Il diritto di famiglia in età repubblicana: la 𝘱𝘢𝘵𝘳𝘪𝘢 𝘱𝘰𝘵𝘦𝘴𝘵𝘢𝘴 e l’istituto dell’adozione

In due passi dell’Heautontimorumenos – il dialogo tra Menedemo e Cremete a proposito del modello educativo adatto a crescere i figli (vv. 53-168) e le esternazioni di Clitifonte contro l’eccessiva severità dei padri (vv. 213-229) – ricorre un tema centrale in tutta l’opera di Terenzio: il contrasto generazionale tra genitori troppo severi e autoritari, da una parte, e figli che vorrebbero invece godere di un maggior grado di libertà e di autodeterminazione, dall’altra. Pur ambientando i propri drammi nel mondo greco, Terenzio si richiama, in scene di questo tipo, al diritto familiare vigente nella Roma del suo tempo. E per meglio comprendere le dinamiche descritte dal poeta, occorre perciò capire quanto fosse ampia l’autorità del capofamiglia romano nei confronti non solo dei propri figli, ma anche di tutti gli altri membri della familia.

Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Cod. Vat. lat. 3868, P. Terenti Afri Comoediae VI (sec. IX), f. 46v. Dialogo fra Menedèmo e Cremete.

La familia, che insieme alla gens costituiva, fin dai tempi più remoti, uno dei pilastri su cui si fondava l’organizzazione sociale di Roma antica, era il nucleo più piccolo, che comprendeva tutti coloro che erano soggetti all’autorità del maschio più anziano (il pater familias), vale a dire la moglie, i figli, i nipoti, le nuore, i beni materiali (terre, animali, case, ecc.) e i servi, che, almeno nei primi secoli dell’Urbe, erano ancora poco numerosi. Lo status familiae era infatti la condizione giuridica propria dei membri di una medesima unità familiare (familia proprio iure) costituita intorno al suo capo.

 Mentre le gentes esprimevano complessivamente l’originaria classe dirigente, le familiae costituivano la base della società stessa. Il termine latino familia derivava probabilmente dall’osco faama, che indicava in un primo tempo l’insieme di tutti i servi o famuli, che costituivano il patrimonio; in seguito, però, il significato della parola si condensò come definizione di gruppo familiare, ovvero l’insieme di tutte le persone residenti nella domus. Ecco allora la presenza di differenze ben marcate tra l’organizzazione familiare in tutte le sue forme e la gens: la familia aveva un capostipite reale, mentre quello dei gentiles era spesso mitico-divino; la parentela familiare, a differenza di quella gentilizia, era stabilita per gradi; il carattere della familia era essenzialmente potestativo, mentre quello della gens era comunitario e solidaristico. Siccome, poi, la familia era considerata un istituto sacro, di essa facevano parte anche i Lares, cioè i numi tutelari della casa, e i Penates, demoni protettori della dispensa e di tutti i membri del gruppo; i riti religiosi erano gestiti e officiati dal pater e riguardavano unicamente gli antenati, mentre il culto gentilizio celebrava non solo gli avi comuni, ma anche le divinità. Quanto al sistema onomastico, il nomen gentilicium preceduto da un praenomen identificava l’appartenenza dell’individuo a una gens, mentre una familia era ben distinta dalle altre dal cognomen portato ed ereditato dai suoi membri.

Lari e scena di sacrificio (dettaglio). Affresco, ante 79 d.C. da un lararium, Pompei (VII.6.38). Napoli, Museo Archeologico Nazionale

Insomma, la familia romana era un’organizzazione di natura patriarcale e verticistica, fondata sul dominio della componente maschile e sull’autorità del capofamiglia, che deteneva nei confronti dei suoi sottoposti una serie di poteri pari a quella di un re. In buona sostanza, solo il pater familias poteva dirsi pienamente un civis Romanus optimo iure, dal momento che non era sottoposto giuridicamente ad alcun altro cittadino libero. In altre parole, il pater era sui iuris (“di proprio diritto”), mentre alieni iuris (“di diritto altrui”) erano i suoi subordinati. Il giurista di epoca severiana (II-III secolo d.C.) Ulpiano riassumeva questa condizione nel modo seguente: Familiam proprio iure dicimus plures personas quae sunt sub unius potestate aut natura («Definiamo “famiglia di diritto proprio” quelle persone che sono soggette per potere o natura a un individuo solo», D. L 16, 195, 2).

L’estensione del potere paterno sui discendenti (maschi e femmine, naturali o adottati) era originariamente illimitata ed è probabile che tale intensità, unitamente a determinate caratteristiche peculiari della familia di età arcaica, dipendesse dalla primordiale inesistenza di un potere statuale: il gruppo familiare, agli albori dell’Urbe, avrebbe tenuto le veci di un potere più ampio, costituendo una struttura di carattere sovrano caratterizzata da una rigida disciplina nei riguardi dei sottoposti al capo.

Una madre che allatta il figlio alla presenza del padre (dettaglio). Rilievo, marmo, 150 d.C. dal sarcofago di M. Cornelio Stazio. Paris, Musée du Louvre.

Il potere del padre sui figli era definito patria potestas e costituiva un potere che, per forza e contenuto, era proprio ed esclusivo del popolo romano, come attesta il giurista Gaio: Fere enim nulli alii sunt homines qui talem in filios suos habent potestatem qualem nos habemus («Non esiste infatti quasi nessun popolo che conceda una potestas sui figli quale è la nostra», Gai. Inst. I 55). La portata di tale autorità cominciava a manifestarsi sin dal momento in cui il filius familias veniva alla luce. Il primo potere che il pater poteva esercitare sul neonato era quello di decidere autonomamente e insindacabilmente se accettarlo come figlio o rifiutarlo ed esporlo (ius exponendi), vale a dire abbandonarlo al proprio destino. Questo potere veniva sancito da un rituale: quando la donna che aveva assistito al parto (parente, serva o levatrice professionista) aveva terminato di lavare il bambino, doveva mostrarlo al capofamiglia e deporlo a terra ai suoi piedi; il padre poteva accettare o rifiutare il neonato, sollevandolo tra le proprie braccia oppure lasciandolo dov’era stato deposto (tollere o suscipere liberos), senza dare spiegazioni a nessuno.

Nel primo caso, il gesto del capofamiglia equivaleva a un tacito riconoscimento del natus come proprio figlio e l’assunzione di ogni responsabilità sulla creatura: la levatrice doveva, quindi, innalzare immediatamente una preghiera alla dea Levana, il nume che presiedeva all’atto di sollevare il bambino e che sanzionava la sua aggregazione nel gruppo familiare. Decorso un periodo di otto giorni per le femmine e di nove per i maschi, nella casa si celebrava il dies lustricus, nel quale il neonato veniva liberato da tutte le impurità derivate dalla gestazione e dal parto e in quel giorno il pater familias conferiva al figlio il praenomen. Quando si trattava di una bambina, la cerimonia era diversa: se il pater intendeva accoglierla come filia, ordinava semplicemente che fosse allattata (alerei ubere).

Un padre che solleva il figlioletto in braccio (dettaglio). Rilievo, marmo, 150 d.C. dal sarcofago di M. Cornelio Stazio. Paris, Musée du Louvre

Nel secondo caso, invece, con una sconcertante e crudele procedura, i piccoli rifiutati venivano esposti in un luogo pubblico, dove morivano di fame e di freddo, quando non erano divorati da animali randagi, a meno che un passante, mosso da tenerezza e compassione, li raccogliesse e riuscisse a salvarli in tempo (Dion. II 152).

Questa sorta di infanticidio legalizzato aveva forse anche la funzione di controllo delle nascite, al fine di ridurre il numero dei possibili destinatari del patrimonio familiare, o forse aveva anche l’obiettivo di estromettere dal novero dei beneficiari in particolare le figlie femmine. Questa pratica non fu sostanzialmente combattuta a livello di regolamentazione giuridica e, del resto, spesso si trattava di abbandono di figli naturali, di frequente operato dalle madri stesse. L’infante esposto, se sano, era solitamente accolto in un altro contesto familiare, dove veniva allevato o come servus, entrando a pieno titolo nel patrimonium del nuovo gruppo, oppure come un cittadino libero, rimanendo formalmente soggetto alla patria potestas del genitore che lo aveva abbandonato (Dig. XL 4, 29).

Sui figli accolti nella familia il padre esercitava un potere così esteso che è difficile enumerarne tutti gli aspetti, ma a riprova del carattere totalizzante della sua potestas erano ben note e riconosciute alcune facoltà significative. Spettava al pater di scegliere il coniuge ai propri discendenti. Indipendentemente dalla loro età, egli esercitava su di loro un potere disciplinare fortissimo, al punto da metterli a morte cum iusta causa. Questa facoltà, riconosciuta come ius vitae ac necis o vitae necisque potestas, era impugnata di regola sui figli maschi, qualora si fossero resi colpevoli di crimini contro la civitas, più in particolare se avessero commesso proditio o perduellio, vale a dire se avessero attentato alle istituzioni (Dion. II 26, 4; Pap. IV 8, 1 = FIRA II 555). Benché questi reati fossero considerati veri e propri crimina, di pertinenza della res publica, quando erano stati commessi da un filius familias, la civitas si ritraeva di fronte al potere paterno. Sulle figlie femmine, invece, lo ius vitae ac necis si esercitava, di norma, nel caso in cui le ragazze avessero perduto la propria pudicitia, ovvero qualora si fossero macchiate di stuprum, un comportamento illecito che nulla aveva a che fare con il reato oggi così definito: stuprum, infatti, a Roma, era qualunque rapporto sessuale intrattenuto da una donna onesta (cioè di condizione libera) al di fuori del matrimonio o del concubinato.

Ragazza che gioca agli astragali. Marmo, 130-150 d.C., Berlin, Antikenmuseum.

Come per l’esposizione, al capofamiglia era riconosciuta piena facoltà di azione nel caso in cui si fosse trovato nella necessità di allontanare, in forme sempre ritualizzate, i membri più deboli del gruppo, quelli che si intendessero “cedere” a un altro gruppo, o quelli che, in qualche modo, si fossero resi invisi al gruppo di provenienza. Un ulteriore potere che il pater familias poteva esercitare sui suoi sottoposti era infatti il diritto di cederli a terzi (ius vendendi), probabilmente per ragioni economiche, ma anche per trasferire un membro del proprio gruppo a un altro di pari rango, talvolta per cementare alleanze politiche tra le familiae, in una situazione formalmente diversa dalla servitù, ma nei fatti identica a questa (causa mancipi). In epoca più arcaica, a quanto sembra, questa facoltà doveva essere esercitata più volte: la patria potestas era così forte che la vendita del figlio non era sufficiente a estinguerlo. Se dopo essere stato ceduto il figlio veniva affrancato dall’acquirente o per qualunque altra ragione usciva dalla sua potestas (per esempio, se il compratore moriva senza eredi), il pater che lo aveva venduto riacquistava la pienezza dei propri poteri sul figlio. Ma le leggi delle XII Tavole stabilirono che si pater filium ter uenum duuit, filius a patre liber esto («Se un padre avrà venduto il figlio per tre volte, il figlio sia sciolto dalla patria potestà», XII Tav. IV 2b). In altre parole, se un padre vendeva un figlio per tre volte, dopo la terza cessione il figlio usciva dalla patria potestas. Nel corso dell’età repubblicana questa norma fu impugnata per creare all’interno dei gruppi familiari nuove possibilità, soprattutto in seno alla nobilitas, per garantire una maggiore autonomia ai maschi adulti. I patres, insomma, realizzavano così tre finte vendite (mancipationes) del filius a un amico compiacente, per ottenere l’uscita del sottoposto dalla propria potestà e renderlo, a sua volta, un pater a tutti gli effetti (Gai. Inst. I 132): il relativo negozio giuridico (emancipatio) consentiva ai giovani di belle speranze e ai più intraprendenti la possibilità di avviare in proprio le loro iniziative economico-sociali, senza doverne poi rendere conto al proprio pater. Questa progressiva emancipazione dei filii in potestate sembra derivare dalla crescente mobilità sociale avutasi fra IV e II secolo a.C., durante l’epoca delle conquiste, dalla creazione di nuove colonie e dalle conseguenti necessità economiche a cui divenne indispensabile ovviare.

Giovane nobile con l’himation. Statua, bronzo, età augustea, da Rodi. New York, Metropolitan Museum of Art.

In altre circostanze, il pater poteva affidare un figlio a un altro capofamiglia (noxae deditio), qualora il sottoposto avesse commesso un illecito lesivo delle sostanze o della persona di quest’ultimo: in questo modo spettava all’offeso o ai suoi familiari comminare la punizione al colpevole, mentre il pater si esimeva da ogni responsabilità (Gai. Inst. IV 75-76; FIRA II 224; Dig. IX 4).

Ai sottoposti al pater familias, discendenti naturali o acquisiti, ma anche alla donna sulla quale il marito esercitasse quel particolare potere che nelle fonti è chiamato manus, il diritto romano riconosceva determinate facoltà: i maschi in potestate e alieni iuris potevano accedere sia a rapporti di diritto privato sia a quelli di diritto pubblico; mentre le donne alieni iuris e quelle nella manus dello sposo o del suocero potevano negoziare rapporti giuridici di natura esclusivamente privata. In ogni caso, al di là dell’età e del sesso, il referente ultimo delle loro azioni rimaneva il pater familias.

Il piccolo Gaio Cesare si aggrappa alla tunica del padre Agrippa (dettaglio). Rilievo, marmo, 9 a.C. dal fregio della processione (lato sud). Roma, Museo dell’Ara Pacis.

Bisogna, inoltre, ricordare che la famiglia rappresentava non solo un insieme di persone, ma anche il complesso dei beni che facevano capo al pater, il “signore assoluto” della domus.La sottoposizione alla patria potestas infatti comportava per i soggetti anche la dipendenza economica al padre, unico titolare e amministratore del patrimonio: era lui che stabiliva l’impiego della ricchezza e assegnava ai filii i beni di cui potevano disporre (peculium). D’altronde, la parentela civile (adgnatio) era in linea maschile e produceva effetti giuridici ai fini della successione intestata, della tutela, della curatela e persino della vendetta. L’insieme degli adgnati, dopo la morte del comune pater familias, costituiva la familia communi iure. Poteva accadere, però, che i coeredi, dopo la scomparsa del capofamiglia, continuassero a conservare indiviso il patrimonio ereditato, pur risultandone ognuno titolare in solidum: questa forma di comunione (consortium ercto non cito), sorta per ragioni di natura economico-politica, perché garantiva la possibilità ai discendenti di rimanere nella classe censitaria (census) del defunto, si sarebbe estinta sul finire del periodo repubblicano.

Secondo Ulpiano, alla familia iure proprio si apparteneva proprio perché sottoposti alla patria potestas natura aut iure, vale a dire o per “diritto naturale” oppure grazie a un atto previsto a questo scopo dal diritto. Nel primo caso (patria potestas natura), il capofamiglia acquisiva la potestà sui nuovi nati ex iustis nuptiis (“da nozze legittime”), e cioè sui figli nati dal proprio matrimonio e quelli nati dai matrimoni dei propri discendenti (ovviamente maschi); nel secondo caso, invece, (patria potestas iure), un atto rituale, sacrale e giuridico, consentiva al pater di crearsi artificialmente una figliazione, secondo una forma legalmente riconosciuta di adozione. L’adozione era “il titolo giuridico” grazie al quale un individuo estraneo entrava a far parte della familia. Secondo le fonti di II-III secolo d.C., l’adoptio comprendeva l’adrogatio e l’adozione in senso stretto.

Ragazzino avvolto nel suo mantello. Bronzetto, I secolo. Parigi, Musée du Louvre.

L’adrogatio era la forma più antica di questo negozio giuridico, si compiva solo fra persone sui iuris e consisteva in una solenne interrogazione (donde il nome, da adrogare, “richiedere”) con cui il pater familias adottante (adrogans) chiedeva a colui che doveva essere adottato (adrogatus) se accettava di entrare nel proprio gruppo familiare. Il rito si celebrava dinanzi ai comitia curiata convocati e presieduti dal pontifex maximus, cui spettava anche il compito di controllare preventivamente l’opportunità dell’atto. La necessità di questo solenne controllo, al tempo stesso politico e religioso, era dovuta al fatto che colui che veniva adottato – essendo, a sua volta, un pater familias – sottoponendosi all’adottante perdeva per sempre la posizione sui iuris ed era ammesso nel nuovo nucleo familiare come filius, portando con sé i propri sottoposti e tutto il patrimonio. Questo cambiamento di status comportava l’estinzione di una familia con i suoi sacra e, perciò, si rendeva necessario il compimento di un rituale solenne di rinuncia al culto avito (detestatio sacrorum), volta a placare i numi che da quel momento non avrebbero più goduto dei dovuti onori e sacrifici. Compiute tutte le cerimonie, il pontifex sanciva il legittimo sorgere di una nuova filiazione, estinguendo il gruppo familiare dell’adrogatus.

L’adoptio in senso stretto, tramite la quale si davano in adozione solo persone alieni iuris, con il passaggio in potestate di un filius familias da un gruppo all’altro, fu introdotta solo in età post-decemvirale, cioè dopo la redazione delle leggi delle XII Tavole. In origine, infatti, il diritto non ammetteva che la patria potestas fosse trasferita da un pater a un altro. L’istituto dell’adoptio, in pratica, fu introdotto grazie all’interpretazione giurisprudenziale, prendendo le mosse dalla riflessione sulla disposizione, secondo la quale il padre che avesse venuto un figlio per tre volte dopo la terza cessione doveva perdere la propria potestà; era, insomma, legato al negozio dell’emancipazione, in quanto occorreva estinguere la patria potestas del padre che voleva far adottare il figlio. La procedura avveniva dinanzi al praetor, dove l’adottante rivendicava l’adottando, che doveva essere presente, come suo figlio, mentre l’ex padre taceva ritirandosi. A questo punto, il magistrato, riconoscendo la validità dell’atto, pronunziava l’addictio, dichiarando l’avvenuta adozione: l’adottato perdeva immediatamente ogni contatto di agnazione e di gentilità con la familia di provenienza per entrare a pieno titolo in quella dell’adottante. Questa formula giuridica, creando un vincolo di discendenza fittizia, equiparava sotto ogni aspetto gli adottati agli eredi naturali dell’adottante; da qui si deduce come questo istituto servisse, sin dalla sua comparsa, a procurare dei discendenti a qualsiasi cittadino romano che non avesse eredi naturali, così da garantirgli la continuità del nome, dei sacra e del patrimonio.

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Bibliografia:

B. Albanese, Le persone nel diritto privato romano, Palermo 1979.

L. Capogrossi Colognesi, s.v. patria potestas (diritto romano), in EncDir 32 (1982), 242-249.

― , La famiglia romana, la sua storia e la sua storiografia, MEFRA 122 (2010), 147-174.

C. Fayer, La famiglia romana. Aspetti giuridici e antiquari, Parte prima, Roma 1994.

G. Franciosi, Famiglia e persone in Roma antica. Dall’età arcaica al Principato, Torino 1995³.

P. Voci, Studi di diritto romano, II, Padova 1985.

Puteoli: “de forma inscriptioni danda statuae”

di A. Parma, Sulla presenza di decreta decurionum nella pars tertia, negotia, dei Fontes Iuris Romani Antejustiniani, in Revisione ed integrazione dei Fontes Iuris Romani Anteiustiniani (Fira). Studi preparatori. I. Leges, (a cura di) G. Purpura, Palermo 2008, pp. 244-248.

 

Base onoraria in marmo bianco nota da tradizione manoscritta.

Trasportata in epoca imprecisata per reimpiego da Puteoli a Napoli, venne inserita in uno dei pilastri del campanile di San Gregorio Armeno, dove è ancora oggi, già in antico visibile in parte.

CIL X 1786; FIRA III², 40.

Dat.: 9 gennaio 196 d.C.

 

 

M(arco) Octavio / M(arci) f(ilio) Agathae // C(aio) Domitio Dextro II L(ucio) Valerio / Messalla Thrasia Prisco co(n)s(ulibus) / VI Idus Ianuar(ias) / in curia basilicae Aug(ustae) Annian(ae) / scribundo adfuerunt A(ulus) Aquili(u)s / Proculus M(arcus) Caecilius Publiolus / Fabianus T(itus) Hordeonius Secund(us) / Valentinus T(itus) Caesius Bassianus / quod postulante Cn(aeo) Haio Pudente / o(ptimo) v(iro) de forma inscriptioni dan/da statuae quam dendrophor(i) / Octavio Agathae p(atrono) c(oloniae) n(ostrae) statue/runt Cn(aeus) Papirius Sagitta et P(ublius) / Aelius Eudaemon IIvir(i) rettu/lerunt q(uid) d(e) e(a) r(e) f(ieri) p(laceret) d(e) e(a) r(e) i(ta) c(ensuerunt) / placere universis honestissimo / corpori dendrophorum in/scriptionem quae ad honorem / talis viri p[ertinea]t dare quae / decreto [‒ ‒ ‒] inserta est.

 

A Marco Ottavio Agathas, figlio di Marco. Sotto il consolato di Gaio Domizio Destro, console per la seconda volta, e Lucio Valerio Messalla Trasia Prisco, il sesto giorno prima delle Idi di Gennaio, nella curia della Basilica Augusta Anniana erano presenti come redattori Aulo Aquilio Proculo, Marco Cecilio Publiolo Fabiano, Tito Ordeonio Secondo Valentino, Tito Cesio Bassiano. Perché, su richiesta di Gneo Aio Pudente, uomo distinto, quanto all’aspetto da dare all’iscrizione della statua che i dendrophori hanno stabilito per Ottavio Aghatas, patrono della nostra colonia, i duoviri, Gneo Papirio Sagitta e Publio Elio Eudemone, hanno riportato che cosa fosse opportuno fare circa la questione, a quel proposito [i decurioni] hanno così decretato: che a tutti quanti fosse gradito concedere all’onorevolissima corporazione dei dendrophori l’iscrizione che conviene ad un uomo siffatto, la quale [iscrizione] è stata integrata [‒ ‒ ‒] per decreto.

 

CIL X 1786, p. 222.

 

Il decreto nei FIRA è ricompreso nel gruppo degli atti di collegia, essendo stato ritenuto dal curatore una delibera della corporazione dei dendrophori cittadini, piuttosto che una disposizione dell’ordo decurionale puteolano. In seguito Sherk non incluse questa iscrizione nella sua silloge sui decreta decurionum[1]. A ben considerare, però, su questa interpretazione sorgono non pochi dubbi. La base onoraria posta ad Octavius Agatha, assai verosimilmente recava sul fronte, rimasto ignoto perché tuttora murato, l’elogio dedicato dal collegio al noto personaggio, mentre su una delle due facce laterali, un tempo visibile, era inciso, il testo qui trascritto, nel quale si legge il decreto emesso per la realizzazione di quell’elogio. La formulazione usata porta a pensare che non si tratti di un provvedimento preso all’interno del sodalizio per onorare un patrono del collegio, come ritenuto da Arangio Ruiz, quanto piuttosto di una delibera dell’ordo decurionum puteolano per approvare l’elevazione di una statua onoraria per un patronus coloniae (lin. 12). Ad accreditare questa interpretazione concorrono diversi elementi. Anzitutto il luogo di riunione, la curia della basilica Augusta Anniana, è uno dei luoghi tipici di incontro dell’ordo puteolano, già noto da diversi decreti epigrafici conservati[2], mentre il più delle volte i collegia si radunavano nei templa all’interno delle domus o scholae collegi[3]. Inoltre l’istanza era stata introdotta dai duoviri cittadini, Cn. Papirius Sagittae P. Aelius Eudaemon, e non dai curatores del collegio, come altrimenti accadeva, mentre Cn. Haius Pudens, ornatus vir[4], aveva avanzato la richiesta circa il testo dell’iscrizione da incidere sulla base della statua onoraria (“de forma inscriptioni danda”) che il potente collegio locale dei dendrophori[5] aveva disposto di erigere come testimonianza dei meriti acquisiti da M. Octavius Agatha, patronus coloniae[6], nella salvaguardia degli interessi della città di Puteoli. Infine, argomento che ritengo di maggior peso, la circostanza che gli universi (di lin. 17) che approvano il decretum, non possono identificarsi, per evidenti regole grammaticali, con i membri dell’honestissimum corpus dendrophorum, che è ricordato in caso dativo come beneficiario della concessione (honestissimo corpori dendrophorum inscriptionem … dare)[7]. La richiesta avanzata all’ordo decurionum in nome del collegio dei dendrophori, dunque, non riguarda solo la concessione di uno spazio su suolo pubblico dove porre la base con la dedica e la statua onoraria, come normalmente necessario in questi casi[8], bensì soprattutto la definizione del contenuto e della forma dell’elogio del patrono[9], in un rapporto che lega gli interessi del collegio a quelli della comunità cittadina. L’elogio, iscritto sulla facciata principale della base, non ci è pervenuto; possediamo solo un estratto del decreto, apposto su uno dei lati della stessa e redatto alla presenza di quattro decuriones testimoni:

A. Aquilius Proculus, M. Caecilius Publiolus Fabianus, T. Hordeonius Secundus Valentinus, T. Caesius Bassianus. La delibera è datata 9 gennaio del 196 sotto il consolato di C. Domitius Dexter, cos. iterum, e L. Valerius Messalla Thrasea Priscus[10].

 

Due personaggi togati (magistrati?). Statuetta, bronzo, I sec. d.C. Malibu, J. Paul Getty Museum.

 

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Note:

 

[1] Probabilmente seguendo l’interpretazione dello scioglimento suggerito da Waltzing alla lin. 12 del testo epigrafico p(atrono) c(ollegii) n(ostri), J.P. Waltzing, Étude historique sur les Corporations professionelles chez les romains depuis les origins jusqu’à la chute de l’Empire d’Occident, (Louvain 1895-1900), vol. III, Roma, 1968 (rist. anast.), 437-438, piuttosto che quello adottato da Mommsen nella relativa scheda edita nel CIL X.

[2] Altri decreti puteolani, all’incirca coevi, che hanno lo stesso edificio pubblico come luogo di riunione: CIL X 1782, 1783, 1787; Eph. Ep. VIII 371 = AE. 1988, 302.

[3] Vedi ad esempio: CIL V 7906; CIL XI 970, 2702, 5748 = AE. 2008, 499, 6335; AE. 1991, 713; AE. 2000, 344 = 2007, 359.

[4] Il nostro personaggio doveva essere un membro di spicco del collegio dei dendrophori che era stato incaricato o autorizzato a proporre l’istanza presso il consiglio decurionale. Sull’appellativo ornatus v. A. Chastagnol, Le formulaire de l’épigraphie latine officielle dans l’antiquité tardive, in A. Donati (ed.), La terza età dell’epigrafia, Coll. AIEGL –Borghesi 1986, Faenza 1988, 15-64. Infine sui rapporti correnti fra personaggi di spicco dell’élite cittadina e il collegio dei dendrophori v. da ult. F. Van Haeperen, Collèges de dendrophores et autorités locales et romaines, in M. Dondin-Payre – N. Tran (éd.), Collegia. Le phénomène associatif dans l’Occident romain, Bordeaux 2012, 47 ss.

[5] In generale sulla funzione religiosa del collegio: J.P. Waltzing, op. cit., 243-248. F. Cumont, s.v. Dendrophori, in PW V I (1903), col. 218-219. S. Aurigemma, sv. Dendrophori, in E. De Ruggiero, Diz. Ep., II, 2, 1900, 1671-1705. R. Rubio Rivera, Collegium dendrophorum: corporación profesional y cofradía metróaca, in Gerión, 11, 1993, 175-183. Per una lettura degli aspetti sociologici legati al prestigio e al rango dei collegiati anche in rapporto con la città e le sue istituzioni v. da ult. N. Tran, Les membres des associations romaines: le rang social des collegiati in Italie et en Gaules, sous le Haut-Empire, Rome 2006, in part. 211 ss. Sul fenomeno associativo in generale v. il recente M. Dondin-Payre – N. Tran, Collegia. Le phénomène associatif dans l’Occident romain, Bordeaux 2012. Sui collegia professionali in Campania v. S. Castagnetti, I collegia della Campania, in E. Lo Cascio – G. Merola (ed.), Forme di aggregazione nel mondo romano, Bari 2007, 223-241.

[6] Sulle diverse forme di patronato v. L. Harmand, Le patronat sur les collectivités publiques des origines au Bas-Empire, Paris 1957; B.H. Warmington, The municipal Patrons of Roman North Africa, in PBSR, 22, 1954, 39-51; R.P. Saller, Personal Patronage under the Early Empire, Cambridge 1982; Id., Patronage and friendship in early Imperial Rome: forms of control, in A. Wallace-Hadrill (ed.), Patronage in ancient society, London 1989, 283-287. Per il patronato municipale v. R. Duthoy, Quelques observations concernant la mention d’un patronat municipal dans les inscriptions, in AC, 50, 1981, 295-305; Id., Sens et fonction du patronat municipal sous le Principat, in AC, 53, 1984, 145-156; Id., Scenarios de cooptation des patrons municipaux en Italie, in Epigraphica, 46, 1984, 23-48; Id., Le profil social des patrons municipaux en Italie sous le Haut-Empire, in Ancient Society, 15-17, 1984-1986, 121-154.

[7] Non convince la forzatura grammaticale della frase da parte di Schnorr von Carosfeld che l’interpreta come un’espressione appositiva paratattica, vd. L. Schnorr von Carolsfeld, Geschichte der juristischen Person, I, Universitas, Corpus, Collegium im klassischen römischen Recht, München 1933, 360. Sul punto, anche se in relazione a due città africane, v. G. Zimmer, Locus datus decreto decurionum: Zur Statuenaufstellung zweier Forumsanlagen im romischen Afrika, München,1989, 9 ss.

[8] Sull’uso di spazi pubblici da parte dei collegia si v. da ult. N. Tran, Associations privées et espace public. Les emplois de publicus dans l’épigraphie des collèges de l’Occident romain, in M. Dondin-Payre – N. Tran (éd.), op. cit., 63 ss. 78.

[9] Su questo aspetto P. Le Roux, L’ ‘amor patriae’ dans le cités sous l’Empire romain, in H. Inglebert (éd.), Idéologies et valeurs civiques dans le monde Romain. Hommage à Claude Lepelley, Paris 2002, 143-161, in part. 148.

[10] Sui consoli v. PIR2 D 144. PW., VIII, A1, 169-170, n. 269.

Senza Vergogna

di E. Cantarella, Il senso del mito, in Archeo. Attualità nel passato. Mensile, anno XXIII, n°8, agosto 2007, 96-97.

 

Cosa regola i rapporti tra membri di comunità pre-politiche? Là dove non esiste il diritto, quali forze mantengono la coesione sociale, inducendo a tenere determinati comportamenti, ritenuti nobili e doverosi, e ad evitarne altri, ritenuti negativi e riprovevoli? Domanda difficile. Per rispondere alla quale, danno un contributo non secondario gli studi di antropologia e psicologia sociale. Più specificamente, gli studi di quelli – antropologi e psicologi sociali – che hanno elaborato il concetto di “cultura di vergogna” (shame culture).
Per shame cultures essi intendono le società in cui il rispetto delle regole non viene ottenuto attraverso l’imposizione di divieti. Il meccanismo del divieto, infatti, è tipico delle culture profondamente diverse da quelle “di vergogna”, che in opposizione a queste vengono definite “culture di colpa” (guilt cultures). Nelle culture di colpa, chi tiene un comportamento vietato si sente oppresso da un senso misto di colpa, di rimorso e di angoscia, approssimativamente espresso, appunto, dal termine guilt. Nelle “culture di vergogna”, invece, l’osservanza delle regole è ottenuta attraverso la proposizione di modelli positivi di comportamento, e coloro che non si adeguano a questi modelli incorrono nel biasimo sociale (“vergogna” in senso oggettivo) e in una sensazione soggettiva di inadeguatezza, a sua volta definita “vergogna”. Le shame e le guilt cultures, dunque, hanno caratteristiche di fondo che le contrappongono e quasi le oppongono l’una all’altra, e rispondono a concezioni di vita, valori e aspetti psicologici e sociali collettivi non solo diversi, ma spesso addirittura antitetici.
Ma attenzione: si tratta di modelli “ideali” di cultura. Nessuna società è totalmente “di vergogna” o totalmente “di colpa”. A seconda dei casi, nelle diverse realtà prevalgono – caratterizzandole – gli elementi dell’una o quelli dell’altra. E anche se la contrapposizione dei due “modelli” è stata criticata (forse giustamente, per alcuni aspetti), questo non toglie che essa consenta di cogliere, nelle grandi linee, la differenza fondamentale tra alcune culture in cui onore e reputazione sono tutto, e altre, in cui prevalgono emozioni e valori diversi, come il pentimento e il perdono. Il concetto di “cultura di vergogna”, dunque, non venne formulato dagli storici. Ma, ben presto, alcuni di essi ne intuirono l’importanza ai fini della comprensione del mondo antico, e grazie alle ricerche di Eric R. Dodds (autore del celebre The Greeks and the Irrational, 1951), i concetti contrapposti di vergogna e di colpa – entrati nel bagaglio teorico degli antichisti – vennero utilizzati per comprendere molte caratteristiche altrimenti oscure del mondo greco, e continuano ad essere lo strumento che consente di comprendere e illuminare alcune caratteristiche altrimenti oscure del mondo arcaico, e in particolare omerico.
Cominciamo con un esempio: gli eroi omerici attribuiscono la responsabilità delle loro azioni (se riprovevoli) a forze esterne, quali la divinità o il fato (moira). Perché lo fanno? Perché, trasferendo su forze esterne e superiori la responsabilità di comportamenti inadeguati al modello eroico, che condividono e al quale si ispirano, evitano la “vergogna”, che altrimenti li schiaccerebbe.
Con una specie di transfert, insomma, eliminano la sanzione psichica, altrimenti inevitabile, che renderebbe molto difficile, se non intollerabile, la loro vita.
Ma la vergogna non consiste solo nella sensazione interna di inadeguatezza. Essa viene anche dall’esterno, è la riprovazione sociale, il biasimo della collettività, l’espressione del disprezzo dell’opinione pubblica, quella “voce popolare” (demou phemis) che può offuscare l’immagine di un individuo: quell’immagine nella quale, in una “cultura di vergogna”, l’individuo identifica totalmente se stesso. Come dimostrano, in modo chiarissimo, i personaggi, sia maschili sia femminili, dei poemi omerici.

Pittore di Briseide. Priamo entra nella tenda di Achille. Pittura vascolare dal tondo di una kylix attica a figure rosse, 480 a.C. ca., da Vulci. Paris, Musée du Louvre.

L’uomo nella concezione di Omero: il corpo

di B. Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, cap. ITorino 2002, pp. 19-28

Con Aristarco, il grande filologo alessandrino, si è stabilito un principio fondamentale per l’interpretazione della lingua omerica: quello di evitare di tradurre i vocaboli omerici secondo il greco classico e di cercare di sottrarsi, nell’interpretazione della lingua omerica, all’influenza delle forme più tarde della lingua. Principio questo, dal quale noi possiamo attenderci un utile ancor maggiore di quanto non si aspettasse Aristarco. Se interpretiamo Omero attenendoci puramente alla sua lingua, potremo dare anche un’interpretazione più viva ed originale della sua poesia e far sì che le parole omeriche, intese nel loro vero significato, riprendano l’antico splendore. Il filologo, come il restauratore di un quadro antico, potrà ancor oggi scrostare in molti punti quell’oscura patina di polvere e di vernice che i tempi vi hanno deposto e ridare così ai colori quella luminosità che avevano al momento della creazione.
Quanto più allontaniamo il significato delle parole omeriche da quelle dell’era classica, tanto più evidente ci appare la diversità dei tempi e più chiaramente intendiamo il progresso spirituale dei Greci e la loro opera. Ma a questi due indirizzi – quello dell’interpretazione estetica, che ricerca l’intensità di espressione e la bellezza della lingua, e quello storico, che s’interessa alla storia dello spirito – se ne aggiunge uno ancora, speciale, di carattere filosofico.
In Grecia nacquero concezioni riguardanti l’uomo e il suo vigile e chiaro pensiero che influirono in modo decisivo sull’evoluzione europea dei secoli posteriori. Noi siamo propensi a considerare ciò che si è raggiunto nel secolo V, come valevole per tutti i tempi. Quanto da ciò sia lontano Omero, lo dimostra la sua lingua. Si è scoperto da tempo che in una lingua relativamente primitiva le forme d’astrazione non sono ancora sviluppate, ma che in compenso esiste un’abbondanza di definizioni di cose concrete, sperimentabili coi sensi, che apparirebbero strane in una lingua più progredita.

Scena di próthesis (lamentazione). Pittura vascolare da un’anfora attica collo in stile geometrico, Periodo Tardo-geometrico, 730-720 a.C. ca. Madrid, Museo arqueológico nacional de España.

Omero usa per esempio una grande quantità di verbi che descrivono l’atto di vedere: ὁρᾶν, ἰδεῖν, λεύσσειν, ἀθρεῖν, θεᾶσθαι, σκέπτεσθαι, ὄσσεσθαι, δενδίλλειν, δέρκεσθαι, παπταίνειν. Di questi parecchi sono caduti in disuso nel greco successivo, per lo meno nella prosa, vale a dire nella lingua viva, per esempio λεύσσειν, δέρκεσθαι, παπταίνειν, ὄσσεσθαι. E a sostituirli troviamo soltanto due nuove parole dopo Omero: βλέπειν e θεωρεῖν. Dalle parole cadute in disuso si può vedere quali fossero le necessità della lingua antica, divenute estranee alla lingua più recente. Δέρκεσθαι significa: “avere un determinato sguardo”. Δράκων, il “serpente” il cui nome è tratto da δέρκεσθαι, viene chiamato così, perché ha uno “sguardo” particolare, sinistro. È detto il “veggente”, non perché ci veda meglio di altri e la sua vista funzioni in modo speciale, ma perché ciò che colpisce in lui è il guardare. Così la parola δέρκεσθαι indica in Omero non tanto la funzione dell’occhio, quanto il lampeggiare dello sguardo, percepito da un’altra persona. Si parla, per esempio, di Gorgo che ha uno sguardo terribile, del cinghiale infuriato che schizza “fuoco” dagli occhi (πῦρ ὀφθαλμοῖσι δεδορκώς). È una maniera molto espressiva di guardare; e che molti passi della poesia di Omero riacquistino la loro particolare bellezza soltanto quando ci si rende conto del vero valore di questa parola lo può dimostrare l’Odissea, V, 84: πόντον ἐπ᾽ἀτρύγετον δερκέσκετο δάκρυα λείβων. Δέρκεσθαι significa “guardare con uno sguardo particolare” e risulta dall’insieme che si tratta di uno sguardo pieno di nostalgia, che Ulisse, lontano dalla patria, manda di là dal mare. Se vogliamo rendere in modo esauriente tutto il significato della parola δερκέσκετο (e dobbiamo rendere anche il valore dell’iterativo), ecco che diventiamo prolissi e sentimentali: “sempre guardava con nostalgia…”, oppure: “il suo sguardo sperduto vagava sempre “ sul mare. Tutto ciò è contenuto a un dipresso nella singola parola δερκέσκετο. È un verbo che dà un’immagine precisa di un particolare modo di guardare, come per esempio in tedesco le parole glotzen (“spalancare gli occhi”) o starren (“fissare”), che determinano un particolare modo di guardare (per lo meno in maniera diversa dalla solita). Anche dell’aquila si può dire ὀξύτατον δέρκεται, “guarda con occhio molto penetrante”, ma anche qui non ci si riferisce tanto alla funzione dell’occhio, alla quale usiamo pensare noi quando diciamo “guardare acutamente”, “fissare qualcosa con sguardo acuto”, quanto ai raggi dell’occhio, penetranti come i raggi del sole, che Omero chiama “acuti”, poiché attraversano ogni cosa come un’arma affilata. Δέρκεσθαι viene poi usato anche con l’oggetto esterno, allora il presente significa press’a poco “il suo sguardo si posa su un oggetto” e l’aoristo “il suo sguardo cade su qualcosa”, “è diretto verso qualcosa”, “egli getta a qualcuno uno sguardo”. Ciò risulta soprattutto dai composti di δέρκεσθαι. Nell’Iliade, XVI, 10, Achille dice a Patroclo: “Tu piangi come una ragazzina che voglia essere presa in braccio dalla madre”, δακρυόεσσα δέ μιν ποτιδέρκεται, ὄφρ᾽ ἀνέληται. Piangendo essa “volge lo sguardo” verso la madre perché la prenda in braccio. Noi possiamo rendere bene questo significato con la parola tedesca blicken. Blicken significa originariamente “irradiare”; la parola ha affinità con Blitz (“lampo”), blaken.

Maestro del Dípylon. Un carro da guerra dal frammento di un cratere attico in stile tardo geometrico, 725-720 a.C. dalla Necropoli del Ceramico (Atene). Paris, Musée du Louvre.

Ma il tedesco bliken ha significato più vasto della parola greca βλέπειν, che nella prosa più tarda ha sostituito la parola δέρκεσθαι. Ad ogni modo nell’espressione omerica δέρκεσθαι non tanto si considera il vedere come funzione, quanto la particolare facoltà dell’occhio di trasmettere ai sensi dell’uomo certe impressioni.
La stessa cosa vale anche per una altro dei verbi nominati, caduti in disuso nella lingua successiva. Παπταίνειν è anch’esso un modo di guardare, di guardarsi intorno cercando qualcosa con sguardo circospetto o con apprensione. Indica anch’esso dunque come δέρκεσθαι un modo di guardare, non si appoggia alla funzione del vedere come tale. È caratteristico il fatto che questi due verbi (fa eccezione soltanto un passo di un’epoca più tardi con δέρκεσθαι) non si trovano mai alla prima persona: δέρκεσθαι e παπταίνειν sono dunque degli atti che si osservano negli altri e non si sentono ancora come atto proprio. Diverso è il caso per il verbo λεύσσειν. Etimologicamente ha affinità con λευκός, “brillante”, “candido”, e infatti dei quattro esempi dell’Iliade nei quali il verbo porta un oggetto all’accusativo, tre si riferiscono al fuoco e ad armi lucenti. Esso significa dunque: “guardare qualcosa di lucente”. Significa inoltre: “guardare lontano”. La parola ha dunque il valore che ha il verbo tedesco schauen (“guardare”) nel verso di Goethe: “Zum Sehen geboren, zum Schauen bestellt” (“Son nato a vedere; guardare è il mio compito”). È un modo di guardare con sguardo fiero, gioioso, libero. Λεύσσειν indica evidentemente determinati sentimenti che si provano nel vedere, soprattutto nel vedere determinate cose. Ciò è confermato anche dal fatto che in Omero si trovano espressioni come τερπόμενοι λεύσσουσιν (Od., VIII, 171), τετάρπετο λεύσσων (Il., XIX, 19), χαὶρων, οὕνεχ᾽ἑταῖρον ἐνηέα λεῦσσ᾽ἐν ἀγῶνι (Od., VIII, 200), nelle quali viene espressa la gioia che accompagna λεύσσειν; mai il verbo λεύσσειν viene usato con riferimento a cose angosciose e paurose. Anche questa parola riceve dunque il suo senso specifico dal modo di vedere, da qualcosa che è di là dalla funzione del vedere e che dà piuttosto valore all’oggetto veduto e ai sentimenti che accompagnano il vedere. La stessa cosa può dirsi del quarto verbo relativo all’atto di vedere, e che è caduto in disuso nel tempo post-omerico: ὄσσεσθαι. Esso significa “avere qualcosa dinanzi agli occhi”, più particolarmente “aver qualcosa di minaccioso dinanzi agli occhi”; si passa così al significato di “presentire”. Anche qui il vedere è determinato dall’oggetto e dal sentimento che l’accompagna.
Vediamo che in Omero anche altri verbi che significano “vedere” ricevono il significato autentico dall’atteggiamento che accompagna il vedere, o dal momento affettivo. θεᾶσθαι significa press’a poco: “vedere spalancando la bocca” (come gaffen o schauen in tedesco meridionale; così nella frase: da schaust Du: “stai lì a guardare”). E infine i verbi, ὁρᾶν, ἰδεῖν, ὄψεσθαι, che più tardi sono stati raccolti in unico sistema di coniugazione, ci dimostrano che prima non si poteva indicare con un unico verbo l’atto del vedere, ma che ne esistevano parecchi che designavano di volta in volta l’atto del vedere. Fino a che punto sia possibile determinare anche per questi verbi di Omero il significato primitivo, non è cosa che possiamo risolvere qui, perché esigerebbe una trattazione più ampia.
Una parola più recente per “vedere”, cioè θεωρεῖν, non era in origine un verbo, ma è tratta da un nome, da θέωρος, e deve dunque significare “essere spettatore”. Più tardi però si riferisce a una forma del vedere e significa allora “star a guardare”, “osservare”. Non si accentua quindi in questo caso il modo di vedere, il sentimento che l’accompagna, e neppure il fatto che si vede un determinato oggetto (per quanto in un primo tempo si trattasse forse proprio di questo): in genere con θεωρεῖν non viene indicato un modo determinato o affettivo di vedere, bensì un’intensificazione della vera e propria funzione del vedere. Si accentua cioè la facoltà che ha l’occhio di cogliere un oggetto. Questo nuovo verbo esprime dunque proprio ciò che nelle forme primitive era passato in seconda linea, ma che ne costituisce l’essenziale.
I verbi dell’epoca primitiva si formano prevalentemente secondo i modi intuitivi del vedere, mentre più tardi è la funzione vera e propria del vedere che determina esclusivamente la formazione del verbo. Le diverse maniere di vedere vengono più tardi indicate per mezzo di aggiunte avverbiali. Παπταίνω si trasformerà in περιβλέπομαι, “guardare intorno” (Etymol. Magnum) ecc.
Naturalmente, anche agli uomini omerici gli occhi servivano essenzialmente per “vedere”, cioè per cogliere percezioni ottiche; ma ciò che noi giustamente concepiamo come la vera funzione, come la parte “positiva” del vedere, non era per loro l’essenziale; anzi, se essi non avevano un verbo per esprimere questa funzione, ciò significa che non ne aveva neppure il senso.
Ci allontaniamo per un momento da queste considerazioni per chiederci quale parola usasse Omero per indicare il corpo e l’anima.

 

Gruppo del Pittore di New York. Carro da guerra e cavaliere appiedato. Pittura vascolare dal cratere in stile geometrico. 750-735 a.C. ca., dalla Necropoli del Dipylon (Atene). New York, Metropolitan Museum of Art.

 

Già Aristarco osserva che la parola σῶμα, che più tardi significherà “corpo”, non viene in Omero mai riferita ai viventi: σῶμα significa “cadavere”. Ma che parola usa Omero per indicare il corpo? Aristarco pensava che δέμας fosse, per Omero, il corpo vivente. Ma ciò vale solo per certi casi. Per esempio la frase “il suo corpo era piccolo” è resa così da Omero: μικρός ἦν δέμας; e la frase “il suo corpo assomigliava a quello di un dio” è espressa a questo modo: δέμας ἀθανάτοισιν ὅμοιος ἦν. Ma δέμας è tuttavia un ben povero sostituto della parola “corpo”: esso si trova soltanto all’accusativo di relazione. Significa “di figura”, “di statura”, ed è quindi limitato a poche espressioni come essere piccolo o grande, rassomigliare a qualcuno o così via. Tuttavia in questo Aristarco ha ragione: fra le parole che troviamo in Omero quella che corrisponde forse più di tutte alla forma più tarda σῶμα è la parola δέμας. Ma Omero ha anche altre parole per indicare ciò che noi chiamiamo corpo e che i Greci del V secolo a.C. designano con σῶμα.
Se diciamo: “il suo corpo divenne fiacco”, ciò equivale, tradotto in lingua omerica, a λέλυντο γυῖα; oppure “egli tremava in tutto il corpo”: γυῖα τρομέονται; e ancora: alla nostra espressione “il sudore traspirava dal corpo” corrisponde in Omero a ἵδρως ἐκ μελέων ἔρρεεν. La frase “il suo corpo si riempì di forza” è espressa così da Omero: πλῆσθεν δ᾽ ἄρα οἷ μέλε᾽ ἐντός ἀλκῆς. E quindi abbiamo un plurale, mentre secondo i nostri concetti linguistici ci attenderemmo un singolare. Invece di “corpo” si parla di “membra”; γυῖα sono le membra in quanto vengono mosse dalle articolazioni, μελέα invece le membra in quanto ricevono forza dai muscoli. Vi sono inoltre in Omero, sempre a questo proposito, le parole ἅψεα e ῥέθεα. Ma qui possiamo trascurarle; ἅψεα si trova solo due volte nell’Odissea per γυῖα; ῥέθεα è del resto preso erroneamente in questo significato, come si potrà vedere in seguito.
Proseguendo nel gioco di trasportare non la lingua di Omero nella nostra, ma la nostra lingua in quella omerica, scopriamo altri modi di rendere la parola “corpo”. Come dobbiamo tradurre “egli si lavò il corpo”? Omero dice: χρόα νίζετο. Oppure, come dice Omero, “la spada penetrò nel suo corpo”? Qui Omero usa ancora la parola χρώς: ξίφος χροός διῆλθε. Riferendosi a questi passi, si è creduto che χρώς significasse “corpo” e non “pelle”.
Ma non c’è dubbio che χρώς sia davvero la pelle; naturalmente non la pelle in senso anatomico, la pelle che si può staccare, che sarebbe il δέρμα, bensì la pelle come superficie del corpo, come involucro, come portatrice di colore e così via. In realtà χρώς assume in una serie di frasi ancor più decisamente il significato di “corpo”: περί χροί δύσετο χαλκόν, cioè “egli cinse intorno al busto la corazza” (letteralmente, “intorno alla pelle”).
A noi sembra strano che non sia esistita una parola che esprimesse il significato di corpo come tale. Delle frasi citate che potevano essere usate in quel tempo per corpo al posto della più tarda espressione σῶμα, soltanto i plurali γυῖα, μελέα, ecc. stanno a indicare la corporeità del corpo, poiché χρώς è soltanto il limite del corpo e δέμας significa “statura”, “corporatura”, e lo troviamo soltanto nell’accusativo di relazione. Che in quest’epoca il corpo sostanziale dell’uomo venga concepito non come unità ma come pluralità, ce lo dimostra anche il modo di raffigurare l’uomo nell’arte greca arcaica.

Soltanto l’arte classica del V secolo a.C. rappresenta il corpo come un complesso organico, unitario, in cui le diverse parti sono in relazione le une con le altre. Precedentemente il corpo veniva proprio costruito mettendo insieme le singole parti, come ha dimostrato per primo Gerhard Krahmer. La raffigurazione del corpo umano al tempo dei poemi omerici è, però, notevolmente diversa da quella dataci, per esempio, dai disegni primitivi dei nostri bambini, per quanto anch’essi non facciano altro che mettere insieme le singole membra. Da noi i bambini, quando vogliono disegnare un uomo, in genere lo rappresentano come la figura 1. Nei vasi greci della fase geometrica, l’uomo è rappresentato invece come nella figura 2.

 

 

 

I nostri bambini mettono al centro, come parte principale, il corpo, e ad esso aggiungono il capo, le braccia e le gambe. Alle figure della fase geometrica invece manca proprio questa parte principale; esse sono cioè veramente μελέα καὶ γυῖα, membra con forti muscoli, distinte le une dalle altre da giunture fortemente accentuate. Certamente in questa differenza ha la sua parte anche l’abbigliamento, ma ancor più importanza ha qui quel particolare modo di vedere le cose in forma “articolata”, che è proprio ai Greci di questa prima era. Per loro le singole membra sono molto chiaramente distinte le une dalle altre, le articolazioni vengono accentuate in quanto sono le parti carnose. Il disegno greco primitivo coglie la mobilità del corpo umano, il disegno infantile ne rappresenta la compattezza. Il fatto che i Greci dei primi secoli non concepiscano il corpo come unità, né nella lingua né nell’arte plastica, conferma ciò che ci avevano dimostrato i diversi verbi di “vedere”. I verbi primitivi colgono quest’attività nelle sue forme evidenti, attraverso i gesti o i sentimenti che l’accompagnano, mentre nella lingua più tarda è la vera e propria funzione di quest’attività che vien posta al centro del significato della parola. È chiaro che la lingua tende sempre più ad avvicinarsi al contenuto; però il contenuto stesso è una funzione che non è legata, né nelle sue forme esteriori, né, come tale, a determinati, ben definiti, movimenti dell’animo. Ma, nel momento che essa viene riconosciuta e le viene dato un nome, essa acquista esistenza, e la consapevolezza della sua esistenza diventa ben presto una proprietà comune. Per quello che riguarda il corpo, la cosa si svolge probabilmente a questo modo: quando l’uomo dei tempi primitivi vuol indicare una persona che gli si presenta, basta che egli ne pronunci il nome, che dica: questo è Achille, oppure: questo è un uomo. Quando si vuol fare una descrizione più precisa, si indica prima di tutto quello che colpisce l’occhio, cioè le diverse membra; la relazione funzionale di esse viene soltanto più tardi riconosciuta come essenziale. Però anche in questo caso la funzione è qualcosa di reale, ma questa realtà non si rivela in modo così chiaro e a quanto pare non è la cosa che sia sentita per prima, neppure dalla persona stessa. Appena però quest’unità non ancor rivelata viene scoperta, essa s’impone in forma immediata.

 

Il simposio. Origine, ambiente, caratteristiche

di I. Biondi, Storia e antologia della letteratura greca. Vol.I Dalle origini al V secolo a.C., Firenze 2004, pp. 299-301.

 

Nel mondo greco, il simposio (sympósion) rappresentò un momento di aggregazione di grande importanza culturale, sociale, politica e sacrale. Si trattava di una riunione esclusivamente maschile che ebbe probabilmente la sua più lontana origine nel cosiddetto “banchetto ospitale” descritto nei poemi omerici, celebrato in occasioni particolari, con scopi sia pratici che celebrativi (Il. VII. 313-344; Od. IX. 1-38). Anche l’associazione fra l’assunzione del cibo, la sacralità e l’ascolto del canto, tipica del simposio in età storica, era già presente nei poemi omerici; tale consuetudine traspare infatti nell’accoglienza riservata da Achille ai compagni che si recano da lui in ambasceria. In primo luogo, al momento del loro arrivo, l’eroe suona la cetra, rievocando «glorie di eroi» (kléa andrōn), mentre Patroclo lo ascolta in silenzio; subito dopo, il Pelide invita il compagno a porre in mezzo un cratere più grande, a mescolare una maggiore quantità di vino e ad offrire una coppa a ciascuno dei presenti. Segue poi l’offerta di cibo, preceduta dal sacrificio agli dèi sul focolare domestico; soltanto al termine del pasto, Fenice, il più anziano del gruppo, espone ad Achille il motivo della loro visita (Il. 186-221). Nell’Odissea si vedono i cantori che intrattengono gli ospiti; questi sono aedi professionisti, ospiti fissi del re a cui dedicano le loro performances, nelle quali compaiono anche argomenti entrati da poco a far parte della tradizione epica, come il racconto del rientro degli eroi dalla Troade (Od. I. 326-344), o il ben noto inganno del cavallo.
Nei poemi omerici, il “banchetto” è generalmente definito daís, mentre il vocabolo sympósion compare per la prima volta in due frammenti del VII secolo a.C., uno di Alceo ed uno di Teognide, per indicare un momento di aggregazione sostanzialmente diverso dal convito eroico, cioè una forma di intrattenimento privato, riservata ad occasioni particolarmente solenni. Oltre che al bere, sancito da regole che imponevano la moderazione, il simposio era dedicato alla discussione di argomenti politici, culturali o filosofici, all’ascolto della poesia, del canto e della musica, a vari generi di intrattenimento; le uniche donne che vi prendevano parte erano musiciste, danzatrici, acrobate, giocoliere, disposte anche ad altre prestazioni richieste dagli ospiti. Un simile ambiente favoriva un genere di comunicazione interpersonale scherzosa e seria al tempo stesso, non priva di una certa sfumatura competitiva, ma sempre contenuta nei limiti dell’autocontrollo e del buon gusto.
Fra gli svaghi preferiti c’erano l’improvvisazione poetica e giochi che si configuravano come vere e proprie gare, con premi per i vincitori; notissimo quello del còttabo, che consisteva nell’infilare un dito nell’ansa della coppa quasi vuota, facendola roteare e cercando di colpire, con un ben mirato spruzzo del poco vino rimasto, alcuni gusci di noce che galleggiavano nell’acqua di un ampio recipiente, così da affondarli.

 

Pittore Cleofrade. Simposiasta che gioca al kottabos. Pittura vascolare sul tondo di una kylix attica a figure rose, 480 a.C. ca. New York, Metropolitan Museum of Art.

 

Tali caratteristiche, che escludevano, almeno teoricamente, qualunque forma di eccesso (hýbris), sottolineavano l’assoluta diversità del «bere insieme» greco da consuetudini analoghe presenti anche presso popolazioni barbariche, come Sciti e Traci. Tuttavia, queste norme non erano sempre rispettate nel corso del kōmos, la manifestazione finale del simposio, una chiassosa scorribanda per le vie della città, che si concludeva con canti di vario genere – provocatori, erotici, politici, rituali – rivolti a ben precisi destinatari. Talvolta, i comasti si abbandonavano a critiche pungenti e diffamatorie (psógoi), a minacce, a profferte amorose; in qualche caso, i personaggi presi di mira rispondevano per le rime, come dimostra l’espressione proverbiale eis melíttas ekōmasas,«hai stuzzicato le api».
Il simposio aveva anche una connotazione religiosa, sottolineata dalla libagione iniziale in onore di Zeus, a cui prendevano parte tutti i presenti, seguita da quella in omaggio ad altre divinità. I partecipanti formavano un insieme omogeneo per estrazione sociale, educazione e stile di vita, l’ideologia politica, vista la loro origine, era di solito improntata ad un forte conservatorismo aristocratico. L’appartenenza ad un gruppo politico, detto heitaireía, “eteria”, era rafforzata da un giuramento che ne sanciva la sacralità, la compattezza e l’impegno totale. In conseguenza di ciò, il simposio rappresentava un ambiente di elezione per la determinazione di un ḗthos, un “comportamento comune”, diverso dal legame di sangue che univa i componenti di un génos, ma non meno forte e non necessariamente in contrasto con esso.
Lo spazio destinato al simposio era l’andrōn, la “sala degli uomini”, che, nell’abitazione privata di un aristocratico o alla reggia di un sovrano o di un tiranno, aveva le stesse funzioni dell’antico mégaron, la grande sala del focolare descritta nei poemi omerici; tali riunioni rappresentavano un’alternativa sia all’ambiente dell’oikos, in cui si svolgeva la normale vita familiare del singolo, sia all’agorà, centro della vita collettiva della comunità. I commensali stavano sdraiati, singolarmente o in coppia, su lettucci o divani distribuiti lungo le pareti della sala, secondo una consuetudine che determinava nello stesso tempo l’organizzazione dello spazio simposiale e le dimensioni del gruppo. Poiché l’andrōn era una sala appositamente disegnata per contenere un numero fisso di lettucci, di solito sette, undici o quindici, il numero degli invitati oscillava tra i quattordici e i trenta, cosa che favoriva la formazione di piccoli gruppi omogenei e di forte stabilità.

 

Scena simposiale, Affresco, 480-470 a.C. ca. da Paestum, Tomba del Tuffatore (Parete settentrionale).

 

Uno dei rituali del simposio riguardava la separazione del cibo dalle bevande, consumati insieme durante il pasto normale (il deîpnon, “cena”); invece, nel corso del successivo sympósion ci si dedicava soprattutto al vino, accompagnandolo con semplici focacce, dette pópana, o con dolci, come le pyramídes, pasticcini di sfoglia di farina ripieni di miele e ricotta. Anche l’arredo del simposio presentava caratteristiche proprie, con mobili di buona fattura, talora decorati ad intarsio, resi più confortevoli da cuscini e tappezzerie e con vasellame apposito per le esigenze simposiali: il cratere per mescolare acqua e vino, lo psychthḗr per far raffreddare la miscela, brocche per distribuirlo e una notevole varietà di coppe per berlo.
Le immagini che ornano il vasellame rappresentano scene ispirate ai miti eroici, episodi di guerra e situazioni desunte dai repertori poetici, oppure immagini di attività tipicamente maschili, comuni nella vita dell’aristocrazia, come l’atletica, la caccia e il corteggiamento omosessuale.
Poiché la poesia e la musica costituivano l’elemento centrale del simposio, esso divenne l’ambiente di elezione della lirica, lontana tanto dall’universale oggettività dell’ἔπος, quanto dalla funzione pubblica del canto nelle solennità civili, religiose o agonistiche. Con il doppio flauto (aulós), tipico delle attività militari, si accompagnava la poesia elegiaca; fra gli strumenti a corda si utilizzavano il bárbiton e la lýra a sette corde; quest’ultima – inventata da Terpandro di Lesbo – divenne lo strumento tipico di questo genere poetico. Le forme metriche riflettevano la consuetudine della gara spontanea e della creazione estemporanea da parte di poeti occasionali: il distico elegiaco era particolarmente adatto all’improvvisazione, quando un tema scelto veniva sviluppato a turno da tutti i convitati.
Le componenti essenziali dell’atmosfera simposiale venivano indicate con i termini di euphrosýnēhēsychíacháris.

 

Gruppo dei pittori della Situla di Dublino. Apollo, Dioniso ed Hermes a banchetto. Pittura vascolare su situla apula a figure rosse, 350-330 a.C.

 

Il primo significava propriamente “gioia”, ma anche “festa”, e indicava la condizione psicologica, individuale e collettiva, derivante dalla presenza di persone amiche e gradite, non troppo numerose e ben selezionate, dal clima festivo (il simposio infatti era in genere la conclusione in ambiente privato di una panḗgyris, una “festività pubblica”, oppure la celebrazione di una lieta occasione personale); il secondo esprimeva la “serenità” o la “tranquillità” dei partecipanti, liberi da preoccupazioni immediate e disponibili a condividere pienamente la gradevole esperienza di una compagnia piacevole e stimolante. Tale atmosfera era arricchita dalla pístis, la “fiducia”, e dalla “concordia” o “identità di vedute” (homónoia), da cui scaturivano tranquillità e confidenza reciproca. Infine, con l’ultimo termine, che indicava la “grazia”, si esprimeva la raffinata capacità estetica di godere di tutto ciò che il simposio offriva di bello e di gradevole: suppellettili eleganti, fiori, profumi, vivande e vini di alta qualità, presentati da servi di bell’aspetto e di modi garbati, divertimenti di vario genere, ma, soprattutto, la conversazione, la musica, il canto.
I temi della poesia simposiale riflettevano gli interessi del gruppo e il suo aristocratico stile di vita: le imprese eroiche, la guerra, l’attività politica e l’incitamento all’azione – dai toni ora polemici, ora esortativi – ; gli inni, sia seri sia scherzosi, erano dedicati agli dèi preposti al simposio. Mancavano del tutto gli accenni alla vita familiare e al ruolo della donna libera, mentre erano frequenti le liriche ispirate all’amore etero ed omosessuale e le allusioni alle etere o alle schiave che partecipavano al simposio in veste di cantanti, danzatrici, musiciste ed intrattenitrici.