Per una definizione della «polis»

di C. BEARZOT, La polis greca, Bologna 2009, 9-15.

La storia della Grecia antica è caratterizzata, com’è noto, dalla centralità dell’esperienza politica vissuta nell’ambito della comunità cittadina, la πόλις. Essa costituisce, per i Greci, la principale forma di Stato, tant’è vero che il pensiero politico greco si concentra quasi interamente sulla πόλις e sulle sue forme costituzionali. Il celebre dibattito erodoteo sulle costituzioni, il cosiddetto λόγος τριπολιτικός (Hdt. III 80-82) verte, non a caso, sulle costituzioni della πόλις; nella Politica, Aristotele si preoccupa quasi esclusivamente della πόλις, senza dare significativo spazio a questioni che riguardino, per esempio, gli Stati federali. Nello stesso senso ci indirizza la terminologia: la costituzione è detta πολιτεία, in quanto avvertita come elemento fondamentale della πόλις, mentre il termine che designa il cittadino è πολίτης, come se appunto la πόλις fosse l’unica forma di Stato.

Il mondo greco, in realtà, conobbe anche altre forme di organizzazione politica: gli Stati federali, i cosiddetti κοινά o ἔθνη, presenti accanto alle πόλεις fin dall’arcaismo, e gli Stati territoriali, dalla Siracusa di Dionisio I ai regni ellenistici. Tali forme sono alternative della πόλις e ne mettono in discussione alcuni limiti, come la «gelosia della cittadinanza», l’incapacità di dar vita a un equilibrio internazionale stabile, il carattere di «società chiusa». Ma il pensiero politico greco, come mostra anche l’incertezza terminologica relativa a Stati federali e territoriali, non sembra considerare altre forme di Stato che la πόλις medesima.

Eracle uccide l’Idra di Lerna. Rilievo, marmo, c. III sec. a.C. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

Il termine πόλις, infatti, ha diverse valenze e può significare «cittadella fortificata», «acropoli», «centro urbano», ma anche «entità statale» dotata di centro politico e soprattutto κοινωνία πολιτική, «comunità» nella sua dimensione politica. Le fonti antiche segnalano con grande insistenza il carattere non tanto urbanistico, quanto sociale e istituzionale della πόλις. Che la città sia, prima di tutto, una comunità di uomini associati fra loro lo mostra un topos letterario molto comune, quello secondo cui sono gli uomini, i cittadini, a costituire la realtà cittadina. Già Alceo (F 112, 10 Lobel-Page) afferma che «sono gli uomini la torre che difende la città» (ἄνδρες γὰρ πόλι]ο̣ς πύργος ἀρεύ[ιος). Analoga impostazione offre Tucidide (VII 77, 7), quando fa dire allo stratega ateniese Nicia, in un discorso pronunciato durante la spedizione di Sicilia, che i soldati ateniesi devono essere coraggiosi e capaci di sfuggire ai nemici, se vogliono che le sorti di Atene si risollevino: egli ricorda che «gli uomini infatti costituiscono la città, non le mura o le navi vuote d’uomini» (ἄνδρες γὰρ πόλις, καὶ οὐ τείχη οὐδὲ νῆες ἀνδρῶν κεναί).

Allo stesso modo, Temistocle, quando, nel 480, durante la seconda guerra persiana, il corinzio Adimanto gli rinfaccia di essere un ἄπολις, un uomo senza πόλις, perché Atene è stata distrutta dall’attacco persiano, e di non poter quindi parlare né dare il proprio voto nell’assemblea panellenica, risponde (Hdt. VIII 61) dimostrando «come gli Ateniesi avessero una città e una terra più grandi dei Corinzi, finché avessero duecento navi in assetto di guerra: nessuno dei Greci infatti avrebbe potuto respingere l’attacco» (ὡς εἴη καὶ πόλις καὶ γῆ μέζων ἤ περ ἐκείνοισι ἔστ’ ἂν διηκόσιαι νέες σφι ἔωσι πεπληρωμέναι· οὐδαμοὺς γὰρ Ἑλλήνων αὐτοὺς ἐπιόντας ἀποκρούσεσθαι).

Questi passi inducono a definire la πόλις prima di tutto come una comunità politica di cittadini insediata su un territorio. La prevalenza della dimensione politica è ben illustrata da un passaggio di Pausania (X 4, 1), in cui si afferma che la città focese di Panopeo – priva di strutture urbanistiche adeguate, giacché gli abitanti non possiedono archivi né ginnasio né teatro né agorà, né strutture di servizio o abitazioni degne di questo nome – sembrerebbe non meritare il nome di πόλις: eppure, essa va considerata tale, perché gli abitanti «sono divisi dai vicini da confini e mandano anch’essi delegati all’assemblea dei Focesi» (ὅμως δὲ ὅροι γε τῆς χώρας εἰσὶν αὐτοῖς ἐς τοὺς ὁμόρους, καὶ ἐς τὸν σύλλογον συνέδρους καὶ οὗτοι πέμπουσι τὸν Φωκικόν).

Oplita che balza dal carro (ἀποβάτης). Rilievo votivo con iscrizione (SEG I 131), marmo pentelico, V sec. a.C. dal tempio di Anfiarao a Oropos. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

È dunque la dimensione politica, unita a quella territoriale, a definire la πόλις e, quando i Greci si soffermano sul problema del rapporto fra l’uomo e lo Stato, è alla πόλις che pensano. Un passo del Filottete di Sofocle, in cui l’eroe lamenta di essere stato reso «ἄπολις, un morto tra i vivi», evidenzia bene il rapporto fra l’uomo greco e la πόλις. Nella stessa prospettiva possono essere richiamate le celebri definizioni aristoteliche, che parlano dell’uomo come di un animale «che per natura vive nella πόλις» e ritengono quest’ultima una struttura il cui fine è di «far vivere bene» l’uomo (Aristot. Pol. I 1253a).

A riprova di quanto detto, si osservi che tracce di riflessione sugli Stati federali, che pure accompagnano la storia dei Greci fin dall’arcaismo, sono molto modeste nel pensiero politico ellenico. Aristotele vi dedica uno spazio limitatissimo, arrivando addirittura a negare che uno Stato federale possa avere una vera e propria costituzione (Aristot. Pol. VI 1326b). Discutendo delle dimensioni dello Stato ideale, il filosofo afferma infatti che una città che abbia un numero troppo esiguo di cittadini non può bastare a sé stessa e tradisce così la sua natura di città, mentre quella che ne ha troppi, pur bastando a sé stessa come un ἔθνος, non è una πόλις, perché difficilmente potrà avere una costituzione (πολιτεία). Se Aristotele coglie qui un elemento caratteristico delle federazioni, la forza demografica, finisce tuttavia, sottolineando l’assenza di πολιτεία, per negarne il carattere di vero e proprio Stato. Qualche traccia di riflessione sul federalismo si trova nel IV secolo, nelle Elleniche di Ossirinco (cap. 19, 2-4, pp. 32-33 Chamers) e in Senofonte (Hell. V 2, 12-19), e poi soprattutto in Polibio (II 37 ss.), che attribuisce all’ordinamento federale la crescita della potenza degli Achei in età ellenistica; ma si tratta sempre di interventi piuttosto modesti in confronto alla riflessione sulla πόλις.

Quanto agli Stati territoriali, una riflessione in merito è praticamente assente: non si arrivò mai, infatti, a elaborare una teoria dello Stato ellenistico, che valorizzasse aspetti come, per esempio, la funzione di elementi etnici diversi. Nelle definizioni presenti nelle fonti letterarie ed epigrafiche sembra essere sottolineata una delle caratteristiche principali dello Stato territoriale, ovvero la complessità politica e sociale e l’articolazione fra realtà diverse all’interno del territorio: τὰ πράγματα indica l’insieme degli affari ed è di carattere assai vago: «re, amici, forze armate» (βασιλεύς, φίλοι, δυνάμεις) esprime l’ideologia della monarchia militare; βασιλεῖς, δυνάσται, πόλεις ed ἔθνη comprende l’intero mondo ellenistico nelle sue forme statali. Queste definizioni evidenziano un’articolazione tra elementi centralizzanti (sovrano, esercito) e realtà locali (πόλεις, ἔθνη, φίλοι), cogliendo la complessità dello Stato ellenistico.

Né nel caso degli Stati federali né nel caso di quelli territoriali, dunque, abbiamo una riflessione che possa essere lontanamente paragonata a quella sulla πόλις: non a caso, il celebre saggio di Victor Ehrenberg dal titolo Der Staat der Griechen (1965) era interamente dedicato alla πόλις. Tuttavia, la storiografia più recente sia è sottratta al condizionamento degli antichi: sono ormai numerosi i contributi moderni dedicati anche agli Stati federali e territoriali, e sintesi recenti sulle forme dello Stato antico, come quella di Alexander Demandt (Antike Staatsformen. Eine vergleichende Verfassungsgeschichte der Alten Welt, 1995), mostrano un pieno superamento della posizione poleocentrica.

Una pur breve storia della storiografia moderna sulla πόλις richiederebbe uno spazio enorme: si intende qui, pertanto, solo richiamare alcune delle più recenti riflessioni su questo tema, che continua ad attirare l’attenzione degli studiosi. Se il problema delle origini della πόλις sembra, di fatto, non risolvibile in modo soddisfacente allo stato attuale, si è però sviluppata una serie di riflessioni su altri temi non meno significativi, dal problema della divisione/organizzazione dello spazio e del rapporto con il territorio (la χώρα) a quello, ricco di sfumature, del significato della πόλις come comunità cittadina.

Il tentativo di ridiscutere il concetto di πόλις nel senso di «città-Stato» e la sua adeguatezza a cogliere pienamente il fenomeno storico cui fa riferimento, condotto da Wilfrid Gawantka (Die sogenannte Polis, 1985), ha messo in evidenza la necessità di verificare la validità di concetti interpretativi che rischiavano ormai di diventare veri e propri luoghi comuni (un «mito storiografico», come è stato sottolineato da Maurizio Giangiulio in Alla ricerca della polis, 2001). La nozione di città-Stato elaborata dai moderni (che la intendono come forma di Stato per antonomasia nel mondo greco e ne sottolinea l’assoluta preminenza sull’individuo) non sarebbe necessariamente corrispondente alla nozione greca di πόλις e sarebbe comunque troppo rigida per esprimere le diverse realtà locali in cui era frazionata la Grecia antica: il termine πόλις sembra infatti far riferimento a una grande varietà di forme di insediamento e di comunità politiche e a livelli cronologici troppo diversi.

Senocratea presenta il proprio figlio al dio-fiume Cefiso alla presenza degli dèi. Rilievo su stele votiva, marmo pentelico, c. 410 a.C. dal Falero. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

La ridiscussione del concetto di πόλις, dopo la provocazione di Gawantka, non è certo mancata: particolarmente intensa è stata la discussione sollevata, soprattutto in area anglosassone, sul carattere non statuale dell’esperienza poleica. L’idea di una «stateless polis» è stata anticipata da alcuni interventi volti a sottolineare il carattere prevalentemente «sociale» della città greca. Robin Osborne (Demos: The Discovery of Classical Attika, 1985) ha sottolineato che nella πόλις mancano tanto una vera e propria «autorità statale» che monopolizzi la coercizione, quanto un potere esecutivo vero e proprio; sulla stessa linea, Paul Cartledge (Kosmos: Essays in Order, Conflict, and Community in Classical Athens, 1998) ha osservato che la πόλις ignora la distinzione tra governanti e governati e le nozioni di «diritti dell’individuo» e di «tolleranza», mentre conosce una serie di forme di controllo sociale, cui si affida per il mantenimento dell’ordine costituito. In seguito, la riflessione è stata approfondita da Moshe Berent (The Stateless Polis: towards a Re-evaluation of the Classical Greek Political Community, 1994; Anthropology and the Classics: War, Violence, and the Stateless Polis, 2000): muovendo da modelli antropologici, egli sostiene che la πόλις non corrisponda ai criteri necessari per poter parlare di «Stato» in senso hobbesiano e weberiano. Essa, infatti, non presenterebbe una adeguata distinzione fra popolo e potere esecutivo; non avrebbe il monopolio della coercizione (essendo priva di esercito permanente e di polizia), con la conseguente necessità di affidare la tutela dell’ordine pubblico all’iniziativa individuale e al controllo sociale; mancherebbe inoltre di aspetti essenziali, come una territorialità ben definita e un’adeguata burocrazia. La πόλις non era dunque una «città-Stato», ma una «stateless community»: non nel senso di una comunità tribale tenuta insieme dalla parentela, come vorrebbe l’antropologia (una prospettiva di questo genere sarebbe inaccettabile nell’interpretazione della πόλις greca), ma nel senso di una comunità di guerrieri, la cui coesione dipendeva dalla tattica di combattimento oplitico.

Una prima obiezione potrebbe riguardare l’opportunità di valutare la statualità della πόλις sulla base di confronti con uno Stato di tipo moderno, alcuni aspetti del quale risalgono a non prima del XIX secolo, e sono quindi posteriori alla stessa riflessione di Hobbes. Ma soprattutto, posizioni come quella di Berent sembrano sottovalutare aspetti importanti della πόλις, dalla complessità della struttura istituzionale alla territorialità. Una critica serrata alle posizioni di Berent è venuta da uno dei massimi studiosi di storia delle istituzioni greche e in particolare della democrazia ateniese, Mogens H. Hansen (A Comparative Study of Thirty City-state Cultures: An Investigation, 2002).

Prima di considerare gli argomenti di Hansen, vale la pena di richiamare il prezioso contributo offerto, nell’ambito degli studi sulla πόλις, dal Copenaghen Polis Centre, che ha operato sotto la sua guida dal 1993 al 2005. Le ricerche del CPC hanno preso l’avvio dalla riconosciuta necessità di evitare una discussione su basi esclusivamente teoriche e di raccogliere preventivamente una documentazione più ampia possibile sulla πόλις, per poter poi, sulla base dell’analisi di un materiale davvero esaustivo, mettere a fuoco i diversi problemi che la riguardano. Nei numerosi volumi prodotti dal centro di ricerca troviamo una raccolta delle fonti per la storia della πόλις, un prezioso «inventario» delle medesime e gli atti di vari convegni dedicati alle più diverse problematiche concernenti la πόλις. Sulla base di questo ampio lavoro preparatorio, il carattere statuale della πόλις viene rivendicato con convinzione da Hansen e dal suo gruppo di ricerca; la stessa traduzione di πόλις con «città-Stato», tanto contestata, è apparsa ad Hansen sostanzialmente corretta («city-State is the best possible equivalent to polis», in Polis and City-State: an Ancient Concept and its Modern Equivalent, 1998, 123).

Corcira e Atene (personificate) di fronte a Zeus in trono sanciscono un’alleanza. Rilievo, marmo, c. 375 a.C. da una stele iscritta. Atene. Museo Archeologico Nazionale di Atene.

Nella sua polemica con Berent, Hansen sottolinea prima di tutto come non si possa restringere la discussione al concetto di Stato come «governo», concentrandosi su problemi come la monopolizzazione dell’uso della coercizione, ma si debba piuttosto considerare anche lo Stato come «territorio» e come «corpo politico». Ora, già non sarebbe corretto parlare di totale assenza di istituzioni di governo nella πόλις; se poi si considerano le altre due prospettive, le differenze tra Stato antico e Stato moderno tendono a indebolirsi. Il territorio, pur non costituendo certo la parte fondamentale della πόλις, ne è infatti un elemento di rilievo, come mostrano diversi aspetti, dalla problematica del confine alle dispute territoriali ai provvedimenti di bando, che implicano un riferimento al concetto di territorio. Quanto allo Stato come corpo politico, è questa una sicura caratteristica della πόλις che non è però affatto assente negli Stati moderni; per contro non manca, nel pensiero, l’idea che la πόλις sia non solo il corpo cittadino, ma anche qualcosa di impersonale, distinguibile dai πολῖται (la documentazione proposta da Hansen mette in luce come l’azione di un cittadino o di un organo di governo, intrapresa «a favore» o «per conto» della πόλις, evidenzi una distinzione fra il singolo individuo e la comunità nel suo complesso, intesa in senso istituzionale). Ciò consente di non enfatizzare il problema della mancata distinzione tra popolo ed esecutivo, fra governanti e governati, che caratterizzerebbe la πόλις: la sovrapposizione tra depositari della sovranità e detentori del potere esecutivo è in effetti un elemento presente nella città greca, e in particolare in quella democratica, ma è anche vero che non si è mai governanti e governati contemporaneamente, in quanto il cittadino, quando diviene magistrato, assume comunque uno statuto particolare.

Per quanto riguarda l’amministrazione della giustizia, Hansen osserva innanzitutto che alcune caratteristiche, come l’assenza di forze di polizia, il ricorso all’autodifesa da parte del cittadino, la sua possibilità di intervenire con azioni suppletive come l’arresto sommario, l’uso dell’iniziativa popolare nella promozione dell’azione legale, non sono esclusive della πόλις, ma sono riscontrabili anche in molti Stati europei del XVIII secolo; a questo rilievo egli aggiunge che non si può affermare che l’ordine pubblico nella πόλις fosse garantito dal solo controllo sociale, essendo prevista una serie di complessi meccanismi giuridici. Quanto, invece, all’assenza di un esercito stabile come indizio di assenza di statualità, prima di tutto bisogna tener conto di una serie di eccezioni (ta cui, come ammette lo stesso Berent, Sparta, Atene e le città rette da regimi tirannici; ma Hansen menziona altri casi: la Siracusa democratica, Tebe, Argo, la Lega arcadica, l’Elide); inoltre, occorre piuttosto valutare il grado di militarizzazione della società, molto elevato nelle città greche, in cui i cittadini potevano essere spesso chiamati alle armi e in cui le spese militari erano notevoli. Anche il livello progredito delle relazioni internazionali e degli istituti delle diplomazia non depone a favore dell’interpretazione della πόλις come «stateless society».

A parere di Hansen, insomma, le differenze tra πόλις e Stato moderno finiscono per risultare modeste, se si considera la documentazione nel suo complesso senza selezionarla indebitamente allo scopo di costruire quello che egli definisce «a skewed model», un modello distorto. Ciò che accomuna Stato moderno e πόλις, al di là delle inevitabili differenze, è la nozione di «cittadinanza»: cioè l’appartenenza di un individuo a uno Stato, in virtù della quale egli, come cittadino, gode di una serie di privilegi in campo politico, economico e sociale e di adeguate forme di tutela (nonostante l’assenza, spesso sottolineata, della nozione di «diritti dell’individuo»). Dunque, la πόλις può essere considerata uno Stato, perché assomma le seguenti caratteristiche: è un potere pubblico legittimo con giurisdizione su un territorio definito, che si manifesta nella costituzione e nelle leggi ed è in grado di monopolizzare l’uso della forza; inoltre, conosce una chiara separazione fra Stato e società, fra pubblico e privato.

Demos (personificazione) incorona un cittadino meritevole. Rilievo, marmo pario, fine IV sec. a.C. da una stele onorifica. Atene, Museo dell’Agorà.jpg

Se dunque Berent tenta di escludere il carattere statuale della πόλις sulla base di un improprio confronto con lo Stato moderno, è anche vero che Hansen, da parte sua, tende talora a sovrapporre Stato moderno e πόλις: le due visioni contengono entrambe elementi anacronistici. La πόλις, in realtà, non era né una «stateless community», né uno Stato nel senso moderno del termine, come ha evidenziato Michele Faraguna (Individuo, Stato, comunità. Studi recenti sulla polis, 2000). Com’è stato sottolineato da Giangiulio (Stato e statualità nella polis, 2004), è certamente legittimo parlare di statualità della πόλις, ma in senso del tutto peculiare, perché peculiare è il rapporto tra ambito sociale e ambito politico nella mentalità greca. la città in senso politico-istituzionale e la città intesa come società, in realtà, coesistevano, come nella riflessione aristotelica, in un rapporto complesso che non poteva prescindere dal legame con il territorio.

Ancora, il carattere fortemente «politico» dell’esperienza della πόλις è stato rivendicato anche da Oswyn Murray (Cities of Reason, 1991; The Greek City: from Homer to Alexander, 1993), il quale ha proposto un’idea della πόλις come «città della ragione», in cui ogni decisione è assunta in seguito all’applicazione della procedura razionale della decisione. La πόλις, benché appaia certamente diversa da forme organizzative moderne, si presenta pertanto non come una società tribale, ma come un contesto in cui si esprime pienamente una forma di razionalità politica: essa offre la possibilità di «vivere secondo ragione», di «vivere bene» in senso aristotelico, in base a un ordine non imposto dall’alto, ma concordato dalla comunità.

Per concludere, se alcune discussioni, spesso condotte in base a modelli mutuati dall’antropologia e a confronti non sempre convincenti con esperienze moderne, appaiono talora poco produttive, merito indiscusso di questa serie di ricerche è stato soprattutto di mettere in luce le molteplici e non univoche dinamiche che caratterizzano la πόλις greca, di sottoporne a verifica alcuni contenuti tradizionalmente dati per scontati (per esempio, il concetto di autonomia) e, insieme, di mostrare come la complessità delle realtà poleiche non implichi che si debba rinunciare al concetto di πόλις come modello, purché del suo carattere di modello si abbia consapevolezza.

L’eccezionalità della “res publica” romana (Polyb. VI 11, 11-13; 12-14)

di I. BIONDI, Storia e antologia della letteratura greca. III. L’Ellenismo e la tarda grecità, Messina-Firenze 2004, 555-559; cfr. Polibio, Storie, vol. III (libri V-VI), eds. D. Musti, M. Mari, J. Thornton, 294-303.

Polibio muove la sua analisi affermando di voler completare un aspetto finora carente nella sua trattazione, per colmare una lacuna che potrebbe attirargli il rimprovero dei lettori o di storiografi forse non troppi competenti, ma pronti a criticare, anche senza fondati motivi, l’operato altrui. L’autore precisa soprattutto che la sua indagine sulle forme della costituzione della res publica romana si riferisce agli immediatamente successivi alla battaglia di Canne (216 a.C.), un momento talmente critico da costituire un’eccellente pietra di paragone per evidenziare la solidità e le capacità di ripresa dei Romani.

Scena di sacrificio (𝑠𝑢𝑜𝑣𝑒𝑡𝑎𝑢𝑟𝑖𝑙𝑖𝑎). Affresco, 𝑎𝑛𝑡𝑒 79 d.C. dall’agro pompeiano, loc. Moregine, edificio B.

[11. 11] Ἦν μὲν δὴ τρία μέρη τὰ κρατοῦντα τῆς πολιτείας, ἅπερ εἶπα πρότερον ἅπαντα· οὕτως δὲ πάντα κατὰ μέρος ἴσως καὶ πρεπόντως συνετέτακτο καὶ διῳκεῖτο διὰ τούτων ὥστε μηδένα ποτ’ ἂν εἰπεῖν δύνασθαι βεβαίως μηδὲ τῶν ἐγχωρίων πότερ’ ἀριστοκρατικὸν τὸ πολίτευμα σύμπαν ἢ δημοκρατικὸν [12] ἢ μοναρχικόν. καὶ τοῦτ’ εἰκὸς ἦν πάσχειν. ὅτε μὲν γὰρ εἰς τὴν τῶν ὑπάτων ἀτενίσαιμεν ἐξουσίαν, τελείως μοναρχικὸν ἐφαίνετ’ εἶναι καὶ βασιλικόν, ὅτε δ’ εἰς τὴν τῆς συγκλήτου, πάλιν ἀριστοκρατικόν· καὶ μὴν εἰ τὴν τῶν πολλῶν ἐξουσίαν θεωροίη τις, [13] ἐδόκει σαφῶς εἶναι δημοκρατικόν. ὧν δ’ ἕκαστον εἶδος μερῶν τῆς πολιτείας ἐπεκράτει, καὶ τότε καὶ νῦν ἔτι πλὴν ὀλίγων τινῶν ταῦτ’ ἐστίν.

[12. 1] Οἱ μὲν γὰρ ὕπατοι πρὸ τοῦ μὲν ἐξάγειν τὰ στρατόπεδα παρόντες ἐν Ῥώμῃ πασῶν εἰσι κύριοι τῶν [2] δημοσίων πράξεων. οἵ τε γὰρ ἄρχοντες οἱ λοιποὶ πάντες ὑποτάττονται καὶ πειθαρχοῦσι τούτοις πλὴν τῶν δημάρχων, εἴς τε τὴν σύγκλητον οὗτοι τὰς [3] πρεσβείας ἄγουσι. πρὸς δὲ τοῖς προειρημένοις οὗτοι τὰ κατεπείγοντα τῶν διαβουλίων ἀναδιδόασιν, οὗτοι τὸν ὅλον χειρισμὸν τῶν δογμάτων ἐπιτελοῦσι. [4] καὶ μὴν ὅσα δεῖ διὰ τοῦ δήμου συντελεῖσθαι τῶν πρὸς τὰς κοινὰς πράξεις ἀνηκόντων, τούτοις καθήκει φροντίζειν καὶ συνάγειν τὰς ἐκκλησίας, τούτοις εἰσφέρειν τὰ δόγματα, τούτοις βραβεύειν τὰ δοκοῦντα [5] τοῖς πλείοσι. καὶ μὴν περὶ πολέμου κατασκευῆς καὶ καθόλου τῆς ἐν ὑπαίθροις οἰκονομίας σχεδὸν αὐτοκράτορα [6] τὴν ἐξουσίαν ἔχουσι. καὶ γὰρ ἐπιτάττειν τοῖς συμμαχικοῖς τὸ δοκοῦν, καὶ τοὺς χιλιάρχους καθιστάναι, καὶ διαγράφειν τοὺς στρατιώτας, καὶ [7] διαλέγειν τοὺς ἐπιτηδείους τούτοις ἔξεστι. πρὸς δὲ τοῖς εἰρημένοις ζημιῶσαι τῶν ὑποταττομένων ἐν τοῖς ὑπαίθροις ὃν ἂν βουληθῶσι κύριοι καθεστᾶσιν. [8] ἐξουσίαν δ’ ἔχουσι καὶ δαπανᾶν τῶν δημοσίων ὅσα προθεῖντο, παρεπομένου ταμίου καὶ πᾶν τὸ προσταχθὲν [9] ἑτοίμως ποιοῦντος. ὥστ’ εἰκότως εἰπεῖν ἄν, ὅτε τις εἰς ταύτην ἀποβλέψειε τὴν μερίδα, διότι μοναρχικὸν ἁπλῶς καὶ βασιλικόν ἐστι τὸ πολίτευμα. [10] εἰ δέ τινα τούτων ἢ τῶν λέγεσθαι μελλόντων λήψεται μετάθεσιν ἢ κατὰ τὸ παρὸν ἢ μετά τινα χρόνον, οὐδὲν ἂν εἴη πρὸς τὴν νῦν ὑφ’ ἡμῶν λεγομένην ἀπόφασιν.

[13. 1] Καὶ μὴν ἡ σύγκλητος πρῶτον μὲν ἔχει τὴν τοῦ ταμιείου κυρίαν. καὶ γὰρ τῆς εἰσόδου πάσης αὕτη [2] κρατεῖ καὶ τῆς ἐξόδου παραπλησίως. οὔτε γὰρ εἰς τὰς κατὰ μέρος χρείας οὐδεμίαν ποιεῖν ἔξοδον οἱ ταμίαι δύνανται χωρὶς τῶν τῆς συγκλήτου δογμάτων [3] πλὴν τὴν εἰς τοὺς ὑπάτους· τῆς τε παρὰ πολὺ τῶν ἄλλων ὁλοσχερεστάτης καὶ μεγίστης δαπάνης, ἣν οἱ τιμηταὶ ποιοῦσιν εἰς τὰς ἐπισκευὰς καὶ κατασκευὰς τῶν δημοσίων κατὰ πενταετηρίδα, ταύτης ἡ σύγκλητός ἐστι κυρία, καὶ διὰ ταύτης γίνεται τὸ [4] συγχώρημα τοῖς τιμηταῖς. ὁμοίως ὅσα τῶν ἀδικημάτων τῶν κατ’ Ἰταλίαν προσδεῖται δημοσίας ἐπισκέψεως, λέγω δ’ οἷον προδοσίας, συνωμοσίας, φαρμακείας, δολοφονίας, τῇ συγκλήτῳ μέλει περὶ τούτων. [5] πρὸς δὲ τούτοις, εἴ τις ἰδιώτης ἢ πόλις τῶν κατὰ τὴν Ἰταλίαν διαλύσεως ἢ (καὶ νὴ Δί’) ἐπιτιμήσεως ἢ βοηθείας ἢ φυλακῆς προσδεῖται, τούτων πάντων ἐπιμελές [6] ἐστι τῇ συγκλήτῳ. καὶ μὴν εἰ τῶν ἐκτὸς Ἰταλίας πρός τινας ἐξαποστέλλειν δέοι πρεσβείαν τιν’ ἢ διαλύσουσάν τινας ἢ παρακαλέσουσαν ἢ καὶ νὴ Δί’ ἐπιτάξουσαν ἢ παραληψομένην ἢ πόλεμον ἐπαγγέλλουσαν. [7] αὕτη ποιεῖται τὴν πρόνοιαν. ὁμοίως δὲ καὶ τῶν παραγενομένων εἰς Ῥώμην πρεσβειῶν ὡς δέον ἐστὶν ἑκάστοις χρῆσθαι καὶ ὡς δέον ἀποκριθῆναι, πάντα ταῦτα χειρίζεται διὰ τῆς συγκλήτου. πρὸς δὲ τὸν [8] δῆμον καθάπαξ οὐδέν ἐστι τῶν προειρημένων. ἐξ ὧν πάλιν ὁπότε τις ἐπιδημήσαι μὴ παρόντος ὑπάτου, [9] τελείως ἀριστοκρατικὴ φαίνεθ’ ἡ πολιτεία. ὃ δὴ καὶ πολλοὶ τῶν Ἑλλήνων, ὁμοίως δὲ καὶ τῶν βασιλέων, πεπεισμένοι τυγχάνουσι, διὰ τὸ τὰ σφῶν πράγματα σχεδὸν πάντα τὴν σύγκλητον κυροῦν.

[14. 1] Ἐκ δὲ τούτων τίς οὐκ ἂν εἰκότως ἐπιζητήσειε ποία καὶ τίς ποτ’ ἐστὶν ἡ τῷ δήμῳ καταλειπομένη [2] μερὶς ἐν τῷ πολιτεύματι, τῆς μὲν συγκλήτου τῶν κατὰ μέρος ὧν εἰρήκαμεν κυρίας ὑπαρχούσης, τὸ δὲ μέγιστον, ὑπ’ αὐτῆς καὶ τῆς εἰσόδου καὶ τῆς ἐξόδου χειριζομένης ἁπάσης, τῶν δὲ στρατηγῶν ὑπάτων πάλιν αὐτοκράτορα μὲν ἐχόντων δύναμιν περὶ τὰς τοῦ πολέμου παρασκευάς, αὐτοκράτορα δὲ τὴν ἐν [3] τοῖς ὑπαίθροις ἐξουσίαν; οὐ μὴν ἀλλὰ καταλείπεται μερὶς καὶ τῷ δήμῳ, καὶ καταλείπεταί γε βαρυτάτη. [4] τιμῆς γάρ ἐστι καὶ τιμωρίας ἐν τῇ πολιτείᾳ μόνος ὁ δῆμος κύριος, οἷς συνέχονται μόνοις καὶ δυναστεῖαι καὶ πολιτεῖαι καὶ συλλήβδην πᾶς ὁ τῶν ἀνθρώπων [5] βίος. παρ’ οἷς γὰρ ἢ μὴ γινώσκεσθαι συμβαίνει τὴν τοιαύτην διαφορὰν ἢ γινωσκομένην χειρίζεσθαι κακῶς, παρὰ τούτοις οὐδὲν οἷόν τε κατὰ λόγον διοικεῖσθαι τῶν ὑφεστώτων· πῶς γὰρ εἰκὸς [6] ἐν ἴσῃ τιμῇ [ὄντων] τῶν ἀγαθῶν τοῖς κακοῖς; κρίνει μὲν οὖν ὁ δῆμος καὶ διαφόρου πολλάκις, ὅταν ἀξιόχρεων ᾖ τὸ τίμημα τῆς ἀδικίας, καὶ μάλιστα τοὺς τὰς ἐπιφανεῖς ἐσχηκότας ἀρχάς. θανάτου δὲ κρίνει [7] μόνος. καὶ γίνεταί τι περὶ ταύτην τὴν χρείαν παρ’ αὐτοῖς ἄξιον ἐπαίνου καὶ μνήμης. τοῖς γὰρ θανάτου κρινομένοις, ἐπὰν καταδικάζωνται, δίδωσι τὴν ἐξουσίαν τὸ παρ’ αὐτοῖς ἔθος ἀπαλλάττεσθαι φανερῶς, κἂν ἔτι μία λείπηται φυλὴ τῶν ἐπικυρουσῶν τὴν κρίσιν ἀψηφοφόρητος, ἑκούσιον ἑαυτοῦ καταγνόντα [8] φυγαδείαν. ἔστι δ’ ἀσφάλεια τοῖς φεύγουσιν ἔν τε τῇ Νεαπολιτῶν καὶ Πραινεστίνων, ἔτι δὲ Τιβουρίνων πόλει, καὶ ταῖς ἄλλαις, πρὸς ἃς ἔχουσιν [9] ὅρκια. καὶ μὴν τὰς ἀρχὰς ὁ δῆμος δίδωσι τοῖς ἀξίοις· ὅπερ ἐστὶ κάλλιστον ἆθλον ἐν πολιτείᾳ καλοκἀγαθίας. [10] ἔχει δὲ τὴν κυρίαν καὶ περὶ τῆς τῶν νόμων δοκιμασίας, καὶ τὸ μέγιστον, ὑπὲρ εἰρήνης [11] οὗτος βουλεύεται καὶ πολέμου. καὶ μὴν περὶ συμμαχίας καὶ διαλύσεως καὶ συνθηκῶν οὗτός ἐστιν ὁ βεβαιῶν ἕκαστα τούτων καὶ κύρια ποιῶν ἢ τοὐναντίον. [12] ὥστε πάλιν ἐκ τούτων εἰκότως ἄν τιν’ εἰπεῖν ὅτι μεγίστην ὁ δῆμος ἔχει μερίδα καὶ δημοκρατικόν ἐστι τὸ πολίτευμα.

C. Cassio Longino. Denario, Roma 63 a.C. 𝐴𝑟. 3,75 gr. Rovescio: 𝐿𝑜𝑛𝑔𝑖𝑛(𝑢𝑠) 𝐼𝐼𝐼𝑉(𝑖𝑟). Cittadino in atto di votare, stante, verso sinistra, mentre ripone una tabella contrassegnata con 𝑈(𝑡𝑖 𝑟𝑜𝑔𝑎𝑠) in una cista.

“Erano dunque tre gli elementi dominanti nella costituzione, che ho tutti citati in precedenza; ogni settore dell’amministrazione in particolare era stato disposto e veniva regolato per mezzo di loro in modo così equo e conveniente che nessuno, nemmeno tra i cittadini stessi, avrebbe potuto dire con sicurezza se questo sistema politico nel suo complesso fosse aristocratico, democratico o monarchico. Ed era naturale che la pensassero così. A fissare lo sguardo sull’autorità dei consoli, infatti, esso ci sarebbe apparso senz’altro monarchico e regale; considerando invece il potere del Senato, aristocratico; se, invece, ci fossimo soffermati su quello del popolo, sarebbe sembrato chiaramente democratico. Ciascuna di queste componenti aveva le sue competenze di governo e, salvo alcune modifiche, sia allora che oggi sono le seguenti.

I consoli, prima di guidare le legioni per una spedizione militare, quando si trovano a Roma esercitano la loro autorità su tutti gli affari pubblici. Infatti, tutti gli altri magistrati, a accezione dei tribuni della plebe, sono subordinati e obbediscono a loro, i quali introducono anche le ambascerie straniere in Senato. Oltre a quanto si è già detto, sono loro a proporre le deliberazioni urgenti e a curare per intero l’attuazione dei decreti. Per di più, tocca a loro provvedere a tutte le questioni concernenti gli affari pubblici, che devono essere trattate con l’intervento del popolo: proporre i decreti, dirigere l’esecuzione delle decisioni dei più. Ancora, hanno un’autorità quasi assoluta nei preparativi di guerra e, in generale, nella condotta sul campo. Hanno infatti facoltà di dare ai contingenti alleati le disposizioni che ritengono opportune, di nominare i tribuni militari, di arruolare i soldati e scegliere quelli idonei. Oltre a quanto si è detto, sul campo hanno l’autorità di infliggere punizioni a chi vogliono, tra i loro subordinati. Sono anche autorizzati a investire, del denaro pubblico, le cifre che stabiliscono: un questore li accompagna ed esegue prontamente ciò che gli è stato ordinato. Perciò, se qualcuno prendesse in considerazione questi aspetti, potrebbe a buon diritto affermare che l’organizzazione politica sia veramente monarchica e regia. E se alcune di queste cose o di quelle che sto per dire subirà qualche cambiamento o nel presente o fra qualche tempo, non smentirebbe quanto affermiamo ora.

Il Senato, da parte sua, esercita la sua autorità in primo luogo sull’erario: esso controlla infatti tutte le entrate e, analogamente, le uscite. I questori, infatti, non possono fare alcuna spesa, per esigenze particolari, senza decreto senatorio, a eccezione degli investimenti destinati ai consoli; sulla spesa di gran lunga più importante e gravosa di tutte – quella che i censori fanno ogni cinque anni per restaurare o costruire opere pubbliche – il Senato esercita il proprio controllo, e da esso viene la concessione ai censori. Nello stesso modo, di tutti i reati commessi in Italia che richiedano un’inchiesta pubblica – mi riferisco, per esempio, a tradimenti, congiure, venefici, omicidi – si occupa il Senato. Inoltre, se un privato, o un’intera città italica, ha bisogno di un arbitrato o magari di una censura, o di soccorso, oppure ancora di sorveglianza, di tutto ciò si occupa sempre il Senato. Per di più, se bisogna inviare un’ambasceria all’estero o per un’opera di pacificazione, o per avanzare richieste, o magare per dare ordini, o per accettare sottomissioni, o per dichiarare guerra, esso vi provvede puntualmente. Allo stesso modo, ancora, è il Senato a stabilire come si debbano trattare tutte le delegazioni che giungono a Roma e quale risposta si debba dare loro. In nessuna di queste faccende interviene il popolo. In conseguenza di ciò, quando qualche straniero soggiorna in città in assenza dei magistrati, la forma di governo può sembrargli compiutamente aristocratica. E di ciò sono convinti anche molti dei Greci e dei re, perché il Senato ha la competenza di quasi tutti i loro affari.

Visto e considerato tutto ciò, è lecito domandarsi quale sia mai la parte lasciata al popolo in questo ordinamento, dal momento che il Senato ha il controllo su tutte le questioni particolari delle quali abbiamo parlato e che – l’aspetto più importante – regolamenta tutte le entrate e le uscite, mentre i consoli, da parte loro, detengono pieni poteri sui preparativi di guerra e autorità assoluta in battaglia. Ebbene, anche al popolo viene lasciata una parte, e assai rilevante. Soltanto il popolo, infatti, in questa costituzione, ha il controllo degli onori e delle pene, le sole cose dalle quali sono tenuti uniti gli imperi, le città e, insomma, la vita della gente! Dove tale distinzione o non è conosciuta o, pur essendo nota, è praticata male, infatti, nessuna questione può essere risolta con criterio: e come potrebbe, visto che i buoni sono considerati alla stregua dei cattivi? Il popolo, dunque, spesso giudica una causa che prevede sanzioni pecuniarie, quando l’ammenda per il reato sia considerevole, e soprattutto giudica coloro che hanno ricoperto cariche importanti. È il solo a deliberare sulle cause capitali. Riguardo a quest’uso, avviene presso di loro una cosa degna di lode e di menzione. A coloro che vengono giudicati in una causa capitale, infatti, appena vengono condannati, il costume vigente presso di loro concede la facoltà di allontanarsi apertamente se resta anche una sola tribù, tra quelle che emanano il giudizio, a non aver ancora votato, condannandosi all’esilio volontario. Gli esuli sono al sicuro nelle città di Napoli, Preneste e Tivoli, e nelle altre con le quali hanno stretto patti giurati. Per di più, il popolo assegna le cariche a chi n’è degno: questa, in un ordinamento politico è la più bella ricompensa per la rettitudine di un uomo! Il popolo esercita la sua autorità anche sull’approvazione delle leggi e il dato più notevole è che sia esso a decidere della pace e della guerra. Per giunta, riguardo a un’alleanza, a un trattato di pace e alla stipula di patti, è il popolo a ratificare e a rendere operante o meno ciascuno di questi atti. Così, ancora, da ciò si potrebbe a buon diritto concludere che il popolo romano detenga un ruolo importantissimo nel sistema politico e che questo sia a tutti gli effetti democratico”.

Scena di lettura del testamento davanti al magistrato. Bassorilievo, marmo, I sec. a.C. da un sarcofago.

L’analisi dell’ordinamento romano operata dallo storico greco coincide con il momento di massima efficienza della res publica, che, uscita poi vincitrice dalla durissima prova delle guerre contro Cartagine, non aveva trovato ostacoli degni di nota alla sua espansione nel bacino orientale del Mediterraneo. Questo stato di cose non solo indusse Polibio a tentare di convincere i propri connazionali a cedere di buon grado alla nuova potenza, ma lo spinse anche ad approfondire lo studio delle istituzioni e delle usanze romane, allo scopo di mettere in luce quei caratteri che, secondo lui, dopo aver facilitato la rapida ascesa dell’Urbe, avrebbero anche garantito la solidità e la lunga durata (non l’eternità e l’immutabilità) della sua egemonia. Questo tipo di indagine non era nuovo presso i Greci: l’esempio più antico e autorevole si trova infatti in Erodoto (Hdt. III 80-83), in un celebre passo nel quale Dario e i suoi compagni, Otane e Megabizo, stroncata la congiura dei Magi, discutono fra loro su quale sia la migliore forma di governo (λόγος τριπολιτικός). Tale analisi, poi ripresa in forma molto più estesa e approfondita nei vasti sistemi filosofici di Platone e di Aristotele, aveva finito con giungere a una schematizzazione teorica, fondata su una duplice tripartizione, che valutava gli aspetti positivi e negativi di ciascun ordinamento statale: monarchia e tirannide, aristocrazia e oligarchia, democrazia e oclocrazia, evidenziandone la dinamica e le cause di mutamento e degenerazione. Dopo aver constatato, attraverso la considerazione dei fatti storici, che ciascuna di questi regimi contenesse in sé, per natura, i germi del proprio cambiamento e della propria distruzione, si era approdati alla convinzione che la costituzione migliore fosse quella mista, che riuniva in sé le caratteristiche più valide delle tre forme positive. Fino a Polibio, il modello ideale era stato identificato nella costituzione degli Spartani stabilita da Licurgo, fondata sull’interazione del potere dei due re (δυαρχία), della γερουσία (consiglio degli anziani) e degli ἔφοροι (guardiani del popolo), che controllavano l’operato dei re. Polibio segue questa stessa linea di ricerca, senza pretesa di originalità, ma affermando di voler chiarire, verificare e completare le conclusioni a cui erano giunti tutti i suoi predecessori con il concreto appoggio della sua diretta esperienza. Infatti, avendo vissuto in un periodo di grandi e rapidi mutamenti politici, la compatta solidità con cui i Romani avevano reagito a momenti estremamente difficili della loro storia, come la sconfitta del Trasimeno o quella, ancor più disastrosa, di Canne, lo aveva convinto a vedere nell’ordinamento quiritario un modello perfetto di costituzione mista, pur ammettendo che anch’essa avrebbe potuto modificarsi nel tempo, essendo soggetta – come ogni fatto umano – all’eterna legge del divenire.

Le osservazioni dello storico megalopolitano sull’assetto politico dei Romani suscitano nel lettore l’impressione che l’autore provasse un’incondizionata ammirazione per questa forma istituzionale, che sembra avere, ai suoi occhi, soltanto caratteristiche positive. Ciò è dovuto probabilmente al fatto che egli ebbe modo di fare le sue valutazioni in un periodo in cui il governo della res publica aveva raggiunto il massimo grado di funzionalità, mentre le questioni che ne avrebbero in seguito determinato la decadenza erano ancora abbastanza lontane e indefinite. Alla mente di Polibio, tesa a una visione universale del divenire storico, le vicende di Roma apparivano del tutto diverse da quelle di altri popoli e civiltà; nessun’altra delle nazioni di cui egli aveva seguito la parabola, dapprima in ascesa e poi sempre più declinante verso l’inevitabile decadenza, aveva avuto la forza di coesione, la disciplina, le capacità di reazione dei Romani, né tantomeno aveva avuto le qualità necessarie per attirare nella propria orbita le altre potenze del mondo antico. Queste peculiarità meritavano un’indagine più approfondita sia per soddisfare l’interesse dello storico, posto per la prima volta di fronte a una realtà nuova, sia per l’utilità dei suoi lettori, fine ultimo del suo lavoro.

Un console (𝑐𝑜𝑛𝑠𝑢𝑙) in tenuta da campagna, con il suo seguito di scribae e lictores. Illustrazione di A. McBride.

Fedele alla concretezza che permea tutta l’opera, Polibio evita considerazioni di carattere puramente teorico e ideologico, calandosi nella realtà dei fatti. In quest’ottica, lo statuto misto di Roma viene presentato come un solido e ben connesso organismo, le cui parti interagiscono attivamente, grazie alle possibilità di intervento e di veto di cui dispongono, pur nel rispetto delle specifiche competenze attribuite a ciascuna, in un sistema di complementarietà saldamente equilibrata. Anziché disquisire in maniera astratta sulle possibilità, sulle caratteristiche e sugli effetti delle varie organizzazioni statali (come, per esempio, aveva fatto Erodoto), o di dar vita all’utopia dello “Stato ideale”, lasciandosi vincere dal fascino della speculazione filosofica, Polibio si cala nel cuore di una realtà empirica senza idealizzarla, presentandola nei suoi meccanismi e nei suoi obiettivi utilitaristici.

Condizione irrinunciabile perché ciascuna delle tre componenti, minuziosamente analizzate nei poteri e nei compiti specifici, possa funzionare nel migliore dei modi in collaborazione con le altre è l’esistenza di un chiaro fine comune, che implichi per tutte uguali responsabilità e uguali vantaggi. Poiché la validità di questi principi si può saggiare soprattutto nelle situazioni più difficili, le guerre puniche costituirono, agli occhi dello storico, un eccellente banco di prova per dimostrare la tenuta dell’ordinamento romano, derivata dalla volontà di tutte le sue componenti di affrontare ogni sacrificio per la sopravvivenza di un organismo in cui sia la collettività sia i singoli cittadini si identificavano con egual convinzione.

Paradossalmente, per un autore come Polibio, deciso a rifiutare con assoluta coerenza qualsiasi forma di teorizzazione distaccata dalla realtà storica, l’utopia dello “Stato perfetto” sembra incarnarsi proprio nel Senatus popolusque Romanus. Forse, finché lo storico visse (scomparve nel 124 o nel 118 a.C.), la stabilità delle istituzioni fu tale da alimentare in lui la certezza di una lunga durata nel tempo; ma già nel 129, la morte violenta e misteriosa del suo fraterno sodale, Publio Cornelio Scipione Emiliano, preannunciava i sintomi di una crisi non solo istituzionale, ma anche politica e morale, che avrebbe corroso dall’interno quell’ordinamento che, fino ad allora, aveva resistito con granitica compattezza a ogni attacco esterno, anche quando, dopo Canne, i suoi cittadini avevano gridato per le strade: Hannibal ad portas!

Antifonte di Ramnunte

di I. BIONDI, Storia e antologia della letteratura greca. 2.B. La prosa e le forme di poesia, Messina-Firenze 2004, p. 199.

Il primo oratore attico, di cui ci siano giunte in parte le orazioni, è Antifonte, nato verso il 480 a.C. nel demo di Ramnunte, non lontano da Maratona. Buona parte delle notizie che possediamo su di lui provengono dalle Storie di Tucidide (VIII, 68, 1-2), che lo apprezzò come oratore e uomo politico. Antifonte svolse un ruolo di primo piano nel 411 a.C., quando fu promotore e sostenitore dell’oligarchia dei Quattrocento; ma quando il governo decadde e fu restaurata la democrazia, egli fu accusato da Teramene e condannato a morte. In quell’occasione scrisse e pronunciò l’orazione in sua difesa, che Tucidide considerò la migliore ma ascoltata fino ad allora, ma che non valse a salvarlo.

L’assemblea al voto. Illustrazione di P. Connolly.

Dell’opera di Antifonte ci è giunto un gruppo di orazioni giudiziarie, tutte su casi di omicidio (di qui il nome di λόγοι φονικοί), fra le quali si distinguono tre discorsi realmente pronunciati, il primo, come accusa, il quinto e il sesto, per difesa, e tre Tetralogie, di quattro orazioni ciascuna, su argomenti fittizi. Fra le orazioni realmente pronunciate, quella di accusa riguarda il caso di un giovane che cita in giudizio la matrigna per avergli avvelenato il padre, con la complicità di una schiava; un’altra, Per l’uccisione di Erode, sostiene la difesa di un giovane di Mitilene, accusato di aver ucciso un certo Erode, che, durante un viaggio per mare, era scomparso inspiegabilmente dalla nave; la terza, Sul coreuta, tratta una causa di omicidio preterintenzionale: l’accusato in questione è un corego, il quale, per saggiare le possibilità vocali di un suo coreuta, gli aveva fatto assumere una pozione che ne aveva causato la morte.

Come si è già accennato, le orazioni furono scritte da Antifonte, ma non pronunciate da lui, perché in tribunale avevano la parola soltanto le parti in causa. Perciò, Antifonte è il più antico logografo di cui si ha notizia ed è anche il primo ad aver fissato uno schema di svolgimento del discorso, che sarà seguito – in linea di massima – anche dagli oratori successivi: un’introduzione, che informa a grandi linee sull’argomento, una narrazione dei fatti, le prove e le testimonianze addotte dall’accusa e dalla difesa, una perorazione finale. Il modo di esporre appare caratterizzato da chiarezza ed efficacia e il racconto degli avvenimenti si fonde sapientemente con le argomentazioni: a questo proposito, un’innovazione degna di nota è rappresentata dal fatto che Antifonte sminuisce il valore delle prove estorte con la tortura, fino ad allora considerate indubitabili.

Themis. Statua, marmo, 300 a.C. ca. dal tempio di Nemesis a Ramnunte. Opera di Chairestratos e dedicata da Megacle. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

Le Tetralogie sono, invece, esercitazioni retoriche, scritte per processi fittizi, in ognuno dei quali si pronunciano quattro discorsi: l’accusa, la difesa, la replica all’accusa e la replica alla difesa. Tono e stile rivelano chiaramente l’influenza della lezione dei sofisti. Purtroppo è andata perduta l’orazione che sarebbe stata più interessante per noi, quella che Antifonte pronunciò per se stesso, e che era conosciuta dagli antichi con il titolo Sulla rivoluzione (Περί μεταστάσεως). Un papiro del III secolo d.C. ce ne ha restituito un frammento di una ventina di righe, troppo esiguo perché ci possiamo rendere conto del tono e del contenuto.

 

Il colpo di stato del 411 a.C.

di D. Musti, Storia greca. Linee di sviluppo dall’età micenea all’età romana, Roma-Bari 2010, pp. 429-437; 446-447.

 

Nel fitto susseguirsi di eventi, intrecciarsi di situazioni, sovrapporsi di piani diversi di azioni politiche che costituiscono il secondo grande spezzone della guerra del Peloponneso (413-404), iniziatosi con l’occupazione spartana di Decelea, possono individuarsi, e debbono segnalarsi al lettore per una più immediata intelligenza del periodo, almeno quattro aspetti fondamentali, in parte nuovi rispetto alle caratteristiche della guerra archidamica (431-421).

In primo luogo spicca il ruolo di Alcibiade, di una personalità politica, che tra il 415 e il 411 determina in senso negativo le vicende di Atene, sia in Sicilia, con i consigli di intervento rivolti agli Spartani, sia in Egeo, con l’intesa da lui promossa tra Sparta e la Persia, sia in patria, con l’ideazione (che a lui in prima istanza risale) del cambiamento di regime da democratico ad oligarchico nel 411. Non era certo una novità la presenza e l’influenza di una forte personalità politica: ma se un Pericle o un Cleone avevano rappresentato, con fondamentale coerenza, un punto di vista e una linea politica e di comportamento, in Alcibiade si vede all’opera una personalità che assoggetta (o crede di assoggettare) ai suoi disegni, e alla sua idea di rapporto col popolo, comportamenti e politiche in fiero contrasto fra di loro: e (fatale per Atene) i disegni che più andarono ad effetto furono proprio quelli più avversi alla sua città. Segno di contraddizione in Atene e nella Grecia intera, al centro di amori e di odi violenti, che si scontrano intorno alla sua persona, uomo di fondamentale formazione democratica (nonostante i rinnegamenti occasionali e strumentali), ma assai meno capace di Pericle di tenere quella linea divisoria tra pubblico e privato, tra la realtà politica e la sua persona, a cui lo zio e tutore aveva ispirato la sua propria visione e azione politica, Alcibiade rappresenta l’esplodere della personalità in un contesto in cui i valori comunitari erano stati finora decisivi. Lo registra la storiografia nei fatti che racconta di lui; lo significa il fiorire di interesse biografico intorno alla sua persona, che Plutarco puntualmente sottolinea[1].

Ritratto di Alcibiade. Mosaico pavimentale, IV sec. d.C. ca. da Sparta.
Ritratto di Alcibiade. Mosaico pavimentale, IV sec. d.C. ca. da Sparta.

Ad Alcibiade si deve l’avvio di quei contatti con i governanti persiani dell’Asia Minore, che dovevano procurare l’intervento di questi nella guerra greca e l’appoggio del re a Sparta (seconda caratteristica della nuova fase di guerra). Che poi nel corso delle trattative egli abbia cambiato posizione, e cercato di sfruttare a vantaggio di Atene il patrimonio di relazioni che aveva accumulato e imbastito, se da un lato rivela la vera propensione di Alcibiade, dall’altro toglie però assai poco al fatto che l’idea, nata nella mente dell’Ateniese, abbia poi preso corpo e marciato per conto suo: i trattati spartano-persiani del 412/411 sono la distante ma logica premessa della fervida intesa tra il viceré persiano di Sardi, Ciro (il Giovane), e il generale spartano Lisandro dal 408 in poi.

nobile achemenide. testa, pietra calcarea, 520-480 a.c. ca. teheran, museo nazionale
Nobile achemenide. Testa, pietra calcarea, 520-480 a.C. ca. Teheran, Museo Nazionale.

Ad Alcibiade si devono ancora iniziative, presto rinnegate, per modifiche nella costituzione ateniese, ed è questo il terzo motivo caratteristico del periodo. Le avvisaglie sono da riconoscere nel clima di complotto rivelato dall’episodio delle erme del 415; primi sviluppi di aspetto legalitario sono nell’istituzione, nel 413, di una commissione di 10 próbouloi (consiglieri che ‘istruivano’ le varie questioni), presto portata a 30 membri; infine, nel 411, il colpo di stato oligarchico. È nel senso di quanto s’è già sopra osservato il fatto che Alcibiade avviasse il processo oligarchico, sostenendo che esso sarebbe stato gradito alla Persia (al momento in cui aveva deciso, in un nuovo revirement, di trasferire a beneficio di Atene le sue aderenze persiane), ma che poi si decidesse a rientrare a vele spiegate nel campo democratico, che era in definitiva quello della sua vera vocazione politica, pur se adulterata e resa inquietante da marcate componenti personalistiche.

Hermes. Testa, marmo, V sec. a.C. da un'erma. Atene, Museo dell'Antica Agorà.
Hermes. Testa, marmo, V sec. a.C. da un’erma. Atene, Museo dell’Antica Agorà.

 

Un quarto aspetto da sottolineare risiede nelle dimensioni e nel ruolo che assume in questa nuova fase della guerra greca il problema degli alleati di Atene. Fra tutti, questo è certo il motivo meno nuovo, perché tutta la storia dell’impero navale ateniese è percorsa da tensioni fra Atene e i suoi sýmmachoi, tensioni che ogni volta assumono un grado e una caratteristica diversi. Nell’ambito della seconda fase della guerra del Peloponneso, le stesse fonti distinguono, in riferimento all’area dove la guerra si svolge, una “guerra ionica”. L’episodio della ribellione ad Atene – tutto sommato isolato – che aveva affiancato la guerra archidamica nell’Egeo orientale, nell’area latamente definibile della Ionia (la rivolta di Mitilene), ora si moltiplica e diventa sistematico; e vi si intrecciano la rivolta spontanea degli alleati ionici di Atene, la sollecitazione e la presenza spartana e, ancora una volta, dello stesso Alcibiade (Tucidide, VIII 6, 317, 1), lo scontro fra le flotte dei due grandi schieramenti greci e gli interventi finanziari, militari, politici dei Persiani. Del resto, la guerra del Peloponneso si deciderà soprattutto qui, nell’Egeo settentrionale e orientale, fra le isole prospicienti le coste e presso le stesse coste dell’Asia Minore occidentale. Abido, Cizico, Notion, le Arginuse, Egospotami, sono tutti nomi di luoghi ‘asiatici’ o di aree vicinissime all’Asia Minore, connessi con svolte e con fatti decisivi della guerra del Peloponneso; per gli antichi non v’era dubbio che la vittoria di Lisandro, nell’estate del 405, ad Egospotami sull’Ellesponto (dal versante europeo), fosse, in senso lato, la diretta premessa della resa di Atene, avvenuta solo otto mesi dopo.

Si può dunque dire che tutta la politica praticata dagli Ateniesi, fino alla seconda spedizione di Sicilia inclusa, cominci a produrre contraccolpi dal 413 in poi. Sul terreno politico v’è l’innovazione della commissione istruttoria di 10 próbouloi (tra i quali v’è anche Agnone, il padre di Teramene), espressione dell’esigenza di un qualche controllo preventivo dell’attività della boulé[2]. Sul terreno finanziario, sia ha (già dopo la sostituzione del vecchio tributo con uno nuovo, consistente in una quantità fissa, ma con carattere proporzionale, pari al 5% del valore delle merci in arrivo e in partenza nei vari porti dell’impero) un criterio forse più equo del precedente, ma certamente anche una fonte di maggiori entrate. Tucidide colloca la riforma subito dopo l’occupazione di Decelea da parte degli Spartani, in un passo (VII 2728) che sottolinea gli svantaggi anche d’ordine economico che conseguivano alla occupazione spartana: Decelea infatti si trovava sulla strada tra Atene ed Oropo, e quest’ultima era l’approdo dei rifornimenti dell’Eubea, che ora dovevano fare il giro costosissimo di capo Sunio.

Ricostruzione planimetrica del Bouleuterion di Atene, fine V secolo a.C.
Ricostruzione planimetrica del Bouleuterion di Atene, fine V secolo a.C.

La rivolta degli alleati di Atene scoppia in Eubea, a Lesbo, a Chio, che mandavano ambasciatori a Sparta, per sollecitarne l’intervento. Un convoglio peloponnesiaco è bloccato al capo Spireo tra Corinzia ed Epidauro, ma forza il blocco, e una piccola squadra spartana, al comando di Astioco, raggiunge l’isola di Chio a metà dell’estate del 412. La rivolta si allarga a macchia d’olio: Eritre, Clazomene, Teo, Mileto, Lebedo, in Asia Minore, Metimna e Mitilene, nell’isola di Lesbo, defezionano da Atene. È certamente opera anche di Alcibiade (e sarebbe vano volerlo negare come frutto di una presunta sopravvalutazione tucididea) il coinvolgimento della Persia. Naturalmente, da sola, la personalità individuale non riuscirebbe a determinare nella storia neanche singoli eventi di portata collettiva, figurarsi una catena di eventi. È giusto perciò ricordare, ma solo come dovuto contesto all’iniziativa di Alcibiade, che il coinvolgimento dei Persiani era innanzi tutto il portato del tutto naturale, di mero ordine geografico-politico, del trasferimento nella Ionia dell’asse, o di uno degli assi, del conflitto. Ed è anche giusto aggiungere che gli Ateniesi avevano paradossalmente fatto tutto ciò che era in loro potere per favorire la combinazione Sparta-Ioni-Persia, prodottasi con il patrocinio di Alcibiade, con cui si sommavano comprensibili ambiguità del comportamento degli Ioni, i quali erano a metà strada tra il desiderio di liberarsi da Atene e quello di non cadere del tutto nelle mani dei Persiani. Questi ultimi avevano preso Colofone nel 430; ma Atene aveva rinnovato nel 424, con Dario II, il trattato ‘di Callia’ con un altro che prende nome da Epilico, l’ambasciatore ateniese (zio materno dell’oratore Andocide)[3].

La rivolta del satrapo di Sardi, Pissutne, fu domata da Tissaferne, che vinse Pissutne, lo inviò al re perché fosse giustiziato e lo sostituì personalmente nel governo della satrapia di Lidia. Atene commise il torto di sostenere ancora, contro il re, il figlio di Pissutne, Amorge, anche per vendicarsi dell’occupazione di Efeso effettuata da Tissaferne.

Tissaferne, satrapo di Misia. Hekte, Focea 478-387 a.C. ca. EL 2,55 gr. Dritto: Testa barbata del satrapo verso sinistra.
Tissaferne, satrapo di Misia. Hekte, Focea 478-387 a.C. ca. EL 2,55 gr. Dritto: Testa barbata del satrapo verso sinistra.

Dopo la presa di Mileto da parte peloponnesiaca, comincia la serie dei trattati di Sparta con la Persia: sono tre, procurati rispettivamente da Calcideo, Terimene e Tissaferne. Tucidide sembra credere che ogni nuovo trattato fosse risultato da un progressivo miglioramento delle condizioni del trattato per i Lacedemoni; un’analisi più attenta mostra che i tre testi sono soltanto l’uno più preciso dell’altro[4]; e un ulteriore passo in avanti dovrebbe indurre a vedere nei primi due le versioni provvisorie, rispetti a cui il terzo trattato è solo la versione definitiva: i primi due trattati non sono in realtà altro che lo stesso (unico) trattato di volta in volta presentato in una versione diversa, dapprima in una che rispecchia di più la ‘competenza’ spartana, cioè l’insieme delle clausole che più specificamente attengono a Sparta (trattato di Calcideo), poi in un’altra che rispecchia di più la ‘competenza’ persiana (trattato di Terimene); un rapporto di specularità sussiste fra i due, di cui sintesi e formalizzazione è il terzo (un complesso processo diplomatico, a determinare la forma del quale appare decisiva la presenza di un contraente orientale, quale il re persiano). La materia dello scambio è in effetti la rinuncia, da parte spartana, della difesa dell’autonomia dei Greci d’Asia dal re di Persia e la concessione di aiuti finanziari per la guerra, da parte persiana.

Nell’estate del 412 il contrattacco ateniese consegue lo scopo di riconquistare Lesbo e Clazomene e bloccare Mileto: qui, anzi, gli Ateniesi effettuano alla fine dell’estate uno sbarco, reso vano dal sopraggiungere di una flotta peloponnesiaca di 55 triremi, fra cui 22 da Siracusa e Selinunte. In Asia si illustrano gli spartani Pedarito e Astioco, il navarco che, alla fine del 412, ha raggiunto Mileto, base ormai della flotta peloponnesiaca. Anche Iaso, la rocca occupata da Amorge, è presa e consegnata a Tissaferne. La base della flotta ateniese è invece la ormai fedele Samo, da cui muove una squadra per tentare di riconquistare Chio, approfittando di una rivolta del partito democratico. Nel tentativo di rompere il blocco ateniese dell’isola, Pedarito trova la morte.

Una dopo l’altra, le città della Lega sono perdute da Atene: così è di Cnido; e la vicina Cauno viene raggiunta da una nuova squadra navale peloponnesiaca. Un intervento ateniese, volto a impedire che quest’ultima si congiunga con il grosso della flotta, finisce in una nuova sconfitta: all’inizio del 411, nel settore ionico e cario, gli Ateniesi hanno, oltre Samo e Notion, Lesbo a nord, e Cos e Alicarnasso a sud, e l’isolata posizione di Clazomene; punti-chiave come Chio, Efeso, Mileto, sono ormai perduti, anche se a Chio gli Ateniesi continueranno ancora a lungo a tenere una testa di ponte al Delfinio[5].

gruppo del pittore leagro. una nave. pittura vascolare dall_interno di una kylix attica a figure nere, 520 a.c. ca., da cerveteri. cabinet des médailles.Gruppo del pittore Leagro. Una nave. Pittura vascolare dall’interno di una kylix attica a figure nere, 520 a.C. ca., da Cerveteri. Paris, Cabinet des médailles.
Gruppo del pittore Leagro. Una nave. Pittura vascolare dall’interno di una kylix attica a figure nere, 520 a.C. ca., da Cerveteri. Paris, Cabinet des médailles.

Sono ormai date le condizioni per una svolta politica in senso oligarchico, come logico sviluppo di precedenti avvisaglie, come reazione agli insuccessi della politica estera democratica, come maturazione delle trame più o meno occulte tessute da Alcibiade con gli ufficiali ateniesi della flotta di Samo. Se un fattore del deterioramento delle posizioni ateniesi nell’Egeo orientale era l’alleanza spartano-persiana, la situazione si poteva ribaltare, secondo Alcibiade, mutando il regime da democratico in oligarchico: Pisandro, trierarco a Samo, raggiunge Atene, latore di queste proposte[6]. In realtà, per gradi, Alcibiade sta tentando di rientrare nel gioco politico ateniese: quando il disegno sarà maturo, il suo interlocutore sarà, come agli inizi della sua carriera, il regime democratico.

Ostacoli al nascente regime oligarchico potevano venire, e di fatto vennero, dalla stessa flotta di Samo, da cui erano partiti gli ufficiali istigatori del complotto (Pisandro e gli altri). Erano infatti numerosi i cittadini impiegati negli equipaggi; e questi vennero presto a trovarsi nella condizione di contrastare gli sviluppi politici ateniesi[7]. Occorre comunque tenere distinte le vicende della città di Samo e quelle della flotta e degli equipaggi della flotta ateniese a Samo stessa. Nell’estate del 412 c’era stata nell’isola una rivoluzione democratica, che aveva fatto strage di capi oligarchici e privato gli altri di diritti politici e di proprietà. Nel 411 sono gli oligarchici a tentare di rovesciare la situazione, contando sugli ufficiali cospiratori, e uccidendo Iperbolo. L’intervento degli equipaggi ateniesi democratici e dei nuovi strateghi da essi eletti (tra cui Trasibulo di Stiria e Trasillo) è decisivo per soffocare il tentativo oligarchico.

Preoccupati per i fatti di Samo, gli oligarchi di Atene (fra cui spiccano l’oratore Antifonte, Frinico e Teramene) cercano di ammansire gli uomini della flotta, sforzandosi di mostrare che, una volta passati effettivamente i poteri ai Cinquemila, nulla praticamente sarebbe stato diverso dal passato: ad Atene tanti e non più sarebbero i cittadini che frequentavano di norma l’assemblea. L’argomento passava evidentemente al di sopra di tutte le questioni di principio e di diritto[8].

Combattimento fra Ateniesi e altri Greci. Bassorilievo, marmo, fine V sec. a.C., dal fregio occidentale del tempio di Atena Nike.
Combattimento fra Ateniesi e altri Greci. Bassorilievo, marmo, fine V sec. a.C., dal fregio occidentale del tempio di Atena Nike.

Un fatto che va sottolineato con forza è il ruolo politico particolarissimo che assume l’assemblea dei marinai ateniesi a Samo. Si assiste a una vera e propria scissione nella cittadinanza ateniese; la spaccatura ideologica all’interno di Atene è diventata fisicamente evidente, quasi tangibile. La parte della cittadinanza ateniese che serve nella flotta di Samo intende incarnare la legittimità democratica, intende valere come la vera città di Atene. Alcibiade, che nel frattempo ha preso le distanze, pur con opportune lentezze, dai putschisti oligarchi, è il lontano ‘garante’ dell’operazione. L’assemblea dei marinai ateniesi a Samo lo richiama dall’esilio; loro stessi sono fuori di Atene, ma, poiché si sentono come la vera Atene, pongono fine all’esilio di Alcibiade, chiamandolo fra loro[9]. E Trasibulo liquida in un’assemblea con un duro intervento tutto il sottile discorrere che si fa della «costituzione patria»: per questo schietto e rude democratico, le «patrie leggi» non sono altro se non quelle che c’erano state fino a ieri ad Atene (interpretazione del tutto legittima) e che gli oligarchi avevano abolito[10].

Eezionia (Pireo). Rovine delle fortificazioni dei Quattrocento.
Eezionia (Pireo). Rovine delle fortificazioni dei Quattrocento.

Dopo appena quattro mesi, il tentativo di fortificare Eezionia, la striscia di terra che delimita a nord il Pireo, certo con l’intento di impedire uno sbarco di quelli di Samo, suscita il sospetto che si stia costituendo una base d’appoggio per uno sbarco spartano (sospetto propalato comunque ad arte da Teramene, che vuole prendere le distanze dal gruppo, e che in questa circostanza si guadagnerà il nomignolo di ‘coturno’, la calzatura per tutti gli usi, la scarpa ambidestra). E chi avrebbe mai potuto dimostrare il contrario? Per una collusione diretta col nemico non bastava l’animo degli opliti, cioè a quel nucleo dei Cinquemila, che costituiva la base e il supporto per il governo dei Quattrocento. Frinico fu ucciso in piazza; il potere si disse essere ormai esteso ai Cinquemila (agosto del 411). Intanto riprendeva l’attività della flotta ateniese di Samo. Della zona dell’Ellesponto gli Ateniesi conservavano ancora il controllo: è perciò qui che si rivolge lo sforzo peloponnesiaco. Azioni di Dercillida contro Abido e Lampsaco nella Troade, e defezioni di Bisanzio, Calcedone, Selimbria, Perinto, Cizico, compromettono nell’estate del 411 le posizioni ateniesi nella zona degli Stretti. Nel vicino Egeo settentrionale, in autunno, seguono l’esempio dei ribelli l’isola di Taso e la città di Abdera in Tracia. Circa lo stesso periodo una flotta peloponnesiaca di 42 navi, al comando di Agesandrida, batte gli Ateniesi presso Eretria, e la vittoria procura la defezione di tutte le città dell’isola d’Eubea (fatta eccezione per la cleruchia ateniese di Oreo), così vitale per il rifornimento di Atene.

Collina della Pnice, Atene. Dettaglio - La tribuna (bema).
Collina della Pnice, Atene. Dettaglio – La tribuna (bema).

Sulle fonti per il colpo di stato del 411

Si discute delle procedure eseguite, delle realizzazioni formali, di funzioni e aspetti particolari della costituzione oligarchica del 411. Stando alle due fonti (Tucidide, VIII 65 e 67 e Aristotele, Costituzione degli Ateniesi, 29 ss.), fra le quali vi sono differenze che non costituiscono insanabili contraddizioni, sono da distinguere le seguenti fasi.

 

  • Nel maggio del 411 si istituisce una commissione di trenta syngrapheîs autokrátores (cioè, ‘costituenti’ con pieni poteri), fra cui erano compresi i dieci próbouloi istituiti nel 413 (decreto di Pitodoro): lo scopo è quello di riformare la costituzione, e un emendamento di Clitofonte rinvia ai pátrioi nómoi clistenici (Aristotele, 29, 23).
  • Ai primi del giugno (verso la fine del mese di Targhelione) del 411 si svolge un’assemblea straordinaria a Colono, fuori città (non sulla Pnice, come era nella tradizione) (Tucidide, VIII 67, 23, cfr. Aristotele, 29, 4 ss.). Si istituisce una costituzione di soli 5.000 cittadini; si aboliscono una serie di azioni penali di «illegalità», previste a tutela della democrazia, e le indennità (caratteristica e garanzia essenziale della democrazia), si nominano cento katalogheîs (compilatori di lista) dei Cinquemila.
  • I Cinquemila, a loro volta, eleggono 100 ‘redattori’ (anagrapheîs), i quali decidono che per il futuro (Aristotele, 30, 131, 1), la boulé sia costituita da quelli (dei 5.000) che abbiano superato i trent’anni, e che essa si organizzi in quattro parti, e funzioni a turno. È introdotto anche un criterio di cooptazione dei 100 uomini (gli anagrapheîs), in un sistema che prevede una ripartizione in quattro gruppi, da cui si sorteggiano i quattro gruppi consecutivi di 100 (?). Per il presente, i 400 sono scelti tra i prókritoi (una lista preliminare) dai loro phylétai, in numero di 40 per ogni phylé (sembra che, per il futuro, sulla organizzazione secondo 10 phylaí debba prevalere la ripartizione nelle quattro léxeis, o ‘ripartizioni’ formate col sorteggio).

L’assemblea costituente (di Colono?) è sinteticamente descritta come ‘dei Cinquemila’ da Aristotele (32, 1); ma lo stesso autore dice che i Cinquemila furono scelti solo a parole (cfr. 32, 3), il che può significare che l’operazione dei katalogheîs prevista a 29, 5 non fu mai formalmente e definitivamente compiuta, e che il plêthos che approva – a Colono? – la riforma costituzionale di Aristotele, 31, è ancora raccogliticcio, e non si identifica formalmente e definitivamente con l’assemblea dei Cinquemila. Nel complesso, va notata una minore distanza tra Tucidide (VIII 67, 3 e 72, 1) e Aristotele, quanto a esistenza effettiva dei Cinquemila, che neanche Aristotele ammette mai.

È d’altra parte evidente che il colpo di stato ideato (per giudizio concorde di Tucidide, VIII 63, 65, 68 e di Aristotele, 32, 2) da Pisandro, Antifonte, Teramene (cui Tucidide, VIII 68, 3, aggiunge Frinico) tende a rivestirsi di forme legali: di qui la distinzione tra costituzione del presente e costituzione del futuro (quest’ultima certo più ‘garantista’ verso la massa dei Cinquemila) o la distinzione tra i 30 syngrapheîs e i 100 katalogheîs, cioè tra il momento costituente e il momento del reclutamento dei cittadini, nonché quella tra i syngrapheîs (che gettano le fondamenta) e gli anagrapheîs (che formulano meccanismi costituzionali), e così via di seguito. D’altra parte sotto il velo delle forme si scopre la realtà del colpo di mano: funzionano i Quattrocento e non i Cinquemila; nella prima (e unica) costituzione della boulé oligarchica (dei 400) vige il principio della cooptazione; e, se i cento katalogheîs fossero (ma non è affatto certo) la stessa cosa che gli anagrapheîs, verrebbe meno la distinzione tra momento costitutivo dei meccanismi istituzionali e momento elettivo del corpo civico.

 

 

Bibliografia:

 

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[1] Sulla ricchezza dei dati biografici relativi ad Alcibiade, cfr. Plutarco, Alcibiade 1, 3 (e Aristotele, Poetica 9); D. Musti, Protagonismo e forma politica nella città greca, in AA.VV., Il protagonismo nella storiografia classica, Genova 1987, pp. 9 ss., in part. 26 ss.

[2] Tucidide, VIII 1, 3; Aristofane, Lisistrata; Aristotele, Costituzione degli Ateniesi 29, 2, sui próbouli del 413.

[3] Andocide, Sulla pace 29; Aristofane, Acarnesi 61 ss.; vd. anche Tucidide, IV 50, 3. Cfr. H. Bengtson, Die Staatsverträge des Altertums Bd. 2: Die Verträge dergriechisch-römischen Welt von 700 bis 338 v. Chr., München 1975, pp. 101-103.

[4] Cfr. E. Lévy, Les trois traités entre Sparte et le Roi, BCH 107 (1983), pp. 221 ss.

[5] Tucidide, VIII 546; e, in generale, fino a VIII 70.

[6] Id., VIII 5358.

[7] Id., VIII 63, 34.

[8] Tucidide, VIII 68; 72-76.

[9] Tucidide, VIII 81, 1; cfr. 85, 4.

[10] Cfr. in particolare Tucidide, VIII 76, 6, e in generale 75, 276, 7.