Il colpo di stato del 411 a.C.

di D. Musti, Storia greca. Linee di sviluppo dall’età micenea all’età romana, Roma-Bari 2010, pp. 429-437; 446-447.

 

Nel fitto susseguirsi di eventi, intrecciarsi di situazioni, sovrapporsi di piani diversi di azioni politiche che costituiscono il secondo grande spezzone della guerra del Peloponneso (413-404), iniziatosi con l’occupazione spartana di Decelea, possono individuarsi, e debbono segnalarsi al lettore per una più immediata intelligenza del periodo, almeno quattro aspetti fondamentali, in parte nuovi rispetto alle caratteristiche della guerra archidamica (431-421).

In primo luogo spicca il ruolo di Alcibiade, di una personalità politica, che tra il 415 e il 411 determina in senso negativo le vicende di Atene, sia in Sicilia, con i consigli di intervento rivolti agli Spartani, sia in Egeo, con l’intesa da lui promossa tra Sparta e la Persia, sia in patria, con l’ideazione (che a lui in prima istanza risale) del cambiamento di regime da democratico ad oligarchico nel 411. Non era certo una novità la presenza e l’influenza di una forte personalità politica: ma se un Pericle o un Cleone avevano rappresentato, con fondamentale coerenza, un punto di vista e una linea politica e di comportamento, in Alcibiade si vede all’opera una personalità che assoggetta (o crede di assoggettare) ai suoi disegni, e alla sua idea di rapporto col popolo, comportamenti e politiche in fiero contrasto fra di loro: e (fatale per Atene) i disegni che più andarono ad effetto furono proprio quelli più avversi alla sua città. Segno di contraddizione in Atene e nella Grecia intera, al centro di amori e di odi violenti, che si scontrano intorno alla sua persona, uomo di fondamentale formazione democratica (nonostante i rinnegamenti occasionali e strumentali), ma assai meno capace di Pericle di tenere quella linea divisoria tra pubblico e privato, tra la realtà politica e la sua persona, a cui lo zio e tutore aveva ispirato la sua propria visione e azione politica, Alcibiade rappresenta l’esplodere della personalità in un contesto in cui i valori comunitari erano stati finora decisivi. Lo registra la storiografia nei fatti che racconta di lui; lo significa il fiorire di interesse biografico intorno alla sua persona, che Plutarco puntualmente sottolinea[1].

Ritratto di Alcibiade. Mosaico pavimentale, IV sec. d.C. ca. da Sparta.
Ritratto di Alcibiade. Mosaico pavimentale, IV sec. d.C. ca. da Sparta.

Ad Alcibiade si deve l’avvio di quei contatti con i governanti persiani dell’Asia Minore, che dovevano procurare l’intervento di questi nella guerra greca e l’appoggio del re a Sparta (seconda caratteristica della nuova fase di guerra). Che poi nel corso delle trattative egli abbia cambiato posizione, e cercato di sfruttare a vantaggio di Atene il patrimonio di relazioni che aveva accumulato e imbastito, se da un lato rivela la vera propensione di Alcibiade, dall’altro toglie però assai poco al fatto che l’idea, nata nella mente dell’Ateniese, abbia poi preso corpo e marciato per conto suo: i trattati spartano-persiani del 412/411 sono la distante ma logica premessa della fervida intesa tra il viceré persiano di Sardi, Ciro (il Giovane), e il generale spartano Lisandro dal 408 in poi.

nobile achemenide. testa, pietra calcarea, 520-480 a.c. ca. teheran, museo nazionale
Nobile achemenide. Testa, pietra calcarea, 520-480 a.C. ca. Teheran, Museo Nazionale.

Ad Alcibiade si devono ancora iniziative, presto rinnegate, per modifiche nella costituzione ateniese, ed è questo il terzo motivo caratteristico del periodo. Le avvisaglie sono da riconoscere nel clima di complotto rivelato dall’episodio delle erme del 415; primi sviluppi di aspetto legalitario sono nell’istituzione, nel 413, di una commissione di 10 próbouloi (consiglieri che ‘istruivano’ le varie questioni), presto portata a 30 membri; infine, nel 411, il colpo di stato oligarchico. È nel senso di quanto s’è già sopra osservato il fatto che Alcibiade avviasse il processo oligarchico, sostenendo che esso sarebbe stato gradito alla Persia (al momento in cui aveva deciso, in un nuovo revirement, di trasferire a beneficio di Atene le sue aderenze persiane), ma che poi si decidesse a rientrare a vele spiegate nel campo democratico, che era in definitiva quello della sua vera vocazione politica, pur se adulterata e resa inquietante da marcate componenti personalistiche.

Hermes. Testa, marmo, V sec. a.C. da un'erma. Atene, Museo dell'Antica Agorà.
Hermes. Testa, marmo, V sec. a.C. da un’erma. Atene, Museo dell’Antica Agorà.

 

Un quarto aspetto da sottolineare risiede nelle dimensioni e nel ruolo che assume in questa nuova fase della guerra greca il problema degli alleati di Atene. Fra tutti, questo è certo il motivo meno nuovo, perché tutta la storia dell’impero navale ateniese è percorsa da tensioni fra Atene e i suoi sýmmachoi, tensioni che ogni volta assumono un grado e una caratteristica diversi. Nell’ambito della seconda fase della guerra del Peloponneso, le stesse fonti distinguono, in riferimento all’area dove la guerra si svolge, una “guerra ionica”. L’episodio della ribellione ad Atene – tutto sommato isolato – che aveva affiancato la guerra archidamica nell’Egeo orientale, nell’area latamente definibile della Ionia (la rivolta di Mitilene), ora si moltiplica e diventa sistematico; e vi si intrecciano la rivolta spontanea degli alleati ionici di Atene, la sollecitazione e la presenza spartana e, ancora una volta, dello stesso Alcibiade (Tucidide, VIII 6, 317, 1), lo scontro fra le flotte dei due grandi schieramenti greci e gli interventi finanziari, militari, politici dei Persiani. Del resto, la guerra del Peloponneso si deciderà soprattutto qui, nell’Egeo settentrionale e orientale, fra le isole prospicienti le coste e presso le stesse coste dell’Asia Minore occidentale. Abido, Cizico, Notion, le Arginuse, Egospotami, sono tutti nomi di luoghi ‘asiatici’ o di aree vicinissime all’Asia Minore, connessi con svolte e con fatti decisivi della guerra del Peloponneso; per gli antichi non v’era dubbio che la vittoria di Lisandro, nell’estate del 405, ad Egospotami sull’Ellesponto (dal versante europeo), fosse, in senso lato, la diretta premessa della resa di Atene, avvenuta solo otto mesi dopo.

Si può dunque dire che tutta la politica praticata dagli Ateniesi, fino alla seconda spedizione di Sicilia inclusa, cominci a produrre contraccolpi dal 413 in poi. Sul terreno politico v’è l’innovazione della commissione istruttoria di 10 próbouloi (tra i quali v’è anche Agnone, il padre di Teramene), espressione dell’esigenza di un qualche controllo preventivo dell’attività della boulé[2]. Sul terreno finanziario, sia ha (già dopo la sostituzione del vecchio tributo con uno nuovo, consistente in una quantità fissa, ma con carattere proporzionale, pari al 5% del valore delle merci in arrivo e in partenza nei vari porti dell’impero) un criterio forse più equo del precedente, ma certamente anche una fonte di maggiori entrate. Tucidide colloca la riforma subito dopo l’occupazione di Decelea da parte degli Spartani, in un passo (VII 2728) che sottolinea gli svantaggi anche d’ordine economico che conseguivano alla occupazione spartana: Decelea infatti si trovava sulla strada tra Atene ed Oropo, e quest’ultima era l’approdo dei rifornimenti dell’Eubea, che ora dovevano fare il giro costosissimo di capo Sunio.

Ricostruzione planimetrica del Bouleuterion di Atene, fine V secolo a.C.
Ricostruzione planimetrica del Bouleuterion di Atene, fine V secolo a.C.

La rivolta degli alleati di Atene scoppia in Eubea, a Lesbo, a Chio, che mandavano ambasciatori a Sparta, per sollecitarne l’intervento. Un convoglio peloponnesiaco è bloccato al capo Spireo tra Corinzia ed Epidauro, ma forza il blocco, e una piccola squadra spartana, al comando di Astioco, raggiunge l’isola di Chio a metà dell’estate del 412. La rivolta si allarga a macchia d’olio: Eritre, Clazomene, Teo, Mileto, Lebedo, in Asia Minore, Metimna e Mitilene, nell’isola di Lesbo, defezionano da Atene. È certamente opera anche di Alcibiade (e sarebbe vano volerlo negare come frutto di una presunta sopravvalutazione tucididea) il coinvolgimento della Persia. Naturalmente, da sola, la personalità individuale non riuscirebbe a determinare nella storia neanche singoli eventi di portata collettiva, figurarsi una catena di eventi. È giusto perciò ricordare, ma solo come dovuto contesto all’iniziativa di Alcibiade, che il coinvolgimento dei Persiani era innanzi tutto il portato del tutto naturale, di mero ordine geografico-politico, del trasferimento nella Ionia dell’asse, o di uno degli assi, del conflitto. Ed è anche giusto aggiungere che gli Ateniesi avevano paradossalmente fatto tutto ciò che era in loro potere per favorire la combinazione Sparta-Ioni-Persia, prodottasi con il patrocinio di Alcibiade, con cui si sommavano comprensibili ambiguità del comportamento degli Ioni, i quali erano a metà strada tra il desiderio di liberarsi da Atene e quello di non cadere del tutto nelle mani dei Persiani. Questi ultimi avevano preso Colofone nel 430; ma Atene aveva rinnovato nel 424, con Dario II, il trattato ‘di Callia’ con un altro che prende nome da Epilico, l’ambasciatore ateniese (zio materno dell’oratore Andocide)[3].

La rivolta del satrapo di Sardi, Pissutne, fu domata da Tissaferne, che vinse Pissutne, lo inviò al re perché fosse giustiziato e lo sostituì personalmente nel governo della satrapia di Lidia. Atene commise il torto di sostenere ancora, contro il re, il figlio di Pissutne, Amorge, anche per vendicarsi dell’occupazione di Efeso effettuata da Tissaferne.

Tissaferne, satrapo di Misia. Hekte, Focea 478-387 a.C. ca. EL 2,55 gr. Dritto: Testa barbata del satrapo verso sinistra.
Tissaferne, satrapo di Misia. Hekte, Focea 478-387 a.C. ca. EL 2,55 gr. Dritto: Testa barbata del satrapo verso sinistra.

Dopo la presa di Mileto da parte peloponnesiaca, comincia la serie dei trattati di Sparta con la Persia: sono tre, procurati rispettivamente da Calcideo, Terimene e Tissaferne. Tucidide sembra credere che ogni nuovo trattato fosse risultato da un progressivo miglioramento delle condizioni del trattato per i Lacedemoni; un’analisi più attenta mostra che i tre testi sono soltanto l’uno più preciso dell’altro[4]; e un ulteriore passo in avanti dovrebbe indurre a vedere nei primi due le versioni provvisorie, rispetti a cui il terzo trattato è solo la versione definitiva: i primi due trattati non sono in realtà altro che lo stesso (unico) trattato di volta in volta presentato in una versione diversa, dapprima in una che rispecchia di più la ‘competenza’ spartana, cioè l’insieme delle clausole che più specificamente attengono a Sparta (trattato di Calcideo), poi in un’altra che rispecchia di più la ‘competenza’ persiana (trattato di Terimene); un rapporto di specularità sussiste fra i due, di cui sintesi e formalizzazione è il terzo (un complesso processo diplomatico, a determinare la forma del quale appare decisiva la presenza di un contraente orientale, quale il re persiano). La materia dello scambio è in effetti la rinuncia, da parte spartana, della difesa dell’autonomia dei Greci d’Asia dal re di Persia e la concessione di aiuti finanziari per la guerra, da parte persiana.

Nell’estate del 412 il contrattacco ateniese consegue lo scopo di riconquistare Lesbo e Clazomene e bloccare Mileto: qui, anzi, gli Ateniesi effettuano alla fine dell’estate uno sbarco, reso vano dal sopraggiungere di una flotta peloponnesiaca di 55 triremi, fra cui 22 da Siracusa e Selinunte. In Asia si illustrano gli spartani Pedarito e Astioco, il navarco che, alla fine del 412, ha raggiunto Mileto, base ormai della flotta peloponnesiaca. Anche Iaso, la rocca occupata da Amorge, è presa e consegnata a Tissaferne. La base della flotta ateniese è invece la ormai fedele Samo, da cui muove una squadra per tentare di riconquistare Chio, approfittando di una rivolta del partito democratico. Nel tentativo di rompere il blocco ateniese dell’isola, Pedarito trova la morte.

Una dopo l’altra, le città della Lega sono perdute da Atene: così è di Cnido; e la vicina Cauno viene raggiunta da una nuova squadra navale peloponnesiaca. Un intervento ateniese, volto a impedire che quest’ultima si congiunga con il grosso della flotta, finisce in una nuova sconfitta: all’inizio del 411, nel settore ionico e cario, gli Ateniesi hanno, oltre Samo e Notion, Lesbo a nord, e Cos e Alicarnasso a sud, e l’isolata posizione di Clazomene; punti-chiave come Chio, Efeso, Mileto, sono ormai perduti, anche se a Chio gli Ateniesi continueranno ancora a lungo a tenere una testa di ponte al Delfinio[5].

gruppo del pittore leagro. una nave. pittura vascolare dall_interno di una kylix attica a figure nere, 520 a.c. ca., da cerveteri. cabinet des médailles.Gruppo del pittore Leagro. Una nave. Pittura vascolare dall’interno di una kylix attica a figure nere, 520 a.C. ca., da Cerveteri. Paris, Cabinet des médailles.
Gruppo del pittore Leagro. Una nave. Pittura vascolare dall’interno di una kylix attica a figure nere, 520 a.C. ca., da Cerveteri. Paris, Cabinet des médailles.

Sono ormai date le condizioni per una svolta politica in senso oligarchico, come logico sviluppo di precedenti avvisaglie, come reazione agli insuccessi della politica estera democratica, come maturazione delle trame più o meno occulte tessute da Alcibiade con gli ufficiali ateniesi della flotta di Samo. Se un fattore del deterioramento delle posizioni ateniesi nell’Egeo orientale era l’alleanza spartano-persiana, la situazione si poteva ribaltare, secondo Alcibiade, mutando il regime da democratico in oligarchico: Pisandro, trierarco a Samo, raggiunge Atene, latore di queste proposte[6]. In realtà, per gradi, Alcibiade sta tentando di rientrare nel gioco politico ateniese: quando il disegno sarà maturo, il suo interlocutore sarà, come agli inizi della sua carriera, il regime democratico.

Ostacoli al nascente regime oligarchico potevano venire, e di fatto vennero, dalla stessa flotta di Samo, da cui erano partiti gli ufficiali istigatori del complotto (Pisandro e gli altri). Erano infatti numerosi i cittadini impiegati negli equipaggi; e questi vennero presto a trovarsi nella condizione di contrastare gli sviluppi politici ateniesi[7]. Occorre comunque tenere distinte le vicende della città di Samo e quelle della flotta e degli equipaggi della flotta ateniese a Samo stessa. Nell’estate del 412 c’era stata nell’isola una rivoluzione democratica, che aveva fatto strage di capi oligarchici e privato gli altri di diritti politici e di proprietà. Nel 411 sono gli oligarchici a tentare di rovesciare la situazione, contando sugli ufficiali cospiratori, e uccidendo Iperbolo. L’intervento degli equipaggi ateniesi democratici e dei nuovi strateghi da essi eletti (tra cui Trasibulo di Stiria e Trasillo) è decisivo per soffocare il tentativo oligarchico.

Preoccupati per i fatti di Samo, gli oligarchi di Atene (fra cui spiccano l’oratore Antifonte, Frinico e Teramene) cercano di ammansire gli uomini della flotta, sforzandosi di mostrare che, una volta passati effettivamente i poteri ai Cinquemila, nulla praticamente sarebbe stato diverso dal passato: ad Atene tanti e non più sarebbero i cittadini che frequentavano di norma l’assemblea. L’argomento passava evidentemente al di sopra di tutte le questioni di principio e di diritto[8].

Combattimento fra Ateniesi e altri Greci. Bassorilievo, marmo, fine V sec. a.C., dal fregio occidentale del tempio di Atena Nike.
Combattimento fra Ateniesi e altri Greci. Bassorilievo, marmo, fine V sec. a.C., dal fregio occidentale del tempio di Atena Nike.

Un fatto che va sottolineato con forza è il ruolo politico particolarissimo che assume l’assemblea dei marinai ateniesi a Samo. Si assiste a una vera e propria scissione nella cittadinanza ateniese; la spaccatura ideologica all’interno di Atene è diventata fisicamente evidente, quasi tangibile. La parte della cittadinanza ateniese che serve nella flotta di Samo intende incarnare la legittimità democratica, intende valere come la vera città di Atene. Alcibiade, che nel frattempo ha preso le distanze, pur con opportune lentezze, dai putschisti oligarchi, è il lontano ‘garante’ dell’operazione. L’assemblea dei marinai ateniesi a Samo lo richiama dall’esilio; loro stessi sono fuori di Atene, ma, poiché si sentono come la vera Atene, pongono fine all’esilio di Alcibiade, chiamandolo fra loro[9]. E Trasibulo liquida in un’assemblea con un duro intervento tutto il sottile discorrere che si fa della «costituzione patria»: per questo schietto e rude democratico, le «patrie leggi» non sono altro se non quelle che c’erano state fino a ieri ad Atene (interpretazione del tutto legittima) e che gli oligarchi avevano abolito[10].

Eezionia (Pireo). Rovine delle fortificazioni dei Quattrocento.
Eezionia (Pireo). Rovine delle fortificazioni dei Quattrocento.

Dopo appena quattro mesi, il tentativo di fortificare Eezionia, la striscia di terra che delimita a nord il Pireo, certo con l’intento di impedire uno sbarco di quelli di Samo, suscita il sospetto che si stia costituendo una base d’appoggio per uno sbarco spartano (sospetto propalato comunque ad arte da Teramene, che vuole prendere le distanze dal gruppo, e che in questa circostanza si guadagnerà il nomignolo di ‘coturno’, la calzatura per tutti gli usi, la scarpa ambidestra). E chi avrebbe mai potuto dimostrare il contrario? Per una collusione diretta col nemico non bastava l’animo degli opliti, cioè a quel nucleo dei Cinquemila, che costituiva la base e il supporto per il governo dei Quattrocento. Frinico fu ucciso in piazza; il potere si disse essere ormai esteso ai Cinquemila (agosto del 411). Intanto riprendeva l’attività della flotta ateniese di Samo. Della zona dell’Ellesponto gli Ateniesi conservavano ancora il controllo: è perciò qui che si rivolge lo sforzo peloponnesiaco. Azioni di Dercillida contro Abido e Lampsaco nella Troade, e defezioni di Bisanzio, Calcedone, Selimbria, Perinto, Cizico, compromettono nell’estate del 411 le posizioni ateniesi nella zona degli Stretti. Nel vicino Egeo settentrionale, in autunno, seguono l’esempio dei ribelli l’isola di Taso e la città di Abdera in Tracia. Circa lo stesso periodo una flotta peloponnesiaca di 42 navi, al comando di Agesandrida, batte gli Ateniesi presso Eretria, e la vittoria procura la defezione di tutte le città dell’isola d’Eubea (fatta eccezione per la cleruchia ateniese di Oreo), così vitale per il rifornimento di Atene.

Collina della Pnice, Atene. Dettaglio - La tribuna (bema).
Collina della Pnice, Atene. Dettaglio – La tribuna (bema).

Sulle fonti per il colpo di stato del 411

Si discute delle procedure eseguite, delle realizzazioni formali, di funzioni e aspetti particolari della costituzione oligarchica del 411. Stando alle due fonti (Tucidide, VIII 65 e 67 e Aristotele, Costituzione degli Ateniesi, 29 ss.), fra le quali vi sono differenze che non costituiscono insanabili contraddizioni, sono da distinguere le seguenti fasi.

 

  • Nel maggio del 411 si istituisce una commissione di trenta syngrapheîs autokrátores (cioè, ‘costituenti’ con pieni poteri), fra cui erano compresi i dieci próbouloi istituiti nel 413 (decreto di Pitodoro): lo scopo è quello di riformare la costituzione, e un emendamento di Clitofonte rinvia ai pátrioi nómoi clistenici (Aristotele, 29, 23).
  • Ai primi del giugno (verso la fine del mese di Targhelione) del 411 si svolge un’assemblea straordinaria a Colono, fuori città (non sulla Pnice, come era nella tradizione) (Tucidide, VIII 67, 23, cfr. Aristotele, 29, 4 ss.). Si istituisce una costituzione di soli 5.000 cittadini; si aboliscono una serie di azioni penali di «illegalità», previste a tutela della democrazia, e le indennità (caratteristica e garanzia essenziale della democrazia), si nominano cento katalogheîs (compilatori di lista) dei Cinquemila.
  • I Cinquemila, a loro volta, eleggono 100 ‘redattori’ (anagrapheîs), i quali decidono che per il futuro (Aristotele, 30, 131, 1), la boulé sia costituita da quelli (dei 5.000) che abbiano superato i trent’anni, e che essa si organizzi in quattro parti, e funzioni a turno. È introdotto anche un criterio di cooptazione dei 100 uomini (gli anagrapheîs), in un sistema che prevede una ripartizione in quattro gruppi, da cui si sorteggiano i quattro gruppi consecutivi di 100 (?). Per il presente, i 400 sono scelti tra i prókritoi (una lista preliminare) dai loro phylétai, in numero di 40 per ogni phylé (sembra che, per il futuro, sulla organizzazione secondo 10 phylaí debba prevalere la ripartizione nelle quattro léxeis, o ‘ripartizioni’ formate col sorteggio).

L’assemblea costituente (di Colono?) è sinteticamente descritta come ‘dei Cinquemila’ da Aristotele (32, 1); ma lo stesso autore dice che i Cinquemila furono scelti solo a parole (cfr. 32, 3), il che può significare che l’operazione dei katalogheîs prevista a 29, 5 non fu mai formalmente e definitivamente compiuta, e che il plêthos che approva – a Colono? – la riforma costituzionale di Aristotele, 31, è ancora raccogliticcio, e non si identifica formalmente e definitivamente con l’assemblea dei Cinquemila. Nel complesso, va notata una minore distanza tra Tucidide (VIII 67, 3 e 72, 1) e Aristotele, quanto a esistenza effettiva dei Cinquemila, che neanche Aristotele ammette mai.

È d’altra parte evidente che il colpo di stato ideato (per giudizio concorde di Tucidide, VIII 63, 65, 68 e di Aristotele, 32, 2) da Pisandro, Antifonte, Teramene (cui Tucidide, VIII 68, 3, aggiunge Frinico) tende a rivestirsi di forme legali: di qui la distinzione tra costituzione del presente e costituzione del futuro (quest’ultima certo più ‘garantista’ verso la massa dei Cinquemila) o la distinzione tra i 30 syngrapheîs e i 100 katalogheîs, cioè tra il momento costituente e il momento del reclutamento dei cittadini, nonché quella tra i syngrapheîs (che gettano le fondamenta) e gli anagrapheîs (che formulano meccanismi costituzionali), e così via di seguito. D’altra parte sotto il velo delle forme si scopre la realtà del colpo di mano: funzionano i Quattrocento e non i Cinquemila; nella prima (e unica) costituzione della boulé oligarchica (dei 400) vige il principio della cooptazione; e, se i cento katalogheîs fossero (ma non è affatto certo) la stessa cosa che gli anagrapheîs, verrebbe meno la distinzione tra momento costitutivo dei meccanismi istituzionali e momento elettivo del corpo civico.

 

 

Bibliografia:

 

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[1] Sulla ricchezza dei dati biografici relativi ad Alcibiade, cfr. Plutarco, Alcibiade 1, 3 (e Aristotele, Poetica 9); D. Musti, Protagonismo e forma politica nella città greca, in AA.VV., Il protagonismo nella storiografia classica, Genova 1987, pp. 9 ss., in part. 26 ss.

[2] Tucidide, VIII 1, 3; Aristofane, Lisistrata; Aristotele, Costituzione degli Ateniesi 29, 2, sui próbouli del 413.

[3] Andocide, Sulla pace 29; Aristofane, Acarnesi 61 ss.; vd. anche Tucidide, IV 50, 3. Cfr. H. Bengtson, Die Staatsverträge des Altertums Bd. 2: Die Verträge dergriechisch-römischen Welt von 700 bis 338 v. Chr., München 1975, pp. 101-103.

[4] Cfr. E. Lévy, Les trois traités entre Sparte et le Roi, BCH 107 (1983), pp. 221 ss.

[5] Tucidide, VIII 546; e, in generale, fino a VIII 70.

[6] Id., VIII 5358.

[7] Id., VIII 63, 34.

[8] Tucidide, VIII 68; 72-76.

[9] Tucidide, VIII 81, 1; cfr. 85, 4.

[10] Cfr. in particolare Tucidide, VIII 76, 6, e in generale 75, 276, 7.

Da fautore a vittima del regime (Xᴇɴ. 𝘏𝘦𝘭𝘭. II 3, 15; 23-56; 4, 1)

[15] In un primo tempo Crizia[1] condivideva le idee di Teramene e gli era amico; ma quando, più tardi, il primo si mostrò sempre più incline ad uccidere molte persone, poiché non dimenticava l’esilio subito durante la democrazia, Teramene gli si oppose, in quanto riteneva irragionevole l’uccisione di un uomo per la sola colpa di essere stato onorato dal popolo (dēmos), senza che avesse commesso alcuna ingiustizia nei confronti dei gentiluomini (kaloí kaì agathoí): «Poiché sia io – diceva – che tu abbiamo detto e fatto molto per riuscire graditi alla città». […] [23] I Trenta, a questo punto, ritenendolo un ostacolo alle loro azioni, incominciarono a tramare alle sue spalle; si incontravano in privato con i buleuti e lo accusavano di voler sovvertire il regime (politeía). Diedero istruzioni a un gruppo di giovani, che sembravano loro particolarmente audaci, di trovarsi sul posto con un pugnale sotto l’ascella, e convocarono il Consiglio (boulḗ)[2]. [24] Quando anche Teramene fu presente, Crizia si alzò e tenne il seguente discorso:

Assemblea degli dèi. Bassorilievo, marmo, 530-525 a.C. ca., dal Tesoro dei Sifni, Santuario di Apollo Delfico. Delfi, Museo Archeologico Nazionale.
Assemblea degli dèi. Bassorilievo, marmo, 530-525 a.C. ca., dal Tesoro dei Sifni, Santuario di Apollo Delfico. Delfi, Museo Archeologico Nazionale.

«Membri del Consiglio, se qualcuno di voi è convinto che le nostre esecuzioni hanno superato il dovuto, consideri che questo è normale ovunque avvengano mutamenti costituzionali; è inevitabile che qui gli avversari dell’oligarchia siano molto più che numerosi perché la nostra città è la più popolosa della Grecia e poiché il popolo è vissuto più a lungo in libertà (eleuthería). [25] Noi, dunque, ben sapendo come la democrazia sia per gente come noi e come voi un regime odioso (chalepḕn politeía), e convinti anche che il popolo mai sarà amichevole nei confronti degli Spartani, nostri salvatori, mentre i migliori (béltistoi) continueranno ad essere leali; per questi motivi, per l’intesa con gli Spartani, abbiamo imposto l’attuale costituzione. [26] E per quanto è in nostro potere, ci sbarazzeremo di chiunque scopriremo che si opponga all’oligarchia; ma soprattutto ci sembra legittimo, se è uno di noi a violare l’ordinamento costituito, fargli pagare il fio. [27] Ebbene, constatiamo che il qui presente Teramene stia cercando di rovinare con tutti i mezzi possibili noi e voi. Vi renderete conto che questa è la verità, se ci fate attenzione, che nessuno più di questo Teramene critica (pségōn) la situazione presente o fa opposizione (enantioúmenos) tutte le volte che vogliamo liberarci di qualche demagogo. Se fin dall’inizio avesse manifestato questo atteggiamento, sarebbe stato un nemico, tuttavia non potrebbe essere legittimamente considerato disonesto. [28] Invece, dopo essere stato il promotore dell’intesa e dell’amicizia con gli Spartani, nonché dell’abbattimento della democrazia, e avervi in modo particolare indotto a punire quelli che inizialmente erano portati in giudizio davanti a voi, ora, poiché sia voi che noi siamo divenuti nemici palesi del popolo, non approva più ciò che accade, per mettersi di nuovo al sicuro, facendo ricadere solo su di noi la responsabilità di quanto accaduto. [29] Sicché conviene che sia punito non solo come nemico, ma anche come traditore vostro e nostro. Il tradimento è infatti ben più pericoloso dell’ostilità, perché è più difficile guardarsi da ciò che è nascosto che da ciò che è evidente, e ben più odioso, poiché con i nemici gli uomini concludono trattati e tornano ad essere amici, mentre con un traditore, se lo scoprono, nessuno stringerebbe mai accordi, né gli concederebbe fiducia per il futuro. [30] E perché sappiate che costui non fa nulla di nuovo, ma che per natura è un traditore (phýsei prodótēs estín), vi ricorderò le sue azioni passate[3]. Costui, inizialmente stimato dal popolo grazie al padre Agnone[4], divenne il più determinato a trasformare la democrazia nel regime dei Quattrocento e ne divenne uno dei primi esponenti (eprōteuen en ekeínois). Quando però si rese conto che si stava realizzando una certa opposizione all’oligarchia, fu il primo a diventare capo del popolo (ēgemōn tōi dēmōi) contro di essa. Di qui gli deriva il soprannome di “Coturno”[5]: [31] e difatti il coturno sembra adattarsi † a entrambi i piedi. Ma, Teramene, l’uomo degno di vivere (áxion zēn) non deve mostrarsi capace di guidare i compagni soltanto nelle situazioni critiche, per ritirarsi subito indietro se sorge qualche difficoltà, ma, come su una nave, deve faticare finché non si alza il vento favorevole; altrimenti, come potrebbero arrivare a destinazione, invertendo la rotta ad ogni ostacolo? [32] I rivolgimenti costituzionali (metabolaì politeiōn) comportano sempre delle vittime, ma tu, per i tuoi voltafaccia[6], sei corresponsabile dell’uccisione di moltissimi uomini tra gli oligarchici per mano del popolo, come pure di un numero altissimo tra quelli della democrazia da parte dei migliori. Egli è colui che, incaricato dagli strateghi di recuperare i naufraghi nella battaglia navale nelle acque di Lesbo[7], non solo non li recuperò, ma accusò gli strateghi, mandandoli alla morte per salvarsi la vita. [33] Colui che si mostra in ogni circostanza preoccupato del proprio vantaggio personale, senza preoccuparsi minimamente della propria dignità e degli amici, perché dovremmo risparmiarlo? Come non prendere delle precauzioni, conoscendo i suoi voltafaccia, per impedirgli di comportarsi allo stesso modo con noi? Pertanto noi lo sottoponiamo al vostro giudizio, perché cospira contro di noi e tradisce sia noi che voi. Quanto al fatto che agiamo fondatamente, ponete attenzione anche a quanto segue. [34] Quella degli Spartani risulta essere la costituzione più bella (kallístē politeía)[8]: là, se un eforo, anziché rispettare le decisioni della maggioranza, si desse a criticare il governo e facesse ostruzionismo, non presumete che gli efori stessi e la città intera lo riterrebbero degno della massima pena? Voi dunque, se siete saggi, avrete dei riguardi non per costui, ma per voi stessi, perché la sua salvezza potrebbe incoraggiare i vostri oppositori, mentre da morto toglierebbe loro ogni speranza, dentro e fuori la città».

[35] Quello, detto questo, si sedette; si alzò allora Teramene[9], che prese la parola: «Per prima cosa, concittadini, mi riferirò a quanto egli ha detto su di me in ultima istanza. Dice infatti che, accusandoli, io abbia mandato a morte gli strateghi. Ma di certo non ho incominciato io a sollevare la questione contro di loro, bensì essi dichiararono che io non raccolsi le vittime dello scontro presso Lesbo, malgrado gli ordini che mi avevano impartito. E io, dicendo in mia difesa che a causa della tempesta era impossibile navigare né, tantomeno, recuperare i naufraghi, diedi alla città la sensazione di dire cose plausibili, mentre essi sembravano accusarsi da sé. Sostenendo a parole che era possibile salvare gli uomini, dopo averli abbandonati alla morte, si allontanarono con le navi. [36] Non mi meraviglia che Crizia sia male informato: quando infatti accaddero queste cose, egli non era presente, ma in Tessaglia insieme a Prometeo instaurò la democrazia e armò i penesti[10] contro i loro padroni; [37] speriamo che nulla di ciò che ha fatto laggiù capiti qui! Su di un punto, tuttavia, sono d’accordo con lui, ed è che, se qualcuno vuole porre fine al vostro potere e rafforzare coloro che ordiscono contro di voi, è giusto che costui riceva la massima pena; chi sia colui che sta comportandosi in questo modo, penso che possiate giudicarlo nel modo migliore se riflettete sull’operato passato e presente di ciascuno di noi. [38] Finché si trattò di insediarvi nella boulḗ, di designare le magistrature e di citare in giudizio quanti erano, secondo l’opinione comune, dei sicofanti[11], tutti concordavamo; ma quando costoro incominciarono ad arrestare persone stimate e rispettabili (kaloí kaì agathoí), anch’io cominciai a dissociarmi dal loro modo di pensare. [39] Infatti, con la morte di Leonte di Salamina[12], uomo di fama e capacità reali e riconosciute e che non aveva mai compiuto neppure un’azione ingiusta, sapevo che le persone simili a lui avevano paura e che, impaurite, avrebbero avversato questo regime. Riconobbi altresì che, dopo l’arresto di Nicerato, figlio di Nicia[13], persona facoltosa e che, come suo padre, non aveva mai fatto alcunché per ingraziarsi il popolo, gli uomini come lui sarebbero stati mal disposti nei nostri confronti. [40] Così anche dopo aver condannato a morte Antifonte, che in guerra aveva allestito due ottime triremi, sapevo che anche quanti erano stati devoti alla città, ci avrebbero tutti guardati con sospetto. Mi opposi anche quando dissero che ognuno di noi doveva arrestare un meteco: era infatti evidente che, giustiziati costoro, anche tutti i meteci sarebbero diventati ostili al regime. [41] E mi opposi anche quando disarmarono il popolo, non ritenendo che si dovesse indebolire la città; vedevo che neppure gli Spartani avevano voluto salvarci per questo, perché, ridotti in pochi, non potessimo essere loro di nessuna utilità: infatti, se fosse stato questo il loro progetto, sarebbero stati in grado di non lasciare in vita nessuno, prostrandoci con la fame ancora per qualche tempo. [42] E neppure ero d’accordo di stipendiare le guardie, dal momento che era possibile avvalersi del servizio degli stessi cittadini, finché avevamo facilmente il controllo di quanti governavamo. Poiché vedevo in città molti insofferenti a questo governo, molti costretti all’esilio, ancora una volta, non mi sembrava opportuno esiliare Trasibulo, Anito[14], Alcibiade; sapevo bene, infatti, che in questo modo l’opposizione sarebbe stata forte[15], se si davano alla massa (tò plḗthos) capi efficienti e a chi aspirava al potere un gran numero di sostenitori. [43] Ma colui che esprimeva queste opinioni apertamente dovrebbe essere considerato a buon diritto persona responsabile o traditore? No, Crizia, non è impedendo ai nemici di diventare più numerosi né mostrando come procurarsi più sostenitori a rendere forti gli oppositori, ma è proprio confiscando ingiustamente i beni e uccidendo chi non ha commesso alcuna colpa, che si aumenta il numero degli avversari e che si tradisce, oltre agli amici, se stessi per ignobile avidità. [44] Se non c’è altro modo per dimostrarvi che dico la verità, riflettete su questo: credete che Trasibulo, Anito e tutti gli altri esuli preferirebbero che si realizzasse qui ciò di cui io sto parlando o ciò che stanno compiendo costoro? Secondo me, infatti, ritengono che qui ormai abbiano sostenitori ovunque; ma se ci fosse favorevole la parte più considerevole della città, troverebbero difficile anche solo mettere il piede sul nostro territorio. [45] Quanto all’affermazione secondo cui io sarei sempre pronto a cambiar opinione, considerate anche quanto segue. Com’è noto, il popolo stesso votò la costituzione dei Quattrocento[16], consapevole che gli Spartani si sarebbero fidati di qualsiasi forma di governo, esclusa la democrazia. [46] Poiché quelli non recedevano in nulla, e fu chiaro che Aristotele, Melanzio e Aristarco con gli altri strateghi costruivano un forte sul promontorio[17] per fare entrare il nemico e ridurre così la città in loro potere e dei loro sostenitori, se io, che ero al corrente del piano, l’ho impedito, significa che ho tradito gli amici? [47] Mi dà poi del “Coturno”[18] perché cerco di adattarmi agli uni e agli altri. Ma chi non va bene né a una parte né all’altra, come bisogna chiamarlo, per gli dèi? Tu, infatti, sotto la democrazia tu eri considerato il peggior nemico del popolo, mentre sotto il regime oligarchico sei diventato il peggior nemico degli aristocratici. [48] Quanto a me[19], Crizia, mi sono sempre opposto a quanti ritengono che non vi possa essere una buona democrazia finché non siano resi partecipi del potere gli schiavi e i morti di fame che venderebbero la pólis per una dracma; ma sono sempre stato anche nemico di chi pensa che non ci possa essere una buona oligarchia finché non sia ridotta la città a subire la tirannide di pochi[20]. Governare la pólis insieme a coloro che sono in grado di difenderla con i cavalli e con gli scudi: ecco il programma[21] che ho sempre considerato migliore e che non intendo modificare[22]. [49] E se tu, Crizia, puoi citare qualche caso in cui, con i democratici o con gli tirannici, io abbia intrigato per togliere la cittadinanza alle persone perbene e rispettabili, parla: se mi si troverà colpevole d’averlo fatto ora o in passato, ammetterò di meritare una giusta morte fra i più atroci tormenti!».

Iscrizione di un decreto del Consiglio (boulḗ) e dell_Assemblea (ekklēsìa), del 450 a.C. Ricostruzione di Webster, 1913.
Iscrizione di un decreto del Consiglio (boulḗ) e dell’Assemblea (ekklēsìa), del 450 a.C. Ricostruzione di Webster, 1913.

[50] Non appena concluse il discorso dicendo queste parole, il Consiglio si mostrò chiaramente favorevole; Crizia, rendendosi conto che, se avesse permesso la votazione sulla questione al Consiglio, quello sarebbe stato assolto, e ritenendo ciò intollerabile, alzatosi e avvicinatosi ai Trenta, scambio qualche parola con loro, quindi uscì e ordinò a quelli armati di pugnale di mettersi bene in vista di fronte al Consiglio, vicino ai cancelli[23]. [51] Quando rientrò chiese di nuovo la parola: «Membri del Consiglio, ritengo sia compito di un capo degno del suo nome, quando vede gli amici sbagliare, non permetterlo. Anch’io farò proprio così! Ora, quelli che stanno là[24] affermano che non ci lasceranno fare se intendiamo prosciogliere un uomo che cerca palesemente di abbattere l’oligarchia. In base alle nuove leggi, nessuno di coloro che appartengono ai Tremila può essere condannato a morte senza il vostro voto, mentre, per quelli che sono esclusi, i Trenta hanno pieni poteri di farli giustiziare. Io – disse – con approvazione unanime, cancello il qui presente Teramene dalla lista. Costui – concluse – noi lo condanniamo a morte!»[25]. [52] A queste parole, Teramene balzò sull’altare di Estia e così parlò: «E io, concittadini, vi supplico con le cose più legittime in assoluto: che Crizia non abbia facoltà di cancellare né me, né chi voglia di voi, ma che in base a quelle leggi che costoro scrissero in merito alle persone della lista, proprio in base a queste leggi sia emessa la sentenza per me e per voi. [53] So bene – disse –, per gli dèi, che questo altare non mi servirà a nulla, eppure voglio dimostrarvi che costoro non solo stanno commettendo la massima violazione della giustizia umana, ma anche la peggiore empietà contro gli dèi! Mi meraviglio che voi – proseguì – cittadini rispettabili e stimati, non difendiate voi stessi, in quanto sapete che il mio nome non è affatto più facile da cancellare di quello di ciascuno di voi!» [54] Immediatamente l’araldo dei Trenta ordinò agli Undici[26] di arrestare Teramene. Entrati costoro con i loro agenti guidati da Satiro[27], un individuo assai violento e crudele, Crizia sentenziò: «Vi consegno Teramene, giudicato in conformità della legge. Catturatelo e conducetelo nel luogo prescritto; quindi agite secondo la procedura». [55] A queste parole, Satiro, con l’aiuto degli agenti, strappò Teramene dall’altare, tra le sue grida che invocavano a testimoni gli dèi e gli uomini. Il Consiglio non si mosse, intimidito dalla vista dei tizi, in tutto simili a Satiro, a ridosso della cancellata e dal cospicuo numero di guardie presenti nell’aula (bouleutḗrion), che si sapevano armati di pugnale. [56] Teramene fu trascinato attraverso l’agorà mentre, protestando a gran voce, attirava l’attenzione sulla sorte che subiva. Di lui, si cita anche questa frase: non appena Satiro lo minacciò che, se non avesse taciuto, avrebbe passato dei guai, Teramene chiese: «E se starò zitto, non ne avrò?». Per morire fu costretto a bere la cicuta e si racconta che gettasse per terra l’ultima goccia, come nel gioco del còttabo, accompagnando il gesto con queste parole: «Alla salute del mio bel Crizia!»[28]. So bene che una battuta del genere non meriti neppure di essere menzionata, ma trovo ammirevole in quell’uomo che, neppure nell’imminenza della morte, abbia perso il senso dell’ironia e dell’umorismo.

[4.1] Così morì Teramene […].

[3.15] τῷ μὲν οὖν πρώτῳ χρόνῳ ὁ Κριτίας τῷ Θηραμένει ὁμογνώμων τε καὶ φίλος ἦν· ἐπεὶ δὲ αὐτὸς μὲν προπετὴς ἦν ἐπὶ τὸ πολλοὺς ἀποκτείνειν, ἅτε καὶ φυγὼν ὑπὸ τοῦ δήμου, ὁ δὲ Θηραμένης ἀντέκοπτε, λέγων ὅτι οὐκ εἰκὸς εἴη θανατοῦν, εἴ τις ἐτιμᾶτο ὑπὸ τοῦ δήμου, τοὺς δὲ καλοὺς κἀγαθοὺς μηδὲν κακὸν εἰργάζετο, «ἐπεὶ καὶ ἐγώ, ἔφη, καὶ σὺ πολλὰ δὴ τοῦ ἀρέσκειν ἕνεκα τῇ πόλει καὶ εἴπομεν καὶ ἐπράξαμεν» […] [23] οἱ δ᾽ ἐμποδὼν νομίζοντες αὐτὸν εἶναι τῶι ποιεῖν ὅ τι βούλοιντο, ἐπιβουλεύουσιν αὐτῶι, καὶ ἰδίαι πρὸς τοὺς βουλευτὰς ἄλλος πρὸς ἄλλον διέβαλλον ὡς λυμαινόμενον τὴν πολιτείαν. καὶ παραγγείλαντες νεανίσκοις οἳ ἐδόκουν αὐτοῖς θρασύτατοι εἶναι ξιφίδια ὑπὸ μάλης ἔχοντας παραγενέσθαι, συνέλεξαν τὴν βουλήν. [24] ἐπεὶ δὲ ὁ Θηραμένης παρῆν, ἀναστὰς ὁ Κριτίας ἔλεξεν ὧδε.

Ὦ ἄνδρες βουλευταί, εἰ μέν τις ὑμῶν νομίζει πλείους τοῦ καιροῦ ἀποθνήισκειν, ἐννοησάτω ὅτι ὅπου πολιτεῖαι μεθίστανται πανταχοῦ ταῦτα γίγνεται· πλείστους δὲ ἀνάγκη ἐνθάδε πολεμίους εἶναι τοῖς εἰς ὀλιγαρχίαν μεθιστᾶσι διά τε τὸ πολυανθρωποτάτην τῶν Ἑλληνίδων τὴν πόλιν εἶναι καὶ διὰ τὸ πλεῖστον χρόνον ἐν ἐλευθερίαι τὸν δῆμον τεθράφθαι. [25] ἡμεῖς δὲ γνόντες μὲν τοῖς οἵοις ἡμῖν τε καὶ ὑμῖν χαλεπὴν πολιτείαν εἶναι δημοκρατίαν, γνόντες δὲ ὅτι Λακεδαιμονίοις τοῖς περισώσασιν ἡμᾶς ὁ μὲν δῆμος οὔποτ᾽ ἂν φίλος γένοιτο, οἱ δὲ βέλτιστοι ἀεὶ ἂν πιστοὶ διατελοῖεν, διὰ ταῦτα σὺν τῆι Λακεδαιμονίων γνώμηι τήνδε τὴν πολιτείαν καθίσταμεν. [26] καὶ ἐάν τινα αἰσθανώμεθα ἐναντίον τῆι ὀλιγαρχίαι, ὅσον δυνάμεθα ἐκποδὼν ποιούμεθα· πολὺ δὲ μάλιστα δοκεῖ ἡμῖν δίκαιον εἶναι, εἴ τις ἡμῶν αὐτῶν λυμαίνεται ταύτηι τῆι καταστάσει, δίκην αὐτὸν διδόναι. [27] νῦν οὖν αἰσθανόμεθα Θηραμένην τουτονὶ οἷς δύναται ἀπολλύντα ἡμᾶς τε καὶ ὑμᾶς. ὡς δὲ ταῦτα ἀληθῆ, ἂν κατανοῆτε, εὑρήσετε οὔτε ψέγοντα οὐδένα μᾶλλον Θηραμένους τουτουὶ τὰ παρόντα οὔτε ἐναντιούμενον, ὅταν τινὰ ἐκποδὼν βουλώμεθα ποιήσασθαι τῶν δημαγωγῶν. εἰ μὲν τοίνυν ἐξ ἀρχῆς ταῦτα ἐγίγνωσκε, πολέμιος μὲν ἦν, οὐ μέντοι πονηρός γ᾽ ἂν δικαίως ἐνομίζετο· [28] νῦν δὲ αὐτὸς μὲν ἄρξας τῆς πρὸς Λακεδαιμονίους πίστεως καὶ φιλίας, αὐτὸς δὲ τῆς τοῦ δήμου καταλύσεως, μάλιστα δὲ ἐξορμήσας ὑμᾶς τοῖς πρώτοις ὑπαγομένοις εἰς ὑμᾶς δίκην ἐπιτιθέναι, νῦν ἐπεὶ καὶ ὑμεῖς καὶ ἡμεῖς φανερῶς ἐχθροὶ τῶι δήμωι γεγενήμεθα, οὐκέτ᾽ αὐτῶι τὰ γιγνόμενα ἀρέσκει, ὅπως αὐτὸς μὲν αὖ ἐν τῶι ἀσφαλεῖ καταστῆι, ἡμεῖς δὲ δίκην δῶμεν τῶν πεπραγμένων. [29] ὥστε οὐ μόνον ὡς ἐχθρῶι αὐτῶι προσήκει ἀλλὰ καὶ ὡς προδότηι ὑμῶν τε καὶ ἡμῶν διδόναι τὴν δίκην. καίτοι τοσούτωι μὲν δεινότερον προδοσία πολέμου, ὅσωι χαλεπώτερον φυλάξασθαι τὸ ἀφανὲς τοῦ φανεροῦ, τοσούτωι δ᾽ ἔχθιον, ὅσωι πολεμίοις μὲν ἄνθρωποι καὶ σπένδονται καὶ αὖθις πιστοὶ γίγνονται, ὃν δ᾽ ἂν προδιδόντα λαμβάνωσι, τούτωι οὔτε ἐσπείσατο πώποτε οὐδεὶς οὔτ᾽ ἐπίστευσε τοῦ λοιποῦ. [30] ἵνα δὲ εἰδῆτε ὅτι οὐ καινὰ ταῦτα οὗτος ποιεῖ, ἀλλὰ φύσει προδότης ἐστίν, ἀναμνήσω ὑμᾶς τὰ τούτωι πεπραγμένα. οὗτος γὰρ ἐξ ἀρχῆς μὲν τιμώμενος ὑπὸ τοῦ δήμου κατὰ τὸν πατέρα Ἅγνωνα, προπετέστατος ἐγένετο τὴν δημοκρατίαν μεταστῆσαι εἰς τοὺς τετρακοσίους, καὶ ἐπρώτευεν ἐν ἐκείνοις. ἐπεὶ δ᾽ ἤισθετο ἀντίπαλόν τι τῆι ὀλιγαρχίαι συνιστάμενον, πρῶτος αὖ ἡγεμὼν τῶι δήμωι ἐπ᾽ ἐκείνους ἐγένετο· [31] ὅθεν δήπου καὶ κόθορνος ἐπικαλεῖται. [καὶ γὰρ ὁ κόθορνος ἁρμόττειν μὲν τοῖς ποσὶν ἀμφοτέροις δοκεῖ, ἀποβλέπει δὲ ἀπ᾽ ἀμφοτέρων.] δεῖ δέ, ὦ Θηράμενες, ἄνδρα τὸν ἄξιον ζῆν οὐ προάγειν μὲν δεινὸν εἶναι εἰς πράγματα τοὺς συνόντας, ἂν δέ τι ἀντικόπτηι, εὐθὺς μεταβάλλεσθαι, ἀλλ᾽ ὥσπερ ἐν νηὶ διαπονεῖσθαι, ἕως ἂν εἰς οὖρον καταστῶσιν· εἰ δὲ μή, πῶς ἂν ἀφίκοιντό ποτε ἔνθα δεῖ, εἰ ἐπειδάν τι ἀντικόψηι, εὐθὺς εἰς τἀναντία πλέοιεν; [32] καὶ εἰσὶ μὲν δήπου πᾶσαι μεταβολαὶ πολιτειῶν θανατηφόροι, σὺ δὲ διὰ τὸ εὐμετάβολος εἶναι πλείστοις μὲν μεταίτιος εἶ ἐξ ὀλιγαρχίας ὑπὸ τοῦ δήμου ἀπολωλέναι, πλείστοις δ᾽ ἐκ δημοκρατίας ὑπὸ τῶν βελτιόνων. οὗτος δέ τοί ἐστιν ὃς καὶ ταχθεὶς ἀνελέσθαι ὑπὸ τῶν στρατηγῶν τοὺς καταδύντας Ἀθηναίων ἐν τῆι περὶ Λέσβον ναυμαχίαι αὐτὸς οὐκ ἀνελόμενος ὅμως τῶν στρατηγῶν κατηγορῶν ἀπέκτεινεν αὐτούς, ἵνα αὐτὸς περισωθείη. [2.3.33] ὅστις γε μὴν φανερός ἐστι τοῦ μὲν πλεονεκτεῖν ἀεὶ ἐπιμελόμενος, τοῦ δὲ καλοῦ καὶ τῶν φίλων μηδὲν ἐντρεπόμενος, πῶς τούτου χρή ποτε φείσασθαι; πῶς δὲ οὐ φυλάξασθαι, εἰδότας αὐτοῦ τὰς μεταβολάς, ὡς μὴ καὶ ἡμᾶς ταὐτὸ δυνασθῆι ποιῆσαι; ἡμεῖς οὖν τοῦτον ὑπάγομεν καὶ ὡς ἐπιβουλεύοντα καὶ ὡς προδιδόντα ἡμᾶς τε καὶ ὑμᾶς. ὡς δ᾽ εἰκότα ποιοῦμεν, καὶ τάδ᾽ ἐννοήσατε. [34] καλλίστη μὲν γὰρ δήπου δοκεῖ πολιτεία εἶναι ἡ Λακεδαιμονίων· εἰ δὲ ἐκείνηι ἐπιχειρήσειέ τις τῶν ἐφόρων ἀντί τοῦ τοῖς πλείοσι πείθεσθαι ψέγειν τε τὴν ἀρχὴν καὶ ἐναντιοῦσθαι τοῖς πραττομένοις, οὐκ ἂν οἴεσθε αὐτὸν καὶ ὑπ᾽ αὐτῶν τῶν ἐφόρων καὶ ὑπὸ τῆς ἄλλης ἁπάσης πόλεως τῆς μεγίστης τιμωρίας ἀξιωθῆναι; καὶ ὑμεῖς οὖν, ἐὰν σωφρονῆτε, οὐ τούτου ἀλλ᾽ ὑμῶν αὐτῶν φείσεσθαι, ὡς οὗτος σωθεὶς μὲν πολλοὺς ἂν μέγα φρονεῖν ποιήσειε τῶν ἐναντία γιγνωσκόντων ὑμῖν, ἀπολόμενος δὲ πάντων καὶ τῶν ἐν τῆι πόλει καὶ τῶν ἔξω ὑποτέμοι ἂν τὰς ἐλπίδας.

[35] Ὁ μὲν ταῦτ᾽ εἰπὼν ἐκαθέζετο· Θηραμένης δὲ ἀναστὰς ἔλεξεν· Ἀλλὰ πρῶτον μὲν μνησθήσομαι, ὦ ἄνδρες, ὃ τελευταῖον κατ᾽ ἐμοῦ εἶπε. φησὶ γάρ με τοὺς στρατηγοὺς ἀποκτεῖναι κατηγοροῦντα. ἐγὼ δὲ οὐκ ἦρχον δήπου τοῦ κατ᾽ ἐκείνων λόγου, ἀλλ᾽ ἐκεῖνοι ἔφασαν προσταχθέν μοι ὑφ᾽ ἑαυτῶν οὐκ ἀνελέσθαι τοὺς δυστυχοῦντας ἐν τῆι περὶ Λέσβον ναυμαχίαι. ἐγὼ δὲ ἀπολογούμενος ὡς διὰ τὸν χειμῶνα οὐδὲ πλεῖν, μὴ ὅτι ἀναιρεῖσθαι τοὺς ἄνδρας δυνατὸν ἦν, ἔδοξα τῆι πόλει εἰκότα λέγειν, ἐκεῖνοι δ᾽ ἑαυτῶν κατηγορεῖν ἐφαίνοντο. φάσκοντες γὰρ οἷόν τε εἶναι σῶσαι τοὺς ἄνδρας, προέμενοι ἀπολέσθαι αὐτοῦς ἀποπλέοντες ὤιχοντο. [36] οὐ μέντοι θαυμάζω γε τὸ Κριτίαν <παρανενομηκέναι<· ὅτε γὰρ ταῦτα ἦν, οὐ παρὼν ἐτύγχανεν, ἀλλ᾽ ἐν Θετταλίαι μετὰ Προμηθέως δημοκρατίαν κατεσκεύαζε καὶ τοὺς πενέστας ὥπλιζεν ἐπὶ τοὺς δεσπότας. [37] ὧν μὲν οὖν οὗτος ἐκεῖ ἔπραττε μηδὲν ἐνθάδε γένοιτο· τάδε γε μέντοι ὁμολογῶ ἐγὼ τούτωι, εἴ τις ὑμᾶς μὲν τῆς ἀρχῆς βούλεται παῦσαι, τοὺς δ᾽ ἐπιβουλεύοντας ὑμῖν ἰσχυροὺς ποιεῖ, δίκαιον εἶναι τῆς μεγίστης αὐτὸν τιμωρίας τυγχάνειν· ὅστις μέντοι ὁ ταῦτα πράττων ἐστὶν οἶμαι ἂν ὑμᾶς κάλλιστα κρίνειν, τά τε πεπραγμένα καὶ ἃ νῦν πράττει ἕκαστος ἡμῶν εἰ κατανοήσετε. [38] οὐκοῦν μέχρι μὲν τοῦ ὑμᾶς τε καταστῆναι εἰς τὴν βουλείαν καὶ ἀρχὰς ἀποδειχθῆναι καὶ τοὺς ὁμολογουμένως συκοφάντας ὑπάγεσθαι πάντες ταὐτὰ ἐγιγνώσκομεν· ἐπεὶ δέ γε οὗτοι ἤρξαντο ἄνδρας καλούς τε κἀγαθοὺς συλλαμβάνειν, ἐκ τούτου κἀγὼ ἠρξάμην τἀναντία τούτοις γιγνώσκειν. [39] ἤιδειν γὰρ ὅτι ἀποθνήισκοντος μὲν Λέοντος τοῦ Σαλαμινίου, ἀνδρὸς καὶ ὄντος καὶ δοκοῦντος ἱκανοῦ εἶναι, ἀδικοῦντος δ᾽ οὐδὲ ἕν, οἱ ὅμοιοι τούτωι φοβήσοιντο, φοβούμενοι δὲ ἐναντίοι τῆιδε τῆι πολιτείαι ἔσοιντο· ἐγίγνωσκον δὲ ὅτι συλλαμβανομένου Νικηράτου τοῦ Νικίου, καὶ πλουσίου καὶ οὐδὲν πώποτε δημοτικὸν οὔτε αὐτοῦ οὔτε τοῦ πατρὸς πράξαντος, οἱ τούτωι ὅμοιοι δυσμενεῖς ἡμῖν γενήσοιντο. [40] ἀλλὰ μὴν καὶ Ἀντιφῶντος ὑφ᾽ ἡμῶν ἀπολλυμένου, ὃς ἐν τῶι πολέμωι δύο τριήρεις εὖ πλεούσας παρείχετο, ἠπιστάμην ὅτι καὶ οἱ πρόθυμοι τῆι πόλει γεγενημένοι πάντες ὑπόπτως ἡμῖν ἕξοιεν. [41] ἀντεῖπον δὲ καὶ ὅτε τῶν μετοίκων ἕνα ἕκαστον λαβεῖν ἔφασαν χρῆναι· εὔδηλον γὰρ ἦν ὅτι τούτων ἀπολομένων καὶ οἱ μέτοικοι ἅπαντες πολέμιοι τῆι πολιτείαι ἔσοιντο. ἀντεῖπον δὲ καὶ ὅτε τὰ ὅπλα τοῦ πλήθους παρηιροῦντο, οὐ νομίζων χρῆναι ἀσθενῆ τὴν πόλιν ποιεῖν· οὐδὲ γὰρ τοὺς Λακεδαιμονίους ἑώρων τούτου ἕνεκα βουλομένους περισῶσαι ἡμᾶς, ὅπως ὀλίγοι γενόμενοι μηδὲν δυναίμεθ᾽ αὐτοὺς ὠφελεῖν· ἐξῆν γὰρ αὐτοῖς, εἰ τούτου γε δέοιντο, καὶ μηδένα λιπεῖν ὀλίγον ἔτι χρόνον τῶι λιμῶι πιέσαντας. [42] οὐδέ γε τὸ φρουροὺς μισθοῦσθαι συνήρεσκέ μοι, ἐξὸν αὐτῶν τῶν πολιτῶν τοσούτους προσλαμβάνειν, ἕως ῥαιδίως ἐμέλλομεν οἱ ἄρχοντες τῶν ἀρχομένων κρατήσειν. ἐπεί γε μὴν πολλοὺς ἑώρων ἐν τῆι πόλει τῆι ἀρχῆι τῆιδε δυσμενεῖς, πολλοὺς δὲ φυγάδας γιγνομένους, οὐκ αὖ ἐδόκει μοι οὔτε Θρασύβουλον οὔτε Ἄνυτον οὔτε Ἀλκιβιάδην φυγαδεύειν· ἤιδειν γὰρ ὅτι οὕτω γε τὸ ἀντίπαλον ἰσχυρὸν ἔσοιτο, εἰ τῶι μὲν πλήθει ἡγεμόνες ἱκανοὶ προσγενήσοιντο, [43] τοῖς δ᾽ ἡγεῖσθαι βουλομένοις σύμμαχοι πολλοὶ φανήσοιντο. ὁ ταῦτα οὖν νουθετῶν ἐν τῶι φανερῶι πότερα εὐμενὴς ἂν δικαίως ἢ προδότης νομίζοιτο; οὐχ οἱ ἐχθρούς, ὦ Κριτία, κωλύοντες πολλοὺς ποιεῖσθαι, οὐδ᾽ οἱ συμμάχους πλείστους διδάσκοντες κτᾶσθαι, οὗτοι τοὺς πολεμίους ἰσχυροὺς ποιοῦσιν, ἀλλὰ πολὺ μᾶλλον οἱ ἀδίκως τε χρήματα ἀφαιρούμενοι καὶ τοὺς οὐδὲν ἀδικοῦντας ἀποκτείνοντες, οὗτοί εἰσιν οἱ καὶ πολλοὺς τοὺς ἐναντίους ποιοῦντες καὶ προδιδόντες οὐ μόνον τοὺς φίλους ἀλλὰ καὶ ἑαυτοὺς δι᾽ αἰσχροκέρδειαν. [44] εἰ δὲ μὴ ἄλλως γνωστὸν ὅτι ἀληθῆ λέγω, ὧδε ἐπισκέψασθε. πότερον οἴεσθε Θρασύβουλον καὶ Ἄνυτον καὶ τοὺς ἄλλους φυγάδας ἃ ἐγὼ λέγω μᾶλλον ἂν ἐνθάδε βούλεσθαι γίγνεσθαι ἢ ἃ οὗτοι πράττουσιν; ἐγὼ μὲν γὰρ οἶμαι νῦν μὲν αὐτοὺς νομίζειν συμμάχων πάντα μεστὰ εἶναι· εἰ δὲ τὸ κράτιστον τῆς πόλεως προσφιλῶς ἡμῖν εἶχε, χαλεπὸν ἂν ἡγεῖσθαι εἶναι καὶ τὸ ἐπιβαίνειν ποι τῆς χώρας. [45] ἃ δ᾽ αὖ εἶπεν ὡς ἐγώ εἰμι οἷος ἀεί ποτε μεταβάλλεσθαι, κατανοήσατε καὶ ταῦτα. τὴν μὲν γὰρ ἐπὶ τῶν τετρακοσίων πολιτείαν καὶ αὐτὸς δήπου ὁ δῆμος ἐψηφίσατο, διδασκόμενος ὡς οἱ Λακεδαιμόνιοι πάσηι πολιτείαι μᾶλλον ἂν ἢ δημοκρατίαι πιστεύσειαν. [46] ἐπεὶ δέ γε ἐκεῖνοι μὲν οὐδὲν ἀνίεσαν, οἱ δὲ ἀμφὶ Ἀριστοτέλην καὶ Μελάνθιον καὶ Ἀρίσταρχον στρατηγοῦντες φανεροὶ ἐγένοντο ἐπὶ τῶι χώματι ἔρυμα τειχίζοντες, εἰς ὃ ἐβούλοντο τοὺς πολεμίους δεξάμενοι ὑφ᾽ αὑτοῖς καὶ τοῖς ἑταίροις τὴν πόλιν ποιήσασθαι, εἰ ταῦτ᾽ αἰσθόμενος ἐγὼ διεκώλυσα, τοῦτ᾽ ἐστὶ προδότην εἶναι τῶν φίλων; [47] ἀποκαλεῖ δὲ κόθορνόν με, ὡς ἀμφοτέροις πειρώμενον ἁπμόττειν. ὅστις δὲ μηδετέροις ἀρέσκει, τοῦτον ὢ πρὸς τῶν θεῶν τί ποτε καὶ καλέσαι χρή; σὺ γὰρ δὴ ἐν μὲν τῆι δημοκρατίαι πάντως μισοδημότατος ἐνομίζου, ἐν δὲ τῆι ἀριστοκρατίαι πάντων μισοχρηστότατος γεγένησαι. [48] ἐγὼ δ᾽, ὦ Κριτία, ἐκείνοις μὲν ἀεί ποτε πολεμῶ τοῖς οὐ πρόσθεν οἰομένοις καλὴν ἂν δημοκρατίαν εἶναι, πρὶν [ἂν] καὶ οἱ δοῦλοι καὶ οἱ δι᾽ ἀπορίαν δραχμῆς ἂν ἀποδόμενοι τὴν πόλιν <δραχμῆσ< μετέχοιεν, καὶ τοῖσδέ γ᾽ αὖ ἀεὶ ἐναντίος εἰμὶ οἳ οὐκ οἴονται καλὴν ἂν ἐγγενέσθαι ὀλιγαρχίαν, πρὶν [ἂν] εἰς τὸ ὑπ᾽ ὀλίγων τυραννεῖσθαι τὴν πόλιν καταστήσειαν. τὸ μέντοι σὺν τοῖς δυναμένοις καὶ μεθ᾽ ἵππων καὶ μετ᾽ ἀσπίδων ὠφελεῖν διὰ τούτων τὴν πολιτείαν πρόσθεν ἄριστον ἡγούμην εἶναι καὶ νῦν οὐ μεταβάλλομαι. [49] εἰ δ᾽ ἔχεις εἰπεῖν, ὦ Κριτία, ὅπου ἐγὼ σὺν τοῖς δημοτικοῖς ἢ τυραννικοῖς τοὺς καλούς τε κἀγαθοὺς ἀποστερεῖν πολιτείας ἐπεχείρησα, λέγε· ἐὰν γὰρ ἐλεγχθῶ ἢ νῦν ταῦτα πράττων ἢ πρότερον πώποτε πεποιηκώς, ὁμολογῶ τὰ πάντων ἔσχατα παθὼν ἂν δικαίως ἀποθνήισκειν.

[50] Ὡς δ᾽ εἰπὼν ταῦτα ἐπαύσατο, καὶ ἡ βουλὴ δήλη ἐγένετο εὐμενῶς ἐπιθορυβήσασα, γνοὺς ὁ Κριτίας ὅτι εἰ ἐπιτρέψοι τῆι βουλῆι διαψηφίζεσθαι περὶ αὐτοῦ, ἀναφεύξοιτο, καὶ τοῦτο οὐ βιωτὸν ἡγησάμενος, προσελθὼν καὶ διαλεχθείς τι τοῖς τριάκοντα ἐξῆλθε, καὶ ἐπιστῆναι ἐκέλευσε τοὺς τὰ ἐγχειρίδια ἔχοντας φανερῶς τῆι βουλῆι ἐπὶ τοῖς δρυφάκτοις. [51] πάλιν δὲ εἰσελθὼν εἶπεν· Ἐγώ, ὦ βουλή, νομίζω προστάτου ἔργον εἶναι οἵου δεῖ, ὃς ἂν ὁρῶν τοὺς φίλους ἐξαπατωμένους μὴ ἐπιτρέπηι. καὶ ἐγὼ οὖν τοῦτο ποιήσω. καὶ γὰρ οἵδε οἱ ἐφεστηκότες οὔ φασιν ἡμῖν ἐπιτρέψειν, εἰ ἀνήσομεν ἄνδρα τὸν φανερῶς τὴν ὀλιγαρχίαν λυμαινόμενον. ἔστι δὲ ἐν τοῖς καινοῖς νόμοις τῶν μὲν ἐν τοῖς τρισχιλίοις ὄντων μηδένα ἀποθνήισκειν ἄνευ τῆς ὑμετέρας ψήφου, τῶν δ᾽ ἔξω τοῦ καταλόγου κυρίους εἶναι τοὺς τριάκοντα θανατοῦν. ἐγὼ οὖν, ἔφη, Θηραμένην τουτονὶ ἐξαλείφω ἐκ τοῦ καταλόγου, συνδοκοῦν ἅπασιν ἡμῖν. καὶ τοῦτον, ἔφη, ἡμεῖς θανατοῦμεν. [52] ἀκούσας ταῦτα ὁ Θηραμένης ἀνεπήδησεν ἐπὶ τὴν ἑστίαν καὶ εἶπεν· Ἐγὼ δ᾽, ἔφη, ὦ ἄνδρες, ἱκετεύω τὰ πάντων ἐννομώτατα, μὴ ἐπὶ Κριτίαι εἶναι ἐξαλείφειν μήτε ἐμὲ μήτε ὑμῶν ὃν ἂν βούληται, ἀλλ᾽ ὅνπερ νόμον οὗτοι ἔγραψαν περὶ τῶν ἐν τῶι καταλόγωι, κατὰ τοῦτον καὶ ὑμῖν καὶ ἐμοὶ τὴν κρίσιν εἶναι. [53] καὶ τοῦτο μέν, ἔφη, μὰ τοὺς θεοὺς οὐκ ἀγνοῶ, ὅτι οὐδέν μοι ἀρκέσει ὅδε ὁ βωμός, ἀλλὰ βούλομαι καὶ τοῦτο ἐπιδεῖξαι, ὅτι οὗτοι οὐ μόνον εἰσὶ περὶ ἀνθρώπους ἀδικώτατοι, ἀλλὰ καὶ περὶ θεοὺς ἀσεβέστατοι. ὑμῶν μέντοι, ἔφη, ὦ ἄνδρες καλοὶ κἀγαθοί, θαυμάζω, εἰ μὴ βοηθήσετε ὑμῖν αὐτοῖς, καὶ ταῦτα γιγνώσκοντες ὅτι οὐδὲν τὸ ἐμὸν ὄνομα εὐεξαλειπτότερον ἢ τὸ ὑμῶν ἑκάστου. [54] ἐκ δὲ τούτου ἐκέλευσε μὲν ὁ τῶν τριάκοντα κῆρυξ τοὺς ἕνδεκα ἐπὶ τὸν Θηραμένην· ἐκεῖνοι δὲ εἰσελθόντες σὺν τοῖς ὑπηρέταις, ἡγουμένου αὐτῶν Σατύρου τοῦ θρασυτάτου τε καὶ ἀναιδεστάτου, εἶπε μὲν ὁ Κριτίας· Παραδίδομεν ὑμῖν, ἔφη, Θηραμένην τουτονὶ κατακεκριμένον κατὰ τὸν νόμον· [55] ὑμεῖς δὲ λαβόντες καὶ ἀπαγαγόντες οἱ ἕνδεκα οὗ δεῖ τὰ ἐκ τούτων πράττετε. ὡς δὲ ταῦτα εἶπεν, εἷλκε μὲν ἀπὸ τοῦ βωμοῦ ὁ Σάτυρος, εἷλκον δὲ οἱ ὑπηρέται. ὁ δὲ Θηραμένης ὥσπερ εἰκὸς καὶ θεοὺς ἐπεκαλεῖτο καὶ ἀνθρώπους καθορᾶν τὰ γιγνόμενα. ἡ δὲ βουλὴ ἡσυχίαν εἶχεν, ὁρῶσα καὶ τοὺς ἐπὶ τοῖς δρυφάκτοις ὁμοίους Σατύρωι καὶ τὸ ἔμπροσθεν τοῦ βουλευτηρίου πλῆρες τῶν φρουρῶν, καὶ οὐκ ἀγνοοῦντες ὅτι ἐγχειρίδια ἔχοντες παρῆσαν. [56] οἱ δ᾽ ἀπήγαγον τὸν ἄνδρα διὰ τῆς ἀγορᾶς μάλα μεγάληι τῆι φωνῆι δηλοῦντα οἷα ἔπασχε. λέγεται δ᾽ ἓν ῥῆμα καὶ τοῦτο αὐτοῦ. ὡς εἶπεν ὁ Σάτυρος ὅτι οἰμώξοιτο, εἰ μὴ σιωπήσειεν, ἐπήρετο· Ἂν δὲ σιωπῶ, οὐκ ἄρ᾽, ἔφη, οἰμώξομαι; καὶ ἐπεί γε ἀποθνήισκειν ἀναγκαζόμενος τὸ κώνειον ἔπιε, τὸ λειπόμενον ἔφασαν ἀποκοτταβίσαντα εἰπεῖν αὐτόν· Κριτίαι τοῦτ᾽ ἔστω τῶι καλῶι. καὶ τοῦτο μὲν οὐκ ἀγνοῶ, ὅτι ταῦτα ἀποφθέγματα οὐκ ἀξιόλογα, ἐκεῖνο δὲ κρίνω τοῦ ἀνδρὸς ἀγαστόν, τὸ τοῦ θανάτου παρεστηκότος μήτε τὸ φρόνιμον μήτε τὸ παιγνιῶδες ἀπολιπεῖν ἐκ τῆς ψυχῆς.
[4.1] Θηραμένης μὲν δὴ οὕτως ἀπέθανεν[…].

Pamfaio. Simposiasta che gioca al kóttabos. Pittura vascolare da un tondo di kylix attica a figure rosse. 510 a.C. ca. Musée du Louvre
Pittore Pamfaio. Simposiasta che gioca al kóttabos. Pittura vascolare da un tondo di kylix attica a figure rosse. 510 a.C. ca.  Paris, Musée du Louvre.

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Testo greco da Xenophontis Opera Omnia, ed. E.C. Marchant, Oxford 1900.
Note e traduzione, in parte di G. Daverio Rocchi, in parte mie e di mia elaborazione.


[1] Fu il più rappresentativo dei Trenta, di famiglia aristocratica. Implicato nella mutilazione delle Erme (cfr. Senofonte, Elleniche I 4, 14), era stato in seguito prosciolto. Dopo l’abbattimento del governo dei Quattrocento, nel quale ebbe un ruolo di scarso rilievo, con la restaurazione della democrazia andò in esilio, ritirandosi in Tessaglia, dove, secondo la testimonianza di Senofonte, collaborò con i penesti (Elleniche II 3, 36) contro i loro padroni. È ricordato anche come allievo di Socrate e scrittore. Compose poemi elegiaci e tragedie di cui rimangono alcuni frammenti.

[2] La boulḗ, in regime democratico, espletava alcune funzioni giurisdizionali. Qui, peraltro, si tratta di un istituto che sopravvisse svuotato di ogni reale carattere democratico. Per la sua composizione cfr. Senofonte, Elleniche II 3, 11.

[3] Paragrafi 30-31: la stessa accusa di trasformismo politico sarà poi da Teramene rivolta a Crizia (paragrafo 36).

[4] Ricoprì più di una strategia e nel 437 fu inviato a fondare la colonia di Anfipoli (Tucidide, IV 102); nel 413 fu tra i dieci magistrati eletti dopo il disastro in Sicilia (Lisia, Contro Eratostene XII 65), la cui attività, si può dire, preparò la rivoluzione dei Quattrocento.

[5] Il coturno è il calzare portato dagli attori nelle rappresentazioni tragiche per comparire più grandi sulla scena. Poteva essere infilato indifferentemente su entrambi i piedi.

[6] La carriera di Teramene presenta mutamenti e ambiguità tipici di molti personaggi dell’epoca. È soprattutto in ambiente oligarchico che sorge l’immagine del traditore, del “coturno”, della banderuola; all’interno di quel gruppo, egli non ha avuto rispetto delle regole della solidarietà (questa è la posizione di Crizia nei suoi confronti).

[7] Cfr. Senofonte, Elleniche I 7, 4.

[8] Crizia effettivamente aveva descritto sia in versi sia in prosa la costituzione spartana e secondo una tradizione storiografica “laconizzò” in maniera eccellente. L’ammirazione di Crizia si inserisce nella idealizzazione della costituzione di Sparta, che verso la fine del V secolo accompagnò lo stesso ripensamento sulla costituzione ateniese del passato. A Sparta c’è un’assoluta compattezza di comportamento all’interno del governo: quel che è approvato dalla maggioranza degli efori, è eseguito anche dalla minoranza (una regola che, ad Atene, Teramene finirà con il violare, ricorrendo a strumenti che nella democrazia erano consentiti, cioè il “criticare” e l’“opporsi”).

[9] Teramene che aveva contribuito all’instaurazione del nuovo regime, ne divenne presto una delle vittime più illustri. La sua autodifesa è tanto appassionata quanto inutile ad evitargli il destino che lo attende.

[10] I penesti, verso la metà del V secolo, durante i rivolgimenti politici e sociali connessi con l’abbattimento del potere delle grandi aristocrazie terriere, erano stati affrancati dai loro proprietari, senza peraltro ottenere una completa parificazione politica con i cittadini. Di conseguenza, le lotte che opposero le classi agiate urbane, i cavalieri, alle aristocrazie, non comportarono un’integrazione dei penesti nella comunità politica. Nelle tensioni che precedettero il conflitto si deve collocare, in base a testimonianze desumibili da altre fonti, un’insurrezione di penesti, che fu strumentalizzata dagli Aleuadi di Larissa per opporre questi ceti ai cavalieri. Gli Aleuadi avevano spesso ospitato filosofi ateniesi; i frammenti delle opere letterarie di Crizia rivelano una perfetta conoscenza della vita lussuosa dei nobili tessali, che lascerebbe presupporre un’esperienza diretta.

[11] In mancanza di una pubblica accusa istituzionale, in Atene ognuno era tenuto a denunciare al popolo chi minacciasse la sicurezza della comunità o fosse colpevole di cospirazione. Furono chiamati sicofanti coloro che ne fecero una professione, sicché tale libertà finì con il costituire l’abuso, la degenerazione del diritto. Il profilo che ne tracciano gli autori contemporanei è quello di uomini poveri, senza educazione, relativamente giovani, cittadini ateniesi, individui che calunniano gli innocenti, accusano soprattutto i ricchi, al solo scopo di ricavarne il guadagno delle ammende o delle confische. Allo stesso modo i sicofanti erano accusati di volere la guerra a tutti i costi per riempire le casse pubbliche, spogliando e vessando gli alleati. In realtà, con il regime dei Trenta, la sicofantia non scomparve, ma fu strumentalizzata, per fini personali, dagli esponenti del nuovo governo.

[12] Forse da identificare con uno degli strateghi del 407/6 (cfr. Senofonte, Elleniche I 5, 16). I motivi della sua esecuzione restano sconosciuti, ma il provvedimento ebbe vasta eco in Atene.

[13] Figlio di Nicia, lo stratego della spedizione di Sicilia con Alcibiade e Lamaco, ed esponente della democrazia moderata nella seconda metà del V secolo.

[14] Anito, ricco cittadino, eletto stratego nel 409/8, è uno dei capi della restaurazione democratica del 403/2.

[15] Secondo Aristotele (Costituzione degli Ateniesi 35, 4) e Isocrate (Areopagitico VII, 67), i cittadini furono millecinquecento. I Trenta, d’accordo con Lisandro, redigeranno perfino una lista di sospetti, destinati a morte.

[16] Teramene giustifica la propria posizione politica alla luce degli eventi del 411. Senza dubbio, egli doveva essere tra i promotori del “coup d’État” dei Quattrocento, ma fu il popolo a volerlo per imbonirsi gli Spartani.

[17] Si riferisce ai lavoro di fortificazione di Eetioneia, la punta settentrionale del Pireo (cfr. Tucidide, VIII 90, 4).

[18] Cfr. n. 5.

[19] Teramene ribatte a Crizia la propria coerenza politica, che, almeno sul piano teorico, sta nel senso dell’istaurazione e del rispetto della pátrios politeía.

[20] In sostanza, come osserva D. Musti (Storia greca, Milano 2010, p. 473), nella sua apologia, Teramene definisce in termini negativi la propria posizione come contraria agli estremismi, nei confronti dei quali si pone al centro.

[21] Intende instaurare un oplitismo costituzionalmente definito.

[22] Sono esposti qui i principi di una democrazia moderata, destinati ad incontrare successo nella rielaborazione ideologica e nel pensiero politico del IV secolo. Quanto questo discorso contenga delle reali parole pronunciate da Teramene è difficile dire, ma, ideologicamente, concorda con il programma politico che Aristotele (Costituzione degli Ateniesi 33) attribuisce al nostro. Quale sostenitore di siffatto programma politico, Teramene appare da questi discorsi in una luce positiva, in contrasto con le valutazioni negative o ambigue di Senofonte, Elleniche I 6, 35; 7, 31; II 2, 16 (cfr. Diodoro, XIV 3, 5-6).

[23] Il bouleutḗrion di Atene, sede della boulḗ, era una sala quadrata con quattro colonne agli angoli e cinque colonne in antis sulla facciata. Lo spazio tra le colonne era chiuso da barriere metalliche sigillate alle colonne e provviste di pannelli mobili attraverso i quali si accedeva alla sala. I congiurati non si trovavano all’interno dell’aula, ma presso le barriere, a scopo intimidatorio (paragrafo 55). Le barriere, prima ancora di proteggere, avevano lo scopo di delimitare lo spazio politico destinato ai buleuti, che era anche spazio sacrale, dove si trovavano gli altari delle divinità protettrici.

[24] Cioè i giovani armati di pugnale.

[25] La descrizione delle azioni di Crizia, che va da un punto all’altro dell’edificio, crea un certo senso di suspense, e quindi termina in questa sentenza finale. Si tratta naturalmente di una procedura irregolare, che contribuisce a connotare Crizia “tirannicamente”.

[26] Importanza particolare vennero a rivestire gli Undici, nel passato sorveglianti delle prigioni ed esecutori delle sentenze capitali (cfr. Senofonte, Elleniche I 7, 10), ora uno degli strumenti essenziali del potere.

[27] Satiro acquistò una triste fama di carnefice; al suo comando c’erano i cosiddetti mastigophóroi, cioè agenti armati di sferza, le guardie dei Trenta.

[28] La fine di Teramene ha molti tratti in comune con quella di Socrate, e gli procurò l’ammirazione dello storico.

Crizia, Teramene e il regime dei Trenta Tiranni

di D. Musti, Storia greca. Linee di sviluppo dall’età micenea all’età romana, Milano 2010, pp. 471 sgg.

 

Crizia, procugino di Platone, capo dei trenta costituenti, che vanno sotto il nome di Trenta Tiranni, è una figura di politico intellettuale. Come intellettuale, egli appartiene a tutti gli effetti alla storia della letteratura greca: è autore di poesie esametriche ed elegiache, di tragedie, di costituzioni (politeîai), queste ultime in versi e in prosa. È un personaggio, anche, di diversi dialoghi platonici. È ovvio che la testimonianza platonica va presa cum grano salis, perché contiene una libera rielaborazione delle situazioni. In ogni caso, le tematiche che Platone ricollega con personaggi storici che rende protagonisti, hanno caratteristiche che vanno tenute presenti in sede storica almeno nei loro termini generali. Non sarà forse tutto Crizia, ciò che Platone gli ascrive nei dialoghi, ma in qualche modo si respira il campo di interessi, lo stile, l’orientamento di Crizia. Sulla ricostruzione del personaggio grava un enigma di fondo: la famosa accusa sul tentativo che egli avrebbe compiuto di instaurare la democrazia in Tessaglia, armando i penesti[1]. Ed è l’unico tratto che sembra configurare una posizione democratica estrema del personaggio; ma i suoi inizi lo avvicinano ad Alcibiade, in una familiarità molto stretta. Ed in ogni caso va tenuta presente la realtà ateniese da cui proviene. Certamente nell’ultima fase, nel periodo dei Trenta, Crizia matura una posizione filo-laconica al cento per cento, fino ad ipotizzare una riduzione di Atene nei termini politici di Sparta. Alcuni elementi mostrano però la complessità del personaggio. La realtà ateniese era così nuova, così grande, che anche gli avversari della democrazia, per filo-spartani che fossero, ne erano fortemente condizionati. Cimone aveva forte ammirazione per Sparta, eppure rimase nella democrazia. Via via, questa ammirazione per Sparta condusse personaggi di questo stampo fino a una rottura con la tradizione: ed è il caso di Crizia.

La sua prima elegia parla, secondo un’ottica tipicamente greca, dei luoghi dove sono nate certe invenzioni; le città vengono caratterizzate dal punto di vista storico-culturale. E allora è richiamato il gioco del còttabo, siciliano; i bei sedili sono invenzioni dei Tessali; famosi i letti di Mileto e di Chio; famose le coppe dorate e i bronzi dei Tirreni; famosi i Fenici per l’invenzione dell’alfabeto, Tebe per il carro; i Cari hanno inventato le navi da carico; infine, Atene ha creato il tornio, è dunque la città della ceramica. L’elemento artigianale è perciò quello per cui si caratterizza Atene, e le parole di Crizia suonano ossequio a una civiltà di tipo artigianale-urbano; non alla democrazia, ma certo a una città in cui la forma politica democratica è maturata proprio a ridosso del grande sviluppo delle attività artigianali.

Platone. Testa, copia romana in marmo da originale del 348-347 a.C. ca. München Glyptothek
Platone. Testa, copia romana in marmo da originale del 348-347 a.C. ca. München Glyptothek.

Ci sono insomma in Crizia elementi della cultura dell’ambiente ateniese, che finiscono per condizionare anche chi, nell’esito storico finale, agisce come nemico di quella democrazia. Un’elegia è dedicata ad Alcibiade, quanto basta per indicare la familiarità dei rapporti tra i due. Forti erano dunque i nessi tra i due allievi di Socrate; e sulla condanna del filosofo pesò notoriamente il fatto che dalla sua scuola fossero usciti personaggi come Alcibiade e Crizia. Un frammento delle Costituzioni in versi riguarda Sparta e il modo di bere a Sparta: qui il simposio è contenuto in forme di gioia temperata, senza eccessi. Ma è soltanto uno dei casi in cui Crizia si trova ad elogiare Sparta. Le Costituzioni, che gli vengono attribuite, riguardano Atene e la Tessaglia, oltre che Sparta stessa. Egli elogia il comportamento severo e guardingo degli Spartani verso gli iloti[2]. Nel discorso che egli tiene alla boulḗ contro Teramene, la costituzione degli Spartani è definita come kallístē politeía, «la più bella delle costituzioni»; a Sparta c’è un’assoluta compattezza di comportamento all’interno del governo: quel che è approvato dalla maggioranza degli efori, è eseguito anche dalla minoranza (una regola che, ad Atene, Teramene finirà con il violare, ricorrendo a strumenti che nella democrazia sono consentiti, cioè il biasimare e l’opporsi)[3].

Teramene, che aveva contribuito all’instaurazione del nuovo regime prima e dopo la sconfitta, ne divenne presto vittima, non volendo avallarne tutti gli eccessi. Spogliato dei diritti politici e sottoposto a processo di fronte alla boulḗ, fece un’autodifesa tanto appassionata quanto inutile […]. Nella sua apologia, Teramene definisce in termini negativi la sua posizione come contraria agli estremismi nei confronti dei quali si colloca al centro: «Non sono mai stato con i dēmotikoí, o con i tyrannikoí, non sono mai stato contro i kaloí kaì agathoí (i galantuomini)»[4]. La rappresentazione che Aristotele dà della situazione politica ateniese al cap. 34 della Costituzione degli Ateniesi, quando parla di tre partiti, se pur non rende completa giustizia alle posizioni particolari, è perciò grande intuizione storica. Non c’è più la rigidità dei fronti, non c’è più il bipartitismo del pieno V secolo. Prima i contrasti (Plutarco, Pericle 11, 3) erano «venature del metallo», poi con Pericle erano divenuti «tagli profondissimi» all’interno di Atene; ora invece non c’è più l’opposizione frontale, il che cambia qualitativamente tutte le posizioni politiche. Teramene giustifica la sua posizione politica nelle vicende del 411, quando, come abbiamo visto, si era guadagnato il soprannome di «coturno». La costituzione dei Quattrocento Teramene l’aveva certo promossa, ma egli dice che l’aveva voluta proprio il popolo, per accattivarsi gli Spartani, meglio disposti a far pace con un governo oligarchico; e per questo Teramene non se ne fa carico. Nel 404 Teramene era stato il protagonista delle trattative di pace tra Atene e Sparta, ed anche allora con comportamenti che avevano avuto sempre qualcosa di ambiguo: raggiunti gli Spartani, restò presso di loro per tre mesi, pur senza avere la posizione di ambasciatore plenipotenziario; riuscì ad ottenerla dopo, quando trattò la pace, approvata dagli Ateniesi in un clima di paura e sfiducia. Poco dopo lo troviamo con i Trenta; impressionante il suo dibattito con Crizia, e il tentativo di rifugiarsi presso la eschára del bouleutḗrion (l’altare centrale della sede del consiglio), per sottrarsi alla condanna. Ma, nonostante il suo discorso faccia un’impressione positiva sui buleuti, nessuno muove un dito per lui, e soprattutto Crizia conta sull’effetto intimidatorio dei giovani che assistono con i pugnali sotto le ascelle; sembra una scena d’epoca repubblicana romana e dà invece solo l’idea del turbamento politico in corso ad Atene.

Diodoro (XIV 5) fa intervenire in suo aiuto Socrate, di cui – egli dice – Teramene era discepolo. Nelle genealogie culturali, non c’è limite alla fantasia degli antichi: Teramene sarebbe stato anche il maestro di Isocrate[5]. Si creerebbe così una linea genealogica Socrate-Teramene-Isocrate, interessante per ciò che ciascuno rappresenta in filosofia, politica, retorica; interessante anche per le assimilazioni che questa ideale genealogia istituisce, in primo luogo per il problema di Socrate e la posizione mediana, centrista, che a conti fatti si individua in lui. Del resto, per Isocrate e la sua scuola, democrazia e pátrios politeía finiscono con l’identificarsi. Quelle che erano le tre posizioni politiche vigenti ad Atene dal 404, secondo lo schema aristotelico, finiscono col dar luogo a una sostanziale ricomposizione; sicché, nel corso del IV secolo, si ha una convergenza di fatto delle posizioni che si riconducono all’idea di pátrios politeía, e persino certe istanze di parte oligarchica possono figurare sotto il connotato della democrazia. La pátrios politeía non riuscirà a diventare il nuovo modello politico; formalmente sarà la democrazia, infatti, a vincere, ma essa si adatterà (e qui si completa il processo di ricomposizione) ad assorbire tante istanze della pátrios politeía, e in tanto essa non sarà contrastata, in quanto sarà trasformata. Il processo, anche sul piano lessicale, è chiaro, se seguiamo con attenzione la storia della parola dēmokratía, che nel IV secolo si avvia a significare di nuovo «forma libera, repubblicana», a recuperare cioè quel significato generico di opposizione alla tirannide e alla monarchia, che però non oblitera mai in assoluto la possibilità di un significato più specifico[6].

Trasibulo, che nel 403 restaura la democrazia ad Atene, ha parecchi punti di merito verso il regime democratico: lo troviamo nel 411 a Samo, fra i protagonisti di quello scisma democratico, che ha avuto forti conseguenze, mentre Teramene regge, fino a un certo punto, il gioco dei Quattrocento. Nel 404 Trasibulo è esule; è fra i “grandi esuli”, che Teramene ricorda nel suo discorso di replica a Crizia, quando dice ai Trenta: «I veri traditori sono coloro che hanno fatto in modo che lasciassero la città personaggi come Trasibulo, Anito e Alcibiade[7]». Alcibiade viene ricordato una volta sola: la seconda volta Teramene parla soltanto di Trasibulo e di Anito; è possibile che questo significhi che, nel momento in cui Teramene fa il suo discorso, Alcibiade fosse già stato ucciso. La carriera di Teramene presenta mutamenti e ambiguità, che sono in molti personaggi dell’epoca. È soprattutto in ambienti oligarchici che insorge l’immagine del traditore, del «coturno», della banderuola; all’interno di quel gruppo, egli non ha rispettato le regole della solidarietà; ha consentito sempre e solo fino a un punto e, quando ha dissentito, lo ha fatto con cambiamenti di rotta, che hanno lasciato del tutto scoperti i suoi malaugurati compagni di viaggio. Bisogna riconoscergli, però, sul piano teorico, una fondamentale coerenza: ed è nel senso della pátrios politeía.

All’epoca corrono del resto diversi progetti di riforma del corpo civico. Uno è appunto quello di Teramene, che accetta, nel 411, il numero orientativo di 5000 cittadini, ma in realtà inclina verso una costituzione “oplitica”, cioè una costituzione in cui i pieni diritti siano nelle mani degli opliti (e cavalieri): restano esclusi i teti, quelli della cosiddetta democrazia marinara: teti nella funzione sociale, marinai nella funzione militare[8]. È una fortissima limitazione, anche se non persegue il numerus clausus come condizione; infatti, è solo un criterio orientativo. La posizione di Crizia può definirsi oplitica in senso stretto, anzi strettissimo, tanto è vero che neanche comprende tutti gli opliti; un grosso ruolo qui sembrano averlo i cavalieri, che si aggirano attorno ai 1000[9]. È una posizione estrema: 300, forse 4000, che sono meno dei 9000 che, largheggiando, costituiscono il corpo degli opliti di Teramene. Formisio è uno degli esuli rientrati dal Pireo. Anch’egli è un riformatore, in senso riduttivo, del corpo civico: la cittadinanza non spetta a tutti, bensì solo a coloro che posseggono terra in Attica[10]. Se fosse stato approvato il suo decreto, ben 5000 degli Ateniesi sarebbero stati privati dei diritti politici, forse su 30000 (alcuni studiosi sospettano dati più bassi, tenuto conto delle perdite di guerra). Il criterio di Formisio è diverso da quello di Teramene e di Crizia, è dichiaratamente economico, sembra più largo di quello puramente oplitico, e comporta un’esclusione abbastanza limitata.

Neanche questo progetto passerà. Di fatto, la democrazia restaurata di Trasibulo, da Archino, da Anito, si presenta formalmente come un ritorno alla vecchia costituzione. In realtà molte cose cambiano. Ci sono modifiche nei meccanismi legislativi di controllo, oltre che cambiamenti nella distribuzione della ricchezza, che finiscono con l’assorbire le istanze di cui si erano fatti portatori altri gruppi politici. Ma i progetti pullulano, ed è un brulichio di posizioni, da Formisio ad Anito, a Clitofonte, a Teramene, personaggi tutti di quel gruppo che viene ricordato da Aristotele come il campo dei fautori della pátrios politeía. Si vede come ciò che dice Aristotele sia vero in senso lato e non vero per quanto riguarda le differenze. È un raggruppamento politico, con molte sfumature al suo interno. Clitofonte è un personaggio poco noto, però personaggio di dialoghi platonici (ce n’è uno intitolato a lui; egli compare anche nella Repubblica in connessione con il sofista Trasimaco). Clitofonte è, nel 411, l’autore di un emendamento famoso al decreto di Pitodoro, che nel 411 istituiva una commissione di 30 probuli (completando così la vecchia commissione di 10), sopra i quarant’anni, che dovevano redigere una costituzione. Sono trenta costituenti per la salvezza della città. Veniva consentito, a chiunque lo volesse, proporre integrazioni, perché da tutto si scegliesse il “meglio” politico. Clitofonte fa un emendamento, nella forma tipica per i decreti conservati in epigrafi: «Il resto, come lo ha detto Pitodoro; poi bisogna in aggiunta cercare delle leggi patrie, che Clistene pose quando istituì la democrazia, perché sentite queste decidessero per il meglio, in quanto la costituzione di Clistene non era popolare, ma vicina a quella di Solone». Opera, in sostanza, l’idea di una cernita all’interno dei nómoi; bisognava scegliere quelli che, fra i più recenti, somigliavano maggiormente alla legislazione di Solone. La ricerca delle tradizioni ha dunque questo senso: ricercare e valorizzare le norme tradizionali che si sono conservate fino a un certo periodo (a esclusione della democrazia radicale di Efialte e di Pericle). Non si esclude tutta la vicenda della democrazia, ma solo una parte di essa, operando una cernita all’interno delle strutture costituzionali e legislative, in quanto le leggi sono concepite come un fascio che si è troppo ingrossato, e di cui solo il filo risalente alle fasi più lontane viene conservato (cfr. Aristotele, Costituzione degli Ateniesi, 29, 3).

Nell’emendamento di Clitofonte si parla di pátrioi nómoi, cioè di «leggi patrie»; nel 404 si parlerà con certezza di pátrios politeía. C’è differenza? Alla lettera una gran differenza non c’è. Finley considera alcuni momenti della storia politica anglo-sassone e americana e il senso che ha in essa il richiamo alla “costituzione degli antenati”, cioè al valore costitutivo passato; la trasformazione politica non si può proporre, se non operando su modelli[11]. Qualcosa di più e di diverso bisogna dire però sul mondo greco. Certo, pátrioi nómoi non significa «leggi specifiche», di contro a una pátrios politeía che indicherebbe le «leggi di livello costituzionale». Per questo aspetto non si può distinguere; ma è tutto il contesto delle due esposizioni che va rimeditato. Noi vediamo che i pátrioi nómoi, nell’emendamento di Clitofonte, appaiono come un correttivo, un elemento accessorio, della proposta di Pitodoro di riformare la costituzione «per la salvezza» di Atene; di fronte a un’idea generale ancora indefinita, c’è la ricerca del “meglio” politico. In concreto, per Clitofonte si tratta di recuperare le leggi poste da Clistene quando istituì la democrazia, in quanto la sua costituzione viene sentita in ambienti oligarchici come non troppo popolare, ma alquanto vicina alla costituzione di Solone. Così si pensa di garantirsi nei confronti degli affezionati alla democrazia: si tutelano quelle leggi di origine lontana, che sono state accolte, fra altre, nel fascio delle leggi della democrazia.

Nel 411, quasi ad eliminare delle degenerazioni, venivano abrogati due istituti: la graphḗ paranómōn, e i misthoí, tranne poche eccezioni. La graphḗ paranómōn è la denuncia scritta di proposte che vanno contro le leggi. I misthoí, cioè le indennità, rappresentano l’apporto della democrazia periclea[12].

Nella storia dell’idea di pátrios politeía va comunque definita la funzione di Trasimaco. Clitofonte è collegato con il sofista Trasimaco, dei cui scritti possediamo solo frammenti. Nel primo di essi – un’orazione riportata nel commendo di Dionisio a Demostene per ragioni stilistiche – Trasimaco tra l’altro afferma: «Basta per noi il tempo trascorso, e il doverci trovare in guerra, invece che in pace». Noi non sappiamo esattamente che cosa sia questa guerra. Non è del tutto chiaro che sia un pólemos esterno (in tal caso dovrebbe essere la guerra del Peloponneso, perciò il testo andrebbe datato prima del 404); poco dopo si fa riferimento a ostilità reciproche e a conflitti (tarachaí), a cui si è arrivati, invece che alla concordia (homónoia). Il frammento di Trasimaco si potrà pur collocare nel 411, con il suo riferimento a un dibattito in corso sull’idea di pátrios politeía; ma è escluso che l’espressione sia testimonianza di un dibattito in corso del 404[13]. Ma perché costituzione “patria”? Dei “padri”, nel senso della generazione precedente? O dei “padri” intesi in generale, come antenati? Se pensiamo che la linea divisoria della storia della democrazia è il 461, ebbene, nel 411, o nel 404/3, si poteva realmente usare l’espressione “costituzione patria”, per risalire al di là del periodo efialteo-pericleo, e pur tuttavia riferirsi ai propri genitori. Un uomo di cinquant’anni, nato circa il 461 o il 454, può riferirsi effettivamente ai suoi “genitori”, quando ha in mente l’epoca anteriore alla riforma di Efialte.

Nel 404 l’idea aveva la funzione di mettere un freno al popolo. Il quadro aristotelico (Costituzione degli Ateniesi, 34, 3) è più articolato, nel distinguere tra un’oligarchia estrema, rappresentata dalle eterie, una democrazia tradizionale, che è quella di Trasibulo (e che poi si affermerà), e la posizione mediana di coloro che ricercano la pátrios politeía. Questo dibattito è storicamente comprensibile, se si tiene presente che, a conti fatti, le posizioni contrapposte si scioglieranno nella democrazia del IV secolo; e la democrazia greca deve passare attraverso questa fase per diventare, nella concezione di un conservatore come Polibio, nel II secolo a.C., la forma positiva del regime popolare, a cui egli contrappone, come forma negativa, l’ochlokratía (dominio della massa)[14].

Teramene vuole un oplitismo costituzionalmente definito; e lo dice con chiarezza quando afferma: «Io non sono dell’avviso che sia una buona democrazia quella in cui non abbiano parte al potere gli schiavi e quelli che venderebbero la città per una dracma, e che non sia una buona oligarchia quella in cui la città non sia tiranneggiata da pochi. Sempre ho ritenuto come forma migliore quella basata su coloro che possono sostenere la città con i cavalli e con gli scudi: e non cambio idea»[15]


[1] Senofonte, Elleniche II 3, 36 (sull’attività di Crizia in Tessaglia nel discorso di Teramene). Forse è il personaggio che compare nel Crizia e nel Timeo di Platone (altri vi vede il nonno); è comunque evocato nel Carmide 161b.

[2] Con le altre politeîai in prosa (Sparta, Atene, Tessaglia, ecc.) gli è attribuita la paternità del Perì politeías che va sotto il nome di Erode Attico, importante per la descrizione della situazione delle città di Tessaglia al tempo di Archelao re di Macedonia (413-399 a.C.). L’autore del discorso esorta i Larissei, come sembra, all’alleanza con gli Spartani e alla resistenza alla Macedonia. Obiezioni sull’attribuzione alla fine del V sec. a.C. in [Erode Attico], Perì politeías, a c. di U. Albini, Firenze 1968.

[3] Sul valore decisivo del criterio della maggioranza nelle decisioni degli efori di Sparta, cfr. Senofonte, Elleniche II 3, 34 (dal discorso di Crizia contro Teramene).

[4] Senofonte, Elleniche II 3, 4749.

[5] Per la tradizione che fa di Teramene un maestro di Isocrate, cfr. Münscher, in RE IX 2, 1916, col. 2153.

[8] Vd. avanti, n. 15.

[9] Cfr. P. Cloché, La restauration démocratique à Athènes en 403 av. J.C., Paris 1915, pp. 7 sgg. (i cavalieri sono cittadini, compresi nei 3000), con argomenti non decisivi.

[10] Cfr. Dionisio d’Alicarnasso, De Lysia 32. Sulla cifra di 9000 a cui di fatto si arrivò, cfr. Lisia, XX 13 (Per Polistrato).

[13] Cfr. Sofisti. Testimonianze e frammenti III, a cura di M. Untersteiner, Firenze 1954, pp. 3 sgg., in part. fr. 1 (Perì politeías).

[14] Polibio, VI 4, 6; 57, 9 (a 9, 7 cheirokratía, dominio delle mani, probabilmente).