La peste di Atene (Lucr. VI 1145-1196; 1230-1286)

Cfr. PIAZZI F., GIORDANO RAMPIONI A., Multa per aequora. Letteratura, antologia e autori della lingua latina. 1 – Dall’età arcaica all’età di Cesare, Bologna 2004, 513-520; CONTE G.B., PIANEZZOLA E., Lezioni di letteratura latina. Corso integrato. 1. L’età arcaica e repubblicana, Milano 2010, 586-589; BALESTRA A. et alii, In partes tres. 1. Dalle origini all’età di Cicerone, Bologna 2016, 316-319.

 

Nel VI libro del De rerum natura, alla luce della fisica epicurea, Lucrezio spiega svariati fenomeni naturali di fronte ai quali l’uomo si sente talmente impotente da provare una profonda angoscia: terremoti, fulmini, eruzioni vulcaniche ed epidemie. Da qui prende le mosse l’excursus finale contenente l’agghiacciante e macabra descrizione della peste di Atene (430 a.C.), mediata dal racconto di Tucidide, che ne fu diretto testimone e vittima.

Per il poeta latino la peste è certo un’orribile realtà, ma è anche un fenomeno prodotto da cause naturali (l’alterazione dell’aria dovuta a turbamenti dell’equilibrio atmosferico). Perciò, la descrizione dell’epidemia che colpì Atene rientra perfettamente nell’argomento del VI libro, che fornisce spiegazioni razionali di calamità, che altrimenti creerebbero terrore e religio nell’animo del lettore-discepolo.

Per spiegare perché il poema della ragione e della voluptas termini con immagini di morte e di desolazione si è supposta l’incompiutezza dell’opera, cui sarebbe mancata l’ultima revisione. E poiché Lucrezio, nel libro precedente, aveva annunciato la descrizione delle sedi beate degli dèi, senza però tener fede alla promessa, si è pensato che quella rappresentazione di suprema atarassia fosse la chiusa originariamente progettata.

Non sono mancati, fra i critici, coloro che, sempre preoccupati di accertare l’ortodossia epicurea del poeta, hanno cercato in questa pagina la conferma estrema di un presunto «pessimismo lucreziano», di una «tragica antinomia […] tra la dottrina e il carattere del poeta» (Giussani), applicando all’episodio le categorie rigide e forzatamente attualizzanti del “pessimista” (in senso leopardiano), dell’“antiepicureo”, dell’“esistenzialista”, talora invocando seducenti, ma poco pertinenti, ermeneutiche psicanalitiche[1].

C’è stato, poi, chi ha addotto ragioni d’ordine strutturale: negli antichi trattati di Fisica le malattie vengono all’ultimo posto nella rassegna dei fenomeni naturali. E c’è stato anche chi ha visto questo «trionfo della Morte» in un rapporto di contrapposizione isonomica con il «trionfo della Vita», rappresentato dall’Inno a Venere dell’ouverture. La contrapposizione di queste due parti, programmaticamente «forti», sarebbe l’esito strutturale più vistoso di una polarità che attraversa l’intero poema, opponendo ansia e ragione, ignoranza e sapienza, religione e filosofia, schiavitù e liberazione, ecc. «All’interno di tale sistema oppositivo […] in particolare il primo proemio e l’ultimo finale sembrano fissare definitivamente questo carico di tensione in un ideale e meraviglioso duello tra le forze della vita e quelle della morte» (Dionigi).

Secondo Commager, il quadro tucidideo di un popolo malato, arso dalla sete insaziabile e autodistruttiva, assurge nel finale lucreziano a simbolo dello stato di malattia mentale dei tempi di Cesare, e, in genere, dei mali cronici dello spirito umano[2].

C’è stato, infine, chi ha ravvisato nella chiusa espressionistica sulla peste l’ultima e più compiuta manifestazione del lepos, che è alla base della poetica del De rerum natura. Lucrezio – con la parafrasi erudita della scrittura tucididea, impreziosita da contaminazioni con altri autori e tesa all’effetto patetico conforme ai modi del vertere latino – intenderebbe fornire al suo pubblico colto l’estrema prova di consumata perizia tecnica. Così l’episodio avrebbe il valore di un preciso «segno culturale», nell’ambito di una concezione allusiva dell’arte fondata sull’aemulatio con il modello illustre, che nel caso specifico era un autore assai in voga a Roma (come dimostra l’opera di Sallustio)[3].

Pedro Atanasio Bocanegra, Alegoría de la Peste. Olio su tela, XVII sec.

 

Metro: esametri

 

1145 Principio caput incensum feruore gerebant

et duplices oculos suffusa luce rubentis.

Sudabant etiam fauces intrinsecus atrae

sanguine et ulceribus uocis uia saepta coibat

atque animi interpres manabat lingua cruore

1150 debilitata malis, motu grauis, aspera tactu.

Inde ubi per fauces pectus complerat et ipsum

morbida uis in cor maestum confluxerat aegris,

omnia tum uero uitai claustra lababant.

Spiritus ore foras taetrum uoluebat odorem,

1155 rancida quo perolent proiecta cadauera ritu.

Atque animi prorsum uires totius ‹et› omne

languebat corpus leti iam limine in ipso.

Intolerabilibusque malis erat anxius angor

assidue comes et gemitu commixta querela.

1160 Singultusque frequens noctem per saepe diemque

corripere assidue neruos et membra coactans

dissoluebat eos, defessos ante, fatigans.

Nec nimio cuiquam posses ardore tueri

corporis in summo summam feruescere partem,

1165 sed potius tepidum manibus proponere tactum

et simul ulceribus quasi inustis omne rubere

corpus, ut est per membra sacer dum diditur ignis.

Intima pars hominum uero flagrabat ad ossa,

flagrabat stomacho flamma ut fornacibus intus.

1170 Nil adeo posses cuiquam leue tenueque membris

uertere in utilitatem, at uentum et frigora semper.

In fluuios partim gelidos ardentia morbo

membra dabant nudum iacientes corpus in undas.

Multi praecipites lymphis putealibus alte

1175 inciderunt ipso uenientes ore patente:

insedabiliter sitis arida, corpora mersans,

aequabat multum paruis umoribus imbrem.

Nec requies erat ulla mali: defessa iacebant

corpora. Mussabat tacito medicina timore,

1180 quippe patentia cum totiens ardentia morbis

lumina uersarent oculorum expertia somno.

Multaque praeterea mortis tum signa dabantur,

perturbata animi mens in maerore metuque,

triste supercilium, furiosus uultus et acer,

1185 sollicitae porro plenaeque sonoribus aures,

creber spiritus aut ingens raroque coortus,

sudorisque madens per collum splendidus umor,

tenuia sputa minuta, croci contacta colore

salsaque, per fauces rauca uix edita tussi.

1190 In manibus uero nerui trahere et tremere artus

a pedibusque minutatim succedere frigus

non dubitabat. Item ad supremum denique tempus

compressae nares, nasi primoris acumen

tenue, cauati oculi, caua tempora, frigida pellis

1195 duraque, in ore truci rictum, frons tenta tumebat.

Nec nimio rigida post artus morte iacebant. […]

François Perrier, La peste di Atene. Olio su tela, 1640.

 

1145 Dapprima avevano il capo bruciante di un ardore infuocato,

gli occhi iniettati di sangue per un bagliore diffuso.

E dentro le livide fauci sudavano sangue,

si serrava cosparsa di ulcere la via della voce,

e la lingua, interprete dell’animo, stillava di umore sanguigno,

1150 fiaccata dal male, ruvida al tatto e inerte.

Quando poi il violento contagio attraverso le fauci

invadeva il petto, e affluiva per intero al cuore dolente dei malati,

tutte davvero le barriere della vita vacillavano.

L’alito effondeva dalla bocca un orribile olezzo

1155 come quello che emanano le marce carogne insepolte.

Le forze dell’animo intero e tutta la fibra

del corpo languivano sulle soglie stesse della morte.

Agli atroci dolori era assidua compagna un’ansiosa

angoscia, e un pianto mischiato a continui lamenti.

1160 E spesso un singulto incessante di giorno e di notte,

costringendoli a contrarre assiduamente i nervi e le membra,

tormentava e sfiniva gli infermi già prima spossati.

Né avresti potuto notare sulla superficie del corpo

la parte esteriore avvampare di ardore eccessivo,

1165 ma piuttosto offrire alle mani un tiepido tatto

e insieme tutto il corpo arrossato da ulcere simili a ustioni,

come quando il fuoco sacro si sparge su tutte le membra.

Ma l’intima parte dell’uomo ardeva fino al fondo delle ossa,

una fiamma bruciava nello stomaco come dentro un forno.

1170 Non vesti sottili e leggere potevano giovare alle membra

inferme, ma vento e frescura sempre.

Alcuni, riarsi dalla febbre, abbandonavano il corpo

ai gelidi fiumi, le nude membra distese nelle onde.

Molti piombarono a capofitto nelle acque dei pozzi,

1175 protesi verso di essi con bocca anelante:

un’arida insaziabile arsura, sommergendo quei corpi,

uguagliava gran copia di liquido a povere stille.

Né vi era una tregua al male, ma i corpi giacevano sfiniti.

In silenzioso timore esitava l’arte dei medici,

1180 e intanto i malati volgevano senza posa lo sguardo

dagli occhi sbarrati, riarsi dal male e insonni.

Allora apparivano numerosi presagi di morte:

la mente sconvolta e in preda al terrore e all’affanno,

il torvo cipiglio, lo sguardo demente e furioso,

1185 e, inoltre, l’udito assillato da una folla di suoni,

il respiro affrettato, oppure lento e profondo,

il collo madido di sudore e lucente umore,

rari ed esili gli sputi, amari, d’un giallo rossastro,

espulsi a fatica dalle fauci con rauchi insulti di tosse.

1190 I nervi delle mani non tardavano a contrarsi, e gli arti

a tremare, e man mano a succedere un gelo alla pianta

dei piedi. E, infine, nell’ora suprema, le nari sottili,

la punta del naso affilata, gli occhi infossati,

le concave tempie, la gelida pelle indurita,

1195 sul volto un’immobile smorfia, la fronte tirata e gonfia.

Non molto più tardi le membra giacevano nella rigida morte. […]

[trad. Canali]

 

Scheletro coppiere. Mosaico, ante 79 d.C. da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

 

1230 Illud in his rebus miserandum magnopere unum

aerumnabile erat, quod ubi se quisque uidebat

implicitum morbo, morti damnatus ut esset,

deficiens animo maesto cum corde iacebat,

funera respectans animam amittebat ibidem.

1235 Quippe etenim nullo cessabant tempore apisci

ex aliis alios auidi contagia morbi,

lanigeras tamquam pecudes et bucera saecla.

Idque uel in primis cumulabat funere funus.

Nam quicumque suos fugitabat uisere ad aegros,

1240 uitai nimium cupidos mortisque timentis

poenibat paulo post turpi morte malaque,

desertos, opis expertis, incuria mactans.

Qui fuerant autem praesto, contagibus ibant

atque labore, pudor quem tum cogebat obire

1245 blandaque lassorum uox mixta uoce querelae.

Optimus hoc leti genus ergo quisque subibat.

***

Inque aliis alium, populum sepelire suorum

certantes: lacrimis lassi luctuque redibant;

inde bonam partem in lectum maerore dabantur.

1250 Nec poterat quisquam reperiri, quem neque morbus

nec mors nec luctus temptaret tempore tali.

Praeterea iam pastor et armentarius omnis

et robustus item curui moderator aratri

languebat, penitusque casa contrusa iacebant

1255 corpora paupertate et morbo dedita morti.

Exanimis pueris super exanimata parentum

corpora nonnumquam posses retroque uidere

matribus et patribus natos super edere uitam.

Nec minimam partem ex agris is maeror in urbem

1260 confluxit, languens quem contulit agricolarum

copia conueniens ex omni morbida parte.

Omnia complebant loca tectaque; quo magis aestu

confertos ita aceruatim mors accumulabat.

Multa siti prostrata uiam per proque uoluta

1265 corpora silanos ad aquarum strata iacebant

interclusa anima nimia ab dulcedine aquarum,

multaque per populi passim loca prompta uiasque

languida semanimo cum corpore membra uideres

horrida paedore et pannis cooperta perire

1270 corporis inluuie, pelli super ossibus una,

ulceribus taetris prope iam sordeque sepulta.

Omnia denique sancta deum delubra replerat

corporibus mors exanimis onerataque passim

cuncta cadaueribus caelestum templa manebant,

1275 hospitibus loca quae complerant aedituentes.

Nec iam religio diuum nec numina magni

pendebantur enim: praesens dolor exsuperabat.

Nec mos ille sepulturae remanebat in urbe,

quo prius hic populus semper consuerat humari;

1280 perturbatus enim totus trepidabat, et unus

quisque suum pro re ‹compostum› maestus humabat.

Multaque ‹res› subita et paupertas horrida suasit.

Namque suos consanguineos aliena rogorum

insuper exstructa ingenti clamore locabant

1285 subdebantque faces, multo cum sanguine saepe

rixantes potius quam corpora desererentur.

 

1230 Ma in tal frangente, questo era più miserabile

e doloroso, che, quando ciascuno vedeva se stesso

avvinto dal male, da esserne votato alla fine,

perdutosi d’animo, giaceva con il cuore dolente,

e lì stesso perdeva la vita guardando immagini di morte.

1235 Infatti, davvero non cessavano mai di raccogliere

gli uni dagli altri il contagio dell’avido morbo,

come greggi lanose e cornigere mandrie di buoi.

Ciò soprattutto ammucchiava morti su morti.

Quanti, infatti, rifuggivano dal visitare i parenti infermi,

1240 troppo cupidi della vita e timorosi della morte,

poco dopo, immolandoli, la stessa assenza di cure li puniva,

derelitti e privi d’aiuto, con una morte vergognosa e infame.

Chi, invece, era stato vicino ai suoi, incorreva nel contagio

e nella fatica che la sua dignità gli imponeva,

1245 tra le fievoli voci dei malati, miste a lamenti.

Tutti i migliori si esponevano a questa forma di morte.

***

gli uni sugli altri, lottando per seppellire la turba dei propri defunti,

e, infine, tornavano, spossati dal pianto e dai gemiti;

e gran parte di loro cadeva affranta sui letti.

1250 Né poteva trovarsi nessuno che in questo frangente

non fosse toccato dal male, dalla morte o dal lutto.

Inoltre, già il pastore e il guardiano di armenti

e il robusto guidatore dell’aratro ricurvo

languivano, e dentro il modesto abituro giacevano a mucchi

1255 i corpi dati alla morte dalla miseria e dal morbo.

Non di rado avresti veduto gli esanimi corpi

dei padri giacere sugli esanimi corpi dei figli,

e, al contrario, spirare la vita i figli sulle madri e sui padri.

Il contagio in gran parte si diffuse dai campi

1260 nella grande città, portato da una folla sfinita

di bifolchi, affluita da tutte le zone già infette.

Riempivano ogni luogo, ogni asilo, e in tal modo la morte

più facilmente ammucchiava la turba ondeggiante.

Molti, prostrati per la via dalla sete, giacevano

1265 riversi e distesi accanto agli sbocchi delle fonti,

il respiro mozzato dalla dolcezza eccessiva dei sorsi,

e molti ne avresti veduti qua e là per la strada

e nei pubblici luoghi abbattuti coi corpi morenti,

e squallidi e lerci perire, coperti di cenci

1270 e lordure sul corpo; sulle ossa soltanto la pelle

quasi tutta sepolta da orribili piaghe e marciume.

La morte aveva colmato persino i santuari degli dèi

di corpi inerti, e tutti i tempi dei celesti

restavano ingombri di cadaveri sparsi e ammucchiati,

1275 luoghi, che i custodi avevano affollato di ospiti.

Non più si teneva in onore, infatti, il culto divino

e il potere dei numi: il dolore presente vinceva.

Né più resisteva in città quell’usanza di funebri riti

che da sempre avvezzava le genti a inumare pietose gli estinti;

1280 infatti, tutti si affannavano in preda al disordine,

e ognuno, angosciato, seppelliva i suoi cari composti come poteva.

La miseria e l’evento improvviso indussero a orribili cose.

Con alto clamore ponevano i loro congiunti

sulle grandi cataste erette per il rogo di altri,

1285 appiccandovi il fuoco e spesso lottando fra loro

in zuffe cruente piuttosto che abbandonare i cadaveri.

[trad. Canali]

Scheletro (γνῶθι σαυτόν). Mosaico pavimentale. Roma, Museo Nazionale Romano P.zzo Massimo alle Terme.

 

Una chiusa inadeguata? | Un poema che si apre con il trionfo della vita (l’inno a Venere, premio al I libro) e si chiude con quello della morte: l’accanita esposizione della peste che devastò Atene nel 430 a.C., nel finale del VI (e ultimo) libro ha sempre turbato lettori e critici. Si è pensato che il finale sia incompiuto, che il poema dovesse concludersi con la descrizione delle sede dei beati degli dèi.

Si è detto anche che la peste, con le sue scene di morte, è una manifestazione del pessimismo lucreziano: ma la morte, in tutte le sue forme, è per Lucrezio (e per Epicuro) l’altra faccia della vita, un aspetto, terribile ma necessario, della natura. E, in effetti, la dialettica tra vita e morte non resta isolata ai “margini” del poema, all’inizio e alla fine, ma prosegue al suo interno, ripetuta in mille contesti più limitati, fino a creare nel lettore l’impressione che tale alternativa sia una regola fondamentale dell’universo, in cui creazione e distruzione si susseguono senza pause. D’altra parte, questo grandioso affresco finale di morte sembra davvero contenere in sé l’ultima lezione moral del poema: giunto al termine del viaggio verso la sapientia, il lettore-discepolo deve saper guardare senza sgomento anche agli aspetti più scabrosi della natura; conquistare le vette dei sapientum templa serena (II 8), riscattato dall’asservimento ai mali fisici e morali che affliggono l’umanità, è ormai in grado di contemplare dall’alto, senza vertigini d’orrore, l’abisso delle profondità cosmiche.

I signa della peste | Nella sua opera storica Tucidide decise di descrivere l’epidemia di peste che colpì Atene a memoria dei posteri, affinché potesse essere riconosciuta fin da suoi prodromi, se si fosse ripresentata (II 48, 3), e la descrisse in modo affidabile, essendone rimasto contagiato anche lui, anche se in modo guaribile. Nei confronti del brano tucidideo Lucrezio esegue una vera e propria opera di riscrittura, operando scarti significativi che danno un senso nuovo all’evento.

I primi sintomi | Riguardo ai prodromi della malattia Tucidide scrisse: «Dapprima erano colti da forti calori alla testa e da arrossamenti e bruciori agli occhi: e gli organi interni, cioè la gola e la lingua, subito erano di colore sanguigno ed emanavano un alito strano e fetido» (II 49, 2). Lucrezio, significativamente, inserisce qui la descrizione della voce soffocata e della lingua inerte (vv. 1148-1150): in polemica con gli stoici, che consideravano la gola come via vocis per dimostrare il mirabile funzionamento del corpo umano, opera della divina provvidenza, Lucrezio la applica alla degenerazione patologica di quell’organismo, attaccato dal male, per mostrare l’assenza di ogni tipo di disegno divino.

L’avanzare della malattia | Nel descrivere la progressione della peste, Tucidide (II 49, 3) procede dalla testa alla gola, dalla gola al petto e dal petto allo stomaco, dove la malattia provoca dolorosi travasi di bile. Lucrezio (vv. 1151-1159) sostituisce allo stomaco il cuore, che per gli epicurei era la sede dell’intelletto, perché nella sua descrizione la degenerazione fisica è strettamente correlata alla degenerazione delle facoltà intellettuali (si noti anche l’aggettivo maestum, indicante un’emozione, v. 1152). Nel testo lucreziano, dunque, l’epidemia viene vista da vicino, nei suoi dettagli più brutali, e, per raggiungere un tono il più possibile macabro, il poeta fa ricorso al registro dell’orrido: volvebat, «riversava (l’odore)», v. 1154; cadavera e il raro composto perolent (v. 1155, marcato dall’allitterazione con proiecta).

La fase acuta | Nel descrivere gli effetti del calore interno (Thuc. II 49, 5: «Ma gli organi interni bruciavano a tal punto che non sopportavano di essere coperti né da vesti assolutamente leggere o da lini, né da altro che non fosse l’essere nudi, e il gettarsi con gran piacere nell’acqua fredda»), Lucrezio dà rilievo al rovesciamento dell’ordine naturale nei bisogni sentiti dall’uomo e rimanda il lettore al proemio del II libro (vv. 34 ss.), in cui aveva già descritto l’inquietudine dei febbricitanti come esempio emblematico dell’angoscia esistenziale che opprima l’umanità stolta.

L’ultimo stadio | Il fitto dialogo con Tucidide si interrompe nel quarto stadio della malattia (i segni di morte imminente, vv. 1182-1196): l’argomento non era stato affrontato dallo storico greco e Lucrezio utilizza come fonte il corpus delle opere ippocratiche, in cui, tuttavia, la trattazione non aveva riferimento specifico alla peste. I materiali della scienza medica – un sapere fondato, al pari della fisiologia epicurea, sull’osservazione dei signa – permettono di seguire fino in fondo lo stravolgimento operato dalla peste nella psiche e nel corpo.

La morte in Epicuro e in Lucrezio | Negli scritti di Epicuro pervenuti, la morte è un argomento trattato con astrattezza intellettuale: essa è vista come la dispersione degli atomi che prima erano aggregati tra loro. Lucrezio, invece, nell’ambito della rievocazione della peste di Atene, si sofferma sugli aspetti più concreti e materiali del fenomeno, facendo appello a diverse percezioni sensoriali: l’olfatto (per il puzzo della decomposizione dei cadaveri), la vista (per il rossore delle pustole nelle quali il sangue si coagula), l’udito (per il lamento dei malati), il tatto (per le insopportabili sensazioni di caldo e di freddo connesse al decorso della malattia).

***

Note

[1] Perelli L., Lucrezio, in La Penna A. (ed.), Cultura latina, 3, Firenze 1986, 222: «Il confronto [con Thuc. II 47-53] è di grande interesse per cogliere nel suo formarsi la poesia di Lucrezio. Il poeta latino omette quei passi in cui Tucidide parla dei risanati presi da improvvisa letizia, e dell’immorale febbre di godimenti che suole diffondersi in tale calamità: troppo sarebbe stato il contrasto col tono apocalittico sempre più cupo che grava su questo finale, dove all’uomo è negata ogni speranza e ogni facoltà di reazione. Nei passi in cui segue la fonte, Lucrezio sostituisce all’esattezza scientifica e positivistica di Tucidide una visione surrealistica e magica, e le variazioni al testo tucidideo si svolgono lungo tre linee direttrici: l’esasperazione dei particolari orripilanti e ripugnanti, la sottolineatura delle ripercussioni del male fisico sugli animi e dell’angoscia di fronte alla morte, e l’ingigantire delle proporzioni e della violenza del morbo, che condanna gli uomini ad universale e inarrestabile rovina. Inoltre, Tucidide non lascia trasparire alcuna emozione, mentre Lucrezio qui più che altrove partecipa alle sofferenze dell’umanità e cede alla voce della pietà e della compassione. Il sentimento di pietà per la sofferenza umana, che nel corso del poema affiora solo episodicamente, dominato, o almeno mascherato, dall’opposto atteggiamento di sdegno e di condanna, investe diffusamente la pagina della peste. Di fronte all’estrema miseria dell’uomo oppresso dalla natura crudele il poeta svela una commozione dolente e pietosa per la sorte dell’umanità, in una tacita e impotente solidarietà di affetti che ricorda la conversione leopardiana della Ginestra. […] Nella descrizione della peste si assommano gli aspetti, per così dire, antiepicurei della poesia lucreziana: il senso attonito del mistero, l’orrore della vita come sofferenza, tormento e degradazione, la nullità dell’uomo oppresso dalla natura crudele. La scienza si rivela inutile e incapace a strappare alla natura il suo segreto, a lenire la sofferenza dell’uomo; la natura ostile non distingue nella sua furia devastatrice il malvagio dall’onesto, l’ignorante dal saggio, e anche gli animali sono coinvolti nell’universale rovina.

[2] Commager H.S., Lucretius’ Interpretation of the Plague, HSCPh 62 (1957), 115-118 [trad. it. Perelli] [Jstor]: «Per Tucidide, due sono le cose più terribili (II 51, 4): da un lato l’apatia, dall’altro il pericolo di contagio. Lucrezio vede solo una cosa come miserandum magnopere (VI 1230). Egli attribuisce massima importanza all’apatia (deficiens animo, 1233), mentre il diffondersi del contagio acquista una posizione subordinata (quippe etenim, 1235). La disposizione mentale o psicologica, che deriva dalla mancanza di ogni certa ratio, appare a Lucrezio come l’aspetto principale. L’aspetto fisico è relegato in una posizione dipendente, con un notevole disordine sintattico. Implicitum morbo (v. 1232) sembra indicare la via in cui si muove il pensiero di Lucrezio. Il termine compare solo una volta altrove. L’uomo può sfuggire dalle reti d’amore, implicitus, a meno che egli da sé non si ostacoli nel suo cammino (nisi tute tibi obuius obstes, IV 1150). Le forze esterne non sono più di pari importanza, come erano per Tucidide. La disperazione dell’uomo davanti al suo stato incurabile è assai significativa: egli si ostacola nel suo stesso cammino. […] Io avanzo solo l’ipotesi che il quadro tucidideo di un popolo malato, ardente di una sete insaziabile e autodistruttiva, spossato e incerto, può oscuramente aver richiamato a Lucrezio la sua personale immagine dell’umanità. Per questo motivo egli fa proprio il racconto di Tucidide. Esso diventa non la mera climax fisica dei fenomeni fisici del VI libro, ma il culmine morale dell’intero poema. Mentre Tucidide menziona la peste come un esempio utile per le future generazioni (II 48, 3), Lucrezio la assume come un simbolo del presente stato di malattia mentale».

[3] Salemme C., Strutture semiologiche nel De rerum natura di Lucrezio, Napoli 1980, 86-87: «A motivare l’episodio della peste di Atene e nell’espressione poetica e nella struttura generale del libro e del poema è stato proprio quel lepos, col quale è così apparentemente in contrasto. Nel brano finale Lucrezio ha dato un quadro poetico di finissima fattura: lo spunto gli veniva direttamente dall’argomento trattato prima, i morbi, prodotti dalla vis, in relazione con la summa rerum; ma i “modi” della resa del brano dovevano conferire all’episodio un tono particolarmente sostenuto e dotto, un tono attraverso il quale il lepos e la consumata perizia poetica dello scrittore dovevano celebrare la loro ultima, più scaltrita manifestazione. E, in realtà, il brano non è altro che una serie di dotte, allusive parafrasi del testo tucidideo, di accurate inserzioni, di contaminazioni da altri autori, di precise intensificazioni patetiche sulla scia della vetusta tradizione del vertere latino. Il pubblico colto, al quale il poema era in particolare destinato, non poteva non affermare la consumata perizia poetica dell’autore: in tal senso, l’intero episodio della peste d’Atene s’atteggia a preciso segno culturale e, proprio per il carattere composito e inconfondibile della sua “scrittura”, mostra le interrelazioni tra autore e destinatario dell’opera».

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West D., Virgil, Georgics 3.478–566 and Lucretius 6.1090–1286, in West D. – Woodman T. (eds.), Creative Imitation and Latin Literature, Cambridge 1979, 71-88 [cambridge.org].

T. Lucrezio Caro

di G.B. CONTE, in Letteratura latina. Manuale storico dalle origini alla fine dell’Impero romano, Milano 2011, pp. 135-151 = Id., E. Pianezzola, Lezioni di letteratura latina. Corso integrato. 1. L’età arcaica e repubblicana, Milano 2010, pp. 518-531.

1. Il poeta dell’Epicureismo

Tito Lucrezio Caro è, insieme a Catullo, il più grande poeta dell’età di Cesare – un periodo in cui predomina la prosa – e l’unico la cui opera ci sia giunta per intero. Il suo lungo poema in sei libri, De rerum natura [Sulla natura delle cose], espone la filosofia di Epicuro con rigore, ma anche con coraggio, perché le teorie dell’Epicureismo erano sempre state guardate con sospetto a Roma.

Ma il poema di Lucrezio non è un arido manuale di filosofia. È soprattutto una grande opera di poesia, dall’ispirazione possente e dallo stile personalissimo, che trasuda l’entusiasmo dell’autore per la sua missione di divulgazione. Un’opera tanto più interessante perché, come accade per Catullo, ignora deliberatamente i terribili sconvolgimenti e le violenze che segnarono la politica romana del I secolo a.C. per concentrarsi sulla contemplazione intellettuale e sulla poesia.

2. Una biografia con molte incertezze

La notizia biografica più ampia su Lucrezio compare nel Chronicon di san Girolamo (circa 347-420), che è una traduzione dell’opera omonima del greco Eusebio, con l’aggiunta di notizie su vari scrittori latini tratte dal De poetis di Svetonio:

Nasce il poeta Tito Lucrezio. Costui in seguito, indotto alla pazzia da un filtro d’amore, dopo avere scritto alcuni libri negli intervalli di lucidità che gli lasciava la follia, libri che furono poi riveduti da Cicerone, si uccise di propria mano a 43 anni di età[1].

Alcuni manoscritti di Girolamo collocano questa notizia della nascita nel 96, altri nel 94 a.C.; la data di morte oscillerebbe così tra il 53 e il 51 a.C.

Ma questa non è l’unica difficoltà. Il grammatico Elio Donato (IV secolo) così scrive nella sua Vita Vergilii:

A Cremona Virgilio trascorse i primi anni fino alla toga virile, che assunse al compimento del diciassettesimo anno, sotto quei medesimi consoli sotto i quali era pure nato: avvenne che in quello stesso giorno morisse il poeta Lucrezio[2].

Ora, Virgilio compì diciassette anni nel 53 a.C.; invece, i consoli sotto i quali nacque (70 a.C.), Marco Licinio Crasso e Gneo Pompeo Magno, furono eletti per la seconda volta non nel 53, ma nel 55 a.C. Per accordare le due indicazioni, si è supposto che nei manoscritti si sia corrotta l’indicazione d’età di Virgilio (che avrebbe avuto quindici anni e non diciassette), e si ricava così la data del 15 ottobre 55 a.C.

Ma come accordare questa data con il 53/1 di Girolamo? È necessario ammettere che quest’ultimo abbia confuso il nome dei consoli del 94 e del 98 a.C. e collocare la nascita in quest’ultima data. Oggi 98 e 55 sono ritenute le date più verosimili, anche se permangono notevoli incertezze; si può affermare con una certa sicurezza, tuttavia, solo che il poeta nacque negli anni ‘90, e morì verso la metà degli anni ‘50 del I secolo a.C.

Nulla di concreto si può affermare sulla sua provenienza: si è pensato che fosse campano, poiché a Napoli era fiorente una scuola epicurea e perché il De rerum natura si apre con inno a Venere molto simile alla Venus fisica venerata a Pompei. Ma tanto questa ipotesi quanto quella di chi vuole il poeta nato a Roma, per via di alcuni, pochi riferimenti a luoghi precisi dell’Urbs, sono prive di basi convincenti.

Sarebbe interessante determinare la classe sociale di provenienza di Lucrezio, ma dal tono delle parole che rivolge all’aristocratico Memmio, dedicatario del poema, nel corso dell’opera, non è possibile capire se egli si collocasse sullo stesso livello o non fosse, piuttosto, un liberto; in ogni caso, è fuori discussione l’ampiezza della cultura ricevuta. Qualche notizia più approfondita su questi temi è, in verità, presente nella cosiddetta Vita Borgiana, una succinta biografia scoperta nel 1894, in cui si sostiene che il poeta visse «in stretta intimità» con Cicerone (da cui avrebbe accolto suggerimenti stilistici), Attico, Bruto, Cassio, cioè con le personalità di maggior rilievo della prima metà del I secolo a.C. Ma la maggior parte degli studiosi ritiene che la Vita sia un falso, composto dall’umanista Gerolamo Borgia all’inizio del Cinquecento.

Va, con ogni probabilità, respinta la notizia di san Girolamo sulla follia di Lucrezio, un’invenzione che dovrebbe essere nata in ambiente cristiano nel IV secolo al fine di screditare la polemica antireligiosa di Lucrezio come frutto della follia del poeta. Prima di san Girolamo, questa notizia della follia non si trova neppure nel cristiano Lattanzio (circa 240-320), che pure accusa metaforicamente di «delirare», e che certamente non avrebbe mancato di accennare a un elemento così importante, se solo lo avesse conosciuto.

Alcuni critici contemporanei interpretano questa follia come una depressione patologica del poeta, per spiegare – ma in modo poco convincente – il “pessimismo” lucreziano così contrario all’“ottimismo” di Epicuro, il filosofo di cui illustra le dottrine.

Busto di Lucrezio
Busto di Lucrezio

3. L’opera: il poema che traduce Epicuro

Lucrezio è autore di un poema in esametri, De rerum natura, in sei libri (ogni libro va da un minimo di quasi 1100 versi a un massimo di quasi 1500, per un totale di 7415 esametri), forse non finito o comunque mancante dell’ultima revisione. Il titolo traduce fedelmente quello dell’opera più importante di Epicuro, il perduto Περί φύσεως in trentasette libri.

Il De rerum natura è dedicato all’aristocratico Memmio, verisimilmente da identificare con il Gaio Memmio che fu amico e patronus di Catullo e di Cinna. La data di composizione del poema non è sicura. Nel I libro l’autore afferma che Memmio non può sottrarsi alla cura del bene comune «in un momento difficile per la patria» (v. 41 s.); tutta la prima metà del secolo, infatti, è funestata da eventi bellici, ma si tende a pensare che il riferimento sia alle turbolenze interne degli anni successivi al 59 a.C., anche perché Memmio fu pretore nel 58 a.C.: non è però impossibile pensare a date anteriori.

Girolamo, nello stesso passo del Chronicon in cui riferisce le notizie biografiche su Lucrezio, asserisce che il De rerum natura, dopo la morte del poeta, fu rivisto e pubblicato a opera di Cicerone. Certo è che in una lettera al fratello Quinto del febbraio 54 (Ad Quintum fratrem II 9, 3), Cicerone mostra di aver già letto e apprezzato il poema: Lucreti poemata, ut scribis, ita sunt, multis luminibus ingeni, multae tamen artis [«Nei poemi di Lucrezio, come tu mi scrivi, ci sono davvero i bagliori del talento, ma anche i segni di una grande arte letteraria»].

Epicuro. Busto, bronzo, copia da originale greco del 250 a.C., dalla Villa dei Papiri (Ercolano). Museo Archeologico Nazionale di Napoli.

4. L’Epicureismo a Roma

Il poema lucreziano divulga, in lingua latina e in versi, il pensiero di Epicuro. La penetrazione dell’Epicureismo a Roma era stata da sempre ostacolata dalla classe dirigente, che nella scelta dell’atteggiamento da tenere verso il pensiero greco era molto attenta a eliminare gli elementi potenzialmente pericolosi per la res publica o per il mos maiorum. Certo, non tutti mostravano la chiusa intolleranza di Catone verso la cultura ellenica; ma anche un autore come Cicerone, amante della filosofia, eresse un argine insormontabile proprio nei confronti dell’Epicureismo. Questa dottrina era considerata pericolosa, perché, da un lato, predicando la ricerca del piacere e della tranquillità, distoglieva i cittadini dall’impegno politico, dall’altro, negando l’intervento degli dèi negli affari umani, corrodeva quella religione ufficiale che la classe dirigente usava come strumento di potere.

Ma se nel II secolo a.C. si era arrivati a un provvedimento di espulsione nei confronti dei filosofi Alceo e Filisco, che volevano divulgare l’Epicureismo a Roma, nel I secolo a.C. questa dottrina era riuscita a diffondersi anche negli strati elevati della società romana. Un personaggio di rango consolare, Calpurnio Pisone Cesonino, era protettore di filosofi epicurei e nella sua villa di Ercolano teneva lezione Filodemo di Gadara; un altro cenacolo epicureo sorgeva a Napoli, dove, sotto la guida di Sirone, studiavano giovani di diversa estrazione sociale, fra i quali futuri poeti come Virgilio e, probabilmente, Orazio. Sappiamo anche delle propensioni epicuree di Tito Pomponio Attico, di Cesare e del cesaricida Cassio.

Meno sappiamo sulla penetrazione delle dottrine epicuree nelle classi inferiori; ma è interessante un passo di Cicerone, il quale, nelle Tuscolanae disputationes (4, 7), ci informa del fatto che le divulgazioni dell’Epicureismo in cattiva prosa latina, dovute ad Amafinio (età incerta; forse fine del II-inizi del I secolo a.C.) e Cazio (I secolo a.C.), circolavano presso la plebe, attratta dalla facilità di comprensione di quei testi e dagli inviti al piacere in essi disseminati. In effetti, lo stesso Epicuro raccomandava l’estrema chiarezza e semplicità dell’espressione, coerentemente con l’universalismo del suo messaggio.

L. Calpurnio Pisone Cesonino. Busto, bronzo, fine I sec. a.C., dalla Villa dei Papiri (Ercolano). Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

5. Il contenuto del poema

Il De rerum natura è articolato in tre gruppi di due libri (diadi), che illustrano fenomeni di dimensioni progressivamente più ampie: dagli atomi (I-II) si passa al mondo umano (III-IV) per arrivare, infine, ai fenomeni cosmici (V-VI).

Il De rerum natura non ha probabilmente ricevuto l’ultima revisione da parte dell’autore, come dimostrano alcune ripetizioni di versi e qualche incongruenza. Problemi particolari ha destato il finale del poema: poiché nel V libro Lucrezio annuncia la descrizione delle sedi beate degli dèi, ma non mantiene fede alla promessa, si è pensato che proprio questi descrizione, e non quella della peste di Atene, fosse la chiusa progettata del De rerum natura. Se si dovesse accogliere questa supposizione, il poema avrebbe dovuto concludersi con una nota serena – che avrebbe fatto da pendant al gioioso inno a Venere con il quale si apre – e non con il terrificante quadro della peste di Atene. Ma probabilmente risponde meglio ai reali intenti di Lucrezio la supposizione che la fine progettata del poema fosse proprio la peste di Atene: Lucrezio potrebbe aver voluto contrapporre l’ouverture e il finale come una sorta di “trionfo della vita” e di “trionfo della morte”, per mostrare come non esista alcuna conciliazione del contrasto eterno di queste due potenze.

Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Vat. lat. 1569 (1483), Frontespizio del De rerum natura di Lucrezio, f. 1r.

6. Il genere letterario

Per divulgare la dottrina epicurea a Roma Lucrezio si mosse su una strada radicalmente diversa da quella, prosastica, seguita da Amafinio e Cazio, perché optò per la forma del poema epico-didascalico. Questa scelta dovette destare sorpresa, perché Epicuro aveva condannato la poesia (soprattutto quella omerica, base dell’educazione greca) per la sua connessione con il mito e per le belle invenzioni in cui irretiva pericolosamente i lettori, allontanandoli da una comprensione razionale della realtà. Gli altri epicurei si erano attenuti scrupolosamente alle direttive del maestro, coltivando tutt’al più, come Filodemo, la poesia scherzosa o di puro intrattenimento.

Nella sua scelta, Lucrezio fu probabilmente guidato dal desiderio di raggiungere gli strati superiori della società con un messaggio che non avesse niente da invidiare alla “bella forma” di cui talora si ammantavano le altre filosofie. In due luoghi distinti del poema (I 136-145; IV 1-25) Lucrezio giustifica questa sua scelta, ricorrendo nel secondo caso a una celebre similitudine: come si fa con i fanciulli, cospargendo di miele gli orli della coppa che contiene l’assenzio amaro destinato a guarirli, così egli vuole «cospargere con il miele delle Muse» una dottrina apparentemente amara.

Michael Burghers, Lucrezio. Dal frontespizio del T. Lucretius Carus, Of the Nature of Things di Thomas Creech, riprodotto nell’edizione di John Digby, London 1714.

La novità di Lucrezio | Diversamente dal suo maestro Epicuro, Lucrezio non solo ostenta ammirazione per Omero, ma ebbe modelli importanti in tutta la tradizione epico-didascalica. In particolare, Lucrezio guarda con dichiarata simpatia al Περί φύσεως di Empedocle, il poeta-filosofo del V secolo a.C., che proprio nell’età di Lucrezio stava conoscendo a Roma un periodo di rinnovato interesse. Certo, Lucrezio ne respingeva l’ispirazione misticheggiante e le posizioni filosofiche, ma ne ammirava diversi elementi: l’argomento trattato, l’ardore di apostolo, l’atteggiamento profetico di rivelatori della verità, l’organizzatore del materiale e alcuni caratteri formali come l’uso dell’esametro. Questo spiega il fervido omaggio che Lucrezio gli rivolge verso la fine del I libro (vv. 716-733).

Ancora più grande è la differenza tra Lucrezio e gli altri poeti didascalici latini, sia precedenti sia successivi a lui. Infatti, questi si ricollegavano più direttamente alla tradizione ellenistica, che ricercava l’ispirazione in argomenti tecnici in gran parte sprovvisti di implicazioni filosofiche e si limitava per lo più a descrivere fenomeni. Lucrezio, invece, ambisce non solo a descrivere, ma anche a indagare le cause e a spiegare ogni aspetto importante della vita del mondo e dell’uomo; inoltre, egli vuole convincere il lettore della validità della dottrina epicurea attraverso argomentazioni e dimostrazioni serrate, proponendogli una verità una ratio sulla quale è obbligato a esprimere un chiaro giudizio di consenso o di rifiuto.

L’ethos (cioè l’intenzione) del genere didattico ellenistico era eminentemente encomiastico: il testo rendeva lode alle cose e suggeriva che l’oggetto della descrizione era di per sé anche meraviglioso. Al contrario, Lucrezio articola spesso le proprie argomentazioni con le formule non mirandum e nec mirum: «non c’è da meravigliarsi» davanti a questo o a quel fenomeno perché esso è connesso necessariamente con questa o quella regola oggettiva, e chi abbia capito i principi delle cose e i loro concatenamenti non può rimanerne stupito. Alla “retorica del mirabile” («ammira e stupisciti, tu che ascolti») Lucrezio sostituisce la “retorica del necessario”, che è, di fatto, il contrario del miracoloso; e così necesse est è un’altra delle formule più frequenti nell’argomentare lucreziano.

Rembrandt van Rijn, Lo studioso al leggio. Olio su tela, 1641. Warsaw, Castello Reale.

Lucrezio e il lettore-discepolo | La consapevolezza dell’importanza della materia trattata determina il tipo di rapporto che Lucrezio instaura con il lettore-discepolo, il quale viene continuamente esortato, talora minacciato, affinché segua con diligenza il percorso educativo che l’autore gli propone. Così, per esempio, nel I libro: «Perciò, benché tu indugi adducendo molte obiezioni, / è inevitabile che tu ammetta l’esistenza del vuoto tra i corpi» (v. 398 s.); o nel II: «Perciò, smettila, spaventato dalla stessa novità, / di espellere dall’animo il vero, ma con più attento / giudizio valuta e, se ti appaiono verità, / cedi, o, se invece è falso, combatti» (v. 1040 ss.).

Il destinatario del messaggio – fatto direttamente responsabile – deve reagire agli insegnamenti diventando consapevole della propria grandezza intellettuale. È questa la radice del “sublime” lucreziano, quegli spettacoli alti e grandiosi che ricorrono nel poema: la furia dei venti, gli universi infiniti, l’eternità del tempio passato e futuro sono spettacoli sublimi che coinvolgono il lettore spettatore e lo spronano. Il lettore di Lucrezio è chiamato a trasformarsi in “eroe”, a emozionarsi a trovare in sé la forza di accettare la dottrina, anche qualora le verità proclamata dal poeta siano terribili e perfino paurose[3].

Da questo approccio discendono alcune caratteristiche essenziali del poema, prima fra tutte la rigorosa struttura argomentativa. Tra i procedimenti dimostrativi Lucrezio non trascura il sillogismo, strumento principe dell’argomentazione filosofica, ma anche la dimostrazione per assurdo della falsità di tesi o possibili obiezioni. Uno spazio assai considerevole occupa anche l’analogia, grazie alla quale si tenta di ricondurre al noto ciò che è troppo lontano o piccolo per essere osservato direttamente, come per esempio i fenomeni astronomici (libro VI) o l’esistenza degli atomi e del vuoto in cui essi si muovono (libri I e II).

Il libro che forse più di ogni altro testimonia la perizia argomentativa di Lucrezio è il III, dedicato alla confutazione del timore della morte. La sua struttura complessiva è semplice. Prima c’è un’introduzione (vv. 1-93), che si apre con un inno a Epicuro. Poi, viene la trattazione vera e propria (vv. 94-829), a sua volta suddivisa in due sezioni: prima si dimostra che l’anima è materiale, cioè composta di atomi estremamente sottili e di vuoto (vv. 94-416), poi che l’anima, in quanto materiale, è anche mortale, soggetta al ciclo di nascita e morte proprio di tutti i corpi (vv. 417-829). In quest’ultima parte Lucrezio propone ben ventinove diverse prove per sostenere il suo assunto: il loro accumularsi, il dispiego di strumenti retorici, la scelta degli esempi e delle immagini creano un insieme di innegabile forza persuasiva, anche se Lucrezio si rende conto che questo non è sufficiente a distogliere l’uomo dal dolore di dover abbandonare la vita. Infine, nell’ultima parte (vv. 830-1094) Lucrezio dà la parola alla Natura stessa, che si rivolge direttamente all’uomo (vv. 933 ss.): se la vita trascorsa è stata colma di gioie ci si può ritirare come un convitato sazio e felice dopo un banchetto; se, al contrario, è stata segnata da dolori e tristezze, perché desiderare che essa prosegua? Solo gli stulti vogliono a ogni costo continuare a vivere, anche se nulla di nuovo li può attendere, perché eadem sunt omnia semper (III 945).

In questo libro è particolarmente chiaro un ultimo carattere dell’opera, il suo contatto con la letteratura diatribica. La diàtriba (letteralmente «discussione») si era sviluppata in Grecia in età ellenistica, e il rappresentante più noto ne era stato Bione di Boristene (ca. 325-255 a.C.), un filosofo viaggiatore che esponeva alla gente per strada argomenti di carattere filosofico-morale. Anche se il suo orientamento filosofico era prevalentemente cinico, Bione aveva contribuito a sviluppare una presentazione semi-drammatica del contenuto, con frequenti spunti satirici assai vivaci e con la partecipazione di più personaggi fittizi.

Filosofo di Antikythera. Testa, bronzo, III-I sec. a.C. ca. dal Relitto di Antikythera. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

8. I temi del De rerum natura

La religione | Subito dopo il proemio con l’invocazione a Venere e una sommaria esposizione del piano dell’opera, Lucrezio si rivolge al lettore invitandolo a non considerare empia la dottrina che egli si accinge a trattare. Ben più empia e crudele è la religio, ovvero la religione tradizionale basata sulla paura degli dèi e quasi una «superstizione», che aveva imposto ad Agamennone il sacrificio della figlia Ifigenia per assicurare la partenza della flotta greca per Troia. All’assassinio della fanciulla è dedicata una scena tra le più elaborate del poema (I 80-101), impostata su un tono volutamente molto patetico. La religio è in grado di opprimere sotto il suo peso la vita degli uomini, turbare ogni loro gioia con la paura: ma se gli uomini sapessero che dopo la morte non c’è che il nulla e diventassero quindi insensibili alle minacce di pene eterne profferite dagli indovini, smetterebbero di essere succubi della superstizione religiosa e dei timori che essa comporta. A tal fine è quindi necessaria una conoscenza sicura delle leggi che regolano l’universo e rivelano la natura materiale e mortale del mondo, dell’uomo e dell’anima stessa.

Si vede come già dai primi versi Lucrezio descrive con chiarezza il nesso tra superstizione religiosa, timore della morte e necessità di speculazione scientifica. Il suo messaggio fu di fatto ignorato non solo per intrinseca difficoltà dell’opera, ma anche perché capace di mettere in discussione i fondamenti culturali, sociali e politici dello Stato romano, che della religio aveva fatto un essenziale elemento di coesione.

Se l’insistenza sui «terribili detti» (I 103) dei vates costituisce probabilmente una accentuazione polemica ispirata dal clima culturale del suo tempo, Lucrezio resta peraltro fedele alle teorie di Epicuro in materia di religione. Il filosofo greco è descritto fin da subito come un nuovo Prometeo (il titano che rubò il segreto del fuoco agli dèi per aiutare gli uomini), come un guerriero omerico impegnato in un duello eroico: fu il primo uomo che «osò levare gli occhi contro la religione che incombeva minacciosa dal cielo» (I 66)[4]. Per questo egli può essere venerato quasi come un dio, perché ha liberato gli uomini da enormi sofferenze morali: tranne il II e il IV, tutti i libri dell’opera si aprono con un’appassionata celebrazione dei meriti del filosofo.

Filosofo. Busto, bronzo, I secolo a.C. ca. dalla Villa dei Papiri, Ercolano. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Epicuro credeva che gli dèi fossero figure dotate di vita eterna, perfette e felici nella pace degli intermundia (la zona tra terra e cielo in cui abitavano), incuranti delle vicende della Terra e dell’uomo: a loro poteva andare la pietas dei terrestri e potevano costituire un punto di riferimento ideale. Era invece radicalmente esclusa l’ipotesi che l’uomo fosse soggetto agli dèi in un rapporto di dipendenza e che da essi egli potesse attendersi benefici o punizioni come da un padrone. Anche Lucrezio recupera questo senso intimo della religiosità, intesa come capacità di vivere serenamente e «contemplare ogni cosa con mente sgombra da pregiudizi» (V 1203).

Nell’ambito del V libro una sezione della storia dell’umanità (vv. 1161-1240) è dedicata alla nascita del timore religioso, che sorge spontaneo per ignoranza delle leggi scientifiche. La loro conoscenza, invece, permette di capire, per esempio, che il fulmine o le tempeste non sono i segni di una punizione divina, anche perché colpiscono indiscriminatamente colpevoli e innocenti. Alcuni hanno visto a torto in questi versi quasi un cedimento di Lucrezio nei confronti di quelle paure che lui stesso tenta di combattere: sua intenzione è, invece, quella di delineare l’origine storica di un fenomeno del quale non è difficile ricostruire le cause e che, quindi, va affrontato ed eliminato.

Il corso della storia | Oltre a temi fisici (come la natura della materia e la formazione dei corpi) ed etico-morali (la religione, la paura della morte, l’amicizia, l’amore), Lucrezio dedica un’ampia parte dell’opera alla storia del mondo, del quale era stata anzitutto chiarita la natura mortale, originato com’è da una casuale aggregazione di atomi e destinato alla distruzione (II 1024-1174).

Tu tutta la seconda metà del libro V (vv. 772-1457) tratta invece dell’origine della vita sulla Terra e della storia dell’uomo. Né gli animali né gli esseri umani sono stati creati da un dio, ma si sono formati grazie a particolari circostanze: il terreno umido e il calore hanno spontaneamente generato i primi esseri viventi. Notevole attenzione è riservata alla confutazione delle tradizioni su esseri mitici che avrebbero popolato l’alba della Terra. A tali fantasticherie Lucrezio oppone la saldezza delle leggi naturali della fisica epicurea, che dimostrano l’impossibilità che due esseri di natura diversa, come l’uomo e il cavallo, per esempio, si congiungono e generino un centauro: è questo uno degli insegnamenti basilari di Epicuro. È invece possibile che la natura, non governata da esseri superiori, commetta alcuni “sbagli” dando vita a uomini mancanti di parti vitali del corpo (V 837 ss.).

I primi uomini conducevano una vita agreste, al di fuori di ogni vincolo sociale: la natura forniva il poco di cui avevano davvero bisogno; non per questo la loro vita era priva di pericoli, perché molti venivano sbranati dalle fiere. In seguito (vv. 1011-1457) Lucrezio tratta delle tappe del progresso umano, positive (la scoperta del linguaggio, del fuoco, dei metalli, della tessitura e dell’agricoltura) e negative (l’origine e lo sviluppo della guerra, il sorgere del timore religioso). Spesso è stata la natura a mostrare casualmente gli uomini come agire: del metallo surriscaldato un incendio fortuito virgola e raccolto sin una buca del terreno, per esempio, può avere indicato la tecnica della fusione. La necessità di comunicare, invece, ha spinto l’uomo a creare le prime forme di linguaggio: caso i bisogni materiale sono stati fattori di avanzamento della civiltà.

Prometeo, Gaia, Aion, le stagioni e i venti. Mosaico, IV secolo, da Damasco (Siria).

È evidente in tutta la trattazione il desiderio del poeta di contrapporsi alle visioni teleologiche del progresso umano assai diffuse nella cultura del tempo: la natura segue le sue leggi, nessun dio la piega ai bisogni dell’uomo. Ovviamente, Lucrezio non poteva credere in una mitica «età dell’oro», in cui l’umanità viveva come in un paradiso terrestre dal quale il degenerare delle razze l’avrebbe irrimediabilmente allontanata, come invece sosteneva Esiodo nelle Opere e i giorni.

Lucrezio critica alcuni aspetti di decadenza morale che il progresso ha portato con sé, come il sorgere dei bisogni naturali, della guerra, delle ambizioni e cupidigie personali, ma la sua non è una visione sconsolata e pessimistica: a questi problemi l’Epicureismo è in grado di fornire una risposta invitando a riscoprire che «di poche cose ha davvero bisogno la natura del corpo» (II 20), cioè a evitare i desideri non naturali e non necessari, badando a soddisfare solo quelli naturali e necessari[5]. Come si vede, l’Epicureismo non era affatto quella forma di edonismo sfrenato che i suoi avversari dipingevano.

Perciò, il saggio deve allontanarsi dalle inutili ricchezze e dalle tensioni della vita, secondo il consiglio di Epicuro, λάθε βιώσας («vivi nascosto»). L’unica vera ricchezza è lo studio della natura con gli amici più fidati (come diceva Epicuro: «Di tutti quei beni che la saggezza procura per a completa felicità della vita il più grande di tutti è l’acquisto dell’amicizia», Massime capitali, trad. it. G. Arrighetti). Celebre è la similitudine che apre il libro II: il saggio che vive secondo i precetti di Epicuro è come colui che, al sicuro sulla terraferma, osserva distaccato l’altrui pericolo nel mare in tempesta.

8. L’interpretazione dell’opera

Nell’interpretazione dell’opera di Lucrezio, di certo, ha avuto un peso determinante la notizia di san Girolamo sulla follia del poeta, notizia che, come abbiamo visto, è dovuta al desiderio da parte del dotto cristiano di screditare un poeta materialista. Perciò, non possono essere accettate le tesi di coloro che, confondendo l’autore con il narratore, hanno affannosamente ricercato nel De rerum natura tracce di uno squilibrio mentale di Lucrezio, o come crisi maniaco-depressive o come generica angoscia esistenziale[6]. Anche la tesi più recente (1868) del francese Patin è dovuta all’avversione per il credo materialista del poeta: secondo Patin, infatti, per tutto il poema Lucrezio si affanna a persuadere un “anti-Lucrezio” scettico, ovvero lotta con se stesso in una specie di sdoppiamento della personalità.

Strumenti da scrittura (tabulae ceratae, stilus, volumen). Affresco, I secolo d.C. da Pompei.

Al contrario, il De rerum natura è pervaso da una tensione che può ben essere definita «illuministica», volta a convincere razionalmente il lettore e a trasmettergli i precetti di una dottrina di liberazione morale in cui l’autore crede profondamente. E se nel poema hanno una loro parte innegabile anche descrizioni a tinte fosche e violentemente drammatiche, questo non è dovuto al fatto che Lucrezio non riesca a convincere se stesso dell’ottimismo epicureo, ma a precisi motivi di contesto. Per esempio, per confutare la tesi stoica di una natura provvidenziale, Lucrezio sottolinea la totale indifferenza della natura verso l’uomo con immagini forti: la “colpa” della natura è evidente nelle asperità del terreno, nelle difficoltà di lavorarlo, nella durezza del clima, nel gran numero di animali nocivi all’uomo che la Terra nutre, nelle malattie e nella morte prematura. E, quando nel finale del IV libro Lucrezio si scaglia aspramente contro le insensatezze della passione amorosa, è probabilmente mosso dalla volontà di ribadire che il saggio epicureo deve tenersi lontano da una passione tanto irrazionale[7]. Più in generale, alla base di questi quadri fortemente espressivi del poema e radicata l’inclinazione a ricercare un registro stilistico elevato ed efficace.

Bisogna ammettere però che a tratti in forte pessimismo sembra separare Lucrezio dalla serenità del suo maestro Epicuro. Questo problema ha un ruolo centrale in buona parte della critica, e non è facile giungere a una valutazione equilibrata che tenga conto di tutte le sfumature, dei toni qualora diversi tra una parte e l’altra del poema. Lucrezio ripete molto spesso che la ratio da lui esposta è foriera di serenità e libertà interiori e invita all’accettazione consapevole di ogni cosa in quanto esistente; ma questo stesso razionalismo, a tratti, mostra i suoi limiti.

Albert Bierstadt, L’incombere della tempesta nella valle. Olio su tela, 1891. Nordsee Museum Husum.

Nel III libro, per esempio, l’autore insiste sul fatto che la morte «per noi non è nulla» (nihil est ad nos neque pertinet hilum, v. 830), perché con essa la nostra sensibilità si perde del tutto. Tutto questo, però, non basta a eliminare l’angoscia dell’uomo di fronte all’idea che la sua vita debba avere un termine: se la vita trascorsa è stata piacevole e nella di diverso può essere esperito in futuro, perché «tutto è sempre uguale» (v. 945), conviene allontanarsi come un convitato sazio, serenamente (aequo animo, v. 939, un’espressione tipicamente epicurea che ritroveremo in Orazio); in caso contrario, meglio comunque concludere un’esperienza ricca solo di dolore. Ma è proprio questa rigidità razionalistica a contrastare vivamente con la vivida descrizione dell’uomo in preda all’angoscia irrazionale che Lucrezio stesso ci offre.

In realtà, proprio queste, che sono state considerate come contraddizioni da critici desiderosi di screditare Lucrezio, non fanno che aggiungere fascino alla sua personalità poetica: la sua insoddisfazione amara è il segno oggettivo di un interiorità tormentata, e forse i luoghi più eloquenti dell’opera sono proprio quelli in cui le contraddizioni non risolte lasciano il segno sul corpo della dottrina.

9. Lingua e stile

Il giudizio di Cicerone nella lettera al fratello Quinto, riportato sopra, testimonia che l’Arpinate ammirava in Lucrezio non solo l’acutezza del pensatore, ma anche grandi capacità di elaborazione artistica. La critica moderna ha a lungo esitato a sottoscrivere la seconda delle due affermazioni, giudicando lo stile del poeta troppo rude e legato all’uso arcaico, a tratti prosaico e ripetitivo, ma da qualche tempo gli studiosi hanno modificato questa prospettiva.

Certamente, il tratto distintivo dello stile lucreziano va individuato nella concretezza dell’espressione, che deriva quasi obbligatoriamente dalla mancanza nella lingua latina di un vocabolario astratto: la lingua si fa vivida perché, per supplire a tale mancanza, deve ricorrere a una gamma vastissima di immagini, similitudini ed esempi esplicativi. E così un discorso di per sé intellettuale guadagna in emotività ed efficacia poetica attraverso la descrizione, ora stupita ora curiosa, di cose immense e piccolissime, distanti e vicine, statiche e dinamiche.

A queste antitesi corrisponde stilisticamente il contrasto efficace tra le movenze di una lingua colloquiale e la scelta di uno stile sublime, tra l’energia del parlato e la preziosità della dizione epico-tragica, tra la durezza e l’eleganza, tra la meraviglia e la commozione, tra il ragionamento pacato e l’invettiva profetica. Questa varietà si fonde nel registro dell’enthusiasmós poetico, posto al servizio di una missione didattica vissuta con un ardore eccezionale.

Lo stile, come l’organizzazione complessiva della materia, si piega al fine di persuadere il lettore. Le ripetizioni, nelle quali si è a lungo visto un segno di “immaturità” stilistica di Lucrezio, sono frequenti, ma Epicuro stesso raccomandava di riassumere alcuni concetti in brevi formule facilmente ricordabili. Così, per esempio, il principio essenziale per cui l’incessante divenire degli aggregati è possibile solo grazie al loro continuo disfacimento è ripetuto quattro volte (I 670; 792; II 753; III 519).

Anche l’invito all’attenzione del lettore doveva essere reiterato spesso; e alcuni termini tecnici della fisica epicurea, nonché i nessi logici di grande uso (per esempio, le formule di transizione tra argomenti diversi: adde quod, quod superest, praeterea, denique), dovevano restare il più possibile fissi per consentire al lettore di familiarizzarsi con un linguaggio non certo facile.

Non va neppure trascurato il fatto che alla lingua latina mancava la possibilità di esprimere certi concetti filosofici, e Lucrezio si trovò quindi costretto a ricorrere a perifrasi nuove (quali semina o primordia rerum, e corpora prima per designare gli atomi), a coniazioni, talora a calchi diretti dal greco (come homoeomerìa): è appunto in questa circostanza che egli lamenta la «povertà del vocabolario avito» (I 832: patrii sermonis egestas).

Al di fuori del lessico strettamente tecnico, Lucrezio sfrutta una gran mole di vocaboli poetici che la tradizione arcaica (soprattutto Ennio) gli fornisce specie nel campo degli aggettivi composti (per esempio, suaviloquens, altivolans, navigerum, frugiferens), e molti ne crea egli stesso, rivelando una spiccata propensione per nuovi avverbi (filatim, moderatim, praemetuenter) e perifrasi (natura animi = animus; equi vis = equus, sul modello omerico). Da Ennio trae le più caratteristiche forme dell’espressione: un intensissimo uso di allitterazioni, assonanze, costrutti arcaici. In campo grammaticale i due fenomeni sicuramente più vistosi sono il gran numero di infiniti passivi in -ier (più arcaico di -i), e il prevalere della desinenza bisillabica -ai nel genitivo singolare della 1^ declinazione (anziché -ae), che contribuiscono all’elevazione del tono del discorso.

L’esametro lucreziano si differenzia nettamente da quello arcaico di Ennio, rispetto al quale predilige l’incipit dattilico che sarà usuale nella poesia augustea. Il moderato ricorso all’enjambement (peraltro diffuso nelle sezioni in cui si intende accentuare il pathos) annulla soprattutto nelle parti tecniche argomentative la tensione che si crea tra un verso e l’altro, permettendo una più pacata e lineare comprensione del contenuto e accentuando il senso di accumulazione di fatti e prove convincenti.

Lucrezio dimostra di possedere una vasta conoscenza della letteratura greca, come testimoniano le riprese di Omero, Platone, Eschilo, Euripide; tutta la descrizione della peste di Atene nel finale dell’opera è naturalmente basata sul racconto di Tucidide. Non mancano allusioni ai poeti ellenistici: nel proemio del IV libro Lucrezio si presenta come il poeta che raggiunge per primo «gli impervi terreni delle Muse Pieridi» per attingere a una nuova fonte di poesia, riproducendo così il gesto di consapevolezza che Callimaco aveva canonizzato a inizio degli Aitia.

Vincenzo Foppa, Fanciullo che legge Cicerone. Affresco, 1464, dal Banco Mediceo di Milano. London, Wallace Collection.

10. La fortuna di Lucrezio

Le prime fasi della fortuna di Lucrezio sono oggetto di discussione: è sicuramente strana la completa assenza del poeta dalle opere filosofiche di Cicerone, dove pure la confutazione dell’ Epicureismo ha larga parte. Si è pensato (ma le ipotesi sono molteplici) che Cicerone abbia voluto, in tale sede, appositamente ignorare il De rerum natura e sminuirne così il valore. Tutto sommato, scarsa è la presenza di Lucrezio anche in altri autori di I secolo a.C., anche se Virgilio, Orazio e Ovidio non mancano di riprendere alcuni aspetti e di tributargli alte lodi.

La lettura del poema continua anche nei secoli successivi, come testimoniano Seneca, Quintiliano, Stazio (cui si deve la bella definizione docti furor arduus Lucreti, in Silv. II 7, 76) e Plinio il Vecchio.

Gli autori cristiani leggono Lucrezio e ne criticano apertamente le posizioni, ma a partire dai secoli successivi incominciano a perdersi le tracce dell’opera. Nel 1418 Poggio Bracciolini scopre in Alsazia un manoscritto del De rerum natura e lo invia a Firenze perché sia copiato: è l’inizio della rinnovata fortuna dell’opera in epoca moderna. Alla prima edizione a stampa (Brescia 1473) e al fiorire delle attività filologica sull’opera (studiata tra gli altri da Marullo, Avancio e soprattutto Lambino) si affianca la ripresa di interesse, da parte dei dotti dell’epoca, anche di tendenze filosofiche diverse: è il caso di Pontano e Poliziano (anche da alcune Stanze per la Giostra di quest’ultimo, ispirate alla Venere di Lucrezio Botticelli trasse spunto per la sua Primavera).

Nel Cinquecento appaiono le prime «confutazioni di Lucrezio». Si tratta di opere in versi che riprendono da vicino la lingua e lo stile latino dell’autore per propugnare tesi sovente opposte a quelle materialiste del De rerum natura. Un celebre esempio di questa produzione è, senz’altro, l’Anti-Lucretius, sive de Deo et Natura del Cardinale di Polignac (1747).

Il filosofo francese Gassendi (1592-1655), con il suo Empirismo, riporta in auge, in pieno XVII secolo, la dottrina di Epicuro (e, naturalmente, di Lucrezio) conciliandola con la presenza di un Dio creatore. Molière ne traduce nel Misantropo il celebre passo del IV libro sui difetti delle donne; l’Illuminismo, poi, confesserà la sua ammirazione per l’arte e (non sempre) per la filosofia del poeta latino.

La prima traduzione italiana dell’opera è del dotto fiorentino Alessandro Marchetti, pubblicata a Londra nel 1717, dopo il divieto impostogli in patria.

Non si può affermare con certezza una lettura integrale di Lucrezio da parte di Giacomo Leopardi, anche se alcune tracce nei suoi testi indicano, comunque, un certo grado di conoscenza diretta (per esempio, i vv. 111-114 de La ginestra: «Nobil natura è quella / che a sollevar s’ardisce / gli occhi mortali incontra al comun fato», riprendono forse I 65-66: Graius homo mortalis tollere contra / est oculos ausus primusque obsistere contra).

Nel 1850 l’edizione critica del De rerum natura curata da Karl Lachmann è il banco di prova del moderno metodo filologico basato sulla valutazione dei rapporti tra i vari rami della tradizione, individuati grazie alla presenza di errori guida che li accomunano o li separano.

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Note

[1] Suet. Poet. 16, 1 Rostagni = Hier. Euseb. 171, 1-3: Titus Lucretius poeta nascitur. Qui postea amatorio poculo in furorem uersus, cum aliquot libros per interualla insaniae, conscripsisset, quos postea Cicero emendauit, propria se manu interfecit anno aetatis XLIV.

[2] Don. Vit. Verg. 6: Initia aetatis Cremonae egit usque ad uirilem togam, quam XVII anno natali suo accepit isdem illis consulibus iterum duobus, quibus erat natus, euenitque ut eodem ipso die Lucretius poeta decederet.

[3] Il sublime diventa non solo una forma stilistica che rispecchia per l’autore, che costruisce il suo discorso, e una forma di percezione delle cose per il lettore, che assiste allo spettacolo grandioso dell’universo e delle sue leggi. Il sublime, coinvolgendo colui che è lettore del testo e, perciò spettatore della grande di emozionante descrizione lucreziana, gli suggerisce un bisogno morale. Ecco che allora il sublime, per il destinatario, funziona anche come un invito all’azione. Attraverso la rappresentazione del sublime il poeta esprime con ansia un esortazione al lettore: che scelga per sé, anche lui, un modello di vita alto e forte. E tutto il De rerum natura si configura allora come un protreptikós lógos, come insegnamento che contiene insieme un drammatico consiglio: tu stesso, lettore, devi divenire quasi lo specchio di questa sublimità universale, maestosa e terribile, che io cerco di rappresentare adeguatamente in questo mio stile sublime; tu stesso devi trasformarti in un «lettore sublime», emozionarti e trovare dentro di te la forza dell’accettazione e dell’adeguamento.

[4] A parte certi diffusi accenti genericamente “prometeici” che suggeriscono nella figura di Epicuro il campione della liberazione umana, fin dall’inizio del poema (I 62-79) l’immagine del filosofo (armato di vivida vis animi e forte della ratio naturae) si modella apertamente sui tratti del guerriero omerico impegnato in un duello eroico: il rituale delle “scene di sfida”, codificate nell’Iliade, con le varie movenze che preludono allo scontro fra guerrieri (guardare il nemico negli occhi, disporsi di fronte a lui saldamente, ecc.) costituisce il modello implicito della descrizione che Lucrezio fa del suo campione impegnato contro quell’avversario temibile che è il mostro gigantesco della superstizione (mortales tollere contra / est oculos ausus, primusque obsistere contra). Segno, questo, dell’intonazione epico-eroica che Lucrezio voleva aggiungere all’ardore didascalico della sua poesia di genere sublime.

[5] Epic. 6, 33: «Grida la carne: non aver fame, non aver sete, non aver freddo; chi abbia queste cose e speri di averle [in futuro], anche con Zeus può gareggiare in felicità» (trad. Arrighetti).

[6] La confusione fra la figura storica dell’autore e l’immagine del “narratore”, che prende la parola all’interno del poema, continua a nuocere alla lettura critica dell’opera. Le due figure non vanno sovrapposte meccanicamente: nessuno, infatti, penserebbe di far coincidere sic et simpliciter il Dante-personaggio della Commedia con l’uomo Alighieri.

[7] In questo particolare caso, avranno agito anche stimoli culturali diversi, quali la volontà di contrapporsi all’ideologia erotica dei neoteroi (Catullo) e l’orientamento della morale tradizionalista a condannare con severità gli amanti che sconsideratamente dissipavano le loro sostanze in doni e lussi (IV 1123-1124: «e intanto il patrimonio si dissolve, si trasforma in tappeti babilonesi; i doveri sono trascurati, la reputazione vacilla e soffre»).

Diana alla luce della luna

di MORISI L., Diana alla luce della luna (Catull. 34. 15 s. e le insidie dell’etimologia), Lexis 19 (2001), pp. 283-287.

 

 

Sis quocumque tibi placet / sancta nomine (Catull. 34. 21 s.): «sii onorata con qualunque nome di piaccia». La stilizzata movenza che avvia alla chiusa del catulliano inno a Diana, ove è il riflesso del canto (e consueto) pragmatismo con cui l’orante intende tutelarsi dal rischio di invocare la divinità con appellativi che non le competono, o peggio di ometterne le specifiche denominazioni cultuali[1], si presta con particolare opportunità a riferirsi a una dea (Hor. Carm. 3, 22, 4: diua triformis) che è, a un tempo, una e trina (34, 13-16):

 

tu Lucina dolentibus

Iuno dicta puerperis,

tu potens Triuia et notho es

dicta lumine Luna.

 

Allorché, infatti, l’antica divinità italica preposta a esercitare un proprio autonomo ruolo nella sfera relativa alla fecondità – in virtù, pare, di un’origine ctonia, che tuttavia le inibì la dotazione di alcune prerogative di carattere uranio[2] – finì per essere accostata, quando non sovrapposta, all’Artemide greca, di quest’ultima ereditò ben presto e senza conflitti, come fu spesso a Roma, le diverse competenze e investiture. Fatta oggetto di una confusa azione sincretistica, per altro ben lungi dal non essere, talora, ignorata, Diana assume così i tratti di Iuno Lucina, la dea che tutela il parto, quelli più sfumati di Ecate, la misteriosa entità demoniaca signora dei crocicchi, degli spiriti notturni e con imprecise implicazioni nel campo della magia, Triuia[3] appunto, nonché il ruolo di dea della luna, quasi un diritto “transitivo” (su scorta stoica) della sorella di Apollo. Gli effetti complessivi di una tale articolazione, caratterizzata da ininterrotte osmosi e contaminazioni[4] (il fatto che delle tre dee una si chiamasse «Trivia», dopotutto, non contribuiva a semplificare le cose) sono visibili nelle congestionate testimonianze di Varrone e Cicerone, non a caso percorse da un duplice denominatore, la luce e il tre. Se l’uno alza appena lo sguardo dalle strade al cielo (ling. Lat. 7, 16):

 

Triuia Diana est, ab eo dicta Triuia, quod in triuio ponitur fere in oppidis Graecis uel quod luna dicitur esse, quae in caelo tribus uiis mouetur, in altitudinem et latitudinem et longitudinem,

 

e troverà l’implicita approvazione di Plutarco (de fac. in orbe lun. 24, 937f), l’altro vede reificate quelle allegorie nella verità di un rapporto etimologico (nat. deor. 2 68, s.):

 

Dianam autem et lunam eandem esse putant, cum […] luna a lucendo nominata sit; eadem est enim Lucina, itaque ut apud Graecos Dianam eamque Luciferam sic apud nostros Iunonem Lucinam in pariendo inuocant. […] (69) Diana dicta quia noctu quasi diem efficeret. Adhibetur autem ad partus, quod i maturescunt aut septem non numquam aut ut plenumque nouem lunae cursibus[5].

Paul-Jacques-Aimé Baudry, Diana Reposing. Olio su tavola di mogano, 1859 c. Baltimora, Walters Art Museum.

 

Non sappiamo per chi e in quale contesto Catullo abbia composto il suo inno; può darsi che l’occasione fosse un omaggio ‘privato’ alla dea, calcato sulle forme di una celebrazione liturgica – come pare provato dal colorito romano dell’attacco (Dianae sumus in fide)  e dalla menzione in explicit, a chiudere anularmente la struttura, della «stirpe di Romolo» – ma verisimilmente escluso dalla pubblicità di una performance rituale: non importa verificarlo, se mai possibile, in questa sede. Più memorabile è il fatto che Catullo aspiri a impreziosire alessandrinamente il suo dettato operando una strategia tutta giocata sulla riduzione e sul rimosso: non solo opta per la versione meno nota della leggendaria nascita della dea (vv. 7 s.), trascurando poi di ricordarne l’immediata prerogativa, quella di essere signora delle fiere e protettrice della caccia, ovvia al lettore educato che si prospetta: tale processo di riduzione, cui risponde sul piano stilistico l’alleggerimento di una (troppo) intensa sequenza allitterante, egli pone in atto anche nella riscrittura allusiva di un modello lucreziano, chiarita da una riconoscibile spia lessicale. La memoria, secondo un modulo riscontrabile altrove in Catullo, non gravita qui sull’innovazione né sullo scarto, ma funziona piuttosto come scelta, comunque connotante, tra opzioni già occupate (a cauzione, per inciso, della possibilità stessa di orientare il rapporto imitativo), omaggio riconosciuto all’autorità di chi detiene le competenze del naturalista e del poeta («la luce della luna può essere “falsa”, lo dice anche Lucrezio») nondimeno congiunta al prestigio di una tradizione antica che affonda le sue radici nel pensiero presocratico[6] (Lucr. 5, 575 s.):

 

lunaque siue notho fertur loca lumine[7] lustrans

siue suam proprio iactat de corpore lucem.

 

Leocare, Diana cacciatrice. Copia romana di un originale greco del IV secolo a.C. Paris, Musée du Louvre.

 

È interessante notare come anche Lucrezio in un’anticipazione delle teorie prevalenti e approvate da Epicuro (cfr. epist. Pyth. 94) sull’origine della luce lunare (luce propria o riflessa), condensate in un distico risonante, sacrifichi senza difficoltà una terza ipotesi (una luna sempre nuova si rigenera quotidianamente), descritta insieme alle altre, poco più avanti. Pur incardinata su un modello argomentativo a base analogica, caro a Lucrezio[8], e anche trascurandosi quella censura preventiva, si capisce che quest’ultima ha minor peso delle prime due, indebolita dalla stessa movenza sintattica che la introduce (5, 731: denique cur nequeat…): la sua fondatezza, meno scientifica che dialettica, risiede piuttosto nell’impossibilità di dimostrarne il contrario.

A designare la non autoctonia del tenue chiarore lunare, nothus appare vocabolo ben scelto. Prestito originariamente della lingua del diritto, è risorsa di cui i Latini fruiscono, colmando una loro lacuna lessicale, vuoi per denotare una particolare casistica esclusa dalla disciplina giuridica romana[9], vuoi, soprattutto, per profittare di suggestioni più aperte e variamente negoziabili: tant’è vero che l’àmbito di tale riuso latino, come avvisa M. Zicari, è per lo più greco, quand’anche solo per ascendenza letteraria[10]. E un precisa tradizione dossografica (greca), nota ancora mezzo secolo dopo a Filone Alessandrino[11], Catullo avrà forse inteso alludere, ma con un’ulteriore, almeno così parrebbe, motivazione contestuale: convertendo cioè quell’atto imitativo, nel caricare notho[12] di una debole accezione concessiva («sei detta Luna a motivo della luce, che pure è riflessa»), in un invito a mediare su un paradosso etimologico. Paradosso acuito dall’opposizione, contestualmente rilevata da una simmetria chiastica, rispetto a Lucina…dicta, che non è soltanto un modo per sottolineare quanto l’etimo di Lucina sia invece ovvio ed evidente, ma piuttosto per coinvolgere del lettore, dopo la sfera ‘calda’ dell’emotività (evocando una figura cara alla tradizione popolare), quella più ‘fredda’ dell’intelletto. Che luna, infatti, debba il suo nome alla luce, malgrado questa non le sia attributo costante né tantomeno suo proprio, è un dato che può legittimamente incuriosire; più ancora, però, se il merito, involontario, di aver contribuito a svelare l’arcano debba essere riconosciuto non a un latino, ma a un greco.

 ***

[1] Esemplare, al riguardo, l’equilibrio tra completezza e vaghezza dell’invocazione con cui Lucio, esasperato dal perdurare della sua condizione asinina, rivolge una supplica alla Luna (Apul. Met. 11, 2): regina caeli, siue tu Ceres…, seu tu caelestis Venus…, seu Phoebi soror…, seu… horrenda Proserpina triformi facie…, quoquo nomine, quoquo ritu, quaqua facie te fas est inuocare (L. Pasetti, La morfologia della preghiera nelle Metamorfosi di Apuleio, Eikasmos 10, 1999, 247-71; sull’approccio formale e contrattuale nei confronti del divino, da parte dei Romani, oltre alle ormai classiche pagine di E. Norden, Agnostos Theos, Leipzig-Berlin 1913 [= Darmstad 1971], è utile il materiale raccolto da G.B. Pighi, La poesia religiosa romana. Testi e frammenti…, Bologna 1958, così come la messa a punto di C. De Meo, Lingue tecniche del latino, Bologna 19862, 133-66; un contributo recente, senza significative novità, è quello di Ch. Guittard, Invocations et structures théologiques dans la prière à Rome, REL 76, 1998, 71-92).

[2] Una discussione più impegnativa può rinvenirsi in N. Scivoletto, L’inno a Diana di Catullo, in AA.VV., Filologia e forme letterarie. Studi offerti a Francesco della Corte, II, Urbino 1987, 357-74 (a minima integrazione si consideri A.E. Gordon, On the Origin of Diana, TAPhA 63, 1932, 177-91, per quanto rielaborato nel successivo, e citato, The Cult of Aricia, Berkeley 1934); sull’ipotesi che vuole attribuito a Diana un complesso intreccio di caratteri ctoni e urani (nel nome stesso si avverte l’attivazione etimologica di dius / dies, preziosamente comprovata, ad es., dalla scansione virgiliana di Aen. 1, 499: Diana, più problematico è verificarla in Catullo, data la mobilità della base bisillabica del gliconeo), soprattutto le pp. 363 s. Su genere letterario, tematica e destinazione del carme, si veda anche la sintesi di B. Németh, Der Diana-Hymnus (c. 34) von Catull. Analyse und Schlußfolgerungen, ACUSD 12, 1976, 37-45.

[3] Noto ad Ennio (scen. 121 V.2 [= 363 J.]) e a Lucrezio (1. 84), è appellativo (quando si escluda per certo l’inverso) calcato su τριοδίτις, il cui conio parrebbe logico supporre in età più alta, verosimilmente alessandrina, rispetto a quelle di Plutarco (mor. 937e) e di Ateneo (325a).

[4] Di cui sia prova, a titolo di esempio, questo verso euripideo (Hel. 569): ὦ φωσφόρ᾽ Ἑκάτη, πέμπε φάσματ᾽ εὐμενῆ; parimenti con «Trivia» è indicata la luna in Catull. 66, 5, come sarà in Dante (Par. 23, 25 s.): «quale ne’ plenilunii sereni / Trivia ride tra le ninfe etterne…».

[5] Cfr. ancora Varro, ling. Lat. 5, 68: luna quod sola lucet noctu; [69]: quae ideo quoque uidetur ob Latinis Iuno Lucina dicta, quod est et terra, ut physici dicunt, et lucet; Isid. Orig. 3, 71, 2: luna dicta quasi Lucina, oblata media syllaba; […] sumpsit autem nomen per deriuationem a solis luce, eo quod ab eo lumen accipiat, acceptum reddat (R. Maltby, A Lexicon of Latin Etymologies, Leeds 1991, 351).

[6] Cfr. Parmen. fr. B 14 D.-K.7: νυκτιφαὲς περὶ γαῖαν ἀλώμενον ἀλλότριον φῶς tra i dubia il fr. B 21: ὅθεν ψευδοφανῆ τὸν ἀστέρα [scil. τὴν σελήνην] καλεῖ.

[7] L’argomento, al fine di un’attribuzione di paternità, si capisce, non è probante, però è notevole il fatto che Apuleio, recuperando alla memoria l’eco della iunctura, la riferisca senz’altro a Lucrezio (deo Socr. 1, contaminando i due versi): … ut uerbis utar Lucreti, notham iactat de corpore lucem [scil. Luna]. I contesti e la struttura dei movimenti argomentativi non sono lontani, ma sono opposte le prospettive, ed è chiaro che Apuleio, se non forse provocatoriamente in un’operetta che è solo un brillante esercizio di stile sulla demonologia medioplatonica, non voglia cercare accrediti in Lucrezio, semmai il piacere di una citazione poetica a scopo di ornato (come altrove, in quelle stesse pagine, richiamando Plauto, Ennio, Terenzio, Accio e Virgilio); e Catullo (senz’altro in auge, con i neoteroi, nel II sec. d.C.), tanto più il Catullo “religioso” e impegnato del c. 34, avrebbe ben soddisfatto a tale necessità. Non sarà dunque per scrupolo se subito dopo Apuelio si affretta a precisare che (ibidem 2) utracumque harum uera sententia est [se la luna brilli di luce propria o rifletta i raggi del sole], … tamen neque de luna neque de sole quisquam Graecus aut barbarus facile cunctauerit deos esse.

[8] D’obbligo il rinvio a A. Schiesaro, Simulacrum et imago. Gli argomenti analogici nel ‘De rerum natura’, Pisa 1990.

[9] Cfr. Quint. 3, 6, 96 s.: nothus ante legitimum natus legitimus filius sit… [97] Nothum, qui non sit legitimus, Graeci uocant; Latinum rei nomen, ut Cato quoque in oratione quadam testatus est, non habemus ideoque utimur peregrino.

[10] A partire dal problema dell’ibridazione latina di vocaboli greci, discusso da Varrone (ling. Lat. 10, 69-71), per non dire dei prodigiosi puledri che Circe ottenne da un destriero (rubato) dal cocchio paterno e una comune cavalla (Verg. Aen. 7, 282 s.), sino all’illegittimità della nascita del troiano Antifate, figlio di Sarpedonte e di madre tebana (Verg. Aen. 9, 696 s.) o di Ippolito, la cui madre non fu sposa, bensì preda di guerra di Teseo (Ov. Her. 4, 121 s.): M. Zicari, Nothus in Lucr. 5, 575 e in Catull. 34, 15, in AA.VV., Studia Florentina Alexandro Ronconi sexagenario oblata, Roma 1970, 526 s. [= Studi catulliani, Urbino 1978, 182 s.]. In parte diverso è il discorso su notha mulier di Catull. 63, 27, con cui si delegittima la pretesa sessualità femminile di Attis. Nell’epiteto, da un lato coerente all’atmosfera grecizzante del carme, va piuttosto riconosciuto, quale arricchimento connotativo, una spia del complesso rapporto di integrazione fra le Gallae (che Attis incita chiamandole Maenades) e il loro contraltare cultuale, le Baccanti (Eur. Bacch. 1060): οὐκ ἐξικνοῦμαι μαινάδων ὄσσοις νόθων, dove è evidente che di quelle, non dubitandosi della loro sessualità, si vuole sottolineata l’orrenda trasfigurazione, per effetto dell’invasamento del dio, in esseri furiosi, donne cioè non più donne, in belve assetate di sangue (Gaio Valerio Catullo, Attis [carmen LXIII]), a cura di L. Morisi, Bologna 1999, ad loc.).

[11] Philo Alex. de somn. 1, 23: τι δέ, σελήνη πότερον γνήσιον ή νόθον έπιφέρεται φέγγος ήλιακας έπιλαμπόμενον ακτίσιν; dilemma riproposto più avanti in 1, 53.

[12] Ne percepisce l’ambiguità semantica lo Zicari, Nothus, 184: «ma “falso” può o dire soltanto che l’irraggiamento della luce della luna è apparente, non “genuino”, in quanto l’astro non l’emana proprio de corpore; o descrivere piuttosto l’effetto di questo fenomeno, cioè la qualità della luce che ne risulta. Questa duplice possibilità espressiva a me sembra insita nella parola stessa», pur incline, in definitiva, a privilegiare la seconda opzione (185): «non importa qui la nozione che i raggi solari sono riflessi dall’astro, bensì rievocare alla fantasia il mite fulgore lunare». Németh e Scivoletto (più decisamente quest’ultimo), invece, vedono in notho un ablativo di qualità (artt. citt., rispettivamente pp. 368 e 42). Più facile concordare con D.F.S. Thomson (Catullus. Edited with a Textual and Interpretive Commentary, Toronto-Buffalo-London 1997, ad loc.): «the emphasis is on lumine, not on notho: “you are given the name Luna because of the light (lumen), which is ‹not your own but› reflected (notho)”».

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Bibliografia ulteriore:

L. Fratantuono, Montium Domina: Catullus’ Diana, Rome, and the Moon’s Bastard Light, AC 58 (2015), pp. 27-46.

L. Kronenberg, Catullus 34 and Valerius Cato’s Diana, Paideia 73 (2018), pp. 157-173.

L’Epicureismo di Lucrezio nella crisi del I secolo a.C.

di PIAZZI F., GIORDANO RAMPIONI A., “Multa per æquora”. Letteratura, antologia e autori della lingua latina. Vol. I – Dall’età arcaica all’età di Cesare, Cappelli Editore, Bologna 2004, pp. 432-434.

 

Nel I secolo a.C. una grave crisi investe tutti gli aspetti del mondo antico. Profondi rivolgimenti politici, sociali, spirituali imprimono un corso nuovo alla storia di Roma e dell’Occidente. Nella vastità del nuovo organismo statale ed etnico che risulta dalle guerre di conquista, gli dèi tradizionali, protettori di piccole comunità regionali, appaiono inadeguati a regolare la vita degli uomini. La concezione giuridica espressa nelle XII Tavole, specchio di una moralità patriarcale e ingenua, è ormai un relitto del passato e l’etica arcaica dei boni mores è un miraggio nella Roma che da pólis si è fatta metropoli.

Con la rovina dei piccoli agricoltori liberi, a causa dell’economia schiavista e delle guerre che li tenevano a lungo lontano dai campi, si estingue la piccola proprietà terriera, tradizionale struttura economica di Roma antica, e dilaga il latifondo. L’onda della rivoluzione agraria dei Gracchi si fiacca sugli scogli della dura reazione oligarchica. Salgono la scala sociale i ceti mercantili e “borghesi” degli equites, ben decisi a strappare per sé alla nobiltà, miope e inetta, un potere politico proporzionato al potere economico e finanziario che essi hanno ormai raggiunto.

Nuovi modelli di comportamento s’impongono, nuovi tipi umani si affacciano alla ribalta sociale: il generale idolatrato dalle milizie (divenute, con la riforma di Gaio Mario, professionali: nuovo strumento di avventure e causa di conflitti civili); gli usurai, i grandi mercanti e imprenditori soprattutto italici; i giovani aristocratici educati in modo raffinato alla scuola dei maestri orientali, da quando sui rudi valori collettivistici dell’arcaica repubblica comincia a prevalere l’individualismo e l’otium intellettuale; cioè da quando la cultura assume un valore autonomo e, lungi dall’essere solo un supporto per l’azione pratica, come voleva Catone, diviene qualcosa di valido di per sé e da ricercare per la sua sola natura. In questo contesto di mutamenti e contrasti civili, reso cruento dagli avvenimenti militari e tragici che fanno da sfondo alla breve vita di Lucrezio, l’Epicureismo trova le condizioni ideali per la propria diffusione.

Filosofo. Busto, marmo pario, II-III sec. d.C. Museo Archeologico di Delfi.

Già in Grecia questa dottrina materialistica, cosmologica e morale, era legata a una situazione di crisi. L’impresa di Alessandro, infrangendo le barriere della pólis, aveva dischiuso un orizzonte sconfinato agli occhi dei contemporanei, obbligandoli a riconsiderare una prospettiva sopranazionale la religione e i valori tradizionali. La morte della pólis, intesa come possibilità per i liberi cittadini di esplicare la propria personalità nella partecipazione diretta alla vita pubblica, induceva gli individui a ripiegarsi nella vita privata e interiore. S’invocava una filosofia che mirasse a consolare e nutrire di solitarie meditazioni le coscienze degli “individui”. Erano nate così in Grecia nel III secolo a.C. le filosofie della crisi: l’Epicureismo, lo Stoicismo, lo Scetticismo, il Cinismo, tutte volte alla ricerca della tranquillità individuale, consistente nel distacco dalle cose del mondo e nel ripiegamento su se stessi.

L’Epicureismo indica nel tetraphármakon (“quattro rimedi”) la via per conseguire l’ataraxía o “imperturbabilità”: gli dèi non sono da temere; la morte neppure; il bene si raggiunge facilmente; il male è sempre tollerabile. In particolare, è abolita la religio, la paura degli dèi. Questi, infatti, sono esseri perfetti e felici nella pace degli intermundia (zone tra terra e cielo in cui risiedono), incuranti delle vicende umane. Da essi non bisogna attendersi benefici né punizioni. Un corollario fondamentale è l’invito a rinchiudersi in una dimensione privata, politicamente disimpegnata – láthe biōsas (“vivi nascosto”) – e ricercare la verità con pochi amici costituenti una piccola comunità di eletti.

Nel I secolo a.C. l’Epicureismo si diffonde a Roma, dove tra l’89 e l’84 a.C. tiene lezione il filosofo Fedro, amico e maestro di Cicerone, alla cui scuola si recano esponenti della nobilitas, come Cesare, suo suocero Lucio Calpurnio Pisone Cesonino, l’amico e editore di Cicerone, Tito Pomponio Attico, il cesaricida Gaio Cassio Longino. Negli anni immediatamente successivi fiorisce a Napoli un vero e proprio circolo epicureo, i cui esponenti di maggior spicco sono Sirone e Filodemo di Gadara. Cicerone ci informa che circolavano in Italia grossolani volgarizzamenti dell’opera del “Maestro di Samo” e che numerosissimi seguaci erano attratti dalla natura edonistica e liberatoria di un messaggio che, a suo dire, legittimava una vita dissoluta, fatua, che rincorre il piacere immediato nell’epidermiche sensazioni del dies.

L’otium predicato da Epicuro vanifica l’ideale del civis, inteso al bene comune e compromette la dignitas dell’uomo, che per Cicerone è ancora homo politicus: che vive e che ama vivere nella pólis.

Certo, l’esaltazione di un ideale “separato” di sapiente non è cosa di per sé rivoluzionaria. Può finanche essere un fattore di stabilità politica, come nei regni ellenistici, dove va incontro al desiderio del monarca, ben lieto che i cittadini gli deleghino la guida della cosa pubblica.

Ma lo Stato romano si reggeva ancora agli inizi del I secolo sul culto del negotium, sulla priorità del sociale rispetto al privato, sull’idea di un universo gerarchicamente organizzato e posto sotto la tutela di divinità provvide che guidano le sorti dei popoli, specie quelle di Roma, investita di una missione per il bene di tutti gli uomini. In questo contesto politico-religioso, il verbo di Epicuro predicato da Lucrezio suona come un messaggio potenzialmente eversivo, dissolvitore di valori tradizionali, formatore di coscienze scettiche e iconoclaste.

Il primo bersaglio polemico scelto da Lucrezio, fin dagli inizi del poema, è il timore religioso (religio), che egli considera effetto dell’ignoranza delle leggi meccaniche della natura e causa di infinite sofferenze morali per gli uomini. Di qui il progetto educativo di diffondere – con fedeltà entusiastica e ardente, ma anche rigida e integrale – la filosofia di Epicuro, il primo greco che «osò levare gli occhi contro la religione, che incombeva minacciosa dal cielo».

Se, come vuole Varrone, la religione a Roma è un affare di Stato, perché di questo Stato essa è essenziale elemento di coesione, l’attacco di Lucrezio contro la paura degli dèi è – a prescindere dalle sue reali intenzioni – un attacco politico. Tanto più temibile, se si considera che il messaggio epicureo, nonostante il carattere originariamente elitario, a Roma non si rivolgeva, come lo Stoicismo, solo alla classe dirigente, ma a chiunque, compresi le donne, gli schiavi e perfino i “barbari”.

Non si deve però esagerare – come ha fatto certa critica fortemente ideologizzata – la portata rivoluzionaria del De rerum natura. Una lettura del poema che attribuisca a Lucrezio prioritari interessi sociali, fino a farne un emancipatore del proletariato dall’alienazione politica e religiosa – perfino un marxista ante litteram – è fuorviante, banalmente attualizzante, poco rispettosa delle ragioni del testo lucreziano.

Scena conviviale. Affresco, I secolo, da Pompei. Museo Archeologico Nazionale di Napoli.

Non c’è prova alcuna che Lucrezio fosse il consapevole e accettato oratore di un movimento popolare e i rari giudizi degli antichi su di lui, compreso quello di Cicerone, fanno esclusivo riferimento all’impegno linguistico e stilistico.

Che Lucrezio non fosse un «riformatore sociale», ma si rivolgesse a un’élite di persone colte, lo prova la sua amicizia con Gaio Memmio, esponente della nobilitas e patrono di letterati. Lo prova la centralità data nel poema agli aspetti più ostici della speculazione di Epicuro, come la dottrina fisica: il moto incessante di aggregazione e disgregazione degli atomi nel vuoto e le cause che lo determinano, la pluralità dei mondi e degli dèi, l’eterna vicenda di forze produttive e distruttive dell’universo; e poi il procedere dalla fisiologia alla psicologia e, infine, all’etica, secondo i procedimenti di una filosofia così ardua che – come è detto in più punti del poema – ab hac uulgus abhorret.

Inoltre, l’Epicureismo è a Roma una predicazione rivoluzionaria solo «nei limiti della sua essenza critica distruttiva, incapace […] d’esprimere un ideale positivo agevolmente accessibile dalle forze in avanzata» (Canali). Infine, non c’era, a Roma, una base sociale davvero rivoluzionaria, in grado di assimilare o esprimere una concezione del mondo nuova: in pratica, di rovesciare la società “schiavista”. Da un lato, anche il movimento “democratico” era privo di un’ideologia omogenea e integralmente rivoluzionaria, dall’altro, «la dottrina epicurea non poteva […] divenire una forza spirituale capace di orientare e guidare il movimento, perché il suo intellettualismo e la mancanza di prospettive politiche e sociali le impedirono di avere una diffusione più vasta» (Canali).