In due passi dell’Heautontimorumenos – il dialogo tra Menedemo e Cremete a proposito del modello educativo adatto a crescere i figli (vv. 53-168) e le esternazioni di Clitifonte contro l’eccessiva severità dei padri (vv. 213-229) – ricorre un tema centrale in tutta l’opera di Terenzio: il contrasto generazionale tra genitori troppo severi e autoritari, da una parte, e figli che vorrebbero invece godere di un maggior grado di libertà e di autodeterminazione, dall’altra. Pur ambientando i propri drammi nel mondo greco, Terenzio si richiama, in scene di questo tipo, al diritto familiare vigente nella Roma del suo tempo. E per meglio comprendere le dinamiche descritte dal poeta, occorre perciò capire quanto fosse ampia l’autorità del capofamiglia romano nei confronti non solo dei propri figli, ma anche di tutti gli altri membri della familia.

La familia, che insieme alla gens costituiva, fin dai tempi più remoti, uno dei pilastri su cui si fondava l’organizzazione sociale di Roma antica, era il nucleo più piccolo, che comprendeva tutti coloro che erano soggetti all’autorità del maschio più anziano (il pater familias), vale a dire la moglie, i figli, i nipoti, le nuore, i beni materiali (terre, animali, case, ecc.) e i servi, che, almeno nei primi secoli dell’Urbe, erano ancora poco numerosi. Lo status familiae era infatti la condizione giuridica propria dei membri di una medesima unità familiare (familia proprio iure) costituita intorno al suo capo.
Mentre le gentes esprimevano complessivamente l’originaria classe dirigente, le familiae costituivano la base della società stessa. Il termine latino familia derivava probabilmente dall’osco faama, che indicava in un primo tempo l’insieme di tutti i servi o famuli, che costituivano il patrimonio; in seguito, però, il significato della parola si condensò come definizione di gruppo familiare, ovvero l’insieme di tutte le persone residenti nella domus. Ecco allora la presenza di differenze ben marcate tra l’organizzazione familiare in tutte le sue forme e la gens: la familia aveva un capostipite reale, mentre quello dei gentiles era spesso mitico-divino; la parentela familiare, a differenza di quella gentilizia, era stabilita per gradi; il carattere della familia era essenzialmente potestativo, mentre quello della gens era comunitario e solidaristico. Siccome, poi, la familia era considerata un istituto sacro, di essa facevano parte anche i Lares, cioè i numi tutelari della casa, e i Penates, demoni protettori della dispensa e di tutti i membri del gruppo; i riti religiosi erano gestiti e officiati dal pater e riguardavano unicamente gli antenati, mentre il culto gentilizio celebrava non solo gli avi comuni, ma anche le divinità. Quanto al sistema onomastico, il nomen gentilicium preceduto da un praenomen identificava l’appartenenza dell’individuo a una gens, mentre una familia era ben distinta dalle altre dal cognomen portato ed ereditato dai suoi membri.

Insomma, la familia romana era un’organizzazione di natura patriarcale e verticistica, fondata sul dominio della componente maschile e sull’autorità del capofamiglia, che deteneva nei confronti dei suoi sottoposti una serie di poteri pari a quella di un re. In buona sostanza, solo il pater familias poteva dirsi pienamente un civis Romanus optimo iure, dal momento che non era sottoposto giuridicamente ad alcun altro cittadino libero. In altre parole, il pater era sui iuris (“di proprio diritto”), mentre alieni iuris (“di diritto altrui”) erano i suoi subordinati. Il giurista di epoca severiana (II-III secolo d.C.) Ulpiano riassumeva questa condizione nel modo seguente: Familiam proprio iure dicimus plures personas quae sunt sub unius potestate aut natura («Definiamo “famiglia di diritto proprio” quelle persone che sono soggette per potere o natura a un individuo solo», D. L 16, 195, 2).
L’estensione del potere paterno sui discendenti (maschi e femmine, naturali o adottati) era originariamente illimitata ed è probabile che tale intensità, unitamente a determinate caratteristiche peculiari della familia di età arcaica, dipendesse dalla primordiale inesistenza di un potere statuale: il gruppo familiare, agli albori dell’Urbe, avrebbe tenuto le veci di un potere più ampio, costituendo una struttura di carattere sovrano caratterizzata da una rigida disciplina nei riguardi dei sottoposti al capo.

Il potere del padre sui figli era definito patria potestas e costituiva un potere che, per forza e contenuto, era proprio ed esclusivo del popolo romano, come attesta il giurista Gaio: Fere enim nulli alii sunt homines qui talem in filios suos habent potestatem qualem nos habemus («Non esiste infatti quasi nessun popolo che conceda una potestas sui figli quale è la nostra», Gai. Inst. I 55). La portata di tale autorità cominciava a manifestarsi sin dal momento in cui il filius familias veniva alla luce. Il primo potere che il pater poteva esercitare sul neonato era quello di decidere autonomamente e insindacabilmente se accettarlo come figlio o rifiutarlo ed esporlo (ius exponendi), vale a dire abbandonarlo al proprio destino. Questo potere veniva sancito da un rituale: quando la donna che aveva assistito al parto (parente, serva o levatrice professionista) aveva terminato di lavare il bambino, doveva mostrarlo al capofamiglia e deporlo a terra ai suoi piedi; il padre poteva accettare o rifiutare il neonato, sollevandolo tra le proprie braccia oppure lasciandolo dov’era stato deposto (tollere o suscipere liberos), senza dare spiegazioni a nessuno.
Nel primo caso, il gesto del capofamiglia equivaleva a un tacito riconoscimento del natus come proprio figlio e l’assunzione di ogni responsabilità sulla creatura: la levatrice doveva, quindi, innalzare immediatamente una preghiera alla dea Levana, il nume che presiedeva all’atto di sollevare il bambino e che sanzionava la sua aggregazione nel gruppo familiare. Decorso un periodo di otto giorni per le femmine e di nove per i maschi, nella casa si celebrava il dies lustricus, nel quale il neonato veniva liberato da tutte le impurità derivate dalla gestazione e dal parto e in quel giorno il pater familias conferiva al figlio il praenomen. Quando si trattava di una bambina, la cerimonia era diversa: se il pater intendeva accoglierla come filia, ordinava semplicemente che fosse allattata (alerei ubere).

Nel secondo caso, invece, con una sconcertante e crudele procedura, i piccoli rifiutati venivano esposti in un luogo pubblico, dove morivano di fame e di freddo, quando non erano divorati da animali randagi, a meno che un passante, mosso da tenerezza e compassione, li raccogliesse e riuscisse a salvarli in tempo (Dion. II 152).
Questa sorta di infanticidio legalizzato aveva forse anche la funzione di controllo delle nascite, al fine di ridurre il numero dei possibili destinatari del patrimonio familiare, o forse aveva anche l’obiettivo di estromettere dal novero dei beneficiari in particolare le figlie femmine. Questa pratica non fu sostanzialmente combattuta a livello di regolamentazione giuridica e, del resto, spesso si trattava di abbandono di figli naturali, di frequente operato dalle madri stesse. L’infante esposto, se sano, era solitamente accolto in un altro contesto familiare, dove veniva allevato o come servus, entrando a pieno titolo nel patrimonium del nuovo gruppo, oppure come un cittadino libero, rimanendo formalmente soggetto alla patria potestas del genitore che lo aveva abbandonato (Dig. XL 4, 29).
Sui figli accolti nella familia il padre esercitava un potere così esteso che è difficile enumerarne tutti gli aspetti, ma a riprova del carattere totalizzante della sua potestas erano ben note e riconosciute alcune facoltà significative. Spettava al pater di scegliere il coniuge ai propri discendenti. Indipendentemente dalla loro età, egli esercitava su di loro un potere disciplinare fortissimo, al punto da metterli a morte cum iusta causa. Questa facoltà, riconosciuta come ius vitae ac necis o vitae necisque potestas, era impugnata di regola sui figli maschi, qualora si fossero resi colpevoli di crimini contro la civitas, più in particolare se avessero commesso proditio o perduellio, vale a dire se avessero attentato alle istituzioni (Dion. II 26, 4; Pap. IV 8, 1 = FIRA II 555). Benché questi reati fossero considerati veri e propri crimina, di pertinenza della res publica, quando erano stati commessi da un filius familias, la civitas si ritraeva di fronte al potere paterno. Sulle figlie femmine, invece, lo ius vitae ac necis si esercitava, di norma, nel caso in cui le ragazze avessero perduto la propria pudicitia, ovvero qualora si fossero macchiate di stuprum, un comportamento illecito che nulla aveva a che fare con il reato oggi così definito: stuprum, infatti, a Roma, era qualunque rapporto sessuale intrattenuto da una donna onesta (cioè di condizione libera) al di fuori del matrimonio o del concubinato.
Come per l’esposizione, al capofamiglia era riconosciuta piena facoltà di azione nel caso in cui si fosse trovato nella necessità di allontanare, in forme sempre ritualizzate, i membri più deboli del gruppo, quelli che si intendessero “cedere” a un altro gruppo, o quelli che, in qualche modo, si fossero resi invisi al gruppo di provenienza. Un ulteriore potere che il pater familias poteva esercitare sui suoi sottoposti era infatti il diritto di cederli a terzi (ius vendendi), probabilmente per ragioni economiche, ma anche per trasferire un membro del proprio gruppo a un altro di pari rango, talvolta per cementare alleanze politiche tra le familiae, in una situazione formalmente diversa dalla servitù, ma nei fatti identica a questa (causa mancipi). In epoca più arcaica, a quanto sembra, questa facoltà doveva essere esercitata più volte: la patria potestas era così forte che la vendita del figlio non era sufficiente a estinguerlo. Se dopo essere stato ceduto il figlio veniva affrancato dall’acquirente o per qualunque altra ragione usciva dalla sua potestas (per esempio, se il compratore moriva senza eredi), il pater che lo aveva venduto riacquistava la pienezza dei propri poteri sul figlio. Ma le leggi delle XII Tavole stabilirono che si pater filium ter uenum duuit, filius a patre liber esto («Se un padre avrà venduto il figlio per tre volte, il figlio sia sciolto dalla patria potestà», XII Tav. IV 2b). In altre parole, se un padre vendeva un figlio per tre volte, dopo la terza cessione il figlio usciva dalla patria potestas. Nel corso dell’età repubblicana questa norma fu impugnata per creare all’interno dei gruppi familiari nuove possibilità, soprattutto in seno alla nobilitas, per garantire una maggiore autonomia ai maschi adulti. I patres, insomma, realizzavano così tre finte vendite (mancipationes) del filius a un amico compiacente, per ottenere l’uscita del sottoposto dalla propria potestà e renderlo, a sua volta, un pater a tutti gli effetti (Gai. Inst. I 132): il relativo negozio giuridico (emancipatio) consentiva ai giovani di belle speranze e ai più intraprendenti la possibilità di avviare in proprio le loro iniziative economico-sociali, senza doverne poi rendere conto al proprio pater. Questa progressiva emancipazione dei filii in potestate sembra derivare dalla crescente mobilità sociale avutasi fra IV e II secolo a.C., durante l’epoca delle conquiste, dalla creazione di nuove colonie e dalle conseguenti necessità economiche a cui divenne indispensabile ovviare.

In altre circostanze, il pater poteva affidare un figlio a un altro capofamiglia (noxae deditio), qualora il sottoposto avesse commesso un illecito lesivo delle sostanze o della persona di quest’ultimo: in questo modo spettava all’offeso o ai suoi familiari comminare la punizione al colpevole, mentre il pater si esimeva da ogni responsabilità (Gai. Inst. IV 75-76; FIRA II 224; Dig. IX 4).
Ai sottoposti al pater familias, discendenti naturali o acquisiti, ma anche alla donna sulla quale il marito esercitasse quel particolare potere che nelle fonti è chiamato manus, il diritto romano riconosceva determinate facoltà: i maschi in potestate e alieni iuris potevano accedere sia a rapporti di diritto privato sia a quelli di diritto pubblico; mentre le donne alieni iuris e quelle nella manus dello sposo o del suocero potevano negoziare rapporti giuridici di natura esclusivamente privata. In ogni caso, al di là dell’età e del sesso, il referente ultimo delle loro azioni rimaneva il pater familias.

Bisogna, inoltre, ricordare che la famiglia rappresentava non solo un insieme di persone, ma anche il complesso dei beni che facevano capo al pater, il “signore assoluto” della domus.La sottoposizione alla patria potestas infatti comportava per i soggetti anche la dipendenza economica al padre, unico titolare e amministratore del patrimonio: era lui che stabiliva l’impiego della ricchezza e assegnava ai filii i beni di cui potevano disporre (peculium). D’altronde, la parentela civile (adgnatio) era in linea maschile e produceva effetti giuridici ai fini della successione intestata, della tutela, della curatela e persino della vendetta. L’insieme degli adgnati, dopo la morte del comune pater familias, costituiva la familia communi iure. Poteva accadere, però, che i coeredi, dopo la scomparsa del capofamiglia, continuassero a conservare indiviso il patrimonio ereditato, pur risultandone ognuno titolare in solidum: questa forma di comunione (consortium ercto non cito), sorta per ragioni di natura economico-politica, perché garantiva la possibilità ai discendenti di rimanere nella classe censitaria (census) del defunto, si sarebbe estinta sul finire del periodo repubblicano.
Secondo Ulpiano, alla familia iure proprio si apparteneva proprio perché sottoposti alla patria potestas natura aut iure, vale a dire o per “diritto naturale” oppure grazie a un atto previsto a questo scopo dal diritto. Nel primo caso (patria potestas natura), il capofamiglia acquisiva la potestà sui nuovi nati ex iustis nuptiis (“da nozze legittime”), e cioè sui figli nati dal proprio matrimonio e quelli nati dai matrimoni dei propri discendenti (ovviamente maschi); nel secondo caso, invece, (patria potestas iure), un atto rituale, sacrale e giuridico, consentiva al pater di crearsi artificialmente una figliazione, secondo una forma legalmente riconosciuta di adozione. L’adozione era “il titolo giuridico” grazie al quale un individuo estraneo entrava a far parte della familia. Secondo le fonti di II-III secolo d.C., l’adoptio comprendeva l’adrogatio e l’adozione in senso stretto.
L’adrogatio era la forma più antica di questo negozio giuridico, si compiva solo fra persone sui iuris e consisteva in una solenne interrogazione (donde il nome, da adrogare, “richiedere”) con cui il pater familias adottante (adrogans) chiedeva a colui che doveva essere adottato (adrogatus) se accettava di entrare nel proprio gruppo familiare. Il rito si celebrava dinanzi ai comitia curiata convocati e presieduti dal pontifex maximus, cui spettava anche il compito di controllare preventivamente l’opportunità dell’atto. La necessità di questo solenne controllo, al tempo stesso politico e religioso, era dovuta al fatto che colui che veniva adottato – essendo, a sua volta, un pater familias – sottoponendosi all’adottante perdeva per sempre la posizione sui iuris ed era ammesso nel nuovo nucleo familiare come filius, portando con sé i propri sottoposti e tutto il patrimonio. Questo cambiamento di status comportava l’estinzione di una familia con i suoi sacra e, perciò, si rendeva necessario il compimento di un rituale solenne di rinuncia al culto avito (detestatio sacrorum), volta a placare i numi che da quel momento non avrebbero più goduto dei dovuti onori e sacrifici. Compiute tutte le cerimonie, il pontifex sanciva il legittimo sorgere di una nuova filiazione, estinguendo il gruppo familiare dell’adrogatus.
L’adoptio in senso stretto, tramite la quale si davano in adozione solo persone alieni iuris, con il passaggio in potestate di un filius familias da un gruppo all’altro, fu introdotta solo in età post-decemvirale, cioè dopo la redazione delle leggi delle XII Tavole. In origine, infatti, il diritto non ammetteva che la patria potestas fosse trasferita da un pater a un altro. L’istituto dell’adoptio, in pratica, fu introdotto grazie all’interpretazione giurisprudenziale, prendendo le mosse dalla riflessione sulla disposizione, secondo la quale il padre che avesse venuto un figlio per tre volte dopo la terza cessione doveva perdere la propria potestà; era, insomma, legato al negozio dell’emancipazione, in quanto occorreva estinguere la patria potestas del padre che voleva far adottare il figlio. La procedura avveniva dinanzi al praetor, dove l’adottante rivendicava l’adottando, che doveva essere presente, come suo figlio, mentre l’ex padre taceva ritirandosi. A questo punto, il magistrato, riconoscendo la validità dell’atto, pronunziava l’addictio, dichiarando l’avvenuta adozione: l’adottato perdeva immediatamente ogni contatto di agnazione e di gentilità con la familia di provenienza per entrare a pieno titolo in quella dell’adottante. Questa formula giuridica, creando un vincolo di discendenza fittizia, equiparava sotto ogni aspetto gli adottati agli eredi naturali dell’adottante; da qui si deduce come questo istituto servisse, sin dalla sua comparsa, a procurare dei discendenti a qualsiasi cittadino romano che non avesse eredi naturali, così da garantirgli la continuità del nome, dei sacra e del patrimonio.
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Bibliografia:
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― , La famiglia romana, la sua storia e la sua storiografia, MEFRA 122 (2010), 147-174.
C. Fayer, La famiglia romana. Aspetti giuridici e antiquari, Parte prima, Roma 1994.
G. Franciosi, Famiglia e persone in Roma antica. Dall’età arcaica al Principato, Torino 1995³.
P. Voci, Studi di diritto romano, II, Padova 1985.
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