su pelle, riposti, quando non servivano, in una fossa scavata lungo tutto il fronte della σκηνή. Davanti a quest’ultima si trovava una vasta pedana di legno, un po’ più alta del piano dell’orchestra, chiusa alle due estremità da opere in muratura: era il palcoscenico vero e proprio, a cui si accedeva dalla σκηνή attraverso tre porte e da cui si poteva scendere nell’orchestra.

Ricostruzione planimetrica del Teatro di Dioniso, Atene.

Sotto il piano di quest’ultima si trovavano delle fosse attraverso le quali, senza essere visti dagli spettatori, si giungeva direttamente al centro dell’orchestra; venivano usate per simulare il sorgere delle ombre dei defunti dalle profondità della terra (scale caronie), mentre le apparizioni divine erano calate dall’alto per mezzo di carrucole o con una specie di gru, detta μηχανή (di qui l’espressione deus ex machina). Gli ambienti erano di solito costruiti mediante teloni dipinti, montati su leggeri telai di legno, che occupavano tutto il muro frontale della σκηνή, con aperture in corrispondenza delle porte. Per la loro realizzazione ci si rivolgeva a pittori di una certa fama, come Agatarco, che fu scenografo di Eschilo e di Sofocle, oltre che autore di un trattato sulla prospettiva. Qualche notizia sulla scenografia dei vari drammi si può ricavare dagli accenni contenuti nel testo stesso, dagli scolii e dalla pittura vascolare, che si ispirò frequentemente a scene e a personaggi del teatro tragico.

Ipotesi di ricostruzione del Teatro di Dioniso in Atene proposta da Moretti (da MORETTI 2000, p. 297).

Fra le fonti letterarie più tarde si hanno le indicazioni contenute nella Poetica aristotelica, che si preoccupa soprattutto di evidenziare il processo di catarsi operato sul pubblico dal teatro tragico, grazie alla sua eccezionale efficacia mimetica (VI 6 1449b):

ἐπεὶ δὲ πράττοντες ποιοῦνται τὴν μίμησιν, πρῶτον μὲν ἐξ ἀνάγκης ἂν εἴη τι μόριον τραγῳδίας ὁ τῆς ὄψεως κόσμος· εἶτα μελοποιία καὶ λέξις, ἐν τούτοις γὰρ ποιοῦνται τὴν μίμησιν.

Poiché sono dunque persone in azione che compiono l’imitazione, e per prima cosa ne consegue di necessità che un elemento della tragedia sarà l’allestimento dello spettacolo; poi la musica e il linguaggio: in questo modo, infatti, essi realizzano l’imitazione.

Secondo le forme dell’arte, la μίμησις dell’azione era il risultato di tre elementi essenziali, che interagivano costantemente: ὁ τῆς ὄψεως κόσμος («l’allestimento dello spettacolo»), la μελοποιία (la «sintesi di musica vocale e strumentale») e la λέξις (il «linguaggio»).

A proposito dell’allestimento scenico, l’opera di massimo impegno fu probabilmente, verso la metà del V secolo a.C., l’Orestea di Eschilo, la sola che possa darci un’idea di quali fossero le necessità scenotecniche di un’intera trilogia. Le indicazioni contenute nel testo di ciascuno dei drammi, infatti, ci fanno pensare che tutte le scene dovessero essere già montate fin dall’inizio sui pali della σκηνή, l’una a ridosso dell’altra. Bisogna dire che gli scenografi non si proponessero un eccessivo realismo: pur ispirandosi alle forme e alle strutture dell’architettura loro contemporanea, essi preferivano risultati decorativi piuttosto imitativi, come possiamo dedurre dalle pitture vascolari che riproducono scene di tragedia con edifici dalle forme stilizzate, esili e snelle.

Policleto il Giovane, Teatro di Epidauro, 360 a.C. c. [veduta aerea].
La scelta dei colori prediligeva toni piuttosto vivaci sia nella scenografia sia nei costumi di coreuti e attori – altro importante elemento ai fini dell’effetto generale; una così ricca policromia di rossi, azzurri, gialli e bianchi sarebbe un po’ troppo accentuata per il nostro gusto, ma forse non sembrava tale alla luce del giorno, in piena primavera mediterranea: era infatti questa la stagione delle Grandi Dionisie, in cui avevano luogo gli agoni tragici e le rappresentazioni dei drammi.

Il teatro antico faceva uso anche di meccanismi abbastanza sofisticati, il più comune dei quali era la già ricordata μηχανή, o «gru» (il primo a servirsene sarebbe stato Euripide), con la quale si calava dall’alto, sulla scena, l’attore che interpretava la parte di una divinità. Vi era poi l’ἐκκύκλημα, una sorta di «piattaforma girevole», che serviva per aprire il fondo della scena e mostrare agli spettatori l’interno di un edificio e delle sue stanze; funzione analoga aveva l’ἐξώστρα, una specie di «balcone» mobile che poteva essere spinto fuori quando le esigenze sceniche lo richiedevano. Meccanismi come il κεραυνοσκοπεῖον e il βροντεῖον, le «macchine» dei fulmini e dei tuoni, permettevano di ottenere effetti speciali di luce e di suono.

Ricostruzione schematica delle principali macchine teatrali in uso sulla σκηνή (link).

Le nostre conoscenze della musica greca antica sono abbastanza numerose e approfondite per farci capire l’importanza attribuita a quest’arte nel mondo ellenico, ma troppo ridotte e frammentarie per consentircene la conoscenza diretta.

Il mondo greco non considerò né praticò mai la musica come un’arte a sé stante, ma la vide sempre come un complemento non solo della poesia e della danza, ma anche della recitazione, dello sport e delle attività militari. Il legame più stretto fu, da sempre, quello con la poesia, perché la lingua ellenica, melodica e ritmica per sua stessa natura, fece sì che i Greci sentissero la musica come un abbellimento della parola cantata o declamata, privilegiando questo suo uso rispetto a quello puramente strumentale. Questa «unione di parole e di suoni», indicata con il termine μελοποιία, caratterizzò sempre le principali manifestazioni artistiche, sportive, religiose della vita sociale pubblica e privata.

Pittore Epitteto. Sileno con aulos. Pittura vascolare da kylix attica a figure rosse, c. 520-500 a.C. da Vulci. Paris, Cabinet des Médailles.

In ambito teatrale, la musica apparve come un secondo linguaggio, adatto a esprimere, come quello parlato, sentimenti, passioni e stati d’animo; il suo carattere prevalente era la melodia, tanto che anche i cori cantavano all’unisono. L’accompagnamento strumentale, assai semplice, si limitava a raddoppiare il canto, oppure aggiungeva suoni di abbellimento consoni o dissoni rispetto alla voce dell’attore; lo strumento poteva riempire con qualche nota anche le pause della voce, ma, in genere, questi interventi strumentali erano solo decorativi.

La tradizione attribuisce a Eschilo parecchie innovazioni nell’ambito della tragedia, fra cui il progressivo ampliarsi delle parti dialogate rispetto a quelle corali, con la conseguente necessità di un’approfondita ricerca linguistica, propria, pur con aspetti diversi, anche di Sofocle e di Euripide. Tutti riuscirono, infatti, al di là delle loro scelte soggettive, a esercitare sugli spettatori un potente effetto psicagogico (e quindi, secondo Aristotele, catartico), al quale contribuivano tutti gli strumenti dell’«imitazione» (μίμησις): l’allestimento scenico dello spettacolo, la musica e il linguaggio.

Aristofane e Sofocle. Doppia erma, marmo, 130 d.C. dalla villa di Adriano a Tivoli. Paris, Musée du Louvre.

La struttura della tragedia, quale noi la conosciamo attraverso i drammi che ci sono pervenuti, rappresenta il punto di arrivo di un lungo processo di sviluppo; uno degli aspetti di questo percorso evolutivo è rappresentato dallo spazio sempre maggiore concesso al dialogo rispetto alle parti corali, che andarono progressivamente riducendosi. Una volta entrato in scena, il coro, formato al tempo di Eschilo da dodici elementi (che divennero quindici all’epoca di Sofocle), si disponeva secondo uno schema quadrangolare, dividendosi in due semicori. Guidati da un corifeo, i coreuti innalzavano il loro canto, in armonia con la musica dei flauti ed eseguivano le complesse figure dell’ἐμμέλεια, una danza austera e solenne.

Sia gli attori che i coreuti portavano la maschera, dapprima preciso riferimento rituale al culto dionisiaco, in seguito semplice strumento teatrale, destinato a connettere i personaggi secondo tipi fissi (uomo, donna, giovane, vecchio, re, araldo, sacerdote, dio) e forse anche ad amplificare la voce dell’attore.

I costumi indossati dagli attori tragici erano ricchissimi e tali da aumentare l’imponenza della figura; a ciò contribuivano, in età più tarda, anche i coturni, calzari forniti di una suola di sughero assai alta.

Pittore di Pronomo. Eracle e Papposileno (dettaglio). Pittura vascolare da un cratere a volute apulo a figure rosse, 400 a.C. c. da Ruvo di Puglia. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Gli inizi del dramma attico

di I. BIONDI, Storia e antologia della letteratura greca, 2, A. Il teatro, Messina-Firenze 2004, 14.

La prima data certa di una rappresentazione drammatica ad Atene è fatta risalire alle Grandi Dionisie della LXI Olimpiade (536-533 a.C.), durante le quali andò in scena un dramma del poeta Tespi, considerato l’inventore della tragedia e nativo del demo attico di Icaria; a costui era attribuito il merito di aver introdotto l’uso del prologo, della maschera e del dialogo fra il coro e un attore. Di lui si sa ben poco; secondo alcune fonti, sarebbe stato amico di Solone, molto più anziano di lui, e la sua fortuna come poeta tragico sarebbe da ricollegare al nuovo impulso dato da Pisistrato al culto di Dioniso.

Pittore di Esiodo. Musa che accorda due cithareis. Pittura vascolare da una coppa attica a fondo bianco, 470-460 a.C. c. da Eretria. Paris, Musée du Louvre.

Quasi contemporaneo di Tespi fu Cherilo, che iniziò la sua attività nel 523 a.C. ca., che gareggiò con Eschilo e Pratina negli agoni del 499/8 a.C. Sebbene fosse stato più volte vincitore (le fonti alessandrine gli assegnano ben tredici vittorie), di lui resta solo il titolo di un dramma, l’Alope, che probabilmente raccontava la storia dell’omonima eroina attica, amata dal dio Poseidone.

Il primo poeta drammatico di cui si hanno notizie più certe fu l’ateniese Frinico, nato intorno al 535 a.C. Egli conseguì la sua prima vittoria negli agoni celebrati fra il 511 e il 508 a.C., ottenendone sicuramente un’altra nel 476 a.C., con il dramma Le Fenicie, di cui fu corego Temistocle. Fra le opere di Frinico, scomparse assai presto dalla circolazione, merita di essere ricordato anche un altro dramma, La presa di Mileto (entrambi erano di argomento storico e narravano vicende della Prima guerra persiana). Secondo Erodoto (VI 21), la rappresentazione della Presa di Mileto suscitò nel pubblico una tale commozione che le autorità cittadine multarono il poeta di mille dracme, per aver ricordato loro una così dolorosa sconfitta.

All’introduzione del dramma satiresco, come si è detto, è legata la figura di Pratina di Fliunte, quasi contemporaneo di Frinico. Di Pratina, le cui opere erano già scomparse nel IV secolo a.C., restano il titolo di una tragedia, le Cariatidi, che trattava il mito delle seguaci di Artemide a Carie (città della Laconia), e quello di un dramma satiresco, I lottatori, che fu rappresentato dopo la morte del poeta da suo figlio Aristias, nel 467 a.C.