La 𝐺𝑒𝑟𝑚𝑎𝑛𝑖𝑎 di Tacito e il razzismo nazista

da L. CANFORA, R. RONCALI, Autori e testi della letteratura latina, Bari 1993, 753-756.

Nel capitolo 2, 1 della Germania, Tacito avanza l’ipotesi (crediderim…) che i Germani siano autoctoni poiché, sulla base dei numerosi miti di fondazione nati nella civiltà greca (come il viaggio di Enea, per esempio), è convinto che le migrazioni di popoli possano essere avvenute in passato solo via mare; non può quindi credere che qualche popolazione, proveniente dall’Asia, dall’Africa o dall’Italia, abbia solcato le acque dell’Oceano per giungere alle coste settentrionali della Germania; il territorio infatti è troppo povero di risorse e inospitale quanto al clima. In definitiva, solo chi vi è nato può vivere in un posto simile. È piuttosto chiaro, quindi, che secondo Tacito l’autoctonia dei Germani rappresenta la conseguenza di una condizione di svantaggio, che porta gli stessi Germani a essere collocati ai limiti dell’ecumene. Da questo isolamento, sulla base di intuizioni empiriche, lo storico latino ricava che la diversità dei tratti somatici dei Germani rispetto agli altri popoli sia dovuta all’isolamento (cap. 4).

Soprattutto in relazione a questo particolare riferito da Tacito, a partire dal XVI secolo nella trattatistica tedesca cominciò a svilupparsi una serie di teorie che esaltavano la purezza della razza germanica. Tali teorie sono state ricostruite con rigore dallo storico Luciano Canfora, che ha preso in esame gli scritti sull’argomento. Un momento cruciale, a suo giudizio, si è verificato quando il poeta tedesco Friedrich Gottlieb Klopstock (1724-1803) trasferì «alla lingua l’elogio di autoctonia che Tacito riferisce alle genti germaniche». Da allora ha avuto sempre più successo in area germanica il mito secondo il quale i moderni tedeschi fossero discendenti di un popolo originario e incontaminato, a differenza dei popoli slavi e mediterranei, frutto di incroci.

Alla fine dell’Ottocento fu poi fondata la “Associazione pantedesca”, che, con il fine di salvaguardare il sentimento nazionalistico, promosse una campagna per portare la Germania a svolgere un ruolo di primo piano tra le potenze coloniali, nella convinzione che la superiorità della razza germanica garantisse alla nazione tedesca il diritto di dominare sugli altri popoli. La “Associazione pantedesca” successivamente abbracciò le tesi del nazismo. Il sostegno ideologico alle teorie razziste fu fornito soprattutto da I fondamenti del XIX secolo, un’opera di Houston Stewart Chamberlain (1855-1927), inglese naturalizzato tedesco, convinto assertore della superiorità della razza ariana. Secondo Canfora, però, Chamberlain prese in attento esame la Germania e in particolare una delle frasi più importanti del cap. 4, ma secondo una forma filologicamente scorretta: egli infatti leggeva Unde habitus quoque corporum, quamquam in tanto numero hominum, idem omnibus, mentre il testo corretto prevede tamquam al posto di quamquam. La differenza, sul piano del significato, è notevole, perché nel primo caso la proposizione concessiva («sebbene in un numero tanto imponente di persone») sembra dimostrare la convinzione di Tacito che la razza germanica abbia una sorta di straordinaria predisposizione a mantenere intatte le caratteristiche somatiche, mentre nel secondo caso («per quanto possibile in un numero tanto imponente di persone»), Tacito appare consapevole del fatto che la somiglianza fisica degli individui rientri in parametri ragionevolmente simili a quanto può accadere per qualunque popolazione si trovi isolata da flussi migratori.

Nel seguente passo, Canfora chiarisce come sia assolutamente lontano dal mondo ideologico di Tacito, e più in generale di un intellettuale romano antico, l’ipotesi di una pretesa superiorità delle razze che potessero vantare un’autoctonia. Il mito di fondazione di Roma, infatti, evidenziava proprio che all’origine dell’Urbe ci fosse una serie di fusioni tra genti diverse; quanto riferito dallo storico sulla presunta purezza dei Germani dipende piuttosto da tòpoi letterari, che sono stati messi in evidenza da più attenti filologi.

«C’è da dire che l’immediato contesto poteva spingere in direzione di interpretazioni “sovreccitate” in senso razzistico (chi si esalta di fronte a una così perfetta identità fisica ha in fondo un ideale da allevamento di animali). Parole come nullis aliarum gentium conubiis infectos sono inequivocabili: l’aggettivo infecti, posto in opposizione al successivo sinceram, non può che intendersi nel senso che i Germani non sono “macchiati” da contatti o mescolanze con altre stirpi. Del resto, sul tema dei conubia in relazione alla “purezza” razziale Tacito ritorna alla fine dell’opuscolo, per osservare che i Bastarni conubiis mixtis foedantur (46, 1) […].

Il modo in cui Tacito si esprime non deve trarre in inganno. Il mondo romano è, in quanto mondo della “mescolanza” […], il più lontano dal culto di questi miti razziali. La stessa, mitica, origine “troiana” spingeva in tal senso. […] E Tacito scrive quando uno spagnolo è diventato princeps, mentre qualche decennio più tardi sarà sul trono un africano, Settimio Severo. Il meccanismo di cooptazione delle élite provinciali e di allargamento progressivo della cittadinanza opera in direzione diametralmente opposta a quella della difesa di una propria presunta sinceritas etnica (e infatti l’improvvisazione, durante il fascismo, di una “difesa della razza” italica, proclamata seduta istante “ariana” e insignita del blasone di una “arianità” di diretta derivazione romana, fu risibile – tra l’altro – proprio per l’inesistenza di una omogenea “stirpe romana” di partenza»). Ciò non esclude, su un piano culturale, il manifestarsi in determinati momenti di pretese di superiorità verso questo o quell’altro popolo; contraddette per lo più dalla prassi. È il caso, per fare un solo esempio, dell’atteggiamento verso i Greci: nonostante tutta la retorica antigreca (Graeculi, ecc.), l’ellenizzazione è stato il fenomeno che ha investito in modo decisivo la civiltà romana per un’intera epoca tra II secolo avanti e II secolo dopo Cristo.

In ogni caso, è necessario distinguere tra mentalità razzistica ed interesse etnografico. L’attenzione che Tacito rivolge ai Britanni (Agricola), ai Germani (in questo opuscolo), agli Ebrei (Storie V 2-10) è sostanzialmente fraintesa quando, com’è accaduto alla Germania, se n’è voluto fare un remoto pilastro del moderno pangermanesimo.

Una analisi non inficiata da pregiudizi porta agevolmente a constatare che le stesse caratteristiche (presunte) di autoctonia, purezza e autosomiglianza, che Tacito preferiva ai Germani, ricorrono, in riferimento ad altri popoli, in fonti di molto precedenti: fonti che – è stato osservato – potrebbero essere alla base dell’etnografia tacitiana ben più che la diretta esperienza dell’autore. Capitoli dell’opuscolo tacitiano, quali il 2 e il 4, assunti tradizionalmente come “tavole della legge” del razzismo germanico, perdevano molto del loro presunto carattere profetico se analizzati dal punto di vista della loro derivazione antiquaria e letteraria. Analisi in base alla quale elementi etnico-culturali originariamente riguardanti altri popoli avevano finito per essere attribuiti ai Germani. È merito di Eduard Norden di aver proceduto a siffatta analisi, nel volume della protostoria germanica in Tacito (Die germanische Urgeschichte in Tacitus Germania, Berlin 1929, ma elaborato nel quinquennio precedente). Almeno in due punti – nota il Norden – il cap. 4 trova rispondenza letterale in una fonte greca, nell’opuscolo ippocratico Sulle arie, le acque, i luoghi: a) Propriam et tantum sui similem gentem trova rispondenza al cap. 19 dell’opuscolo: “Parliamo ora del clima e dell’aspetto degli Sciti. Questa stirpe è molto diversa dagli altri uomini, e, come gli Egizi, è similmente unica a se stessa […]”; b) Laboris atque operum non eadem patientia corrisponde alla formula con cui, nel cap. 15, Ippocrate descrive la non grande patientia laboris degli abitanti della regione attraversata dal Fasi (il fiume del Caucaso presso cui Senofonte ambiva fondare una colonia). Norden rifugge dall’indicare una diretta filiazione che conduca direttamente dallo scienziato del V secolo a.C. a Tacito. Nota invece, opportunamente, che già nell’opuscolo ippocrateo l’etnografia degli Sciti è costruita con elementi ripresi dalla descrizione di altri popoli (gli Egizi, per esempio). Si tratta dunque – è questa la sua ipotesi – di “motivi itineranti”, che attraverso il gran fiume della tradizione erudito-etnografica (Norden parla opportunamente di “correnti tradizionali”) hanno fissato gli stereotipi antropologici delle principali nationes».

Duemila anni dopo: Tacito futurista

di N. PICE (ed.), Publio Cornelio Tacito, La Germania. Dall’Impero romano al Terzo Reich tra civiltà e barbarie, Milano 2014, 22-41, introduzione.

 

Filippo Tommaso Marinetti nel 1928 pubblicò la sua traduzione della Germania di Tacito nella collana “Collezione Romana” edita dall’Istituto Editoriale Italiano, in formato tascabile con legatura in tela nera, con un’aquila ad ali spiegate incisa in oro sull’iscrizione «SPQR» all’angolo superiore rosso-bordeaux e sul dorso un tassello con il nome dell’autore e il titolo dell’opera impressi in oro. La collana teneva le più note opere degli scrittori latini con traduzione a fronte.

Nell’intento del suo ideatore, il futurista Umberto Notari, essa doveva rendere accessibile a un pubblico vasto la letteratura latina e tradurla in modo tale da renderla meccanicamente intellegibile e assai rispondente alla sensibilità moderna. A tal fine servivano trasposizioni moderne; di qui la decisione dell’istituto editoriale di affidare il compito delle traduzioni «a scrittori moderni che nel cimento della viva letteratura hanno appunto appreso l’arte di parlare agli animi moderni», magari ricorrendo anche a traduttori non specialisti, con il rischio di non garantire una solida impostazione scientifica, purché capaci di traduzioni agili e coinvolgenti. La collezione, inoltre, doveva reggere il confronto con le celeberrime edizioni critiche francesi, tedesche e inglesi, che detenevano il cosiddetto monopolio della cultura mondiale quanto a originalità di testi e perfette traduzioni.

Anche per questo si affidò la direzione del progetto culturale al grecista Ettore Romagnoli, una sorta di garanzia dottrinale ed estetica dell’ardua impresa, il quale da qualche tempo si era avvicinato al fascismo sino a farsi convinto sostenitore della continuità, non solo culturale, tra la Roma classica e la Roma fascista. Per il progetto grafico si pensò a Duilio Cambelotti, pioniere della decorazione moderna e artista raffinato ed eclettico, perché assicurasse con i suoi pregevoli fregi in oro, rosso e nero la bellezza della veste tipografica.

 

Tacito, La Germania. Trad. it. a cura di F.T. Marinetti, «Collezione Romana», Milano, Istituto Editoriale Italiano, 1928.

 

Le ragioni di Marinetti

Cosa spinse il padre del futurismo italiano ad accettare l’invito dell’editore, che era un suo grande amico, a tradurre la Germania per questa collana? A rileggere quel che egli scrive nella Prefazione, le ragioni sono molteplici:

 

1° Perché mi offriva un modo giovanile di cominciare una giornata caprese piena di lunghe arrostiture al sole, tuffi a capo fitto nelle liquide turchesi delle grotte verso cieli inabissati, conversazioni immense colla futurista Benedetta mentre allatta la nostra pupa rumorista;

2° Perché volevo rivivere il mio collegio dei gesuiti in Alessandria d’Egitto; i giochi rissosi dei compagni arabi, greci, negri, olandesi sotto palme, banani, bambù, e quel vano di finestra invaso dalle gaggie dove traducevo La Germania di Tacito in francese, mangiando hallaua e compenetrando nel sogno la nevosa Foresta Nera e gli ulivi d’Italia gesticolanti nel sole;

3° Perché la nostra passione futurista per la sintesi ci permette di gustare ancora Tacito senza essere soffocati dalla ripugnante polvere del passato;

4° Perché Tacito, maestro di concisione sintesi e intensificazione verbale, è lo scrittore latino più futurista e molto più futurista dei maggiori scrittori moderni. Ad esempio: Gabriele d’Annunzio;

5° Perché dimostrare che la creazione delle parole in libertà non proviene da ignoranza delle origini della nostra lingua;

6° Perché la visione imperiale della Germania fissata da Tacito è tuttora politicamente istruttiva e ammonitrice;

7° Perché la brevità dell’opera mi permetteva di realizzare una traduzione precisa e viva;

8° Perché gli scrittori italiani ammirino la virile concisione Tacitiana, sorella di quella sintesi plastica della lingua italiana da noi propagandata e realizzata colla rivoluzione futurista delle parole in libertà e dello stile parolibero, contro la prolissità decorativa del verso e del periodo;

9° Perché venga dimostrata l’assurdità dell’insegnamento scolastico latino, basato su traduzioni scialbe, errate e su cretinissime spiegazioni di professori abbruttiti, tarli di testi e di teste. Un efficace insegnamento della letteratura esige traduttori ispirati quanto i latini traduttori, e interpreti sensibili capaci di trasfondere la vita del genio. Se ciò non è possibile, urge rimpiazzare le ore di Latino idiotizzato con ore di Meccanica e Estetica della Macchina, questa essendo oggi l’ideale maestra di ogni veloce intelligenza sintetica di ogni vita potentemente patriottica[1].

 

Insomma, c’era la pretesa da parte di Marinetti di mantenere la fedeltà all’originale attraverso l’asciuttezza del linguaggio e dell’aggettivazione insieme alla solennità del dettato tacitiano, capace di imprimere ritmo alle sue narrazioni fascinose e ricche di notazioni antropologiche. A dire il vero, grande fu l’attesa quando si sparse la notizia che tra i traduttori della “Collezione Romana” c’era pure Marinetti, un po’ quasi tutti convinti – come riporta Paolo Buzzi sul «Giornale di Genova» del 25 febbraio 1928 –, che «quella prosa latina [di Tacito] così scarna e tutta giunture di ferro sarà resa, dalla prosa marinettiana, con le sonorità metalliche delle autoblindate e delle tanks».

Enrico Prampolini, Ritratto di Marinetti. Sintesi plastica. Olio su tavola, 1924-1925. Torino, Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea.

 

Lo sdegno di Gramsci

Le critiche, che subito si levarono quando apparve la traduzione, non furono poche. A cominciare da quanto, con acre ironia, annotava Antonio Gramsci in una lettera del 26 agosto 1929 inviata alla cognata Tatiana, straordinariamente bella per i diversi spaccati umani e culturali che essa contiene. Tra l’altro, in questo scritto il prigioniero del carcere di Turi, partendo dalla complessa questione delle cattive traduzioni e riferendo un curioso episodio che gli era capitato a causa di un sedicente avvocato, neotraduttore di un romanzo francese già in stampa, giungeva alla sarcastica denuncia della grossolanità degli errori presenti nella traduzione di Marinetti: se al traduttore quella traduzione pareva «perfetta per agilità, piacevolezza, precisione», a Gramsci sembrava per la «bestialità insensata» un’opera insulsa.

 

Cara Tatiana,

Ho ricevuto le fotografie dei bambini e sono stato molto contento, come puoi immaginare. Sono stato anche molto soddisfatto perché mi sono persuaso coi miei occhi che essi hanno un corpo e delle gambe; da tre anni non vedevo che solo delle teste e mi era cominciato a nascere il dubbio che essi fossero diventati dei cherubini senza le alette agli orecchi. Insomma ho avuto una impressione di vita più viva.

Naturalmente non condivido del tutto i tuoi apprezzamenti entusiastici. Io credo più realisticamente che la loro attitudine sia determinata dalla loro posizione dinanzi alla macchina fotografica; Delio è nella posizione di chi deve fare una corvée noiosa ma necessaria e che si prende sul serio; Giuliano spalanca gli occhi dinanzi a quel coso misterioso, senza essere persuaso che non ci sia qualche sorpresa un po’ incerta; potrebbe saltar fuori un gatto arrabbiato o magari un bellissimo pavone. Perché altrimenti gli avrebbero detto di guardare in quella direzione e di non muoversi? Hai ragione di dire che rassomiglia in modo straordinario a tua madre e non solo negli occhi ma in tutto il rilievo superiore della faccia e della testa.

Sai? Ti scrivo malvolentieri perché non sono sicuro che la lettera ti arrivi prima della tua partenza. E poi sono nuovamente un po’ sconquassato. Ha piovuto molto e la temperatura si è raffreddata: ciò mi fa star male. Mi vengono i dolori alle reni e le nevralgie e lo stomaco rifiuta il cibo. Ma è una cosa normale per me e perciò non mi preoccupa troppo. Però mangio un chilo d’uva al giorno, quando la vendono, quindi non posso morir di fame: l’uva la mangio volentieri ed è di ottima qualità.

Avevo già letto un articolo dell’editore Formiggini a proposito delle cattive traduzioni e delle proposte fatte per ovviare questa epidemia. Uno scrittore avendo addirittura proposto di rendere responsabili penalmente gli editori per gli spropositi stampati da loro, il Formiggini rispondeva minacciando di chiudere bottega perché anche il più scrupoloso editore non può evitare di stampar strafalcioni e con molto spirito vedeva già una guardia di P. S. presentarsi a lui e dirgli: «Si levasse e venisse con mia in Questura. Dovesse rispondere di oltraggio alla lingua italiana!» (i siciliani parlano un po’ così e molte guardie sono siciliane). La quistione è complessa e non sarà risolta. I traduttori sono pagati male e traducono peggio.

Nel 1921 mi sono rivolto alla rappresentanza italiana della Società degli autori francesi per avere il permesso di pubblicare in appendice un romanzo. Per 1000 lire ottenni il permesso e la traduzione fatta da un tale che era avvocato. L’ufficio si presentava così bene e l’avvocato-traduttore sembrava essere un uomo del mestiere e così mandai la copia in tipografia perché si stampasse il materiale di 10 appendici da tener sempre pronte. Però la notte prima dell’inizio della pubblicazione volli, per scrupolo, controllare e mi feci portare le bozze di stampa. Dopo poche righe feci un salto: trovai che su una montagna c’era un gran bastimento. Non si trattava del monte Ararat e quindi dell’arca di Noè, ma di una montagna svizzera e di un grande albergo. La traduzione era tutta così: «Morceau de roi» era tradotto «pezzettino di re», «goujat!» «pesciolino!» e così via, in modo ancor più umoristico. Alla mia protesta, l’ufficio abbuonò 300 lire per rifare la traduzione e indennizzare la composizione perduta, ma il bello fu che quando l’avvocato-traduttore ebbe in mano le 700 lire residue che doveva consegnare al principale, se ne scappò a Vienna con una ragazza.

Finora almeno le traduzioni dei classici erano almeno fatte con cura e scrupolo, se non sempre con eleganza. Adesso anche in questo campo avvengono cose strabilianti. Per una collezione quasi nazionale (lo Stato ha dato un sussidio di 100.000 lire) di classici greci e latini, la traduzione della «Germania» di Tacito è stata affidata a… Marinetti, che d’altronde è laureato in lettere alla Sorbona. Ho letto in una rivista un registro delle pacchianerie scritte da Marinetti, la cui traduzione è stata molto lodata dai.., giornalisti. «Exigere plagas» (esaminare le ferite) è tradotto: «esigere le piaghe» e mi pare che basti: uno studente del liceo si accorgerebbe che è una bestialità insensata […].

Ti avevo molto tempo fa pregato di procurarmi un volumetto di Vincenzo Morello (Rastignac) sul X canto dell’Inferno di Dante, stampato dall’editore Mondadori qualche anno fa (27 o 28): puoi ricordartene adesso? Su questo canto di Dante ho fatto una piccola scoperta che credo interessante e che verrebbe a correggere in parte una tesi troppo assoluta di B. Croce sulla Divina Commedia. Non ti espongo l’argomento perché occuperebbe troppo spazio. Credo che la conferenza del Morello sia l’ultima cronologicamente sul X canto e perciò può essere per me utile, per vedere se qualcun altro ha già fatto le mie osservazioni; ci credo poco, perché nel X canto tutti sono affascinati dalla figura di Farinata e si fermano solo ad esaminare e a sublimare questa e il Morello, che non è uno studioso, ma un retore, si sarà indubbiamente tenuto alla tradizione, ma tuttavia vorrei leggerla.

Poi scriverò la mia «nota dantesca» e magari te la invierò in omaggio, scritta in bellissima calligrafia. Dico per ridere, perché per scrivere una nota di questo genere, dovrei rivedere una certa quantità di materiale (per esempio, la riproduzione delle pitture pompeiane) che si trova solo nelle grandi biblioteche. Dovrei cioè raccogliere gli elementi storici che provano come, per tradizione, dall’arte classica al medioevo, i pittori rifiutassero di riprodurre il dolore nelle sue forme più elementari e profonde (dolore materno): nelle pitture pompeiane, Medea che sgozza i figli avuti da Giasone è rappresentata con la faccia coperta da un velo, perché il pittore ritiene sovrumano e inumano dare un’espressione al suo viso. – Però scriverò degli appunti e magari farò la stesura preparatoria di una futura nota[2] […].

Carissima, ti abbraccio affettuosamente.

Antonio[3]

 

A quale articolo si riferisse Gramsci, quando accennava al registro delle «pacchianerie» fatte da Marinetti, non è dato di sapere: «Nel commentare il “registro” di quegli errori», scrive Bruno Giancarlo in un ampio saggio su Tacito e il futurismo, «Gramsci non forniva le indicazioni bibliografiche dell’articolo, per cui il nome dell’autore e il titolo della rivista sono rimasti sconosciuti»[4].

Di certo nel giudizio negativo di Gramsci va colta anche la sua naturale avversione al futurismo, che vedeva ideologicamente inconciliabile con la propria visione politica[5]. Nonostante tutto, però, ne avvertiva la carica eversiva e rivoluzionaria e la capacità di intercettare le ansie collettive di una nuova civiltà.

Gramsci, difatti, si era reso conto che non confrontarsi con i futuristi significava abbandonarli al richiamo dell’attivismo fascista, che a gran voce rivendicava la rappresentanza in chiave antisistema della modernità e della gioventù. Già in un famoso articolo apparso su «L’Ordine nuovo» del 5 gennaio 1921 aveva scritto:

 

I futuristi hanno distrutto, distrutto, distrutto, senza preoccuparsi se le nuove creazioni, prodotte dalla loro attività, fossero nel complesso un’opera superiore a quella distrutta: hanno avuto fiducia in se stessi, nella forza delle energie giovani, hanno avuto la concezione netta e chiara che l’epoca nostra, l’epoca della grande industria, della grande città operaia, della vita intensa e tumultuosa, doveva avere nuove forme di arte, di filosofia, di costume, di linguaggio: hanno avuto questa concezione nettamente rivoluzionaria[6].

 

In fondo era un modo di sottolineare il rapporto vitale dei futuristi con i nuovi aspetti della modernità e il turbinio e la precarietà della Torino città-fabbrica. Questa attenzione verso il futurismo successivamente si dissolse del tutto con la marcia su Roma e con la condanna drastica del Partito comunista verso ogni forma di apertura alle tendenze avanguardistiche.

Umberto Boccioni, Dinamismo della testa di un uomo. Olio su tela, 1913.

 

Una traduzione piena di “spropositi”

Una recensione oltremodo negativa alla traduzione di Marinetti non tardò ad apparire l’anno dopo nella rivista «Civiltà moderna». Il suo autore, Enrico Santoni, sottolineava le non poche sue perplessità sulla corrispondenza dello stile tacitiano con quello futurista, le varie discrepanze tra edizione del testo latino su cui il Marinetti aveva eseguito la sua traduzione, e quella pubblicata a fronte della traduzione, che conteneva un rilevante numero di errori interpretativi. Con giudizi del tipo «una traduzione assolutamente manchevole che nuoce al buon nome e alla serietà della cultura italiana», «nessuna traduzione straniera ha spropositi quanto questa», il critico giungeva a una solenne stroncatura, rifiutandosi di poter sostenere di trovarsi dinanzi a una «versione polemica redimente il povero Tacito dall’idiozia dei filologi». Alcune di queste osservazioni sono state riprese di recente da Marco Giovini, che, oltre a elencare i «grotteschi malintesi e puerili strafalcioni» presenti nella traduzione, decisamente nega ogni rapporto analogico tra la brevitas tacitiana e la «sintesi plastica della lingua italiana» rivendicata dalla scrittura futurista, con la pretesa di ‘verbalizzazioni sintetiche’ della cosiddetta ‘aeropoesia’[7].

Dire che la traduzione non sia abbastanza fluida e snella significa negare una realtà fin troppo evidente, così come dire che non ha una forte impronta di originalità, quale magari era da aspettarsi da uno sperimentatore delle grandi risorse della lingua italiana, è cosa altrettanto indubbia, a prescindere dai diversi errori dovuti a distrazione e alle diversità delle lezioni critiche seguite, oltre alla non perfetta padronanza della morfosintassi latina (termini impropriamente riferiti ad altri elementi della frasi, fraintendimenti di complementi o di costrutti sintattici, errori di interpretazione).

Copertina della rivista «Civiltà moderna». [digitale.bnc.roma.sbn.it]
 

L’appendice di Vannucci

A Marinetti, però, la traduzione importava per il raggiungimento di un altro fine. Il futurista, si sa, cozza col passatista, lotta contro i musei e ogni forma di classicismo, è nemico di ogni tradizione e delle glorie scolastiche. Il padre del futurismo era poi ostinatamente avverso a ogni idolatria di biblioteche e accademie che sapessero di tradizioni separate, e si apriva al grido di isolare i ruderi dell’antica Roma «più epidemici e più mortiferi della peste e del colera». Firenze e Roma diventavano con i loro territori antiche le «piaghe purulente della nostra penisola». La tradizione, quindi, intesa come eredità del passato, non era per nulla avvertita come fonte viva di ispirazione, essendo al contrario una zavorra inutile e depauperante. Un grande odio si nutriva nei confronti dei grandi padri intellettuali, negando a essi il potere di educare i giovani artisti. «Io levo il vessillo da inalberare sulle rovine del passatismo (stato d’animo statico, tradizionale, professorale, pessimistico, pacifista, nostalgico, decorativo ed esteta», aveva solennemente detto Marinetti, il quale, poi, nonostante questi convincimenti si diceva disponibile a tradurre la Germania di Tacito, con l’intento di adeguare la conoscenza della «prima luminosa giornata della letteratura italiana all’incalzare fulmineo della vita moderna». Dove riscontrare le possibili ragioni di questa inversione di marcia? Una prima risposta va ricercata nel volumetto che contiene la traduzione della Germania, un fatto unico in tutta la collana, intitolata Discorso su Tacito sulla vita e sulle sue opere, scritta da Atto Vannucci, un sacerdote toscano vissuto nella seconda metà dell’Ottocento. Questi, dopo aver insegnato al Collegio Cicognini di Prato, dopo i moti del ’48, da ardente mazziniano, era andato esule in varie parti d’Europa e poi, abbandonata la sua missione sacerdotale, che voleva necessariamente legata al progresso civile, dopo l’Unità d’Italia fu eletto deputato e senatore del Regno, maturando un acceso spirito anticlericale sino a sostenere la necessità di sopprimere le corporazioni religiose.

Chi decise l’inserimento di questo Discorso su Tacito? Sicuramente lo stesso Marinetti più che l’editore, vista l’unicità del fatto. Un sicuro fascino aveva esercitato quel saggio di Vannucci sull’autore del Manifesto futurista. A cominciare dal giudizio espresso a riguardo degli illuministi francesi catturati dalla rilettura dell’opera tacitiana:

 

Essi si volsero con affetto a Tacito come a un amico grande dell’umanità, come a pensatore profondo, come a scrittore liberissimo, e come a sovrano maestro pel vigore e per la concisione dello stile. Nelle memorie del passato trovavano l’immagine del presente, e Tacito insegnava loro a vituperare energicamente i nuovi disordini: quindi lo traducevano, lo commentavano, lo misero in moda, lo fecero leggere e studiare di preferenza ad ogni altro scrittore[8].

 

Tra l’altro, sempre nel saggio si dà ampio risalto allo sforzo del francese Panckoucke nel lavoro di traduzione di Tacito realizzato nel 1830:

 

Egli mostrò come questo scrittore poco compreso dagli antichi è precisamente l’uomo che l’età nostra è chiamata a meglio comprendere e che deve farci meglio comprendere le rivoluzioni moderne. Si rivolse a Tacito con culto di amore e di entusiasmo: fu portato a questo studio dagli avvenimenti contemporanei, e da esso imparò a conoscere i legami misteriosi che uniscono il passato al presente[9].

 

E poi si valuta l’efficacia della traduzione di Cesare Balbo richiamando un suo ragionamento:

 

Tacito, irreprensibile, anzi sommo così nelle qualità essenziali e virtuose, in quelle poi esterne e formali dello stile è accusato di due gravi difetti: men pura latinità; ed affettata brevità, onde oscurità. Ma della latinità quand’io ne sapessi discorrer bene, non sarebbe il luogo qui a capo d’una traduzione. Della brevità, senza volernelo assolvere del tutto, parmi pure poter dire; ch’ella è men affettata che naturale; che fra gli scrittori antichi, quasi tutti come accennammo, anche quelli dell’aureo secolo non sono molti diversi. E se la oscurità è maggiore in Tacito, ella vien forse meno dalla maggior brevità che da quelle più numerose allusioni a cose ed usi noti a sua età, ignoti a noi. Né poteva egli scansare tale inciampo scrivendo di tempi più avanzati e di usi più lontani da loro origini. E del resto, non s’appongano a niuno autore buono i suoi cattivi imitatori. Tali ne furono certo molti di Tacito in Italia: ma fatta la somma totale de’ nostri scrittori, temo ne siano stati anche più di parolai che di stringati. E certo poi a quasi tutti avrebbe giovato studiare ed imitare da lui quel modo suo di raccogliere in sé i pensieri prima di esprimerli; di esprimerli compiuti e giusti per tutti i versi; di non stemperarli negli epiteti, e ne’ superlativi; di non istorcerli nelle inversioni; di non invertirli per una vana risonanza; di non sospenderli con tante proposizioni incidenti; di non abbassarli colle parole vili, né colle straniere, né colle antiquate; di non gonfiarli colle poetiche. E ad ogni modo quando mi si negasse l’opportunità di studiar Tacito ad uso di lettere, io mi rivolgerei a’ non letterati, raccomandandolo ad uso di pratica: come scrittore in cui fu, più che in niuno, santo amore a virtù, santo odio a vizi, cuore e moderazione in segnalar l’une e gli altri: onde si dee dire che niuno esercitò mai più degnamente l’altissima magistratura della storia[10].

 

Queste valutazioni del Vannucci non potevano non suscitare l’entusiasmo in Marinetti che vedeva in Tacito «un maestro di concisione sintesi e intensificazione verbale, è lo scrittore più futurista e molto più futurista dei maggiori scrittori moderni». Del resto, il celebre saggio di Concetto Marchesi su Tacito, che il grande latinista aveva pubblicato nel 1924, gli aveva fatto intravedere un futurismo ante litteram, specie quando a proposito dello stile dello scrittore latino il critico scriveva:

 

sovrano mezzo di brevità è quel costiparsi e quasi quell’affollarsi di frasi corte; quel rampollare e diramarsi improvviso di altre frasi dal tronco principale, non per ricongiungersi tra loro ordinatamente e armoniosamente, ma per seguire una linea tracciata dal pensiero continuamente attivo dello scrittore, della quale non si può presentire la fine. E ogni frase è un’idea: le frasi che si affollano sono idee che si urtano… Tacito non si può tradurre fedelmente in nessuna lingua del mondo: sarebbe ridurlo allo stato selvaggio. Lo stile di Tacito è inimitabile, come il suo pensiero[11].

 

Gli stilemi tacitiana gli apparivano in linea con i principi espressivi del futurismo, e quindi solo un futurista poteva comprendere e tradurre Tacito, solo un futurista poteva saper dare la giusta intensificazione verbale all’estensione della parola tacitiana. E Marinetti non si sottrae alla traduzione della Germania, con la sicura convinzione di poter far capire che

 

la polemica contro ogni forma di tradizione e di passatismo non nasce da ignoranza delle tradizioni culturali, ma da una reale esigenza di innovazione che gli eventi impetuosi della storia sembrano chiedere con sempre più forza[12].

 

Karl Sterrer, Tacito. Statua, marmo 1900. Wien, Parlamentsgebäude.

 

Contro D’Annunzio

Nell’estate del 1927 Marinetti vive a Capri un momento pieno di quella energia positiva che da tempo ricercava, tutto immerso nei piaceri e «piena di lunghe arrostiture al sole», che gli ricordava «i suggestivi surrogati di africanità», tra tuffi nelle acque turchesi delle grotte dell’isola e «conversazioni immense colla futurista Benedetta mentre allatta la nostra pupa rumorista».

Dai tuffi verso i cieli inabissati ai tuffi nelle memorie giovanili, sino alle grida festose dell’amato Collegio dei Gesuiti nella natia Alessandria d’Egitto, in cerca del tempo destinato ai giochi rissosi multietnici e alla traduzione in francese della monografia tacitiana, come dire un passato che si rinnova nel presente, ma con altro intento e altra energia tesa a porre in luce le potenzialità delle parole, senza depositi polverosi sino a scoprire nelle parole dello scrittore latino il segno di una presenza futurista, con una sorta di categoria atemporale, e vedere in lui una presenza più vitale di quanto non si potesse riscontrare nei maggiori scrittori moderni.

Il riferimento a D’Annunzio non era di certo né sotteso né casuale. I due poeti si avversavano fieramente e non si escludevano reciproci colpi di fioretto: per D’Annunzio, Marinetti era «il cretino fosforescente» e viceversa il poeta delle Laudi nel giudizio dell’altro restava «un Montecarlo di tutte le letterature, fuligginoso di anticaglia museale»[13]. Tacito, invece, era un precursore illustre, un vero rivoluzionario delle parole, a parte la considerazione che «la visione imperiale della Germania fissata da Tacito è tuttora politicamente istruttiva e ammonitrice».

 

Roberto Marcello Baldessari, Auto+velocità+paesaggio. Olio su tela, 1916.

 

Tacito e l’estetica della macchina

Si era nel 1928 con una Germania dilaniata da lotte intestine, ma con un Hitler agitatore sociale che organizzava le Sturmabteilungen, le “squadre d’assalto”, con le quali andava già eliminando fisicamente i suoi avversari, e dunque già nell’aria c’erano il Reich e il pangermanesimo. Poi c’era un altro aspetto non affatto secondario: la scuola tutta passatista. Nel 1923 c’era stata la riforma Gentile, che aveva sancito il carattere dualistico del sistema scolastico, con un indirizzo di alta cultura per la formazione delle future classi dirigenti con studi filosofici e umanistico-classici e un altro con scuole utilitarie finalizzate ai mestieri, alle professioni, al lavoro manuale ed esecutivo. Quella riforma probabilmente non piaceva a Marinetti, che per di più riteneva la scuola un luogo sterile e capace solo di una incultura che andava distrutta, perché deleteria nello spegnere quanto di buono c’era nei giovani. In quella scuola il latino non era sentito come lingua viva, ma il suo insegnamento finiva inaridito e soffocato dalla ripugnante polvere del passato, tutto fondato su regole ed eccezioni, grammaticalmente noioso e idiotizzato. Tacito era lì a dimostrare che si potevano cogliere gli empiti vitali di un genio che era anche un modello di energia verbale, di sintesi, di precisione efficace, un vero proto-futurista. Non necessitavano ore di Latino assuefatte al «culto ossessionante del passato» o alla «passione professorale del passato», e svolte da insegnanti passatisti «che vogliono soffocare in fetidi canali sotterranei l’indomabile energia della gioventù… insomma, l’abbruttente adorazione di un passato insuperabile». Ecco la provocazione: meglio sostituire quelle ore di Latino con le ore di Meccanica e di Estetica della macchina, «che sono oggi l’ideale maestra di ogni veloce intelligenza sintetica e di ogni vita potentemente patriottica», ovvero meglio ricorrere alla modernità con i suoi nuovi dinamici meccanismi di moto. Ovviamente, non era il passato a condannarsi, ma il “passatismo”, non l’eredità classica ma il “classicume”: i primi due termini sicuramente alimentavano le individualità del presente, i secondi le insterilivano della loro genialità e originalità. Agli occhi di Marinetti il paroliberismo futurista era tutto in Tacito, e una sua traduzione, controcorrente e libera dalla dicotomia tra passato e passatismo, poteva apparire in tutta la sua novità e la sua freschezza, spoglia di ogni vecchiume verbale, e a suscitare la sanità intellettiva dei giovani.

La macchina, nel suo valore simbolico e come rappresentazione epocale della modernità, capace di aprire nuovi scenari all’uomo e proiettarlo verso il futuro, aveva un altro suo sotteso legame con Tacito. Terni era ritenuta la patria di Tacito e questa città era diventata simbolo dell’industria, con le sue fabbriche e le sue macchine. Elevata a capoluogo di provincia nel 1927 per volontà di Mussolini, essa era diventata per antonomasia la “città dinamica” per i suoi impianti elettrici e per la sua popolazione “antiautoctona”: era una città “futurista” per eccellenza – a Terni già nel 1923 si era costituito un gruppo di artisti e intellettuali futuristi denominato “Impero” e decisamente schierato con il fascismo – ed era la città della civiltà meccanica. Futurismo e fascismo cominciavano ad avere un processo di accostamento sempre più diretto. In quest’ottica si poneva anche la rilettura di alcuni “grandi” del passato (Ariosto e Tasso, Michelangelo e Leonardo, Leopardi, Verga) sino a giungere a Pirandello e Di Giacomo, tutti visti come precursori del futurismo in quanto artefici di idee. La stessa Divina Commedia, se dapprima era stata definita da Marinetti «un immondo verminaio di glossatori», veniva reinterpretata alla luce della sua plurileggibilità e della sua «potenza espressiva plastica musicale», ricca di movimento e di velocità, nonché di parole in libertà che riuscivano a «captare l’inesprimibile unità dello spirito motorizzato dal disordine». Questa rilettura dei classici da parte del futurismo era un’operazione culturale che rispondeva a un preciso disegno politico: mantenere il movimento futurista entro gli argini sicuri di un saldo rapporto con il potere politico, ovvero con il fascismo, perché diventasse l’arte futurista arte di Stato. Il futurismo cercava l’abbraccio con il fascismo, dopo lo strappo avvenuto nel 1920 al II Congresso dei Fasci, quando ci fu il rigetto di quella ideologia che richiedeva tradizione e ossequio all’autorità, nonché fede nei valori morali della classicità e del cattolicesimo, e dopo il fallito tentativo di Gramsci nel 1921 di conciliare la concezione nettamente rivoluzionaria del movimento futurista con la cultura proletaria e creare un’intellettualità di massa di “tipo nuovo”.

 

La «Collezione Romana» diretta da E. Romagnoli. Frontespizio di D. Cambellotti.

 

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Note:

[1] F.T. Marinetti, Prefazione, in Id., Tacito. La Germania, Società Anonima Notari, Istituto Editoriale Italiano, Milano 1928, 9-10 [memofonte].

[2] Difatti sul canto X dell’Inferno Gramsci ci ha lasciato una serie di appunti nei quali si evidenzia il processo di ricreazione fantastica, non estraneo ai motivi poetici dell’opera, ma sorgente e condizione dei medesimi, come prospettiva da cui il poeta fiorentino dispone i propri miti fantastici. Nella lettera a Tatiana del 20 settembre 1931, definendo il modo di espressione della Commedia, afferma: «Senza la struttura non ci sarebbe poesia e quindi anche la struttura ha valore di poesia». È il principio ermeneutico che il critico applica quando interpreta l’apparente digressione didascalica e dottrinaria di Farinata sulla veggenza dei dannati come uno degli elementi essenziali della situazione drammatica dell’episodio. Per Gramsci il canto X dell’Inferno non è solo quello di Farinata, ma anche il dramma di Cavalcante. «Nell’avvenire il valore suggestivo e funzionale della pausa ragionativa di Farinata e la dimensione che da essa scaturisce, Gramsci fornisce feconde indicazioni metodologiche sulla via e il modo di risolvere l’astratta contrapposizione di ultramondo e mondo, di sentimento e di dottrina nell’unitaria considerazione della pena dalla prospettiva della sfera etico-speculativa» (si vd. la voce A. Gramsci in Enciclopedia dantesca a cura di L. Martinelli). Il dramma privatissimo di Cavalcante, a cui era preclusa la conoscenza del presente, era in fondo lo stesso dramma di Gramsci, a cui pure era precluso il presente, era il dramma della sua “cecità”, che dava forma alla sua epistolografia carceraria, una volta escluso dal mondo e dagli affetti privati.

[3] A. Gramsci, Lettere dal carcere, «l’Unità», Roma 1988, 2 voll., vol. I, 204.

[4] B. Giancarlo, Tacito e il futurismo, RCCM 2 (2008), 387-417: 388 [Jstor].

[5] Non aveva risparmiato giudizi sarcastici ai futuristi, ora definendoli «scimmie urlatrici», ora sottolineando «l’assenza di carattere e di fermezza dei loro inscenatori e la tendenza carnevalesca e pagliaccesca dei piccoli borghesi intellettuali aridi e scettici»; cfr. A. Gramsci, Letteratura e vita nazionale, introduzione di E. Sanguineti, Editori Riuniti, Roma 1987, 102.

[6] Id., Marinetti rivoluzionario?, «L’Ordine nuovo», 5 gennaio 1921 [gramsci.objectis.net].

[7] M. Giovini, Zang Tumb Tacito: l’improbabile Germania futurista di Marinetti, Sandalion (2003-2005), 262.

[8] A. Vannucci, Discorso su Tacito sulla sua vita e sulle sue opere, in Tacitus. La Germania cit., 111-186. Il Discorso su Tacito era già stato pubblicato nell’edizione delle opere di Tacito, con commento scolastico in italiano, curata dallo stesso Vannucci per la Biblioteca dei classici latini, una collana pubblicata dal Collegio ‘Cicognini’ di Prato.

[9] Ivi, 184.

[10] Ivi, 185-186.

[11] C. Marchesi, Tacito, Principato, Messina-Roma 1924, 291.

[12] Bruno, Tacito e il futurismo cit., 397.

[13] Cfr. G. Agnese, Marinetti. Una vita esplosiva, Camunia, Milano 1990, 53.

L’arte di saper ascoltare

di SCAFFIDI ABBATE M. (ed.), Plutarco, L’arte di saper ascoltare, Roma 2006, 39-47. Premessa [link].

Scritta fra l’80 e il 90 – come si deduce dall’età del destinatario, Nicandro di Eutidamo, nel momento in cui indossò la toga virile – l’operetta Περί του ακούειν (De recta ratione audiendi) fa parte degli Ethikà (Moralia) ed è rivolta soprattutto ai giovani. È dedicata principalmente alle lezioni o conferenze filosofiche, ma abbraccia qualunque tipo di discorso pubblico, rivolto non solo agli studenti ma a ogni genere di ascoltatore.

Frederic Leighton, Fatidica. Olio su tela, 1893. Liverpool, National Museum, Lady Lever Art Gallery.

Prima di entrare in argomento, Plutarco fornisce alcuni cenni sul senso dell’udito, il quale – afferma – è fra tutti il più esposto non solo agli stimoli esterni, ma anche a quelli interni, poiché la vista, il gusto e il tatto non producono i turbamenti che l’udito riversa sull’anima. Tuttavia, aggiunge, «questo senso è più legato alla ragione che al sentimento, perché, mentre gli altri organi sono accessibili al vizio, che per loro mezzo arriva sino all’anima e vi si attacca, le orecchie sono le uniche parti del corpo sensibili alla virtù». E ricorda la consuetudine di applicare ai ragazzi i paraorecchi usati dai pugili, «per proteggerli dai discorsi nocivi». I giovani, infatti, possono trarre dall’ascolto non solo un grande vantaggio, ma persino un grande pericolo.

Lottatori degli Uffizi. Marmo, copia romana da originale greco di III sec. a.C. Firenze, Museo degli Uffizi.

Come il bambino compie un lungo tirocinio prima di cominciare a parlare, incamerando e assimilando tutto ciò che ascolta, così prima che nell’arte di parlare occorre esercitarsi in quella dell’ascoltare, poiché anche qui sono necessari studio ed esercizio. Chi gioca a pallone, dice Plutarco, impara contemporaneamente a ricevere e a lanciare, ma per quel che riguarda la parola bisogna prima imparare ad accoglierla bene per poterla poi pronunciare.

Oggi si parla molto e si ascolta poco. Non esiste dibattito, non c’è programma televisivo in cui gli intervenuti non siano presi dalla smania di aprir bocca per dispensare il proprio sapere, e soprattutto per criticare o addirittura insultare chi la pensi diversamente. E il moderatore, lungi dal moderare, s’infervora pure lui, s’intromette, interrompe, scavalca, decide, «giudica e manda secondo che ringhia».

Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Cod. Urb. lat. 365 (1478 c.), f. 25r. Canto X, 31-33 Dante incontra Farinata degli Uberti e Cavalcante de’ Cavalcanti.

«Chi fur li maggior tui?», chiede a Dante Farinata in If. X 42, dopo che Virgilio ha autorizzato il Poeta a parlare, esortandolo a misurare bene le parole («Le parole tue sien conte», 39). La domanda, anche se intrisa di una certa malizia aristocratica, sottintende che Farinata è disposto a parlare solo a condizione che l’interlocutore sia un suo pari, poiché non accetterebbe mai il confronto con un plebeo. Ma non c’è disprezzo in quella frase, se l’atteggiamento “sdegnoso” di Farinata va interpretato nel senso di fiero, orgoglioso, e se il gesto di levare «le ciglia un poco in suso» (v. 45) rivela non tanto lo sforzo di ricordare, come vogliono alcuni commentatori, quanto il cruccio “altero” del ghibellino. Farinata, semmai, ha «in gran dispitto» l’intero Inferno, non l’avversario politico; infatti, non gli dice: “Ma tu che cosa sei?”, e nemmeno: “Io con te non ci parlo affatto!”, poiché in un dibattito – osserva Plutarco – c’è sempre qualcosa da imparare. Dante e Farinata, insomma, offrono una bella lezione di galateo e di democrazia, anche se la regia è tutta di Dante, che manovra sapientemente le fila con un equilibrio da grande moderatore. Il dialogo si svolge all’insegna del rispetto reciproco e della verità: ciascuno dice la sua, ma senza disconoscere e disprezzare quella dell’avversario, secondo il principio che la ragione e il torto non si possono tagliare di netto e che il bene o il male non stanno mai da una sola parte. Così, se Farinata ricorda di aver disperso per due volte i nemici, Dante ribatte che essi tornarono «l’una e l’altra fiata», mentre lui e i suoi non hanno imparato bene quell’arte (v. 51). E se Dante rammenta al Magnanimo «lo strazio e il grande scempio / che fece l’Arbia colorata in rosso» (vv. 85-86, cioè la battaglia di Montaperti), Farinata gli risponde: «Ma fu’ io solo colà, dove sofferto / fu per ciascun di tòrre via Fiorenza, colui che la difesi a viso aperto» (vv. 91-93). Ed è sua l’ultima parola. Così si chiude questo esemplare “faccia a faccia”, in cui nessuno dei due interlocutori ha la presunzione di essere l’alfiere della giustizia e della verità: quel che più conta, infatti, per entrambi, è l’amore per la patria comune. I duellanti si affrontano, ascoltandosi con attenzione e con rispetto, ponderando le parole come si conviene a dei galantuomini, anche se di fazione avversa, in un confronto aspro ma civile, talché, alla fine, non si sa chi dei due sia il vero “vincitore”.

Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Ms. Urb. lat. 329 (metà XV s.), De nuptiis Philologiae et Mercurii di Marziano Capella, f. 54v. Allegoria della Retorica.

L’arroganza, la presunzione, il protagonismo, l’invidia: questi, dice Plutarco, sono i difetti da cui guardarsi. «Bisogna evitare di agitarsi e di abbaiare a ogni battuta, aspettando pazientemente che l’interlocutore abbia finito di esporre il suo pensiero, anche se non lo si condivide, senza però investirlo subito con una sfilza di obiezioni, ma concedendogli ancora un po’ di tempo perché possa integrare, chiarire o correggere quanto ha detto, ed eventualmente ritrattare qualche frase affrettata. Chi infatti passa subito al contrattacco non solo interrompe e spezza il logico fluire del discorso, ma non ci fa una bella figura e finisce per non ascoltare e non essere ascoltato. Se, invece, è abituato a controllarsi e a rispettare gli altri mentre parla riesce a trarre da ogni discorso qualche spunto che può tornargli utile, a discernere meglio e a smascherare il vuoto e le falsità dell’interlocutore, offrendo di sé l’immagine di una persona amante della verità, non dei battibecchi, e per di più riflessiva e aliena dalla polemica».

Parlando poi dell’invidia, che è l’anticamera dell’odio e della calunnia, Plutarco aggiunge che nei dibattiti si manifesta ancora di più quando l’oratore è ricco, famoso e di bell’aspetto. In questo caso – dice – «l’invidia muove da un senso di superiorità e smania di protagonismo, e spinge l’invidioso da un lato a fare confronti per vedere se le sue capacità dialettiche siano inferiori a quelle di colui che sta parlando, dall’altro a controllare le reazioni degli ascoltatori, e se li vede assentire, compiaciuti e ammirati, s’indispettisce e si arrabbia». Per questo «cerca di sviare il discorso con altri argomenti, perché tormentato dal pensiero di quelli già trattati, e si agita e si spaventa all’idea che qualcuno possa tornare all’attacco con temi nuovi e argomentazioni ancora più interessanti e convincenti. E se uno sta svolgendo un bel discorso non vede l’ora che smetta di parlare, e quando quello ha terminato non pensa affatto a ciò che è stato detto, ma si mette a contare, come se fossero voti, le reazioni e i commenti degli altri, e ormai completamente fuori di sé, balza su e disdegnando quelli che applaudono corre a schierarsi con quelli che disapprovano e stravolgono ciò che è stato detto». Così, «a furia di disprezzare e di gettare fango, il dibattito risulta inutile e insensato» (4-5).

Quando uno parla, dice ancora Plutarco, «bisogna prestagli attenzione con animo pacato e ben disposto, come se fossimo stati invitati a un banchetto sacro o alla cerimonia iniziale di un rito religioso, approvando chi si esprime bene e in maniera appropriata, o quantomeno apprezzando la buona volontà di chi espone pubblicamente le proprie opinioni e cerca di accattivarsi l’uditorio, utilizzando gli stessi ragionamenti che hanno convinto lui». I buoni risultati di un discorso, infatti, sono frutto di studio, di impegno e di duro lavoro; perciò, bisogna trarne motivo di ammirazione. Un ascoltatore sveglio e intelligente sa sempre trarre profitto da chi parla, sia che abbia successo sia che fallisca, perché certi difetti – quali la povertà concettuale e di espressione, l’atteggiamento incivile, la smania di accattivarsi a tutti i costi il consenso, accompagnata da una rozza e ridicola ostentazione di sé – si colgono in modo più evidente negli altri quando ascoltiamo che non quando parliamo.

Perciò, conclude Plutarco, «dobbiamo giudicare prima noi che colui che parla, chiedendoci se anche a noi non possa accadere di incappare inconsapevolmente in qualche simile errore. È facilissimo, infatti, biasimare gli altri, ma è cosa sterile e vuota se quella critica non la volgiamo anche verso noi stessi e se non ci induce a correggere o a evitare analoghe scorrettezze».

Oltre agli arroganti, ai malevoli e agli invidiosi, nei dibattiti o nelle conferenze non mancano pure gli ignoranti patentati e i bighelloni perdigiorno. Anche Seneca, nelle Epistulae morales ad Lucilium, parla di sfaccendati che si recano ad ascoltare i filosofi senza avere nemmeno un’infarinatura della loro dottrina. «Tenacissimi e assidui», scrive, «non sono allievi di quei maestri, ma semplici inquilini; vengono come se andassero a teatro, non per imparare, ma solo per il piacere di farsi accarezzare le orecchie da un bel discorso, da una bella voce o da un bel lavoro […]. Alcuni portano anche un taccuino per segnarvi non concetti, ma parole, da ripetere poi meccanicamente senza alcun profitto; altri si infiammano di fronte allo splendore dei discorsi, si immedesimano in chi parla e si eccitano come gli eunuchi al suono del flauto frigio». E conclude che ben pochi tornano a casa con qualche conoscenza o vantaggio in più.

Un oratore sulla Pnice. Illustrazione di Anna Tzortzi [link].
Plutarco biasima poi l’abitudine di rivolgere a chi parla, fosse anche il più grande oratore di tutti i tempi, complimenti quali “divino”, “ispirato”, “insuperabile”, come se non bastassero i “bene!”, i “bravo!” e i “giusto!” che si riservano ai grandi maestri: un vezzo che oggi è ancora più frequente quando i “personaggi” che appaiono in televisione sono tutti “magnifici”, “stupendi”, “sublimi”, “eccezionali”: attori, cantanti, calciatori e così via. Né bastano gli applausi: spesso, addirittura, tutti si alzano in piedi!

Oggi quello che conta non è l’ascolto, ma l’audience, cioè il numero degli “ascoltatori”: più sale questo parametro, più scende la cultura. «Sceso il sapiente / e salita è la turba a un sol confine / che il mondo agguaglia» (G. Leopardi, Ad Angelo Mai, in Canti, III 173-175).

«Anche gli elogi», dice Plutarco, «devono essere cauti e misurati, poiché in questo caso il troppo e il troppo poco non si convengono a un animo libero e schietto. Ma rozzo e insopportabile è chi rimane ostinatamente impassibile di fronte a tutto ciò che ascolta, gonfio di marcia presunzione e di grande e innata iattanza, perché convinto di saper dir meglio e di più di quel che sente: infischiandosene della buona educazione, costui non batte ciglio, non emette sillaba che dimostri piacere o interesse, ma se ne sta lì in silenzio, e ostentando forzatamente un’aria grave di superiorità cerca di conquistarsi la nomèa di persona d’alti e solidi principi, come uno che giudichi gli elogi alla stregua del denaro e perciò ritenga che quanto è dato a un altro venga sottratto a lui».

Quanto alle domande, stabilendo un paragone con chi, invitato a cena, deve mangiare ciò che gli viene offerto e non mettersi a chiedere altro o a criticare, Plutarco afferma che devono essere sempre fondate e pertinenti all’argomento (possibilmente non retoriche, con risposta già implicita e impertinente, del tipo: “Ma lei non crede che?”, e tantomeno con capestro o trabocchetto), e che chi le formula deve dare anche il tempo e la possibilità di rispondere, comportandosi come un bravo padrone di casa, che non approfitta di essere appunto in casa sua per mettere in imbarazzo gli ospiti, e deve accattivarsi non solo gli amici ma anche e soprattutto i nemici. La conclusione è che, in certi casi, è meglio ascoltare che parlare. «Un bel tacer tal volta / ogni dotto parlar vince d’assai», dice Metastasio (La strada della gloria, sogno, VIII, 321). E Leopardi: «Un abito silenzioso nella conversazione, allora piace ed è lodato, quando si conosce che la persona che tace ha quanto si richiede e ardimento e attitudine a parlare» (Pensieri, CXI).

Louis J. Lebrun, Il discorso di Socrate. Olio su tela, 1867

Un ascolto corretto, attento e meditato, dice Plutarco, porta a conoscere meglio se stessi, a controllare le proprie passioni e a raggiungere quell’equilibrio che dovrebbe essere la meta di ogni uomo. Se poi l’ascolto comprende anche i discorsi e gli insegnamenti di un filosofo, la strada per raggiungere quello scopo sarà più facile e la visione della vita più solida e completa.

L’ascolto è legato al parlare, e Plutarco tocca anche la forma e i contenuti di un discorso, dicendo – per esempio – che bisogna usare uno stile privo di orpelli e di parole vuote, per evitare che gli ascoltatori possano restare affascinati solo o principalmente dall’effetto esteriore. E invita gli ascoltatori a sorvolare sulle parole forbite e seducenti, fermando l’attenzione sui contenuti e cercando di cogliere l’essenza del discorso.

Non poteva mancare in questo opuscolo dedicato soprattutto ai giovani un accenno ai maestri che cercano di “indottrinare” i discepoli con frasi ampollose, ma vuote. «Con queste fissazioni», scrive Plutarco, «i maestri hanno fatto il deserto nelle scuole, per quel che riguarda il buonsenso e i retti pensieri, riempiendo le orecchie dei ragazzi di molte chiacchiere e di parole a effetto, perché gli adolescenti non stanno tanto a guardare se chi parla sia un filosofo, né come viva e si comporti in pubblico, ma restano abbagliati dal suo linguaggio, dal suo frasario e dalla bellezza formale della sua esposizione».

Ascoltare non significa soltanto porre mente a ciò che gli altri dicono: quando esorta i criticoni a domandarsi se non siano simili a chi sta parlando, Plutarco intende dire che non basta ascoltare, bisogna anche cercare di cogliere, al di là delle parole, il mondo interiore di chi ci sta di fronte. Dobbiamo saper leggere nell’animo delle persone: i loro discorsi, i loro errori, i loro difetti sono anche i nostri, sono quelli di tutti, perché in ciascun uomo, pur se diverso dagli altri in quanto individualizzazione di un tutto, c’è l’intera umanità. «Come negli occhi di chi ci sta davanti vediamo riflessi i nostri, così dev’essere con le parole: i discorsi degli altri siano i nostri stessi discorsi. Se teniamo presente questo eviteremo di disprezzarli o di trattarli con eccessiva severità, e quando sarà venuto il nostro turno staremo più attenti nel parlare».

Pittore Duride. Scuola di scrittura su tavoletta con stilo. Dettaglio dal lato B di una kylix attica a figure rosse, inizi V sec. Berlin, Staatliche Museen.

La filosofia è la medicina dell’anima, perché solo lei è in grado di far comprendere ciò che è bene e ciò che è male. Non si tratta di eliminare le passioni – sarebbe un andare contro natura! – ma di dosarle opportunamente. In tutte le passioni, afferma Plutarco nel De virtute morali, c’è qualcosa di utile che va conservato: si tratta solo di eliminare quel che vi è di eccessivo. Persino l’ira, se misurata, può dare una mano al coraggio e l’odio verso tutto ciò che è malvagio aiuta la giustizia. Come nella musica – sono sempre parole dell’autore – l’armonia è data da un’opportuna e calibrata mescolanza di suoni gravi e acuti, così nell’anima, in virtù della ragione, deve prodursi il giusto equilibrio delle passioni.

Diversamente da Plutarco, Seneca nega che nelle passioni vi sia qualcosa di utile, e a chi sostiene che il coraggio senza la spinta dell’ira risulterebbe vano risponde che le passioni pericolose, lungi dall’essere controllate e sfrondate del superfluo, vanno eliminate o tenute lontane. E aggiunge che la ragione esercita in pieno il suo potere solo finché rimane staccata dalle passioni, ma, una volta che ne sia stata contagiata, non è più in grado di controllarle. Ma la saggezza sta proprio nella capacità di controllare e dominare le passioni; diversamente quali meriti avrebbe l’uomo saggio e virtuoso, se non ne fosse toccato?

Giovane uomo pensante. Affresco, ante 79 d.C. da Pompei.

Ecco i consigli che un altro grande filosofo dà a coloro che decidono di dedicarsi alla filosofia: «Non parlar male di alcuno; non lodar chicchessia; di niuno lamentarsi; niuno incolpare; non favellar cosa alcuna di se come di persona di qualche peso o che s’intenda di che che sia; provando impedimento o disturbo in qualche sua intenzione, imputar la colpa a se stesso; lodato, ridere interiormente del lodatore; biasimato, non si difendere; andare attorno a guisa che fanno i convalescenti, guardando di non muovere qualche parte racconcia di fresco, prima ch’ella sia bene assodata; aver posto giù ogni appetito; ridotta l’aversione a quel tanto che nelle cose che dipendono dal nostro arbitrio è contrario a natura; non dar luogo a prime inclinazioni e primi moti dell’animo se non riposati e placidi; se sarà tenuto sciocco o ignorante, non se ne curare; in breve, stare all’erta con se medesimo non altrimenti che con uno inimico o uno insidiatore. […] Tieni a mente che tu ti déi governare in tutta la vita come a un banchetto. Portasi attorno una vivanda. Ti si ferma ella innanzi? stendi la mano, e pigliane costumatamente. Passa oltre? non la ritenere. Ancora non viene? non ti scagliar però in là collo appetito: aspetta che ella venga. Il simile in ciò che appartiene ai figliuoli, alla moglie, alla roba, alle dignità; e tu sarai degno di sedere una volta a mensa cogli Dei. Che se tu non toccherai pur quello che ti sarà posto innanzi, e non ne farai conto; allora tu sarai degno non solo di sedere cogli Dei a mensa, ma eziandio di regnare con esso loro. Per sì fatta guisa operando Diogene, Eraclito e gli altri simili, venivano chiamati divini, e tali erano veramente. […] Sovvengati che tu non sei qui altro che attore di un dramma, il quale sarà o breve o lungo, secondo la volontà del poeta. E se a costui piace che tu rappresenti la persona di un mendico, studia di rappresentarla acconciamente. Il simile se ti è assegnata la persona di un zoppo, di un magistrato, di un uomo comune. Atteso che a te si aspetta solamente di rappresentare bene quella qual si sia persona che ti è destinata: lo eleggerla si appartiene a un altro». (Epitteto, Manuale, traduzione di G. Leopardi).

La fortuna di Plutarco

di B. SCARDIGLI, Introduzione alle Vite parallele di Plutarco (Agesilao-Pompeo), ed. E. LUPPINO MANES, Milano 1996, 5-14.

Plutarco nacque attorno al 45 d.C. nella cittadina di Cheronea in Beozia. Della famiglia parla con calore e rispetto, tanto del padre Autobulo, del nonno Lampria e dei fratelli Lampria e Timone, quanto della moglie Timossena e dei figli. Studiò ad Atene, seguendo soprattutto le lezioni di Ammonio, filosofo platonico[1]. A Cheronea rivestì cariche pubbliche e fondò una scuola. Dal 95 fu sacerdote del santuario di Delfi. Ricevette la cittadinanza romana (portò il nome gentilizio di Mestrio) e tra il 98 e il 117 gli ornamenta consularia, cioè le insegne proprie di un console. La condizione economica agiata gli permise di fare molti viaggi in Asia, in Egitto, nell’Italia settentrionale e a Roma[2], dove tenne conferenze e strinse amicizia con personaggi autorevoli, tanto che dedicò le Vite parallele, le Quaestiones conviviales e il De profectibus in virtute a Q. Sosio Senecione, consolare di alto rango[3].

Plutarco. Busto, marmo pario, II-III sec. d.C. Delfi, Museo Archeologico.

È significativo che dopo la prima decade delle Vite Plutarco (Aem. I 1) dichiari di voler continuare, per suo personale piacere, l’opera concepita su sollecitazione di altri; è altrettanto significativo che proprio la prima copia della nuova decade (Emilio Paolo – Timoleonte) sia la più idealizzata di tutte[4].

Plutarco è uno degli scrittori più fertili dell’antichità e uno dei più letti in tutte le epoche. La maggior parte delle sue opere, composte a Cheronea, nacque da occasioni ben precise ed era anche destinata a mantenere le relazioni con gli amici vicini e lontani e con i vecchi scolari.

L’opera si divide in due corpora: da un lato i Moralia, dall’altro le biografie. I Moralia sono saggi che trattano questioni di etica, antiquaria, filosofia, religione, retorica, di critica letteraria e di politica: questi ultimi sono in genere i più vicini all’altro corpus, quello delle biografie, consistente in ventidue coppie greco-romane (di cui una perduta[5] e una eccezionalmente composta di quattro Vite: Agide e Cleomene – i due Gracchi); vi erano anche biografie singole, di cui alcune perdute, altre rimaste allo stadio di progetto[6], come l’Eracle, il Leonida (De Her. Malignitate 32, 866b), il Metello Numidico (Mar. 29), il Cratete e forse la Vita di Scipione Emiliano, se il partner dell’Epaminonda era l’Africano[7]; due superstiti (l’Arato e l’Artaserse). Plutarco scrisse inoltre le Vite degli Imperatori fino ai Flavi (sono conservate quelle di Galba e di Otone), redatte diverso tempo prima delle Vite parallele.

Anche se i due grandi ambiti tematici a prima vista sembrano distanziarsi l’uno dall’altro, essi hanno in realtà non pochi elementi in comune: gli stessi temi infatti si ripropongono spesso in opere da diversi punti di vista[8].

Plutarco. Stele, marmo, 126 d.C. con iscrizione onorifica (Syll.³ 843A, Δελφοὶ Χαιρωνεῦσιν ὑμοῦ Πλούταρχον ἔθηκαν τοῖς Ἀμφικτυόνων δόγματι πειθόμενοι). Delfi, Museo Archeologico.

Obiettivo delle Vite parallele era ricordare ai Romani, ormai dominatori dell’intero mondo mediterraneo (della Grecia da due secoli e mezzo), il glorioso passato del popolo greco e invitare i Greci a un atteggiamento conciliante nei confronti di Roma[9], così da prevenire malintesi e litigi[10]. A questo scopo le biografie comparate si prestavano assai meglio di un testo storico[11], poiché la lettura della Vita di un Grande coinvolge un pubblico più largo e offre un ampio materiale di confronto.

Il pubblico al quale Plutarco si rivolge è greco e romano[12], ma il destinatario privilegiato è certamente quello greco, al quale vengono illustrati istituzioni, costumi e termini romani[13]. Non conosciamo le reazioni dei contemporanei, non sappiamo se i Greci si sentissero, per esempio, onorati o piuttosto umiliati dal confronto con gli eroi del passato romano, se i Romani riconoscessero i Greci come popolazione alla pari in virtù della loro superiorità culturale, o se li guardassero dall’alto in basso, a causa della loro ormai scarsa rilevanza politica[14].

Combattimento fra Ateniesi e altri Greci. Bassorilievo, marmo, fine V sec. a.C., dal fregio occidentale del tempio di Atena Nike.

In Plutarco, che era convinto del valore assoluto della cultura greca, il Greco è spesso colui che gode della migliore e più eletta educazione, che manifesta un gusto più raffinato di fronte all’arte, che s’intende di filosofia[15], e che vive in modo speciale la quotidianità, anche se nella vita pubblica è un noto statista o comandante militare.

Personaggi come Coriolano, Mario e Catone Censore, invece, sono uomini rudi, anche se ottimi generali. I Romani più colti e più abili a controllare i πάθη e lo θυμός hanno avuto un’educazione greca: in alcuni essa rimane alla superficie (come in Antonio, e per certi aspetti anche in Marcello), mentre in altri ancora penetra in profondità (in Emilio Paolo, Lucullo, Catone Uticense, Cicerone, Bruto e nei Gracchi[16]: e questi – pur con qualche elemento di riserva – costituiscono il gruppo di eroi romani preferito da Plutarco!).

Vittoria. Testa, marmo, copia romana del II secolo d.C. dell’originale di Peonio. Stoà di Attalo, Museo dell’Antica Agorà, Atene.

Gli studi moderni riguardanti il corpus delle Vite concentrano l’attenzione prevalentemente sui seguenti temi:

  1. il periodo in cui Plutarco vive e i suoi governanti; questioni di programma, di metodo e di redazione (l’ordine cronologico della composizione, i rinvii interni, l’eventuale redazione contemporanea di più biografie, l’utilizzo per la preparazione di riassunti di letture fatte, di aiuto per parte di terzi, ecc.);
  2. la scelta dei personaggi e delle fonti e il loro reciproco rapporto[17]. Spesso Plutarco rivela una mano felice in ambedue i settori (su alcuni personaggi soprattutto sapremmo molto poco, se non disponessimo delle biografie); nel caso di non pochi autori antichi dobbiamo solo a lui, se abbiamo un’idea della loro opera (o di parte di essa), spesso di qualità eccellente, come le Storie di Posidonio o di Asinio Pollione o come, in altro campo, le relazioni scritte di testimoni oculari, per esempio di ufficiali che parteciparono alle guerre partiche di Crasso e poi di Antonio;
  3. le tecniche usate da Plutarco, che hanno reso accessibile un modo di procedere assai frequente negli autori antichi (manipolazioni, semplificazioni, contaminazioni, spostamenti, connessioni di avvenimenti non collegati nella fonte o non collegabili, aggiunte, puntigliose spiegazioni dei fatti);
  4. il ruolo particolare dei paragrafi finali (synkriseis) e i criteri di accoppiamento. I contributi riguardano perciò l’esame dei fattori che differenziano due eroi e di ciò che li unisce, le coppie a cui manca la synkrisis, quelle in cui il partner romano precede quello greco, il livello letterario delle synkriseis, giudicato modesto e prevalentemente moralistico[18]; inoltre le discrepanze tra il materiale della synkrisis e quello delle Vite;
  5. la fortuna di Plutarco, sia nei Moralia, sia nelle biografie, nelle diverse epoche.

I contributi sui primi quattro punti sono di solito elaborati nelle varie introduzioni e nelle note alle singole biografie pubblicate in questa collana; qualche informazione in più diamo sull’ultimo.

Timoleonte si appresta a salpare per la Sicilia. Illustrazione da W.H. WESTON – W. RAINEY (eds.), Plutarch’s Lives for Boys and Girls, New York 1900, 102.

Pochi autori hanno conosciuto, nel corso della tradizione storica, periodi di fama incontrastata e quasi mitica come il Plutarco delle Vite parallele, l’unico forse, fra i classici, che in certe età abbia eguagliato la fortuna di Orazio o di Virgilio.

Plutarco fu conosciuto e ammirato dai contemporanei (vir doctissimus ac prudentissimus lo qualificava, a trent’anni dalla morte, Aulo Gellio nelle sue Notti Attiche I 26, 4) e il suo culto continuò in età bizantina, sia fra i pagani sia fra i cristiani, che nei suoi scritti trovavano consonanza di principi etici e umanitari.

Nel Medioevo di lui si predilesse la raccolta dei Moralia, un insieme di opuscoli di vera erudizione, in cui il gusto della curiosità enciclopedica si unisce all’interesse per problematiche filosofiche e morali, esteso alle sfere più intime e quotidiane della vita (l’educazione dei figli, i rapporti coniugali, la gestione del patrimonio).

Con l’Umanesimo e il Rinascimento, l’insorgere di un nuovo senso dell’individualità, volto a cercare nei classici il proprio modello, riportò l’attenzione sulle biografie, che i dotti greci, affluiti in Italia dopo la caduta di Costantinopoli, contribuirono a divulgare, e di cui furono fatte traduzioni in latino[19], epitomi[20], imitazioni[21]. I grandi personaggi di Plutarco cominciarono ad alimentare l’immaginario poetico, offrendo materiale d’ispirazione in campo letterario, teatrale e anche figurativo[22]. «Al ritratto degli altri – scrive H. Barrow – Plutarco aggiunse il proprio autoritratto, inconsciamente disegnato nelle Vite e nei Moralia: il ritratto dell’uomo buono, che viveva umilmente in accordo con i più alti modelli della classicità, sereno con se stesso, di aiuto per gli amici; l’ideale di un “veramente perfetto” gentiluomo, che la nuova Europa stava cercando. Forse nessun esplicito programma di scrittore raggiunse mai una più alta misura di successo»[23].

Fra i secoli XVI e XVIII la fama di Plutarco tocca il suo apogeo, come attesta il moltiplicarsi di edizioni e traduzioni. Escono in Francia l’edizione completa dello Stephanus (Paris 1572) e la famosissima traduzione di J. Amyot (Les Vies des Hommes Illustres, Paris 1559; Les Oeuvres Morales, Paris 1572)[24]; in Inghilterra la traduzione di Th. North (1579, con dedica alla regina Elisabetta) cui attinse Shakespeare, e più tardi quella intrapresa da quarantun studiosi sotto la guida di J. Dryden (1683-1686). Sono inoltre da ricordare l’edizione tedesca delle Vite curata da J.J. Reiske (1716-1774), che procedette a una nuova collazione dei manoscritti, e l’edizione olandese dei Moralia pubblicata da D. Wyttenbach (Oxford 1795-1830), al quale si deve anche il lessico plutarcheo (Leipzig 1830, rist. 1962) tuttora indispensabile. Personaggi prediletti delle Vite furono, di volta in volta, gli eroi della guerra, come Alessandro e Cesare, o gli eroi del dovere, come Coriolano, o quelli delle virtù repubblicane, come Catone Uticense e Bruto, idoleggiati nell’età della Rivoluzione francese. In Francia, dove la traduzione di Amyot divenne patrimonio diffuso, ne furono entusiasti estimatori Montaigne («è un filosofo che ci insegna la virtù», Essais, II, p. XXXII), Corneille, che dalle Vite trasse materia per i drammi Sertorio e Agesilao, Racine, che se ne ispirò per il Mitridate, Pascal, Molière[25]; in Inghilterra Shakespeare, cui la lettura di Plutarco offrì la traccia per le tragedie Coriolano, Giulio Cesare, Antonio e Cleopatra[26]; in Italia D’Azeglio, Leopardi, Alfieri, che allo spirito plutarcheo informò la sua stessa autobiografia[27]; in Germania Goethe, Schiller, Lichtenberg, Jean Paul[28] e molti altri[29]. Alla suggestione di Plutarco non si sottrassero neppure gli uomini di potere, principi assoluti come Enrico IV di Francia e Giacomo I d’Inghilterra, e «illuminati» come Federico II di Prussia; rivoluzionari e repubblicani come Franklin e Washington fino a Robespierre e a Napoleone[30]; del suo influsso risentirono anche gli antesignani del moderno pensiero educativo, Rousseau e Pestalozzi.

London, British Library. The Lives of the Noble Greeks and Romans. Traduzione inglese di T. North. London 1579 [link].
Nella seconda metà dell’Ottocento tuttavia la scena cambia: il lavoro erudito si restringe nell’ambito degli specialisti (anche se molti artisti, come Wagner e D’Annunzio, continueranno ad amare Plutarco). Vengono allora alla luce edizioni critiche di scritti singoli, sia dei Moralia sia delle Vite, talora provvisti di commento minuzioso. Si interviene drasticamente sul corpus dei Moralia, negando l’autenticità di alcuni opuscoli tramandati nel cosiddetto catalogo di Lamprias (III-IV sec. d.C.).

Dopo i moltissimi contributi dell’inizio del Novecento, spesso intesi a illustrare aspetti particolari delle Vite[31] o a studiare le fonti plutarchee o lo schema biografico; dopo le ricerche volte a individuare la provenienza di questo tipo di biografie (peripatetica, alessandrina, di ispirazione stoica), o a far distinzione tra categorie moralistiche e narrazione storica, corrispondente all’alternativa tra passi «eidologici» e passi «cronografici» (secondo la terminologia di Weizsäcker), oggi si sta dando, sembra con frutto, nuovo impulso all’interpretazione delle biografie per opera non tanto di studiosi tedeschi (il cui interesse attuale è senz’altro diminuito rispetto ai lavori delle generazioni di un Wilamowitz, di Weizsäcker e Ziegler), quanto soprattutto di anglo-americani (Stadter, Jones, Wardman, Russel, Pelling, Swain e altri), di un grande studioso francese (R. Flacelière) e della scuola, di italiani (Valgiglio, Piccirilli, Manfredini, Desideri, Guerrini e altri), ma anche di studiosi di altri Paesi.

 

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Note:

[1] Cfr. Russell (1968), 132 ss.; Donini (1986), 97 ss.

[2] Si vd. per es., Barrow (1967), cap. V: “Plutarch Abroad”; Jones (1971), cap. 6 ss. con Geiger (1974), 141.

[3] Wardman (1974), 37 s. Su Romani importanti con i quali Plutarco fece conoscenza si vd., per es., Philipps (1957), 102 ss.; Jones (1971), 48 ss.; Simms (1974), cap. I; Geiger (1988), 245 ss.; e Swain (1990), 128 ss.

[4] Cfr. Ingenkamp H.G., Plutarch’s Two Aims in His Lives of Aemilius Paulus and Timoleon, Convegno Oxford cit.

[5] Epaminondas-Scipio (Africanus maior?): cfr. Herbert (1957), 83 ss. Forse conteneva un’introduzione generale al corpus, cfr. Gossage (1967), 48; e Geiger (1981), 87. Scettico Desideri (1992), 4472 s. Sull’Epaminonda adesso, si vd. Tuplin (1984), 346 ss.

[6] Si vd., per es., Wilamowitz (1967), 258 n. 1.

[7] Secondo Wilamowitz (1967), 260, era l’Emiliano; e così per Herbert (1957), 83 ss. Secondo Ziegler (1951), 895-896 si trattava, invece, di Scipione Africano.

[8] Wardman (1974), 37. Si vd. per es. il Pelopida e diversi passi analoghi in scritti etici; cfr. Buckler (1978), 36 ss.; corrispondenze tra passi delle Vite di Romolo, Publicola e Alessandro col De mul. virt., l’Amatorius e altri in Stadter (1965), 30 ss.; 80 ss.; 103 ss.; 112 ss.; su passi nelle Vite di Licurgo, Numa, Solone, Dione e Bruto e nei Moralia: Goessler (1962) passim; l’importanza della retorica sia per le Vite sia per i Moralia in Russell (1972), 21 ss.; Harrison (1987), 271 ss.; Stadter (1987), 251 ss. e Stadter (1989), XXXVIII ss. In generale, si vd. Valgiglio (1987), 1738, 1740 ss.

[9] Cfr. il programma simile di Dionigi di Alicarnasso (vd. però n. 11). Su Plutarco, per es., Wilamowitz (1967), 259 s.; Weber (1959), 78; Gomme (1945), 55; Jones (1971), 103 s.; Barrow (1967), 56 ss.; Simms (1974), 238 ss; Boulogne (1990), 473 ss.

[10] Diversa la situazione per gli storici di formazione greca nell’Impero romano dopo Plutarco (Appiano, Arriano, Dione Cassio), poiché essi partecipavano attivamente alla vita politica di Roma (cfr. Pelling [1988a], 9).

[11] Un compito simile, in qualità di storico, si assumeva Dionigi «per mostrare ai Greci che i Romani non erano barbari, bensì ben disposti verso la cultura greca e, di fatto, di origine greca essi stessi». Il programma di Dionigi – a differenza di quello di Plutarco – era ben precisato fin dall’inizio e perseguiva precisi intenti propagandistici: cfr. Babut (1975), 208 ss.

[12] Wilamowitz (1967), 258 ss.

[13] Pelling (1988a), 8; Wardman (1974), 37 ss.; naturalmente contava anche su un pubblico romano: cfr. Wilamowitz (1967), 258.

[14] Cfr. Russell (1972), 31.

[15] Cfr. Pelling (1989), 200 ss. e (1988b), 266 ss.; Desideri (1992), 4486, che opportunamente parla di una «sorta di divisione funzionale delle rispettive competenze nell’ambito di una complementarietà globale: alla Grecia l’elaborazione e la diffusione dei valori culturali, a Roma la realizzazione dei grandi progetti politici».

[16] Cfr. Swain (1990b), 192 ss. e (1990a), 131 ss. Su Cicerone, si vd. però Pelling (1989), 218 ss.

[17] Cfr. Wardman (1974), 234 ss.; Geiger (1981), 104; Pelling (1986), 83 ss.

[18] Cfr. anche van der Valk (1982), 301 ss. e Latmour (1988), 374 ss. e (1992), 4157 ss.

[19] Cfr. Weiss (1953), 339 ss.; Giustiniani (1961), 3 ss. e (1979), 45 ss.; Criniti (1979), 190 ss.; Aulotte (1968), 549 ss. Un breve sommario di traduzioni latine in Garzetti (1954), LXI ss. Cfr. anche Gabba (1961).

[20] Cfr. Resta (1926).

[21] Per es., Donato Acciaiuoli scrisse una Vita di Annibale e una di Scipione Africano, precedute da una prefazione in cui ringrazia Pietro dei Medici dei benefici ricevuti da lui e suo padre Cosimo e spiega di aver inserito fra le biografie plutarchee quelle di Annibale e Scipione, quae ex varis auctoribus tum graecis, tum latinis collegeram… La coppia è conservata in tutte le ristampe e nelle prime traduzioni, dove però, soppressa la prefazione, spesso viene attribuita allo stesso Plutarco.

[22] Per es., Guerrini (1985a), 87 ss. (1985b), 83 ss. e (1985c), 179 ss.

[23] Barrow (1967), 176.

[24] Cfr. Aulotte (1971). Cfr. anche Gerhard (1977).

[25] Cfr., per es., Lamotte (1980).

[26] Per es., Altkamp (1933); Hale Shackford (1974); Green (1979).

[27] Hirzel (1912), 179; Momigliano (1949), 560.

[28] Hirzel (1912), 170 ss.

[29] Si vd. anche Howard (1970) e Meyer (1975).

[30] Cfr. Frost (1980), 41: «Le sue censure contro la disumanità e l’abuso del privilegio hanno infiammato spiriti liberali a un grado sensibilmente inferiore al punto di combustione, mentre la sua evidente predilezione per un potere illuminato gli ha procurato una favorevole collocazione nelle biblioteche dei più illuminati despoti».

[31] Russell (1966), 139: «La fama e l’influenza di cui Plutarco godette nei giorni della riscoperta dell’antichità non poteva sopravvivere alla rivoluzione negli orientamenti storici e accademici che segnarono il XIX secolo. Invece di essere considerato come uno specchio dell’antichità e della natura umana egli divenne “un’autorità secondaria”, da usarsi là dove le “fonti primarie” venivano a mancare, ed egli stesso finì per essere lapidato dagli studiosi della Quellenforschung (ricerca delle fonti) e abbandonato come un rudere. Conseguenza di ciò è l’abbandono delle Vite nei programmi dell’educazione. Dovrebbe inoltre essere evidente che, proprio in considerazione degli obiettivi storici per i quali l’opera viene prevalentemente studiata, è del tutto ingannevole e pericoloso considerare quello che è proprio uno dei più sofisticati prodotti dell’antica storiografia senza una costante attenzione ai piani e agli scopi del suo autore. Fortunatamente molto è stato scritto, soprattutto negli ultimi vent’anni, per ristabilire l’equilibrio».

Plutarco di Cheronea

di BIONDI I., Plutarco, in Storia e antologia della letteratura greca. III. L’Ellenismo e la tarda grecità, Firenze 2004, 665-667.

La maggior parte delle notizie riguardanti la vita di Plutarco, a eccezione di qualche scarna indicazione proveniente dal lessico Suda, deriva da riferimenti autobiografici presenti nelle sue stesse opere. Egli nacque verso il 45-50 a Cheronea, piccolo centro della Beozia, che, nel 338 a.C., era stato reso celebre dalla vittoria di Filippo il Macedone sui Greci; da una notizia contenuta in Moralia 391b, è noto infatti che Plutarco aveva circa vent’anni quando l’imperatore Nerone si recò in visita in Grecia nel 66/7. Discendente di una famiglia agiata e colta, il futuro storico trascorse la giovinezza viaggiando e frequentando le migliori scuole del tempo; durante un soggiorno ad Atene, dove rimase per alcuni anni, ascoltò presso l’Accademia le lezioni del platonico Ammonio (Moralia 385b). Riprendendo a viaggiare, si recò ad Alessandria, a Corinto e a Sardi; venne poi in Italia e a Roma, presso la corte imperiale, con incarichi politici che gli erano stati conferiti dai suoi concittadini. Durante questo soggiorno, Plutarco ottenne la civitas Romana, assumendo il nomen Mestrio, in onore dell’amico Mestrio Floro. Successivamente, ricevette da Traiano la dignità consolare; in seguito, Adriano gli conferì la carica di legatus Augusti in Grecia. A Roma, Plutarco conobbe il filosofo e retore Favorino di Arelate; il suo rammarico più grande (Vita di Demostene 2, 2) rimase quello di non aver potuto imparare bene il latino, a causa dei suoi numerosi impegni. Passata la quarantina, egli ritornò definitivamente a Cheronea, dove fu arconte eponimo, sovrintendente dell’edilizia pubblica e telearco: una carica, quest’ultima, che gli imponeva mansioni di funzionario di polizia. In riconoscimento della sua integerrima onestà e del suo profondo spirito religioso, verso il 90 Plutarco fu ordinato sacerdote di Apollo Delfico, ministero che esercitò per circa un ventennio, insieme a un altro collega. La data di morte è incerta, ma è possibile collocarla fra il 119 e il 127.

Filosofo o sacerdote (Plutarco o Platone). Statua, marmo bianco, 280 a.C. ca. Delfi, Museo Archeologico Nazionale.

Plutarco ha lasciato un vasto corpus di opere, i cui titoli sono pervenuti in massima parte attraverso il cosiddetto Catalogo di Lamprias, erroneamente attribuito a un figlio dello scrittore e che contiene duecentoventisette titoli, ai quali bisogna aggiungerne altri trentatré, di opere note, ma omesse dal compilatore del catalogo. I testi vengono di soliti suddivisi in due grandi categorie: quella storica, la più nota, che comprende le celeberrime Vite parallele, e quella di carattere filosofico, antiquario e scientifico: un’ottantina di opuscoli in forma di dialogo o di dissertazione, raccolti in piccoli gruppi durante il Medioevo sotto il titolo di Moralia. Tale titolo, che appare piuttosto riduttivo, rispetto alla grande varietà di argomenti compresi nella raccolta, deriva forse dal fatto che gli opuscoli di carattere morale furono quelli più letti e apprezzati; secondo un’altra ipotesi, invece, la raccolta attuale sarebbe l’ampliamento di un primitivo nucleo di scritti di argomento etico, al quale se ne aggiunsero altri di vario genere, senza però modificare il titolo, ormai entrato nella tradizione.

Sotto il titolo di Vite parallele (Βίοι παράλληλοι) sono state raccolte cinquanta biografie di illustri personaggi del mondo greco e latino; l’unica eccezione è rappresentata dalla vita di un persiano, Artaserse, figlio di Dario e Parisatide e fratello di Ciro il Giovane, ricordato nell’Anabasi di Senofonte. Le biografie sono state tramandate dai manoscritti unite in ventitré coppie, secondo il seguente ordine: Teseo e Romolo; Solone e Publicola; Temistocle e Camillo; Aristide e Catone il Vecchio; Cimone e Lucullo; Pericle e Fabio Massimo; Nicia e Crasso; Alcibiade e Coriolano; Demostene e Cicerone; Focione e Catone il Giovane; Dione e Bruto; Emilio Paolo e Temistocle; Sertorio ed Eumene; Filopemene e T. Quinzio Flaminino; Pelopida e Marcello; Alessandro e Cesare; Demetrio Poliorcete e Marco Antonio; Pirro e Gaio Mario; Agide e Cleomene; Tiberio e Gaio Gracco; Licurgo e Numa Pompilio; Lisandro e Silla; Agesilao e Pompeo. A queste vanno aggiunte le biografie isolate di Arato, Artaserse, Galba e Otone. Il Catalogo di Lamprias riporta anche i titolo di altre vite andate perdute, come quelle di Epaminonda e Scipione, trattate parallelamente, e quelle isolate degli imperatori romani e dei poeti greci.

Leeds, University Library. Udalricus Gallus (ed.), Plutarci Vitae illustrium virorum, Roma 1470. La Praefatio della Vita Thesei in traduzione latina.

L’eterogeneo insieme dei Moralia, che comprende circa ottanta opere (delle quali alcune sono spurie), non può certo essere trattato completamente in questa sede; ci si limiterà, perciò, a raggrupparle in base ai loro contenuti, citandone di volta in volta qualcuno dei più significativi.

Fra gli scritti di argomento retorico ed epidittico, appartenenti alla giovinezza di Plutarco, il più interessante è il De fortuna, che analizza in forma teorica, ma suffragata da qualche esempio pratico, l’influenza della sorte sugli eventi umani.

Dei numerosi testi che parlano di questioni filosofiche, seguendo le dottrine platoniche della nuova Accademia, si può menzionare il De Stoicorum repugnantiis, in cui l’autore fornisce numerose e interessanti notizie sulla dottrina stoica, allo scopo di metterne in evidenza le contraddizioni.

Fra le trattazioni di problemi etici, merita qualche parola il De cohibenda ira, un dialogo fra due amici romani sul modo di tenere a freno i violenti impulsi dell’ira; esso, in effetti, può essere confrontato con il De ira di Seneca. Inoltre, rivestono particolare interesse per l’importanza attribuita alla figura femminile, ormai assurta a un grado di dignità pari a quello dell’uomo, i Coniugalia praecepta. Fra gli scritti di argomento filosofico-pedagogico si distingue per la novità delle idee e per le numerose citazioni dalla lirica classica, il De audiendis poetis, che analizza l’effetto della poesia sull’animo dei giovani.

Una scuola. Bassorilievo da un sarcofago romano. 150 d.C., marmo. Treviri

Gli opuscoli che riflettono le idee politiche dell’autore, ormai giunto alla tarda maturità, contengono insegnamenti tesi soprattutto a inculcare nei giovani greci l’opportunità di dedicarsi all’attività pubblica, anche se in incarichi-chiave ormai occupati prevalentemente dai Romani. Si possono ricordare, a questo proposito, i Praecepta gerenda reipublicae, un vero e proprio manuale dello statista, e l’Ad principem ineruditum, che mira a dimostrare l’importanza della cultura classica per chi sta al potere.

Fra le opere di contenuto teologico, che risalgono probabilmente al periodo del sacerdozio a Delfi, sono degni di menzione il De Iside et Osiride, ricco di preziose informazioni sulla religione egizia, e il De sera numinis vindicta, nel quale, per rafforzare la fede nella giustizia divina, si narra il mito di Tespesio di Soli, che, morto e resuscitato dopo tre giorni, raccontò le terribili punizioni che aveva visto infliggere nell’oltretomba ai malvagi e ai tiranni.

Nel gruppo degli opuscoli di carattere scientifico, si ricordano quelli che riguardano il comportamento degli animali e la loro intelligenza, come il De sollertia animalium e il Bruta animalia ratione uti, un dialogo in cui la maga Circe, dopo aver trasformato in porci i compagni di Odisseo, concede a Grillo, uno di loro, di sostenere la tesi secondo cui la condizione degli animali sarebbe migliore di quella degli uomini. Nel De esu carnium sono contenute invece due dissertazioni sulle cause che indussero Pitagora a evitare di mangiar carne, mentre il De facie in orbe lunae è un’interessante raccolta di miti lunari.

Fra gli scritti di argomento antiquario-letterario, molti dei quali sono andati dispersi, gli Apophthegmata Laconica illustrano gli usi di Sparta attraverso un’ampia raccolta di detti sentenziosi; nel De Herodoti malignitate, Plutarco difende il comportamento delle truppe beotiche durante le Guerre persiane, contro le critiche mosse loro da Erodoto; la Comparatio Aristophanis et Menandri contiene un interessante raffronto fra i due maggiori esponenti del teatro comico antico.

A conclusione di questa brevissima rassegna, si possono ricordare un esempio del genere letterario della “consolazione”, la Consolatio ad Apollonium, e il trattatello De exilio, che appartiene alla vecchiaia dello storico e che sviluppa, con toni ricchi di umana saggezza, un argomento assai spesso affrontato dagli Stoici.

Milano, Biblioteca europea di informazione e cultura. Gulielmi Budaei interpretatio latina del Περὶ τῶν ἀρεσκόντων φιλοσόφοις φυσικῶν δογμάτων (De placitis philosophorum) dello Pseudo-Plutarco, Basileae, ex officina Ioan. Heruagij, 1531: frontespizio [link].
Il gran numero e la diversità degli argomenti trattati nei Moralia, se da un lato testimoniano l’ampiezza degli interessi di Plutarco e il suo vivo entusiasmo per ogni manifestazione dello spirito e della cultura umani, dall’altro costituiscono un innegabile limite alla possibilità di approfondimento e all’esattezza nello sviluppo dei singoli temi. D’altra parte, più che un ricercatore attento e minuzioso, Plutarco appare uno spirito aperto e pronto ad analizzare in termini di umanità e di moralità i valori più significativi del mondo greco, quelli che suscitarono vivissimo in lui il senso della “filantropia”. Questo termine, inteso come attenzione e rispetto per la persona in quanto tale, considerata non nell’astrazione di un sistema filosofico, ma nella realtà del suo intelletto e delle sue azioni, rispecchiava perfettamente il modo con cui Plutarco visse la propria esperienza di intellettuale e di scrittore. Ciò è sufficiente a fare di lui il personaggio più interessante, non solo del suo tempo, ma anche di tutta la tarda grecità, come dimostra il successo che fu tributato alla sua opera, e che non venne mai meno nel tempo.

Oxford, Bodleian Library. Ms. Canonici Graec. 93 (XIV sec.), Vita Romuli di Plutarco nella versione trascritta da Manuel Tzycandyles, f.13r.

La quantità delle opere di Plutarco pervenute, d’altronde, permette anche una visione approfondita e completa dei suoi mezzi espressivi. Allo stile degli anni giovanili, influenzato dalle regole dell’atticismo e ancora un po’ immaturo, subentrò più tardi un linguaggio più personale, in cui comparivano, accanto alle forme attiche, anche parole della koinè. Il periodare, soprattutto nelle Vite, si fece più complesso, divenne più vario e articolato nella struttura, adatto a evidenziare stati d’animo inclini alla drammaticità e al pathos, ora espressi con asciutta brevità, ora con toni più alti e solenni, ai quali non erano estranee reminiscenze o citazioni tragiche, degne di un’umanità eroica, in cui si incarnavano, nel bene e nel male, le più potenti passioni umane.

La fortuna di Plutarco, a partire dai suoi contemporanei fino a oggi, è stata immensa, tanto da rappresentare, di per sé, un aspetto particolarissimo della cultura europea. Il Cristianesimo intravide in lui uno degli intellettuali naturaliter Christiani, anche se non ufficialmente convertiti, e ne apprezzò la filantropia e la purezza morale. Gli Umanisti esaltarono Plutarco per il valore etico della sua opera, tanto che Erasmo da Rotterdam ne raccomandava caldamente la lettura. Ma l’epoca d’oro dello storico fu soprattutto l’età dei Lumi, quando si tributarono onori a Dione, Timoleonte e Bruto, esaltandoli come nemici dichiarati del dispotismo, e quando gli ideali della Rivoluzione francese videro in Plutarco il profeta della libertà, in un’ottica che certo non teneva conto di indagini storico-filologiche. L’influsso dell’autore è stato grande anche nell’ambito della letteratura, soprattutto teatrale, come dimostrano le tragedie di Shakespeare, di Corneille, di Racine, drammaturghi che hanno attinto ispirazione dalle Vite; nella letteratura italiana, queste opere esercitarono un notevole fascino su alcuni dei più grandi poeti, come Alfieri, Foscolo e Leopardi.