La corte imperiale in età giulio-claudia: domus Augusta e aula Caesaris

di M. Pani, La corte dei Cesari fra Augusto e Nerone, Roma-Bari 2003, pp. 7-23.

Composizione e confini della corte a Roma

In uno studio recente sull’aula Caesaris, che può essere considerato il più accurato e completo sull’argomento, Aloys Winterling (1999) cerca di seguire il processo d’istituzionalizzazione della corte nei primi due secoli dell’Impero. Egli individua, in particolare, alcuni elementi di rottura rispetto alla tradizione della domus gentilizia, da cui ha origine l’apparato della casa imperiale. Specialmente con Claudio e con Domiziano, il progressivo ampliamento delle strutture edilizie imperiali del Palatium, e il connesso adeguamento culturale, nel segno dello sfarzo e dell’esclusivismo, disperdono ogni possibile legame con quell’eredità. Il Palatium, il Palatino, finisce per diventare per antonomasia «il palazzo».

Gli aspetti del cerimoniale risalgono al costume clientelare repubblicano della salutatio (l’omaggio del saluto mattutino che i clientes devono al loro patronus), ma adesso è l’aristocrazia nel suo insieme a entrare, con questo rito, nell’amicitia del principe. Anche i conviti rinviano a un costume repubblicano, ma con Claudio il numero dei convitati arriva a 600! La stessa organizzazione amministrativa, partendo dall’apparato domestico della familia, che ha un decisivo incremento sempre con Claudio, rompe ogni legame con la tradizione della casa aristocratica, a causa della sua ampiezza e dell’inserimento progressivo dei cavalieri al posto dei liberti. In questo modo, la corte si stabilizzerebbe, fra le tradizionali sfere repubblicane della domus e della res publica, come una nuova istituzione sui generis.

L’interpretazione delle nuove gerarchie sociali è la parte più laboriosa e forse più problematica della ricostruzione di Winterling, che basa su di essa l’individuazione del processo d’istituzionalizzazione della corte. Agli inizi del principato nasce una nuova gerarchia sociale, misurata secondo la vicinanza al principe, comprendente anche individui di umile origine. Questa gerarchia si affianca a quella di rango – aristocratica e tradizionale – misurata essenzialmente sulla famiglia e sulla carriera magistratuale. In particolare, Winterling vede agli inizi del principato tre categorie di «cortigiani»: 1) la cerchia più ristretta, cioè i familiares; 2) una più larga cerchia di amici; 3) l’insieme dell’aristocrazia, la cui amicizia ha un carattere istituzionale perché s’impernia sul principe come tale, non su legami personali con lui, e si manifesta con il rito della salutatio. Le prime due categorie di legami sono di tradizione repubblicana; la terza è invece specifica del principato.

Il processo d’istituzionalizzazione passerebbe attraverso la progressiva sovrapposizione, nei primi due secoli del principato, della terza categoria alla seconda e poi anche alla prima. Ciò comporterebbe l’unificazione della gerarchia basata sulla vicinanza al principe con quella basata sul rango sociale, anche perché il principe affida di fatto a persone di sua fiducia sia le magistrature, e quindi il rango senatorio, sia il rango equestre. Si verificherebbe allora un’istituzionalizzazione e insieme un’aristocratizzazione della corte. La reazione a questo processo sarebbe, già con Adriano, la ricomposizione di una cerchia più ristretta di amicissimi, una sorta di «corte nella corte». Al posto della domus un nuovo termine segna, dalla metà del I secolo in poi, per Winterling, il concetto di corte istituzionalizzata: aula.

È una «corte senza “Stato”». L’istituzionalizzazione sembrerebbe da intendersi, nell’impostazione di questo studioso, in relazione al profilo politico-sociale della nozione di Stato, più che a quello propriamente istituzionale. L’istituzionalizzazione, vista in maniera essenzialmente sociologica, sembrerebbe verificarsi quando si generalizza l’aristocratizzazione degli amici principis, cioè quando il ruolo di amicus diventa indipendente dalle relazioni personali del principe. È in questo senso che la corte viene definita come istituzione sui generis tra la sfera domestica e quella civica, tra la domus e la res publica.

Nasce tuttavia, proprio in questo periodo, una realtà nuova rispetto alla tradizione repubblicana: la categoria dell’amministrazione, il cui rapporto con la corte è ancora in fieri. L’apparato della carriera equestre non può essere certo considerato come l’«organizzazione cortigiana del principe». Si pone piuttosto il problema della definizione giuridica del personale amministrativo, e in particolare dei procuratori, anche se il tentativo di razionalizzare queste figure in termini che potrebbero soddisfare le concettualizzazioni moderne potrebbe risultare vano, come, del resto, quello di far rivivere compiutamente le categorie antiche.

Il problema dell’istituzionalizzazione, in effetti, è legato anche a quello della definizione complessiva dell’apparato di governo che emana sì dal principe, ma si dipana poi in una serie di posti, ruoli, incombenze, carriere. Un elemento sicuro e non trascurabile che possiamo utilizzare è quello offerto da Marco Aurelio, quando, in una sua descrizione della corte (Τὰ εἰς ἑαυτόν 8, 31), non inserisce fra le sue componenti il personale amministrativo in quanto tale: esso è nascosto tra parenti, amici, personale «familiare», domestici.

La situazione, da questo punto di vista, avrà uno sviluppo solo con gli imperatori assoluti del IV secolo. In quest’epoca, tuttavia, la «corte istituzionalizzata» non corrisponde al termine aula – semmai al più indicativo sacrum Palatium – mentre, come riferimento attivo, opera il comitatus, che si estende anche al personale burocratico non cortigiano. In effetti, la documentazione tarda non aiuta a definire gli ambiti: la corte come tale appare anzi schiacciata dalle istituzioni. Il concetto di aula, comunque, continuerà ad avere, come risulta negli autori tardi e nella letteratura giuridica, il suo senso più generico e informale, ruotante attorno al concetto fisico di «reggia».

Gruppo familiare (dettaglio). Bassorilievo, marmo, 9 a.C., dall’Ara Pacis. Roma, Museo dell’Ara Pacis.

La corte fra nobilitas e nuove aristocrazie in formazione

Torniamo agli inizi del processo e, quindi, agli inizi del principato: in particolare, al ruolo delle aristocrazie e alle relazioni gerarchiche che ruotano attorno al principe. Bisogna ritornare dapprima al concetto di domus Augusta, che è propedeutico, come si accennava, e non alternativo a quello di aula. Secondo quanto risulta dalla tradizione, questi termini sembrano in effetti maturare quasi nello stesso tempo, tra la fine del principato di Augusto e gli inizi di quello di Tiberio. Il concetto di domus Augusta, d’altra parte, è verosimilmente connesso col problema della successione. L’idea di domus, mentre allargava l’ambito della gens e della familia, restava in una logica nobiliare, che possiamo continuare a chiamare, in senso lato, «gentilizia». Da questo punto di vista, lungi dall’essere vista come una colpa, come apparirà agli inizi del principato, la concezione del predominio di una sola famiglia era più accettabile del predominio di un singolo. La successione si giustificava all’interno di questa concezione.

A questo processo si collegava forse un altro fenomeno importante: nel comune modo di vedere, per nobilitas s’intendeva ora solo la nobilitas di tradizione repubblicana. Sembra che le cariche magistratuali assunte in età giulio-claudia non producessero più nobilitas, come avveniva in età repubblicana. La nuova nobiltà, infatti, era indicata sempre con il termine homines novi. In questo senso si registra una sorta di serrata ideologica, una chiusura della vecchia nobiltà che la avvicina alla nobiltà moderna e che ben si adattava a quell’esclusivismo da cui può nascere un ambiente di corte.

La domus Augusta e la nobiltà esclusiva appaiono dunque strettamente connesse e si uniscono in un largo intreccio di parentele, che vede praticamente tutti i discendenti dei grandi leader repubblicani essere in qualche modo legati da parentela alla domus: gli Scribonii, gli Antonii, i Cornelii Scipiones, gli Aemilii Lepidi, i Iunii Silani, i Cornelii Sullae, i Pompeii, i Domitii. È qui il nucleo e la genesi della corte. La vicinanza al principe viene dunque misurata in termini tradizionali, cioè in gradi di “nobilizzazione”: ma la gerarchia di nobiltà è dettata ora dai legami più o meno stretti con la casa cesarea, come prima lo era dal numero dei consolati o dei trionfi. Si tratta di una gerarchia guidata da una rinnovata logica aristocratica nobiliare, adesso strettamente dipendente dal principe.

A Roma non esisteva una tradizione di casa reale, né era il principe ad assegnare il rango nobiliare come in età moderna. Il presupposto stabile per la formazione di una corte riconoscibile e riconosciuta fu dunque il ceto ormai circoscritto ed esclusivo della nobiltà repubblicana, che – insieme con la domus e con il personale servile e libertino delle case aristocratiche – costituiva il nucleo dell’apparato di governo centrale del principe. La stessa possibilità di una successione appariva quindi circoscritta alla nobilitas, legata intimamente alla domus Augusta.

Alla presenza nobiliare, che caratterizzava la corte, basata su una rinnovata gerarchia aristocratica di tipo piramidale, si aggiungeva l’eredità di una struttura tipica dello stile di vita aristocratico repubblicano: la clientela. Nella corte si affermano i clienti del principe o di qualche altro importante esponente della domus (per esempio, Antonia Minore). Accanto al piccolo Britannico, figlio di Claudio, sedeva a cena, insieme con i figli dei nobili, anche il suo coetaneo Tito, figlio dell’uomo nuovo Vespasiano. Qui vediamo il germe di una nuova gerarchia: a volte, un «amico», di rango inferiore, del principe assume, come singolo, un ruolo e un potere maggiore di un aristocratico. È la gerarchia che Winterling opportunamente definisce «secondo la vicinanza al principe», anche se non dobbiamo dimenticare che essa nasce, attraverso la clientela, dalla stessa logica nobiliare che caratterizza la corte.

Nell’ambito della corte prende forma un nuovo ceto, che però non si pone ancora, in quanto ceto, in concorrenza con quello vetero-nobiliare in termini di potere (un caso a sé, vedremo, è l’inserimento nella gerarchia di corte di liberti e servi imperiali, cioè di esponenti della familia). Lungo tutta l’età giulio-claudia, sono sempre le famiglie della vecchia nobiltà a trovarsi implicate nei giochi della successione, proprio perché connesse alla casa cesarea e per questo continuamente epurate. Minori rischi corrono, fino a un certo punto, come osservano gli stessi autori antichi, gli «uomini nuovi» o, comunque, i «cortigiani» di rango inferiore, proprio perché, nella logica nobiliare, non sono tenuti in considerazione, nel bene e nel male, per una successione. Solo alla fine del principato gentilizio giulio-claudio, che crolla insieme con le altre grandi famiglie nobiliari a esso connesse, in quell’irreversibile crisi di ricambio e di sostanze descritta mirabilmente da Tacito, le nuove gerarchie formatesi ai margini della corte nobiliare avranno un ruolo anche nella nomina del principe. Con i Iulii e con i Claudii si esauriscono grandi famiglie nobiliari gli Aemilii Lepidi, i Iunii Silani e altre ancora. Dopo il nobile Sulpicio Galba, sarà la volta dei Salvii, dei Vitellii, dei Flavii. Queste «famiglie nuove» emergeranno nella devozione alla famiglia cesarea, ai margini degli ambienti di corte. E la corte sopravviverà proprio grazie a individui in grado di acquisire, in termini per il momento più parchi, quello stile di vita e di governo nel quale erano cresciuti.

Integrazione e controllo delle classi superiori, patronato di quelle nuove ed emergenti, sono del resto fra le caratteristiche tipiche del ruolo della corte anche nell’età moderna. Una volta emarginati irreversibilmente gli esponenti residui della nobiltà repubblicana – l’unica nobiltà riconosciuta in età giulio-claudia – le nuove gerarchie si baseranno sulle funzioni pubbliche. Si tratta di un campo aperto al merito e alla mobilità, e in esso si affermerà alla fine anche una certa spersonalizzazione delle relazioni di corte, che sarà un punto cardine della sua funzione statuale. Certo, la nuova aristocrazia si forma, per la maggior parte, o direttamente nella corte o attraverso la sua mediazione (pur con l’apporto ormai di tutto l’Impero e dell’elemento militare): l’unificazione di aristocrazia e corte riguarda un ceto che non ha più la stessa formazione della nobilitas giulio-claudia e che si «burocratizza». Per altro verso, l’aristocrazia senatoria conserva una sua tradizione istituzionale e ideologica che può entrare in contrasto o in concorrenza con la corte e con il principe.

Scena di processione con la corte imperiale. Bassorilievo, marmo, 9 a.C., dall’Ara Pacis (fregio A, lato ovest). Roma, Museo dell’Ara Pacis.

Sviluppi della corte a Roma

Marco Aurelio aggiunge ai componenti della corte, insieme con i parenti e gli amici del principe, gli οἰκεῖοι, da intendersi evidentemente come la familia Caesaris. Nasce da questo nucleo l’apparato amministrativo pubblico esterno alla familia: un apparato burocratico e stipendiato, che, sorto essenzialmente come emanazione della corte, assume presto una vita a sé, una sua struttura che diventa a sua volta modello di organizzazione governativa. In questo senso, si può sostenere che l’aula si pone, di fatto, come mediazione fra l’origine familiare del principato, con il suo apparato domestico, e la nascita di una stabile struttura burocratica «statuale», favorendo il processo di separazione, oltre che fra privato e pubblico, fra amministrazione e politica. L’aula contribuisce così, inaspettatamente, a un’opera di modernizzazione della vita pubblica. In età tardoantica, si riterrà utile selezionare i quadri dei funzionari, dei «competenti», anche attraverso una buona scuola, organizzata, ai livelli superiori, dai poteri «statali», alla quale si affiancheranno scholae specifiche per i diversi addetti all’amministrazione, gli officiales. Già nell’alto principato, tuttavia, la discussione sulla scelta del personale superiore vede affacciarsi la tendenza verso interessi «specialisti» rispetto alla tradizionale preparazione «generalista».

È difficile però, come si accennava, distinguere nettamente, nei vari stadi, fin dove arriva il raggio della corte e a partire da quale punto il personale debba essere invece inteso come apparato amministrativo, con una sua struttura ormai autonoma. Abbiamo visto che Marco Aurelio non include questo personale tra i componenti della corte. Il discrimine più semplice può essere forse individuato, come per l’età moderna, nell’ambito spaziale – all’interno o all’esterno del palazzo – dell’appartenenza alla casa del principe. Per questo sembra comunque difficile parlare di un’istituzionalizzazione della corte sotto il profilo giuridico già nel II secolo.

Nei primi due secoli dell’Impero la corte e la res publica restano in una posizione ambigua e contraddittoria. Da una parte è singolare che la corte si continui e si sviluppi proprio nel principato civilis o «illuminato» del II secolo, dall’altra, in fondo, un processo di istituzionalizzazione poteva attuarsi solo se la corte si allontanava dalla concezione nobiliare, «patrimoniale», originaria del principato. La corte era rimasta, anche con le «famiglie nuove» giunte al vertice dell’Impero, che del resto si erano formate all’interno della corte stessa, un’eredità ineliminabile lasciata dalle casate nobiliari, in quanto apparato «culturale», per il governo del principe. Gli storici «etici» del II secolo, pur critici verso i Giulio-Claudi, non danno una visione solo negativa o polemica dell’aula. Ne sono criticate solo le degenerazioni, la cattiva pratica. Il principe-filosofo Marco Aurelio respinge certo le degenerazioni della corte, ma l’accetta come un’espressione necessaria della gestione del potere: modello di un certo tono e di un certo stile che viene visto ormai caratteristica del governo del principe.

Pure, perché la corte si espandesse e consolidasse nella sua funzione pubblica bisognava che il principe, superata la logica del «primato» nobiliare, non fosse condizionato da troppe remore derivanti dall’etica «privatistica», familiare, e spezzasse ogni legame con la tradizione istituzionale repubblicana. Era necessario cioè che egli si trasformasse apertamente e programmaticamente in un sovrano assoluto, che nella sua altezza sacrale, proprio attraverso la corte, apparisse separato dal resto della società, e che il suo rapporto con le nuove aristocrazie sorte dal suo apparato cortigiano di governo fosse regolato da un rigido e uniforme principio gerarchico.

La storia della corte a Roma nasce dunque, sempre su suggestione delle monarchie orientali, dall’esclusivismo vetero-nobiliare accentratosi attorno alla domus Augusta dalla tarda età augustea a quella giulio-claudia. In quest’ambito la corte utilizza le strutture dell’amministrazione domestica e coopta presenze di natura clientelare, favorendo la crescita di un apparato di governo centrale. Questo apparato, che in progresso di tempo si baserà in buona parte sulle competenze, guarda all’amministrazione dell’Impero e nello stesso tempo pone, più o meno consapevolmente, le basi per la formazione di una nuova aristocrazia, anche politica. Questi due aspetti andavano entrambi al di là della struttura di potere magistratuale della città-stato. Il nuovo strato sociale emergente entra in parte nella corte e sopravvive anzi alla dissoluzione della sua originaria struttura vetero-nobiliare, divenendo il nucleo del governo imperiale e delle nuove gerarchie aristocratiche, politiche e burocratiche. È questa una fase di maturazione e d’istituzionalizzazione della corte che coincide, in laborioso connubio, con la contemporanea ideologia del «principe civile» (civilis princeps), anch’essa lontana dalla concezione patrimoniale e nobiliare del primo principato.

È solo nel IV secolo, dopo il trauma della crisi del III secolo, quando il principe si isola infine nel suo assolutismo «divino» e il sistema di governo dell’Impero viene riorganizzato, che la corte diventa – a rischio peraltro di complicare la propria identità a causa dei propri confini sfumati – un’espressione dello Stato, la cui concezione rivela ormai un grado avanzato di astrazione. Una nuova aristocrazia all’interno della corte, e una nuova gerarchia che si estende anche al suo esterno, entrambe «burocratizzate», fanno da raccordo tra il sovrano e la società esterna.

Roma trasmetterà così alla cultura occidentale moderna, insieme con il modello della città-stato, perpetuatosi negli ordinamenti municipali, quello dell’organizzazione di corte: i due modelli di governo e di selezione del ceto dirigente fra i quali si dibatteranno i sistemi organizzativi della storia d’Europa fino alla costituzione dello «Stato moderno» e degli Stati nazionali.

Tiberio Claudio Germanico Augusto e la moglie Agrippina Minore (a sn) affrontati a Germanico e Agrippina Maggiore (a dx). Cammeo detto “Gemma Claudia”, onice, 49. Wien, Kunsthistorisches Museum.

«Domus Augusta» e «aula»

Nell’età di Traiano, Tacito osserva sconsolato che con il principato di Augusto i nomi delle istituzioni – Senato, magistrati, res publica – pur restando gli stessi di prima, coprivano ormai realtà diverse, svuotate di consistenza (Annales I 3, 7; 7, 3, ecc.). Erano invece attivi nell’alto principato, possiamo aggiungere, nuovi termini e nuove realtà, quali la domus Augusta e l’aula. Quest’ultima indica a volte, fisicamente, la casa del principe, la reggia; altre volte l’aggregazione di persone che gravitano attorno al principe, con il loro stile di vita.

Gli ambienti e gli spazi cui i nuovi termini fanno riferimento non sono definibili in precisi profili giuridici, ma rimandano comunque a concettualizzazioni socialmente sentite e operanti. Cercheremo di percepirne qualche eco.

Anche se per l’età giulio-claudia non possiamo parlare di una società di corte pienamente strutturata, siamo di fronte a un sistema aggregativo e organizzativo nuovo rispetto all’età repubblicana, un sistema che viene a porsi come nuovo centro di potere. Da chi era formata dunque nell’alto principato una corte? Le indicazioni fondamentali ci sono fornite, come abbiamo già detto, da Marco Aurelio. Egli individua l’esistenza di una corte già sotto Augusto, e la descrive in questi termini: «La corte di Augusto: moglie, figlia, nipoti, figliastri, sorella, Agrippa, parenti (συγγενεῖς), personale di famiglia (οἰκεῖοι), amici, Ario (Didimo di Alessandria, filosofo), Mecenate, medici, sacrificatori» (Τὰ εἰς ἑαυτόν 8, 31).

Compongono dunque la corte la domus Augusta col suo personale e con una rete di parentele che confina con i semplici amici; e inoltre vari «intellettuali». Probabilmente per motivi moralistici Marco Aurelio non include le guardie del corpo (che altrove appunto non vede bene nella corte: Τὰ εἰς ἑαυτόν 1, 17) e che sono ricordate invece da Tacito fra la «pompa» dell’aula (Annales I 7, 3).

Il concetto di aula presuppone evidentemente quello di domus. La casa del principe a Roma è, all’inizio del principato, il nucleo del potere. Nella crisi delle istituzioni tardorepubblicane emergono le strutture familiari, che da sempre erano state in concorrenza con esse: Tacito vede nel principato di Augusto l’esito della vittoria del «partito della famiglia giulia» (le Iulianae partes) nelle guerre civili (ibid. I 2, 1). Ora l’ambito familiare si ampliava e si rafforzava. Il concetto di domus indicava, già in età repubblicana, un ambito di parentela più largo rispetto a quello agnatizio (linea maschile) della gens e della familia: si adattava quindi alla costruzione della casata di Augusto, dove mancavano i discendenti maschi e le donne avevano un’importanza decisiva. Da questo punto di vista è opportuno precisare che con l’espressione da noi usata «principato gentilizio» non intendiamo rinviare alla gens come famiglia agnatizia ma, in senso lato, alla concezione nobiliare viva in questa fase: la concezione secondo la quale la generazione successiva poteva vedere la dinastia dei Giuli e dei Claudi come «l’eredità di una sola famiglia» (Tacito, Historiae I 16, 1).

Il concetto di domus Augusta si forma solo nella tarda età augustea. A parte l’evidenza dei gruppi statuari familiari della casa cesarea, promossi anche ufficialmente, e a parte l’imponenza iconografica della famiglia negli spazi pubblici della città (Foro, templi, ecc.), l’idea di domus Augusta ha una sua prima elaborazione, in quanto tutela dell’Impero, con Ovidio, nelle opere dell’esilio. Solo nei primi anni tiberiani, come ci rivelano i nuovi importanti documenti epigrafici rinvenuti in Spagna, la domus Augusta entra nel linguaggio ufficiale (dopo essere entrata in quello simbolico-iconografico): nel 15 d.C., come sappiamo dalla Tabula Siarensis, che conserva il decreto senatorio sugli onori da rendere alla morte di Germanico in missione in Oriente, una statua fu dedicata nel circo Flaminio dal console Norbano Flacco al divo Augusto e alla domus Augusta (Tab. Siar. ll. 9-11). La domus Augusta è ricordata poi nella sentenza del Senato del 20, a conclusione del processo contro Gneo Pisone, legato di Siria, accusato di aver osteggiato, ostacolato e addirittura avvelenato Germanico; in questo documento, essa compare esplicitamente, nella sua inviolabile maestà (maiestas), come depositaria dell’incolumità (salus) della res publica (Senatus consultum de Cn. Pisone patre ll. 33; 160-165). La maiestas attribuita dal Senato alla domus Augusta cancella il suo carattere privato e qualifica la sua funzione pubblica come riferimento e insieme espressione del populus Romanus. La rappresentatività pubblica del principe, protetto dalla lex maiestatis dall’8 a.C. (se non già dal 27), porta con sé quella della domus. Riflettendo sulla precarietà della fortuna, Seneca distingue esplicitamente le privatae domus da quelle publicae, che reggono gli imperi (Nat. quaest. 3, pref. 9).

Ma quali categorie comprendeva il concetto di domus? Nella fitta e aggrovigliata rete di parentele che investono la domus, i suoi confini spesso ci sfuggono e quindi non è precisamente definibile il discrimine tra famiglia del principe e gli amici, che sono spesso legati anche da qualche parentela, magari lontana, alla famiglia. I redattori della citata sentenza sul processo di Gneo Pisone (ll. 142-145) ricordano come Claudia Livia (Livilla), sorella di Germanico, che aveva sposato il figlio di Tiberio, Druso, fosse strettamente imparentata con la nonna Giulia Augusta e con lo zio e suocero Tiberio. Evidentemente essi intendono con domus non i Iulii in senso stretto, ma almeno anche i Claudii. Il concetto di domus pare in definitiva poggiare appunto su parentele più o meno strette o lontane. Svetonio dice di Galba, successo al potere alla morte di Nerone, che «non toccava a nessun livello (nullo gradu) la casa dei Cesari» (Galba 2), riconoscendo così una gradualità di articolazioni, e quindi una gerarchia, nella vicinanza o nell’appartenenza alla domus.

Accanto all’idea di domus Augusta, e verosimilmente in dipendenza da essa, prende dunque forma dall’avanzata età augustea, nell’autocoscienza del principato, il termine e il concetto di aula, riferito sia al palazzo dove risiede il principe, sia alle persone che gravitano con continuità intorno a lui, sia al «clima» che intorno a lui si respira. L’aula appare dunque come un ambiente dotato di una certa stabilità: è lecito rendere questo secondo referente col termine «corte». Pur non essendo una nozione assimilabile al concetto di «pubblico», l’aula assume, accanto alla domus Augusta e alla residenza dei Cesari (il Palatium), un certo aspetto di «ufficialità», soprattutto nel momento in cui richiede un’ammissione formale. Questo termine, riferito al princeps e alla domus, rimanda a una realtà generalmente accettata, che acquisisce un’accezione negativa solo nelle sue espressioni degenerate.

Il più immediato modello di riferimento per l’uso del termine aula a Roma non poteva che essere l’αὐλή delle monarchie orientali, persiana ed ellenistiche. L’αὐλή indicava anzitutto il βασίλειον, la residenza regale, attorno alla quale si sviluppavano le relazioni di amicizia del re. Questi si circondava di aristocratici fiduciari (i φίλοι, «gli amici») che, mentre con questa vicinanza partecipavano in qualche modo al potere, a loro volta riconoscevano e legittimavano la figura centrale e preminente del monarca. Un cerimoniale condiviso formalizzava le reciproche relazioni, contribuendo a creare nel βασίλειον il centro decisionale, con una gerarchia che incideva nell’organizzazione interna del regno. Non è un caso che, insieme con la corte di Augusto, Marco Aurelio ricordi promiscuamente come «tutte simili» le corti di Adriano, di Antonino, di Filippo, di Alessandro, di Creso (la circostanza è significativa anche se la sua visione è orientata da una riflessione moralistica sulla precarietà della condizione umana: Τὰ εἰς ἑαυτόν 10, 27). In modo simile, già Seneca aveva genericamente evocato, con chiara allusione ai propri tempi, atteggiamenti riferiti alla «corte dei re».

Esaminiamo adesso, per quel che riguarda Roma, che cosa gli autori antichi intendessero con il termine aula e quale concettualizzazione esso presupponesse o rispecchiasse. La prima testimonianza di un uso del termine riferibile con molta probabilità all’ambito del princeps si trova in Seneca. Nel dialogo ad Novatum de ira, scritto nei primi anni Quaranta, Seneca riporta come «ben nota» la risposta di un personaggio che aveva passato una lunga vita accanto ai «re»; a chi gli chiedeva come avesse fatto a raggiungere la vecchiaia «a corte» (nell’aula), cosa rarissima, l’anziano rispose «accettando le offese e ringraziando»: un compendio dello stile di vita di un vero cortigiano (II 33, 2). È noto che Seneca indichi spesso con il termine «re» il principe. In ogni caso, pare chiaro che l’aneddoto riguardasse anche l’attualità, sicché nella sua lunga vita il cortigiano potrebbe aver conosciuto l’età di Tiberio. Tacito ricorda (Annales I 7, 3) che subito dopo la morte di Augusto Tiberio cominciò ad agire come se fosse già principe in carica, «tutt’attorno le guardie, le armi e l’altra pompa di corte» (exubiae, arma, cetera aulae). Sarebbe interessante sapere se qui il termine aula si debba a Tacito o alla sua polemica fonte. L’esistenza di una corte attorno al principe nell’età di Tiberio è attestata comunque da una testimonianza che possiamo considerare diretta. Quand’era un ragazzo, Svetonio (Caligola 19, 3) aveva sentito raccontare dal nonno di aver saputo da intimi aulici («intimi cortigiani»), il motivo della costruzione del ponte fra Baia e Pozzuoli da parte di Caligola, all’inizio del suo regno. Con quest’impresa l’imperatore aveva voluto dare una risposta all’astrologo Trasillo, intimo di Tiberio. Durante il regno di Tiberio, Trasillo, secondo i pettegolezzi degli aulici, aveva predetto che Caligola avrebbe fatto più presto ad andare a cavallo da Baia a Pozzuoli che a regnare. Il termine aula, se Svetonio, come sembra dal contesto, riprende il racconto del nonno, risale dunque all’ambito dell’età di Tiberio. Con un termine «tecnico», che in quanto tale sembra risalire all’epoca del suo racconto, Tacito parla di una «corte divisa» (aula discors) nei primi anni del regno di Tiberio, a proposito del favore per Germanico o per Druso, i due figli, adottivo e naturale, del principe (Annales II 43, 5). Morti poi entrambi e caduto infine anche Seiano, Caligola, da parte sua, essendo ormai, come osserva Svetonio, «abbandonata a sé stessa e priva di ogni altro sostegno l’aula», poteva guardare con fiducia alla successione (Caligola 12).

Il concetto di corte, inteso a indicare i frequentatori della casa del Cesare, del palazzo, e comunque della sua residenza (come a Capri), sembra dunque risalire all’età di Tiberio, forse anche agli ultimi anni di Augusto. Marco Aurelio, come s’è visto, fa cominciare la formazione di una corte a Roma già in età augustea, ma dobbiamo riconoscere che la sua affermazione può essere stata distorta dalla lunga storia successiva. A una caratteristica tipica delle corti che ritroviamo anche in età medievale e moderna, richiamano i conviti allietati da buffoni di cui Svetonio (Tiberio 61, 6) leggeva negli Annali di un ex console di età tiberiana. Un nano, fra i buffoni, chiese a Tiberio come mai fosse ancora vivo un tal Paconio, pur accusato di lesa maestà (siamo evidentemente nel periodo tardo del regno, durante il soggiorno di Tiberio a Capri: la corte, come quelle moderne, segue il principe). Sul momento, Tiberio rimproverò quella lingua petulante, ma dopo pochi giorni sollecitò con una lettera il senato perché si affrettasse a giudicare Paconio. L’aneddoto fa comprendere che era presente, già in quell’epoca, la tipica e pericolosa sfrontatezza politica dei buffoni di corte che ci è nota per le corti di altre epoche.

La quasi coincidenza cronologica dell’apparire dei concetti domus Augusta e aula Caesaris conferma la loro relazione: l’aula si forma attorno alla domus Augusta. Bisogna d’altra parte tener conto che in quella stessa età, o poco dopo, matura anche il concetto di Palatium come sede del principe, luogo ormai pubblico del potere. Esso si affianca al referente di Palatium (Palatino) come colle dove si trovano le residenze dei principi. Anche la residenza di Augusto aveva subìto un graduale processo di «pubblicizzazione»; le tappe sono note: l’occasione dell’elezione a pontefice massimo nel 12 a.C.; la ricostruzione della casa, con l’apporto di una sottoscrizione pubblica, in seguito a un incendio nel 3 d.C. La residenza imperiale per il resto si amplia con altre domus, come quelle di Livia e di Germanico, prendendo nome dal principe in carica, così la domus Tiberiana e poi la domus Flavia. Con gli ampliamenti di Caligola, di Claudio, di Nerone, che si espande nell’Esquilino con la domus Aurea, e infine di Domiziano, che ritorna al Palatino come centro, si forma un complesso unitario che supera di gran lunga l’esperienza delle grandi case aristocratiche repubblicane da cui anche le domus dei principi dipendevano. Il Palatino diventa sinonimo del «palazzo» del principe. Nel 69, esso rappresenta la sede legittimante dei principi in contesa fra di loro: nel momento in cui Vitellio si accinge a lasciare il potere, di fronte alle truppe di Vespasiano, per ritirarsi nella casa del fratello, i suoi seguaci gli sbarrano la via verso quei «Penati privati», cioè una casa dai culti privati, premendo perché torni al Palatium (Tacito, Historiae III 68, 3).

Il Palatium è naturalmente la sede privilegiata, diciamo lo spazio proprio dell’aula. Negli autori aula e Palatium ricorrono spesso come sinonimi ad indicare la sede del principe. Ma, nel caso dell’aula come aggregazione di persone, come si è visto, il rapporto con la funzione pubblica è più complesso, ed è anche difficile definire l’ambito che la delimita.

Apoteosi di Augusto e allegoria della Pax Augusti (“Grand Camée de France”). Cammeo, 23 d.C. ca. Cabinet des Médailles.

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Riferimenti bibliografici (con aggiornamenti):

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Cornelio Tacito

di CONTE G.B., PIANEZZOLA E., Lezioni di letteratura latina. Corso integrato. 3. L’età imperiale, Milano 2010, 400-413.

Tacito è giustamente considerato uno dei più importanti storici dell’antichità. Nelle sue opere egli si fa interprete dello stato d’animo dei suoi contemporanei nei confronti dell’Impero, raccontando, con toni tragici e insieme solenni, le pagine più cupe della dittatura imperiale, sotto Nerone e Domiziano. Nostalgico della libertas repubblicana, Tacito è tuttavia convinto della necessità dell’Impero e plaude l’operato di quei principes che, come Nerva e Traiano, sono riusciti a conciliare principato e libertà. La storia di Tacito non è però solamente cronaca o analisi oggettiva degli avvenimenti, ma è una storia viva e pulsante di passioni, una storia animata da personaggi tragici che si muovono su un palcoscenico fatto di intrighi, tradimenti, paura ed emozioni violente.

Frammento di iscrizione sepolcrale di Cornelio Tacito (CIL VI 41106). Tabula, marmo, 117 d.C. c. da Villa Patrizi, sulla Via Nomentana. Roma, Museo Nazionale Romano delle Terme di Diocleziano.

La vita

Publio (o Gaio?) Cornelio Tacito nacque intorno al 55, secondo alcune fonti a Interamna (od. Terni), ma più probabilmente nella Gallia Narbonensis, da una famiglia forse di condizione equestre. Studiò a Roma e nel 78 sposò la figlia di Gneo Giulio Agricola, autorevole statista e comandante militare; anche grazie all’aiuto di quest’ultimo, Tacito iniziò la carriera politica sotto Vespasiano e la proseguì sotto Tito e Domiziano.

Dopo essere stato praetor nell’88 (nello stesso anno è attestata la sua presenza nel collegio dei quindecemviri sacris faciundis, uno dei maggiori collegi sacerdotali), Tacito fu per qualche anno allontanato da Roma, probabilmente per un incarico in Gallia o in Germania. Nel 97, sotto Nerva, fu consul suffectus: oratore già famoso, pronunciò l’elogio funebre di Virginio Rufo, il console morto durante l’anno di carica, al quale era subentrato. Uno o due anni dopo, sotto il principato di Traiano, sostenne insieme a Plinio il Giovane – al quale lo legava una salda amicizia – l’accusa di corruzione mossa dai provinciali d’Africa contro l’ex governatore Mario Prisco: dopo qualche indugio, il processo ebbe termine nel 100, con la condanna dell’accusato all’esilio. In seguito, Tacito fu proconsole in Asia nel 112 o 113. Morì probabilmente intorno al 117.

Karl Sterrer, Tacito. Statua, marmo 1900. Wien, Parlamentsgebäude.

Le opere

Le opere conosciute di Tacito sono il De vita Iulii Agricolae, pubblicato nel 98; il De origine et situ Germanorum (più comunemente noto come Germania), probabilmente dello stesso anno; il Dialogus de oratoribus, di poco successivo al 100 (è dedicato a Fabio Giusto, console nel 102); le Historiae, in dodici o quattordici libri, composte fra il 100 e il 110; gli Annales (o Ab excessu divi Augusti), in sedici o diciotto libri, composti successivamente alle Historiae e forse rimasti incompleti per la scomparsa dell’autore.

Delle Historiae ci sono pervenuti solo i libri I-IV, parte del libro V e alcuni frammenti; degli Annales i libri I-IV, un’esigua porzione del libro V, il libro VI, parte del libro XI, i libri XII-XV e parte del libro XVI. È molto discusso il problema del numero rispettivo dei libri che componevano le Historiae e gli Annales: alcuni pensano a dodici e diciotto libri, altri a quattordici e sedici. Questa seconda ipotesi ha il conforto della numerazione del manoscritto cosiddetto “Mediceo II”; ma il problema è complicato dal fatto che le due opere, per quanto pubblicate separatamente, cominciarono ben presto a circolare in un’edizione congiunta di trenta libri, in cui gli Annales (con inversione della cronologia della composizione) precedevano le Historiae, formando una narrazione continua della storia romana dalla morte di Ottaviano a quella di Domiziano.

Dalle Historiae, come dall’Agricola e dal Dialogus (nonché da varie epistole di Plinio il Giovane) è possibile ricavare alcune notizie fondamentali sulla vita e sulla carriera pubblica di Tacito.

 

Il cosiddetto «Arringatore». Statua, bronzo, fine II-inizi I sec. a.C., da Perugia. Firenze, Museo Archeologico Nazionale.

 

Il Dialogus de oratoribus: qual è la causa della decadenza dell’oratoria?

Per alcune caratteristiche intrinseche dell’opera, è tradizione iniziare ogni trattazione di Tacito con il Dialogus de oratoribus, nonostante non si conosca con precisione la data di composizione. È noto, tuttavia, che il testo è ambientato negli anni 75-77 (dall’opera si ricavano in proposito indicazioni parzialmente contraddittorie). Riallacciandosi alla tradizione dei dialogi ciceroniani su argomenti filosofici e retorici, Tacito riferisce qui una discussione che si immagina avvenuta in casa di Curiazio Materno, retore e tragediografo, fra lo stesso Curiazio, Marco Apro, Vipstano Messalla e Giulio Secondo, e alla quale Tacito dice di aver assistito di persona in gioventù. Perché all’inizio della conversazione Apro ha rimproverato Materno di trascurare l’eloquenza in favore della poesia drammatica, in un primo momento si contrappongono i discorsi di Apro e Materno, in difesa rispettivamente dell’eloquenza e della poesia. L’andamento del dibattito subisce una svolta con l’arrivo di Messalla, spostandosi sul tema della decadenza dell’oratoria.

Messalla indica le cause di questo fenomeno nel deterioramento dell’educazione, sia familiare sia scolastica, del futuro oratore, non più accurata come nei tempi antichi: i maestri sono impreparati, e una vacua retorica si sostituisce spesso alla cultura generale. Dopo una sezione parzialmente lacunosa, il dialogo si conclude con un discorso di Materno, evidentemente portavoce di Tacito, il quale sostiene che una grande oratoria forse era possibile solo con la libertà, o piuttosto con l’anarchia, che regnava al tempo della repubblica, nel fervore dei tumulti e dei conflitti civili; diviene anacronistica, e sostanzialmente non più praticabile, in una società tranquilla e ordinata come quella conseguente all’instaurazione dell’Impero. La pace che esso garantisce deve essere accettata senza eccessivi rimpianti per un passato che pure forniva un terreno più favorevole al rigoglio delle lettere e alla fioritura delle grandi personalità.

L’opinione attribuita a Materno rappresenta una costante del pensiero di Tacito: alla base di tutta la sua opera sta infatti l’accettazione dell’indiscutibile necessità dell’Impero come unica forza in grado di salvare la res publica dal caos delle guerre civili.

Il principato restringe lo spazio per l’oratore e l’uomo politico, ma a esso non esistono alternative. Questo non significa che Tacito accetti gioiosamente il regime imperiale, né che all’interno di questo spazio ristretto egli non indichi la residua possibilità di effettuare scelte più o meno dignitose, più o meno utili alla res publica. Era il tema da lui già affrontato nella biografia di Agricola, cronologicamente anteriore).

Si è già accennato ai dubbi sulla reale datazione del Dialogus, che si suole considerare la prima delle opere di Tacito: varie caratteristica del testo, infatti, ne fanno un caso isolato rispetto al corpus dello storico. Questo “isolamento” è tale che l’autenticità del Dialogus medesimo – tramandato nella tradizione manoscritta insieme all’Agricola e alla Germania – è stata contestata fin dal XVI secolo, soprattutto per ragioni di stile, da filologi anche di altissima levatura; mentre autorevoli perplessità sulla paternità tacitiana permangono anche fra gli studiosi moderni.

In effetti, il periodare del Dialogus ricorda molto più da vicino il modello neociceroniano, forbito ma non prolisso, cui si ispirava l’insegnamento della scuola di Quintiliano, piuttosto che la severa e asimmetrica inconcinnitas tipica delle maggiori opere storiografiche di Tacito. Anche fra i sostenitori dell’autenticità ha perciò riscosso credito notevole la tesi di chi suppone che il Dialogus sia il prodotto giovanile di un Tacito ancora legato alle predilezioni classicheggianti della scuola quintilianea, da collocarsi negli anni fra il 75 e l’80: secondo questa ipotesi, anche se composto sotto il principato di Tito, il Dialogus sarebbe stato pubblicato solo molto più tardi, dopo la morte di Domiziano, e la dedica a Fabio Giusto si riferirebbe ovviamente all’epoca della pubblicazione. Ma è più probabile che l’insolita “classicità” dello stile sia da spiegarsi con l’appartenenza del Dialogus al genere retorico, per il quale la struttura, la lingua e lo stile delle opere retoriche di Cicerone costituivano ormai un modello canonico.

Due personaggi togati (forse magistrati). Statuetta, bronzo, I sec. d.C. Getty Museum.

 

Agricola, un esempio di resistenza al regime

Verso gli inizi del principato di Traiano, Tacito approfittò del ripristino dell’atmosfera di libertà dopo la tirannide domizianea per pubblicare il suo primo opuscolo storico, che tramanda ai posteri la memoria del suocero Giulio Agricola, leale funzionario imperiale e principale artefice della conquista di gran parte della Britannia sotto Domiziano. Per il tono qua e là apertamente encomiastico l’Agricola si richiama in parte allo stile delle laudationes funebri; dopo un rapido riepilogo della carriera del protagonista prima dell’incarico in Britannia, l’opera si incentra principalmente sul tema della conquista dell’isola, lasciando un certo spazio a digressioni geografiche ed etnografiche, che derivano da appunti e ricordi del suocero, ma in parte anche dalle notizie sui luoghi contenuti nei Commentarii di Cesare. Proprio a causa di queste digressioni, l’argomento dell’Agricola è sembrato talora eccedere i limiti di una semplice biografia. In realtà, l’autore non perde mai il contatto con il proprio personaggio principale: la Britannia è soprattutto il campo in cui si dispiegano la virtus di Agricola, il teatro delle sue brillanti imprese.

Nell’elogiare il carattere del suocero, Tacito mette in rilievo come egli, governatore della Britannia e capo di un esercito in guerra, avesse saputo servire la res publica con fedeltà, onestà e competenza anche sotto un pessimo princeps come Domiziano (le critiche a quest’ultimo e al suo crudele regime di spionaggio e repressione sono più di una volta esplicite da parte dell’autore). Così, per esempio, Tacito afferma (Agr. 42, 6): Sciant, quibus moris est inlicita mirari, posse etiam sub malis principibus magnos viros esse, obsequiumque ac modestiam, si industria ac vigor adsint, eo laudis excedere, quo plerique per abrupta, sed in nullum rei publicae usum ‹nisi› ambitiosa morte inclaruerunt [«Sappiano, quanti hanno per abitudine di ammirare i gesti di ribellione, che si può essere grandi uomini anche sotto cattivi principi, e che l’obbedienza e la moderazione, se in presenza di operosità e vigore, si elevano a quella gloria della quale i più si fregiarono attraverso vie pericolose, ma senza alcuna utilità per lo Stato, con una morte ambiziosa»].

Roma, Biblioteca Nazionale Centrale. Codex Aesinas Latinus 8 = Codex Vittorio Emanuele 1631 (IX sec.), f. 106 r, contenente l’incipit del De vita Iulii Agricolae.

Alla fine, anche Agricola, che non aveva il gusto dell’opposizione fine a se stessa, ma non per questo era disposto a macchiarsi di servilismo, era caduto in disgrazia presso Domiziano; ma questo avvenne non senza che egli avesse dato prova di quanto si potesse operare fecondamente in favore della comunità, prima che lo scontro non fosse più evitabile. Attraversando incorrotto la corruzione altrui, Agricola aveva saputo morire silenziosamente – e sulle reali cause della sua scomparsa, naturale o voluta dall’imperatore, Tacito stende un velo d’ombra –, senza andare in cerca della gloria di un martirio ostentato, la ambitiosa mors (come il suicidio degli stoici) che Tacito condanna in quanto di nessuna utilità alla res publica.

Gneo Giulio Agricola. Statua, marmo, 1894. Bath (Aquae Sulis), Terme Romane.

L’esempio luminoso di Agricola indica come, senza obbligatoriamente correre gravi pericoli, anche sotto la tirannide sia possibile seguire la via mediana fra quelle che un passo famoso dell’opera (Agr. 4, 20, 7) definisce deforme obsequium e abrupta contumacia. L’elogio di un personaggio emblematico come Agricola si traduce in un’apologia della parte “sana” della classe dirigente romana, formata da uomini che, privi del gusto del martirio, avevano collaborato con i principi della gens Flavia, contribuendo validamente all’elaborazione delle leggi, all’amministrazione delle province, all’ampliamento dei confini e alla difesa delle frontiere; uomini che, una volta recuperata la “libertà”, non avrebbero ritenuto giustificata un’indiscriminata condanna del proprio operato e del servizio da essi prestato allo Stato.

L’Agricola si situa, come si è accennato, al punto di intersezioni tra diversi generi letterari: si tratta di un panegirico sviluppato in biografia, di una laudatio funebris inframmezzata, ampliata e integrata con materiali storici ed etnografici. L’opuscolo risente quindi di modi stilistici diversi, che contribuiscono al suo carattere composito. Nell’esordio, nei discorsi, e soprattutto nell’eloquente “perorazione” finale è notevolissima l’influenza di Cicerone (può darsi che queste sezioni diano anche un’immagine di quella che dovette essere l’eloquenza tacitiana); nelle parti narrative ed etnografiche si avverte, invece, la presenza di due diversi modelli di stile storiografico, quello di impronta sallustiana e quello di stampo liviano.

La partenza di Domiziano per la guerra sarmatica. Rilievo della Cancelleria, marmo, 92 d.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

 

L’idealizzazione dei barbari: la Germania

Gli interessi etnografici, già largamente presenti nell’Agricola, sono al centro della Germania, un’opera dedicata interamente alla descrizione del territorio omonimo e dei suoi abitanti, che rappresentavano una costante minaccia per l’Impero. Quest’opera costituisce per i moderni praticamente l’unica testimonianza (a parte gli excursus più o meno ampi contenuti in altre opere storiche) di una letteratura specificamente etnografica, che a Roma doveva godere di una certa fortuna: sono note, per esempio, delle monografie di Seneca sull’India e sull’Egitto. Ma gli interessi di questo genere erano già stati forti nella cultura ellenistica (basti pensare a Posidonio di Apamea); a Roma, si possono far risalire al De bello Gallico di Cesare, che aveva tratteggiato anche il sistema di vita dei Germani. Successivamente, storici come Sallustio e Livio erano probabilmente ricorsi, in sezioni perdute delle loro opere, ad ampie digressioni etnografiche, che introducevano un elemento di variazione nelle lunghe esposizioni di avvenimenti, e contemporaneamente permettevano di fare mostra di dottrina e versatilità: un excursus sulla Germania doveva trovarsi nel III libro delle Historiae sallustiane, mentre Livio può averne trattato verso la fine del suo lavoro, occupandosi delle campagne di Druso oltre il Reno.

Ritratto virile di un germanico con il caratteristico Suebenknoten (‘nodo suebo’). Testa, marmo, I-II sec. d.C. da Somzée (Belgio). Bruxelles, Musées royaux des Beaux-Arts de Belgique.

È stato sottolineato come le notizie etnografiche contenute nella Germania non derivino da osservazione diretta, ma quasi esclusivamente da fonti scritte: per quanto Tacito mostri di averne consultate diverse, si è suggerito che egli possa aver tratto la maggior parte della documentazione dai Bella Germaniae di Plinio il Vecchio, che aveva prestato servizio nelle armate del Reno e aveva preso parte a spedizioni oltre il fiume, nelle terre dei Germani non ancora sottomessi a Roma. Tacito sembra aver seguito la sua fonte con fedeltà, accontentandosi di migliorarne e impreziosirne lo stile (il colorito sallustiano è frequente nella Germania, e piuttosto numerose sono le punte “epigrammatiche”) e di aggiungere pochi particolari per ammodernare l’opera (le notizie di Plinio risalivano a circa quarant’anni addietro); ciononostante, rimangono alcune discrepanze, poiché la Germania sembra descrivere abbastanza spesso la situazione come si presentava prima che gli imperatori flavi avanzassero oltre il Reno e oltre il Danubio.

Gli intenti di Tacito nella Germania sono stati a lungo oggetto di discussione fra gli studiosi: risale molto addietro l’ipotesi – ben fondata, certo, ma bisognosa di alcune precisazioni – che vede nell’opuscolo l’esaltazione di una civiltà ingenua e primordiale, non ancora corrotta dai vizi raffinati di una società decadente. In filigrana, l’opera sembra percorsa da una vena di implicita contrapposizione dei barbari, ricchi di energie ancora sane e fresche, ai Romani.

Un germanico in atto di supplica. Statuetta, bronzo, I-II sec. Paris, Bibliothèque nationale de France.

Non si dovrà, comunque, insistere eccessivamente sull’idealizzazione delle popolazioni selvagge, un tema pure consueto alla letteratura etnografica, che risentiva dell’insoddisfazione per il decadimento e la corruzione della vita urbana: ponendo l’accento sull’indomita forza e sul valore guerriero dei Germani, più che tesserne un elogio Tacito ha probabilmente inteso sottolineare la loro pericolosità per l’Impero. La debolezza e la frivolezza della società romana del tempo dovevano allarmare lo storico senatore che allora muoveva i suoi primi passi: i Germani forti, liberi e numerosi, potevano rappresentare una seria minaccia per un sistema politico basato sul servilismo e sulla corruzione. Non stupisce tuttavia che l’autore si addentri anche in una lunga enumerazione dei difetti di un popolo che gli appare come essenzialmente barbarico: l’indolenza, la passione per il gioco, la tendenza all’ubriachezza e alle risse, l’innata crudeltà.

Roma, Biblioteca Nazionale Centrale. Codex Aesinas Latinus 8 = Codex Vittorio Emanuele 1631 (IX sec.), f. 134 r, contenente l’incipit del De origine et moribus [situ] Germanorum (facsimile).
Fermo restando che la Germania è fondamentalmente un breve trattato etno-geografico e non un libello di intervento politico, è possibile metterne in connessione alcune caratteristiche con un evento all’incirca contemporaneo alla composizione: la presenza sul Reno di Traiano con un forte esercito, a quanto pare determinato alla guerra e alla conquista. Nel seguito della sua opera storica, Tacito continuerà comunque a guardare con particolare interesse alla frontiera con i Germani (più che a quella con i Parti), dimostrando, per esempio, ammirazione, negli Annales, per la politica aggressiva di Germanico. In questo interesse la convinzione della pericolosità delle popolazioni settentrionali si intreccia con l’altra, complementare, che in quella direzione sono aperte le maggiori possibilità di ulteriore espansione dell’Impero: la permanenza dell’interesse è conferma del carattere non episodico delle riflessioni e delle preoccupazioni da cui è scaturito il trattatello etnografico.

 

Le Historiae: gli anni cupi del principato

Il progetto di una vasta opera storica era presente già nell’Agricola, in cui, in uno dei capitoli iniziali, Tacito esternava l’intenzione di narrare gli anni della tirannide domizianea, e poi la libertà recuperata sotto i governi di Nerva e di Traiano. Nelle Historiae il progetto appare modificato: mentre la parte che è pervenuta contiene il racconto degli eventi degli anni 69-70, dal principato di Galba fino alla rivolta giudaica, l’opera nel suo complesso doveva estendersi fino al 96, l’anno della morte di Domiziano; nel proemio, Tacito afferma espressamente di riservare invece per la vecchiaia la trattazione dei principati di Nerva e di Traiano, «materia più ricca e meno rischiosa». Le Historiae affrontavano perciò un periodo cupo, sconvolto da varie guerre civili e concluso da una lunga tirannide.

Servio Sulpicio Galba. Busto, marmo. Stockholm – Antikengalerie.

Il libro I, in ossequio alla tradizione annalistica romana, si occupa degli avvenimenti a partire dal 1° gennaio 69. Il libro si apre con la narrazione del breve governo di Galba; seguono l’uccisione di quest’ultimo e l’elezione all’imperium di Otone. In Germania, intanto, le legioni renane acclamano imperator Vitellio. I libri II e III raccontano della lotta fra Otone e Vitellio, conclusasi con la sconfitta e il suicidio del primo, e quella successiva fra Vitellio e Vespasiano. Acclamato imperator dalle legioni di varie province, Vespasiano lascia in Oriente il figlio Tito ad affrontare i Giudei, e, spostatosi in Aegyptus, fa dirigere le sue truppe su Roma, dove si è rifugiato Vitellio, che viene catturato e ucciso. Il libro IV tratta del sacco di Roma a opera dei soldati flaviani, e dei tumulti contro Vespasiano scoppiati in Gallia e in Germania. Il libro V, che è pervenuto mutilo, arrestandosi al capitolo 26, dopo un excursus sulla Iudaea e delle imprese di Tito, passa a raccontare gli avvenimenti di Germania e i primi segni di cedimento dei ribelli.

L’anno con il quale si apre la narrazione delle Historiae, dunque, aveva visto succedersi ben quattro imperatori (Galba, Otone, Vitellio e Vespasiano). Era anche stato divulgato, come sottolinea Tacito, un arcanum imperii: il princeps poteva essere eletto altrove che a Roma, poiché la sua forza si basava principalmente sull’appoggio delle legioni di stanza in luoghi più o meno remoti. Vitellio era stato portato al potere dalle armate di Germania, Vespasiano da quelle orientali soprattutto. Otone, fatto princeps a Roma, contava sul sostegno militare dei pretoriani. L’autore scriveva le Historiae a oltre trent’anni dal 69, ma la ricostruzione degli avvenimenti avveniva, con ogni probabilità, nel vivo del dibattito politico che aveva accompagnato l’ascesa al potere di Traiano.

Au. Vitellio Germanico Augusto. Busto, marmo, 100-150. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

È stato notato un certo parallelismo fra questa e gli eventi del 69; il predecessore di Traiano, Nerva, si era trovato come Galba ad affrontare una rivolta di pretoriani che aveva fatto traballare le fondamenta del suo potere; come Galba, aveva designato per adozione un successore. L’analogia si ferma a questo punto: Galba – che Tacito descrive come un vecchio senza energie, rovinato da consiglieri sciagurati, inutilmente e anacronisticamente atteggiato nelle pose della gravitas repubblicana – si era scelto come successore Pisone, un nobile di antico stampo, dai costumi severi, poco adatto, per il suo rigorismo “arcaizzante”, a conciliarsi la benevolenza della truppa: sostanzialmente un fantoccio, vittima dei suoi illustri natali, dell’inettitudine di Galba, e delle criminali ambizioni di Otone; Nerva aveva invece consolidato il proprio potere associandosi nel governo Traiano, un capo militare autorevole, comandante dell’armata della Germania superior. Non si può pertanto condividere l’interpretazione secondo la quale Tacito avrebbe visto in Galba uno sfortunato precursore della conciliazione del principato con la libertà, poi realizzata da Nerva e Traiano. Probabilmente l’autore aveva preso parte al consilium imperiale nel quale fu decisa l’adozione di Traiano: in lui sarebbero riemerse, da parte di membri tradizionalisti dell’aristocrazia senatoria, posizioni di un anacronismo non dissimile da quello di Galba, ma il consilium seppe evidentemente respingerle.

Con il discorso fatto pronunciare a Galba nel I libro delle Historiae, in occasione dell’adozione di Pisone, lo storico ha inteso chiarire, quasi per contrasto, attraverso le stesse parole dell’imperatore, aspetti significativi della sua posizione ideologico-politica. Tacito ha voluto mostrare in Galba il divorzio ormai consumato fra il modello di comportamento rigorosamente ispirato al mos maiorum – un modello ormai votato al vuoto ossequio delle forme, e noncurante di ogni realismo politico – e la reale capacità di dominare e controllare gli eventi. Ispirandosi a quel modello, Galba non poteva fare una scelta in grado di garantire davvero la stabilità della res publica: ne seguì, perciò, un periodo di sanguinosi conflitti civili.

M. Ulpio Traiano. Busto, marmo, inizi II sec. da Olbia. Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.

L’adozione di Traiano – peraltro un comandante di vecchio stampo, che sapeva rendersi cari i propri uomini senza rinunciare alla severità e al decoro della propria carica – placò invece i tumulti fra le legioni, e pose fine a ogni rivalità. Traiano si rivelò capace di mantenere l’unità degli eserciti, e di controllarli senza farne gli arbitri dell’Impero. Può darsi che Tacito, con il pessimistico realismo che lo contraddistingueva, non condividesse in toto l’entusiastica soddisfazione dimostrata da Plinio il Giovane nel Panegyricus a proposito della soluzione che scelta di Traiano aveva assicurato alla crisi; ma certamente avvertiva come improrogabile la necessità di sanare la frattura, drammaticamente verificatasi nel 69, fra le virtutes del modello etico antico e la capacità di instaurare un reale rapporto con le masse militari.

Come si è detto, dunque, Tacito era convinto che solo il principato avrebbe potuto garantire la pace, la fedeltà degli eserciti e la coesione dell’Impero; già il proemio delle Historiae, accennando all’ascesa di Ottaviano, sottolinea come dopo la battaglia di Azio la concentrazione del potere nelle mani di una sola persona si fosse rivelata indispensabile per il mantenimento della pace. Naturalmente il princeps non avrebbe dovuto essere uno scellerato tiranno come Domiziano né un completo inetto come Galba. È famoso, a questo proposito, il sarcastico epigramma in cui lo storico “riepiloga” quest’ultimo personaggio: Et omnium consensu capax imperii nisi imperasset («E, a giudizio di tutti, degno dell’imperium, se non lo avesse rivestito», Hist. I 49). Al contrario, l’imperatore perfetto avrebbe dovuto assommare in sé le qualità necessarie per reggere la compagine imperiale e contemporaneamente garantire i residui del prestigio e della dignità del ceto dirigente senatorio. Tacito additava, perciò, l’unica soluzione praticabile nel principato “moderato” degli imperatori d’adozione.

Lo stile narrativo delle Historiae, coerentemente con il repentino susseguirsi degli avvenimenti, ha un ritmo vario e veloce, che non concede all’azione di affievolirsi o di ristagnare. Questo ha implicato, da parte di Tacito, un lavoro di condensazione rispetto ai dati forniti dalle fonti: a volte qualcosa è omesso, ma più spesso Tacito sa conferire efficacia drammatica alla propria narrazione, suddividendo il racconto in singole scene. I tre tentativi di abdicazione di Vitellio, noti attraverso Svetonio, sono condensati in un solo episodio, drammatico e pittoresco, nel quale Tacito ha saputo profondere tutte le risorse del colore e della suggestione.

Scena di sacrificio (suovetaurilia). Affresco, ante 79 d.C. dall’agro pompeiano, loc. Moregine, edificio B.

Tacito è maestro nella descrizione delle masse, spesso incalzante e spaventosa: sa essere altrettanto efficace nel dipingere la folla tranquilla, il suo insorgere minaccioso o il suo disperdersi in preda al panico; dalla descrizione della folla traspare, in genere, il timore misto a disprezzo del senatore per le turbolenze dei soldati e della feccia della capitale. Ma un disprezzo quasi analogo lo storico aristocratico ostenta per i suoi pari, i componenti del Senato, il cui comportamento è descritto con malizia sottile che insiste sul contrasto tra “facciata” e realtà inconfessabile dei sentimenti: l’adulazione manifesta verso il princeps cela l’odio segretamente covato nei suoi confronti, la sollecitudine per il bene pubblico occulta gli intrighi e l’ambizione.

Le Historiae raccontano per la maggior parte fatti di violenza, di prevaricazione e di ingiustizia: di conseguenza, la natura umana è dipinta in toni costantemente cupi. Ciò non toglie che Tacito sappia tratteggiare in modo abile e vario i caratteri dei propri personaggi, alternando notazioni brevi e incisive a ritratti compiuti, come quello di Muciano, il governatore della Syria, che giocò un ruolo importante nell’ascesa di Vespasiano: Muciano è descritto secondo la tipologia del personaggio “paradossale”, cioè come un miscuglio di lussuria e operosità, di cordialità e arroganza; eccellente nelle attività pubbliche, ma con una reputazione ripugnante nella vita privata.

Statua di personaggio loricato. Marmo pario, II sec. d.C. dalla Basilica Iulia. Corinto, Museo Archeologico Nazionale.

Una cura particolare Tacito pare aver dedicato alla costruzione del personaggio di Otone: lo storico insiste sulla consapevolezza della sua subalternità nei confronti degli strati inferiori urbani e militari, condensata in una fase epigrammatica: Omnia serviliter pro dominatione («Si comportava in ogni cosa servilmente per conquistare il potere», Hist. I 36).

D’altra parte, Tacito mostra come proprio questo cosciente servilismo di Otone nei confronti della massa sia condizione della sua energia demagogica, della sua perversa capacità di incidere nelle cose, che lo situano su un piano diverso, anche se moralmente non più pregevole rispetto a quello di un Galba o di un Pisone. Come certi personaggi sallustiani (in primo luogo, Catilina), Otone è dominato da una virtus inquieta, che all’inizio della sua vicenda politica lo spinge a deliberare, in un monologo quasi da eroe tragico, una scalata al potere decisa a non arrestarsi di fronte al crimine o all’infamia. Ma Otone è, sotto certi aspetti, anche un personaggio “in evoluzione”: nella sua figura sembra intervenire uno scarto quando, ormai certo della disfatta definitiva da parte dei vitelliani, decide di darsi una morte gloriosa per risparmiare a Roma un nuovo spargimento di sangue.

La tecnica tacitiana del ritratto mostra numerose affinità con Sallustio: Tacito affida alla inconcinnitas, alla sintassi disarticolata, alle strutture stilistiche slegate per incidere nel profondo dei personaggi. Ma lo stile “abrupto” di Sallustio esercita il suo influsso su tutta la narrazione tacitiana, che tuttavia ha saputo di svilupparlo fino a determinare un vero e proprio salto di qualità, accentuando la tensione fra gravitas arcaizzante e pathos drammatico, arricchendo il colorito poetico, moltiplicando le iuncturae inattese. Tacito ama le ellissi di verbi e di congiunzioni; ricorre a costrutti irregolari e a frequenti cambi di soggetto per conferire varietà e movimento alla narrazione. Quando una frase sembra terminata, spesso la prolunga con una “coda” a sorpresa, la quale aggiunge un commento “epigrammatico” o comunque modifica, di preferenza per via allusiva o indiretta, quanto affermato subito prima.

 

Gli Annales: alle radici del principato

Nemmeno nell’ultima fase della sua attività Tacito mantenne il proposito di narrare la storia dei principati di Nerva e di Traiano. Terminate le Historiae, la sua indagine si rivolse ancora più addietro ed egli, negli Annales, intraprese il racconto della più antica storia del principato, dalla morte di Augusto a quella di Nerone. La data scelta dall’autore per l’inizio dell’opera ha fatto supporre che intendesse farne una prosecuzione di quella liviana (probabilmente il progetto iniziale di Livio, interrotto dalla morte, prevedeva 150 libri, i quali dovevano arrivare a trattare l’intero principato augusteo: nulla vieta di supporre che, nella prefazione a qualche libro andato perduto, ma noto a Tacito, il Patavino affermasse esplicitamente tale sua intenzione). In effetti, il titolo presente nei manoscritti tacitiani (Ab excessu divi Augusti) sembra richiamare quello liviano Ab Urbe condita.

Nerva nei panni di Giove. Statua, marmo, I sec. d.C. Copenhagen, Ny Carlsberg Glyptotek.

Degli Annales si sono conservati i libri I-IV, un frammento del V e parte del VI, comprendenti il racconto degli avvenimenti dalla scomparsa di Ottaviano (14 d.C.) a quella di Tiberio (37 d.C.), con una lacuna di un paio d’anni fra il 29 e il 31; e i libri XI-XVI, con il racconto dei principati di Claudio (a partire dall’anno 47) e di Nerone (il libro XI è lacunoso e il XVI è mutilo, arrestandosi agli eventi del 66).

I libri I-V seguono in parallelo le vicende interne ed esterne di Roma: nella capitale il progressivo manifestarsi del carattere chiuso, sospettoso e ombroso di Tiberio, il dilagare dei processi per lesa maestà, l’ascesa e poi la caduta della sinistra figura di Seiano (ma manca la parte in cui ne era narrata la fine), il dilagare del regime nella crudeltà e nella dissolutezza, fino alla morte di Tiberio. All’esterno, i successi di Germanico in Germania, i suoi contrasti con Pisone, la morte in Oriente, per la quale Pisone è sospettato di averlo avvelenato; e avvenimenti minori, come la vittoriosa guerra in Africa contro il numida Tacfarinate, e il soffocamento della rivolta della popolazione germanica dei Frisi.

I libri XI-XII narrano gli eventi degli anni 47-54, la seconda metà del principato di Claudio, il quale è rappresentato come un imbelle che, dopo la scomparsa della prima moglie, Messalina, cade nelle mani del potente liberto Narcisso e della seconda moglie, Agrippina, che, alla fine, fa avvelenare il marito e mette sul trono Nerone, il figlio avuto da un precedente matrimonio.

Agrippina Minore. Statua, marmo, 14-54, dal foro di Veleia.

Nei libri XIII-XVI è narrato il regime di Nerone: dapprima sul princeps si alternano le diverse influenze della madre, del filosofo Seneca e del praefectus praetorio Burro (questi due operano congiuntamente in vista di un’improbabile conciliazione del principato con la libertà). Successivamente l’imperatore acquista indipendenza, ma cade sempre più preda dei propri istinti depravati. Mentre i comandanti romani (primo fra tutti Corbulone) riportano notevoli successi nelle regioni di confine, Nerone instaura un regime da monarca ellenistico, e si dedica soprattutto ai giochi e agli spettacoli, perseverando tuttavia nel disegno di sbarazzarsi di tutti coloro che potrebbero porre un freno alle sue bizzarrie e stravaganze. Dopo un primo tentativo fallito, riesce a far uccidere la madre Agrippina: tre anni dopo, nel 62, Tigellino, un personaggio detestabile, succede a Burro al comando della guardia pretoriana, in seguito alla misteriosa morte di quest’ultimo. Contemporaneamente, Seneca si ritira a vita privata. Da questo momento in poi Nerone si abbandona a eccessi di ogni sorta; il malcontento dilaga e intorno a Gaio Pisone si coagula un gruppo di congiurati che si propone di sbarazzarsi del principe. Scoppia il famoso incendio di Roma: Tacito sembra dare credito alle voci che lo vogliono appiccato per ordine di Nerone stesso; come incendiari vengono tuttavia perseguitati i cristiani. La congiura di Pisone viene scoperta e repressa duramente; molti fra i personaggi di primo piano ricevono l’ordine di darsi la morte: periscono così Seneca, Lucano, Petronio e infine Trasea Peto, durante il racconto della cui fine si interrompe la parte conservata degli Annales.

Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana. Codex Mediceus 68 II (XI sec.) f. 38r, contenente Tacito, Annales XV 44, sull’incendio di Roma.

Anche in quest’opera, Tacito mantiene la tesi della necessità del principato, ma il suo orizzonte sembra essersi ulteriormente incupito: in un passo famoso (III 28), mentre ribadisce che Augusto aveva garantito la pace all’Impero dopo lunghi anni di guerre civili, lo storico sottolinea anche come da allora i vincoli si fossero fatti «più duri». Sexto demum consulatu Caesar Augustus, potentiae securus, quae triumviratu iusserat abolevit deditque iura, quis pace et principe uteremur. acriora ex eo vincla («Alla fine Cesare Augusto, nel suo sesto consolato, sicuro del proprio potere, abolì quanto aveva decretato da tribuno e diede le leggi delle quali ci potessimo valere in pace e sotto la guida di un principe. Pertanto, i vincoli si fecero più duri»).

Tacito conferisce un colore uniforme e tetro all’intero quadro della vita umana sotto i Caesares. La storia del principato è anche la storia del tramonto della libertà politica dell’aristocrazia senatoria, essa stessa – del resto – coinvolta in un processo di decadenza morale e di corruzione che la rende vogliosa di un servile consenso (quella che Tacito definisce libido adsentandi) nei confronti del princeps. Scarsa simpatia lo storico dimostra anche, come si è già sottolineato a proposito dell’Agricola, verso coloro che scelgono l’opposta via del martirio, sostanzialmente inutile allo Stato, e continuano a mettere in scena suicidi filosofici. Prosperava, a partire dall’età neroniana, una lettura di exitus illustrium virorum: non a caso, descrivendo il suicidio di Petronio, Tacito insiste sul capovolgimento ironico di questo modello filosofico da parte del personaggio.

Raccontando le vicende di Roma, Tacito conduce il lettore attraverso un territorio umano desolato, senza luce o speranza. La parte sana dell’élite politica – si ritrova qui una certa continuità con l’Agricola – seguita tuttavia a dare il meglio di sé nel governo provinciale e nei comandi militari: l’opera bellica di Germanico risulta grandiosa rispetto alla meschina politica urbana di Tiberio, e anche l’azione militare di Corbulone è, agli occhi dello storico, più utile e forse più importante delle torbide passioni che si agitano nella Roma di Nerone.

«Corbulone» (in realtà, un personaggio sconosciuto). Testa, marmo pario, I sec. Roma, Musei Capitolini.

Si è detto che Tacito è soprattutto un grande artista drammatico, sottovalutando probabilmente le sue specifiche doti di storico. Ma è vero che la storiografia tragica gioca negli Annales un ruolo di primo piano. I drammi di anime che Tacito mette in scena non sono tuttavia tanto stimolati dal desiderio di suscitare vive emozioni, quanto nutriti dalla riflessione pessimistica che ha radici importanti nella tradizione storiografica latina, soprattutto in Sallustio.

Alla forte componente tragica della propria storiografia Tacito assegna soprattutto la funzione di scavare nelle pieghe degli uomini per sondarli in profondità e portarne alla luce, oltre alle passioni che li tendono, le ambiguità e i chiaroscuri. Le passioni dominanti nei personaggi tacitiani (con l’eccezione solo parziale di Nerone, figura sotto certi aspetti “patologica”) sono quelle politiche: la brama di potere scatena le lotte più feroci (emblematico è il personaggio di Seiano). Il conflitto più aspro si svolge, com’è ovvio, dentro il palatium imperiale, ma lo storico si rivolge anche altrove per mettere in risalto l’ambizione e la tensione alla scalata sociale, cui spesso si accompagnano invidia, ipocrisia o presunzione: sono difetti da cui nessuna classe sociale o persona vanno esenti. Rispetto all’ambizione, alla vanità e alla cupidigia di potere, le altre passioni – per esempio, il desiderio erotico o anche l’invidia di ricchezze – giocano un ruolo di importanza del tutto secondaria. Tacito presta tuttavia la debita attenzione a gelosie e delitti di origine sessuale, e rivela una vista acuta nelle questioni di denaro.

Negli Annales si perfeziona ulteriormente l’arte del ritratto, già sapientemente messa a frutto nelle Historiae. Il vertice è stato individuato da alcuni nel ritratto di Tiberio, del tipo cosiddetto «indiretto»: lo storico non dà cioè il ritratto una volta per tutte, ma fa sì che esso si delinei progressivamente attraverso una narrazione sottolineata qua e là da osservazioni e commenti. Nel ritratto Tiberio è dipinto in tutta la gamma delle sue gradazioni: gli piaceva mostrarsi torvo, era innamorato dell’austerità; oppresso da tristitia, improntava la propria condotta a crudeltà e inclementia; perennemente sospettoso, taciturno per l’abitudine a tenere celati i propri pensieri, spesso accigliato, talora con impresso sul volto un falso sorriso, aveva fatto della dissimulazione la prima fra le sue virtù. Tacito ama, in genere, il ritratto “morale” più di quello fisico, ma in passo dallo stile molto ricercato indugia nella descrizione della ripugnante vecchiaia di Tiberio: alto, ma curo ed emaciato, col volto segnato da cicatrici e ricoperto di pustole, completamente calvo.

Tib. Giulio Cesare Augusto. Testa, marmo, I sec.

Un certo spazio, come già nelle Historiae, ha anche il ritratto di tipo «paradossale»: l’esempio più notevole è Petronio (Ann. XVI 18), al quale si è accennato. Il fascino del personaggio sta proprio nei suoi aspetti contraddittori: Petronio si è assicurato con l’ignavia la fama che altri conquista con infaticabile operosità, ma la mollezza della sua vita contrasta con l’energia e la competenza dimostrate quando ha ricoperto importanti cariche pubbliche.

Su tutta la sua esistenza spira un’aria di sovrana nonchalace, una negligentia che ne esalta la raffinatezza. Petronio affronta la morte quasi come un’ultima voluttà, dando contemporaneamente prova di autocontrollo, di coraggio e di fermezza: in voluta polemica con la tradizione del suicidio teatrale degli stoici, si intrattiene con gli amici su argomenti diversi da quelli che serviranno a crearsi un’aureola di constantia. Non si fa leggere dissertazioni sull’immortalità dell’anima o sentenze di filosofi, ma poesiole leggere e versi facili (Ann. XVI 19). Senza fare del personaggio un modello – Tacito aveva gusti più austeri –, lo storico sembra implicitamente sottolineare che la virtus di Petronio è in fondo più salda di quella spesso ostentata nella morte dai martiri stoici.

La morte di Petronio. Fotogramma dal film Quo vadis (di M. LeRoy, USA 1951).

Lo stile degli Annales è per certi aspetti mutato rispetto a quello delle Historiae: almeno nei libri precedenti il XIII, si registra una linea di evoluzione che va in direzione del crescente allontanamento dalla norma e dalla convenzione: una ricerca di “straniamento” che si esprime nella predilezione per forme inusitate, per un lessico arcaico e solenne, ricco di potenza. Rispetto alle Historiae, gli Annales risultano meno eloquenti e scorrevoli, più concisi e austeri. Perdura e si accentua il gusto per l’inconcinnitas, ottenuta soprattutto attraverso la variatio, cioè allineando a un’espressione un’altra che ci si attenderebbe parallela, e invece è diversamente strutturata. Si prendano due esempi tratti dalla narrazione del celebre incendio di Roma, in Annales XV 38: pars mora, pars festinans, cuncta inpediebant e [incendium] in edita adsurgens et rursus inferiora populando anteiit remedia.

Le disarmonie verbali riflettono la disarmonia degli eventi e le ambiguità nei comportamenti umani. Abbondano le metafore violente (le immagini sono quelle della luce e delle tenebre, della distruzione e dell’incendio) e l’uso audace delle personificazioni. È frequente la coloritura poetica, soprattutto virgiliana, ma notevoli sono anche le tracce di Lucano nella prosa di Tacito. All’interno dell’opera, tuttavia, si registra una certa modificazione dello stile, in cui alcuni hanno visto un’involuzione. A partire dal XIII libro l’autore sembra ripiegare su moduli più tradizionali, meno lontani dai dettami del classicismo. Lo stile si fa più ricco ed elevato, meno serrato, acre e insinuante; nella scelta dei sinonimi, lo storico passa dalle espressioni scelte e decorative a quelle più sobrie e normali. La differenza è stata attribuita al diverso argomento: il principato di Nerone, abbastanza vicino nel tempo, richiedeva di essere trattato con minore distanziamento solenne di quello ormai remoto di Tiberio, che sembrava ancora radicato nell’antica Repubblica. Qualche trascuratezza notata soprattutto nei libri XV e XVI ha fatto anche pensare che gli Annales non abbiano ricevuto l’ultima revisione.

 

Distribuzione dei libri dei debitori. Rilievo, marmo, 117-120, da uno dei plutei traianei. Roma, Foro romano.

 

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Potere politico e predicazione cristiana in Palestina dal processo di Cristo al 62 d.C.

di M. Sordi, I cristiani e l’Impero romano, Como 20112, pp. 15-29.

La prima occasione di scontro fra l’Impero romano e il Cristianesimo fu, come è noto, il processo di Gesù di Nazareth. Non c’è dubbio – e questo lo sapeva anche Tacito (Ann. XV 44, 5) – che Gesù fu messo a morte (probabilmente nel 30 o nel 31 d.C.) da Ponzio Pilato, di cui un’iscrizione di Cesarea ha rivelato, una ventina di anni fa, il vero titolo, che non era quello di procuratore, come dice Tacito, ma di prefetto di Giudea[1]. Del processo di Gesù non interessano qui gli aspetti tecnici, costituiti, da una parte, dal significato giuridico della riunione o delle riunioni del Sinedrio e delle decisioni da esso adottate, dall’altra, dalla natura formale del procedimento condotto da Pilato, ma, in primo luogo, l’iniziativa politica: già al principio del nostro secolo, infatti, ma poi soprattutto in questi ultimi decenni, alcuni studiosi hanno tentato di ribaltare l’impostazione data al processo dai Vangeli, attribuendo al potere romano e non all’autorità giudaica l’iniziativa del processo stesso. Bisogna dire subito che, dal punto di vista scientifico, le argomentazioni di questi studiosi si sono rivelate per lo più assai fragili e di facile confutazione: esse hanno avuto, però, una certa diffusione nella cultura corrente ed hanno alimentato l’immagine fittizia di un Gesù rivoluzionario e riformatore politico, naturalmente avverso al potere romano e da esso necessariamente avversato e perseguitato.

Iscrizione onorifica a Ponzio Pilato (CIIP 2, 1277). Tabula, calcare, 26-36 d.C. dal teatro di Caesarea Maritima. Gerusalemme, Museo Archeologico: [Nauti]s(?) Tiberieum / [- – – Po]ntius Pilatus / [praef]ectus Iudae[a]e / [ref]eci[t].
Ritengo pertanto necessario esaminare brevemente la problematica posta, sotto l’aspetto che ho cercato di individuare, dal processo di Gesù.

Al centro dell’impostazione che la tradizione evangelica dà al processo e del dibattito che si è aperto fra i moderni, c’è esplicitamente o implicitamente, un dialogo che Giovanni (18, 31) fa svolgere tra Pilato e gli inviati di Caifa e del Sinedrio che gli conducono Gesù: «Prendetelo voi e giudicatelo secondo la vostra legge». Gli risposero i Giudei: «A noi non è lecito mettere a morte nessuno». La tradizione evangelica, indipendentemente dalle varianti esistenti nel racconto dei singoli autori, è concorde nell’affermare che Gesù subì due giudizi, uno davanti al Sinedrio per bestemmia, per essersi proclamato Figlio di Dio e per aver detto che poteva distruggere il Tempio e ricostruirlo in tre giorni, e l’altro di fronte al governatore romano, per essersi proclamato re dei Giudei, cioè in definitiva, per lesa maestà: Luca (23, 2) aggiunge l’accusa di sobillare il popolo e di impedire il pagamento dei tributi a Cesare. La tradizione evangelica è pure concorde nell’affermare che, mentre nel giudizio di fronte al Sinedrio Gesù fu giudicato reo di morte, nel processo romano Pilato dichiarò a più riprese l’infondatezza dell’accusa politica e si decise a pronunziare la condanna a morte con la motivazione politica (il titulus scritto sulla croce era «re dei Giudei») solo per compiacere la folla[2]. Per i Vangeli, dunque, l’iniziativa fu dei Giudei, anche se la condanna definitiva e l’esecuzione furono dei Romani. La spiegazione dell’apparente incongruenza è fornita, appunto, da Giovanni nel passo citato: i Giudei potevano esercitare entro certi limiti il diritto di giudicare e di punire, ma non avevano il diritto di eseguire condanne a morte. Per una colpa per la quale la legge giudaica prevedeva la pena di morte essi dovevano ricorrere al tribunale romano.

Questa impostazione, che non ha mai suscitato gravi obiezioni da parte degli studiosi di diritto romano, è stata contestata, invece, dal punto di vista del diritto giudaico, con argomenti, peraltro, del tutto opposti: secondo alcuni, il Sinedrio non aveva il potere di giudicare e non poteva quindi pronunziare giudizi di nessun genere; secondo altri, invece, è questa oggi la posizione prevalente tra coloro che rifiutano l’impostazione dei Vangeli: il Sinedrio poteva condannare anche a morte e pronunziare sentenze capitali[3]. La conseguenza è simile: se l’esecuzione della condanna fu romana, anche l’iniziativa del processo deve essere stata romana. Ne deriva – e questo si presta a sviluppi importanti anche se non esplicitati in uguale modo da tutti gli autori che affermano l’iniziativa romana – che il processo di Gesù sarebbe stato un processo strettamente politico, di cui i Vangeli avrebbero oscurato il carattere originario, sia perché viziati da un atteggiamento filoromano ed antigiudaico, sia perché sarebbe stato pericoloso per una chiesa che viveva e si diffondeva in ambiente romano, ammettere che il suo fondatore era (o, comunque, era stato ritenuto) un agitatore politico messo a morte dal potere imperiale.

Gesù Cristo. Affresco (ritratto), fine IV-inizi V sec. d.C. Roma, Catacombe di Commodilla.

 

In realtà, nessuna di queste ipotesi regge alla verifica storica. Imposterò questa verifica, necessariamente sintetica, su tre punti:

 

  • l’iniziativa del processo di Gesù nelle fonti neotestamentarie e nelle testimonianze non cristiane;
  • il processo di Gesù in rapporto al diritto vigente di una provincia romana quale era la Palestina e alle prerogative lasciate normalmente dai Romani alle autorità locali;
  • la continuità dell’atteggiamento romano dal processo di Gesù a quello di Giacomo minore (62 d.C.).

 

1) L’iniziativa del processo di Gesù nelle fonti: che le principali testimonianze sul processo ci vengano dalle fonti neotestamentarie è perfettamente naturale. Sappiamo infatti quale importanza dessero i primi seguaci di Cristo alla testimonianza di coloro che erano stati insieme a Gesù nel periodo «dal battesimo di Giovanni fino al giorno dell’Ascensione» (At 1, 22). Ciò che colpisce, come ho già detto, è la perfetta concordanza, pur nella variante dei particolari (riunione o riunioni del Sinedrio, intervento di Erode, privilegio pasquale e Barabba, etc.) fra la tradizione più antica (che sembra essere confluita nel racconto della Passione di Marco e di Matteo) e quella più recente che è stata riconosciuta nel racconto di Luca e di Giovanni[4]. Tutti e quattro i racconti mostrano determinante la responsabilità dei Giudei e riducono la parte avuta da Pilato nella morte di Gesù al suo cedimento, contro voglia, alle sollecitazioni dei grandi sacerdoti e della folla.

Questa impostazione dei racconti evangelici, presente come si è visto anche nel Vangelo di Giovanni (scritto in un’epoca in cui i Cristiani avevano già conosciuto la persecuzione dello stato romano e non avevano motivi di silenzi prudenziali), concorda anche con quella presente nei discorsi riferiti dagli Atti degli Apostoli che ci conservano, pur nella normale rielaborazione, caratteristica in tutto il mondo classico, del genere letterario dei discorsi, una traccia della predicazione primitiva[5]: in tali discorsi è sempre presente il ricordo della istigazione giudaica e della resistenza di Pilato. Vale la pena di aggiungere che l’impostazione non cambia, anzi, risulta forzata dalla volontà di scagionare i Romani e Pilato dalla responsabilità della morte di Gesù, se dai Vangeli canonici passiamo agli Apocrifi: nel Vangelo di Nicodemo, che proviene, a quanto sembra, da ambienti giudaico-cristiani dell’Egitto ed è scritto in copto, perfino il gesto di Pilato che si lava le mani diventa una prova della sua innocenza: «Vedete dunque – dice Giuseppe di Arimatea – che colui che non è circonciso nelle sue carni, ma nel suo cuore, prese dell’acqua al cospetto del sole, lavò le sue mani dicendo: “Sono innocente del sangue di questo giusto”»[6].

L’affermazione che Pilato è circonciso nel cuore presuppone probabilmente la notizia, già nota nel II secolo e testimoniata da Tertulliano (Apol. XXI 24, Pilatus et ipse iam pro sua coscientia Christianus), della conversione di Pilato, che circola in tutta la chiesa antica e che porta al suo riconoscimento come martire nella tradizione copta e alla iscrizione del suo nome nel calendario dei santi presso la chiesa etiopica. Solo nel IV secolo comincia a diffondersi la leggenda della punizione di Pilato e del suo suicidio, che tanta fortuna ebbe poi nel Medioevo e sino all’età moderna[7].

L’omogeneità di posizioni che troviamo nella tradizione cristiana primitiva dal I secolo al IV d.C. nel riconoscimento di una minore responsabilità di Pilato o, addirittura, di una sua totale innocenza nella condanna di Gesù, esige una spiegazione che non può ridursi a quella semplicistica del timore verso i Romani, nel cui impero i Cristiani erano costretti a vivere: gli apologisti del II secolo e degli inizi del III dimostreranno che si poteva attaccare anche duramente questo o quel governatore provinciale per la sua crudeltà nelle persecuzioni senza attaccare, anzi scagionando, l’impero romano; alla stessa tecnica erano ricorsi, proprio nei riguardi di Pilato, gli scrittori ebraici del I secolo da Filone a Flavio Giuseppe. Bisogna ricordare anche che Pilato finì nel 37 il suo governo in Giudea con una destituzione dalla quale, a quanto sembra, non fu riabilitato[8]. L’atteggiamento che la tradizione cristiana, senza smentirsi, attribuisce a Pilato, non si giustifica dunque con un falso.

Antonello da Messina, Ecce Homo. Olio su tavola, 1475. Piacenza, Collegio Alberoni.

Dovremo domandarci invece se esso non sia spiegabile, semplicemente, con la aderenza alla realtà storica e con l’effettiva estraneità dei Romani all’iniziativa del processo. Ma di questo parleremo più avanti, dopo aver esaminato le testimonianze non cristiane e la corrispondenza del processo col diritto effettivamente vigente nella provincia di Giudea sotto Tiberio.

Le notizie non cristiane sul processo di Gesù risalenti al primo secolo o agli inizi del secondo si riducono sostanzialmente a tre: il passo di Tacito giù citato (Ann. XV 44, 5), in cui si ricorda solo l’esecuzione di Cristo per opera di Ponzio Pilato; il discusso testimonium Flavianum (A.I. XVIII 64), di cui oggi, eliminate le interpolazioni dovute probabilmente all’inserimento nel testo di glosse marginali di origine cristiana, si tende a sostenere l’autenticità[9] e dal quale risulta che «su denuncia dei nostri notabili, Pilato lo (Gesù) condannò alla croce»; la lettera dello storico siriaco Mara Bar Serapion, databile fra il 73 e il 160 d.C., in cui si parla di «un saggio re giustiziato dagli Ebrei»[10]. Le apparenti contraddizioni risultanti dal confronto fra queste testimonianze indipendenti dai Vangeli, e, in particolare, fra quella di Tacito e quella di Mara Bar Serapion (condanna ed esecuzione da parte di Pilato – condanna ed esecuzione da parte dei Giudei) si conciliano soltanto postulando la più ampia ed articolata impostazione dei Vangeli, con la quale coincide, peraltro, quella sintetica di Giuseppe Flavio: esecuzione da parte di Pilato, ma su denunzia e istigazione giudaica. Dal punto di vista delle fonti il racconto dei Vangeli non presenta dunque alternative criticamente preferibili.

Andrey N. Minorov, This Man! (Ecce Homo). Olio su tela, 2013.

 

2) Il processo in rapporto al dibattito vigente nella Palestina romana. Prescindendo dai particolari tecnici, sui quali non si può pretendere  dagli autori dei Vangeli, come da qualsiasi altra testimonianza storica intenzionata a rispettare la verità, ma proveniente da persone non esperte di diritto, l’esattezza formale, il procedimento composito descritto dai Vangeli, che presuppone una certa autonomia giudiziaria da parte degli organi locali (in questo caso il sinedrio, che istituisce e conduce in modo autonomo il processo), ma che attribuisce al solo governatore romano il potere capitale, concorda perfettamente con la prassi politica e giuridica seguita dai Romani nelle provincie: negli editti di Cirene, che riguardano una provincia ed un’epoca, quella di Augusto, assai vicina a quelle del processo di Cristo, la capacità degli organi locali di condurre in modo autonomo i processi è affermata con la sola eccezione dei processi capitali. E questo, non solo, come è ovvio, per i cittadini romani, ma anche per i sudditi della provincia[11].

La stessa prassi è attestata per la provincia d’Asia da un rescritto di Adriano e da un editto di Antonino Pio (Dig. 48, 3, 6ss.). Ancora Ulpiano, in età severiana (Dig. I, 18), attesta che il potere di condannare a morte, come quello di mandare alle miniere (una sorta di ergastolo), spettava nelle province al governatore. L’affermazione che Giovanni mette in bocca ai rappresentanti del sinedrio («A noi non è lecito mettere a morte nessuno») è dunque perfettamente conforme alla prassi adottata dai Romani nelle province e sarebbe interessante domandarsi in che misura la svista dello Juster[12], che dimenticando solo in questo passo lo stato provinciale della Giudea al tempo di Cristo ne parla come di un «paese autonomo» (?), abbia condizionato le argomentazioni dei sostenitori del potere capitale del sinedrio, la cui privazione sotto i Romani di tale diritto risulta del resto anche dalla tradizione rabbinica[13].

Nikolai Ge, Che cos’è la verità?. Olio su tela, 1890

Lasciando da parte certe distinzioni troppo sottili, come quella tra il metodo clandestino dello strangolamento e quello pubblico della lapidazione, che sarebbe stato in uso fino al 70[14] e lasciando anche da parte l’eccezione costituita dal diritto di mettere a morte nel tempio lo straniero che fosse stato sorpreso in esso, che è attestato da Flavio Giuseppe e da un’iscrizione[15] – ma risulta non la legittimazione di una regolare condanna a morte, ma la tolleranza in certe situazioni di un linciaggio popolare[16] – l’unico caso veramente degno di discussione è, a mio avviso, la lapidazione di Stefano, avvenuta sotto lo stesso Pilato negli anni intorno al 34[17]. Per coloro che sostengono la competenza del sinedrio in materia capitale, la lapidazione di Stefano è la prova «certissima» che gli Ebrei avevano ancora la piena giurisdizione penale[18]; coloro invece che negano – e io credo giustamente – che il sinedrio avesse il diritto di eseguire condanne capitali, si sbarazzano per lo più di questo caso, riconoscendo in esso, come nell’esecuzione immediata dei violatori del tempio di Gerusalemme, un linciaggio, uno di quegli atti «di brutale giustizia popolare, a cui gli Ebrei non erano autorizzati, ma che le autorità romane non sempre potevano impedire»[19].

Come ho scritto altrove[20], a me sembra che, secondo il racconto degli Atti, l’unico a noi giunto sull’argomento, non si possa negare il carattere di processo al procedimento contro Stefano, iniziato con la denunzia dei testimoni davanti al Sinedrio (At 7, 11ss.) e con la difesa dell’accusato col permesso del sommo sacerdote (7, 1ss.) e terminato con la condanna a morte (At 7, 54ss.), gridata all’unanimità del Sinedrio ed eseguita per lapidazione ad opera degli stessi testimoni, come previsto dalle antiche leggi giudaiche contro i bestemmiatori. L’impressione di una certa «regolarità», dal punto di vista giudaico, di tale processo viene anche da un altro passo degli Atti (16, 10), in cui Paolo, rievocando la parte da lui avuta nella persecuzione di Stefano e dei Cristiani, ricorda di aver dato il suo voto per mettere a morte i «santi». Probabilmente «regolare» dal punto di vista giudaico, il comportamento del Sinedrio nel 34 fu però certamente un abuso dal punto di vista romano, come fu un abuso, anche per ammissione di coloro che ritengono la lapidazione di Stefano un semplice linciaggio, la lapidazione di Giacomo Minore e di altri Cristiani di Gerusalemme, avvenuta nel 62 per ordine del sommo sacerdote Ananos e del Sinedrio, in un momento di vacanza del governo romano nella provincia (era morto Porzio Festo e non era ancora arrivato il nuovo governatore, Albino)[21]. Che Ananos, convocando il Sinedrio e pronunziando ed eseguendo una sentenza capitale, avesse oltrepassato le sue competenze ed avesse violato la legge romana (approfittando, come sottolinea Giuseppe, della momentanea assenza del governatore) risulta in questo caso dalla immediata deposizione del sommo sacerdote con cui il re Agrippa II, in attesa dell’arrivo del nuovo governatore, punì l’abuso stesso (Fl. Jos. A.I. XX 1, 9, 199ss.).

Piero della Francesca, La flagellazione di Cristo. Olio su tavola, 1414-1470. Urbino, Galleria Nazionale delle Marche.

  • La continuità dell’atteggiamento romano dal processo di Gesù al 62.

L’episodio del 62, se, da una parte, è la migliore e più sicura conferma dei limiti dei poteri del Sinedrio, affermata esplicitamente da Giovanni e risultante implicitamente dal resto della tradizione evangelica, dall’altra è anche la conferma, particolarmente autorevole, perché derivata da una fonte giudaica, della realtà dell’atteggiamento attribuito dalla stessa tradizione evangelica ai Romani e della continuità fino al 62 di questo atteggiamento. Se nel 62 il sommo sacerdote e il Sinedrio giudicarono «occasione propizia» l’assenza del governatore romano per procedere contro i seguaci di Cristo, ciò significa che negli anni precedenti al 62 i Romani avevano fatto capire chiaramente di essere decisi a non cedere più come al tempo del processo di Cristo alle pressioni della autorità giudaica contro i seguaci del Crocifisso e di non voler essere il braccio secolare del Sinedrio in una controversia che, per loro, era e doveva rimanere strettamente religiosa e che non aveva implicazioni politiche.

Paolo di Tarso. Affresco, fine III-inizi IV sec. d.C. Roma, Catacombe dei SS. Marcellino e Pietro.

Vale la pena di domandarsi quando questa presa di posizione abbia cominciato a manifestarsi: essa appare già in atto nei processi intentati a Paolo nel 51 a Corinto davanti a Gallione dalla locale sinagoga (At 17, 12ss.) e, successivamente, in Giudea, dalle autorità giudaiche di Gerusalemme davanti ad Antonio Felice e, poi, a Porzio Festo (At 21 e, in particolare, 23, 28-29 e 25, 19). In tutti questi casi i governatori romani, siano essi il proconsole di Acaia o i procuratori di Giudea, dichiarano esplicitamente che la controversia fra Cristiani e Giudei è una controversia interna della Legge giudaica e che essi non vogliono occuparsene. Questa era, del resto, la posizione che aveva assunto all’inizio anche Pilato nel processo di Gesù, ma che non aveva sostenuto fino in fondo per timore di un ricorso a Roma delle autorità giudaiche, in nome della loro Legge violata (Ioh. 19, 7-13). L’accusa montata dai grandi sacerdoti contro Gesù era in effetti estremamente abile perché, utilizzando l’ambiguità insita nelle attese messianiche, ben note ai Romani, e da essi paventate, combinava l’accusa di violazione della Legge giudaica (quella di essersi fatto Figlio di Dio) con l’accusa politica (di essersi fatto re)[22]. In queste condizioni, anche prima del 31 e della caduta dell’antigiudaico Seiano[23], Pilato poteva pensare che un ricorso al Sinedrio a Roma avrebbe avuto la possibilità di essere ascoltato, essendo notorio che Tiberio voleva innanzitutto la pace in una provincia «difficile» come la Giudea. Per valutare le possibilità di successo che poteva avere sotto Tiberio un ricorso a Roma contro un governatore accusato di violazioni vere o presunte contro la Legge giudaica e la realtà del timore che Giovanni attribuisce a Pilato, basta tener presente un episodio verificatosi sotto lo stesso governo di Pilato – forse, ma non necessariamente, successivo al processo di Gesù – in cui il prefetto fu costretto da un ordine di Tiberio, informato dai notabili giudaici, a revocare le proprie disposizioni: si tratta dell’esposizione in Gerusalemme nel corso di una festa di alcuni scudi dorati, che Pilato aveva dedicato nel palazzo di Erode in onore di Tiberio e che l’imperatore gli ordinò di ritirare[24] per rispettare le tradizioni del popolo giudaico.

Ci si può riproporre a questo punto la domanda da cui siamo partiti: come e quando nei successori di Pilato era nata la convinzione che, in caso di processi contro Cristiani, un ricorso a Roma dell’autorità giudaica non avrebbe avuto successo e che la linea da seguire fino in fondo per i Romani fosse quella del non intervento, che si risolveva, in definitiva (e l’episodio del 62 lo dimostra chiaramente) nella protezione accordata ai seguaci del Crocifisso contro le persecuzioni della stessa autorità giudaica?

Croce gemmata con il volto di Cristo. Mosaico, VI sec. d.C. Ravenna, Basilica di S. Apollinare in Classe.

I

o credo che la deposizione inflitta da Ananos nel 62, come punizione di un abuso simile a quello compiuto da Caifa nel 34 (esecuzione di Giacomo-esecuzione di Stefano), possa fornirci la spiegazione della deposizione dello stesso Caifa, nel 36 o nel 37, ad opera dell’inviato di Tiberio, il legato di Siria, L. Vitellio[25], in una delle sue visite a Gerusalemme. Mi conferma in questa convinzione un passo di At 9, 31, in cui si registra subito dopo l’incontro fra Paolo e Pietro a Gerusalemme nel 36[26], a pace della Chiesa in Giudea, Galilea e Samaria. La precisazione degli Atti è importante, perché circoscrive le regioni sotto il controllo romano, in un momento in cui a Damasco, che era sotto il controllo di Areta, allora in guerra con Roma, la persecuzione dell’elemento giudaico e dello stesso Areta contro i seguaci di Cristo era ancora in atto (At 9, 23ss., 2Cor. 11, 32). La deposizione di Caifa per opera di Vitellio aveva dunque posto fine all’azione delle autorità giudaiche contro i seguaci di Cristo, esattamente come la deposizione di Ananos per opera di Agrippa II pose fine nel 62 all’azione del Sinedrio.

Non si può dire che la concomitanza dei due fatti (deposizione di Caifa – pace per la Chiesa in Giudea) sia puramente casuale: abbiamo, infatti, una prova indiretta, ma molto significativa, dell’intervento (anteriore al 42) di un legato di Siria nei confronti dei seguaci di Cristo: sappiamo, infatti, che intorno al 42 proprio ad Antiochia, residenza del legato di Siria, i discepoli adottarono la denominazione di Cristiani, che veniva data loro nel linguaggio ufficiale degli ambienti di governo romani[27]: gli interventi di Vitellio a Gerusalemme nel 36/37 sembrano l’occasione più probabile e, allo stato delle nostre conoscenze, l’unica possibile, per l’adozione da parte degli ambienti di governo della provincia di Siria di questa denominazione. Ci si può domandare perché la punizione dell’abuso compiuto dal sommo sacerdote, che nel 62, nel caso di Ananos, fu attuata immediatamente, sia stata rinviata, nel caso di Caifa, fino al 36 o al 37. La spiegazione di questo ritardo può venire proprio dai rapporti fra Caifa e Pilato, che, come è stato sottolineato da più parti, erano stati fino a quel momento buoni, e dall’imbarazzo in cui dovette trovarsi il governatore di fronte a un abuso compiuto da quelle autorità, la cui collaborazione gli era necessaria per un governo pacifico della provincia[28].

Cristo dinanzi a Pilato. Mosaico, inizi VI sec. d.C. Ravenna, Basilica di Sant’Apollinare Nuovo.

Le fonti cristiane del II secolo, Giustino (I Apol. 35 e 48) e Tertulliano (Apol. V 2 e XXI 24), accennano ad una relazione di Pilato a Tiberio sulle vicende di Gesù e sul diffondersi della fede nella sua divinità in tutta la Palestina e i cronisti dipendenti da Eusebio datano l’arrivo a Roma di questa relazione nel 35 d.C.[29] L’esistenza di questa relazione, troppo frettolosamente confusa con i falsi leggendari elaborati in età tarda e giunti fino a noi, fornisce forse l’anello mancante che collega l’abuso compiuto da Caifa e dal Sinedrio nel 34 con l’esecuzione di Stefano e la punizione da parte romana dell’abuso stesso nel 36/37: Pilato, che non aveva sentito la necessità di informare il suo imperatore del processo di Cristo, terminato con un’esecuzione legale anche se ingiusta, dovette informarlo quando, con la diffusione in tutta la provincia della nuova fede, si trovò davanti all’esasperata intransigenza del Sinedrio e a processi e ad esecuzioni abusive, che rischiavano di coinvolgere un gran numero di persone nella Giudea e nelle regioni vicine. Data la convinzione che Pilato stesso aveva maturato durante il processo di Gesù dell’inconsistenza dell’accusa politica e dell’innocenza del Crocifisso (l’insostenibilità delle ricostruzioni opposte su questo punto alla tradizione evangelica ci permette ormai di confermare la validità di questa tradizione) è probabile che questa relazione, a cui gli autori cristiani del II secolo facevano appello, fosse effettivamente favorevole ai cristiani e che mettesse in rilievo l’inesistenza nella nuova fede di pericoli di natura politica. Il «Pilato già in sua coscienza cristiano» di Tertulliano (Apol. XXI 24) si spiega forse con una relazione di questo tipo, senza bisogno di postulare la conversione di Pilato. Informato sugli sviluppi della situazione in Giudea, Tiberio decise di intervenire: in effetti, la notizia di una nuova «setta» giudaica, osteggiata dalle autorità ufficiali, ma accolta da una parte del popolo, la cui diffusione eliminava nel messianismo ogni violenza politica e antiromana e ne accentuava, invece, il carattere religioso e morale, non poteva che interessare Tiberio, la cui principale ambizione era quella – lo sappiamo anche da Tacito (Ann. VI 32, 1) e proprio nel racconto relativo al 35 – di risolvere le controversie esterne consiliis et astu, con l’astuzia e l’abilità diplomatica, piuttosto che con le armi e la repressione.

Tib. Claudio Nerone Cesare Augusto. Busto, marmo, inizi I sec. d.C. Ny Carlsberg Glyptotek, Copenhagen.

Nel corso del 35 Vitellio fu spedito in Oriente, non come un semplice legato di Siria, ma come inviato di Tiberio per una sistemazione generale della zona (Tac. Ann. VI 38, 5: cunctis quae apud Orientem parabantur L. Vitellium praefecit), che riguardava innanzitutto la successione al trono armeno e i rapporti con i Parti e gli Iberi, ma anche Damasco, dove l’etnarca Areta si era sottratto al dominio di Roma, e Gerusalemme, che egli visitò due o addirittura tre volte, sistemando le cose sulla base delle istruzioni di Tiberio[30], rimandando a Roma Pilato, contro il quale aveva ricevuto una protesta da parte dei Samaritani[31] e sostituendolo provvisoriamente con uno dei suoi amici, Marcello (Fl. Jos. A.I. XVIII 89). La protezione accordata, sia pure in modo indiretto, ai Cristiani con la destituzione di Caifa, doveva essere, nell’intenzione di Tiberio e di Vitellio, una misura di pacificazione: è interessante osservare che, nel racconto di Flavio Giuseppe, la destituzione di Caifa dal sommo sacerdozio si accoppia con misura decisamente amichevole verso la religione e le tradizioni giudaiche, la restituzione della veste del Gran sacerdote, con la remissione di una parte delle imposte e con un sacrificio compiuto dallo stesso Vitellio nel tempio di Gerusalemme. Alla linea augurata da Vitellio per volontà di Tiberio si attennero fino al 62 tutti i governatori di Giudea.

La tradizione cristiana orientale e occidentale conobbe in modo diverso e indipendente questo intervento di Tiberio: nel II volume della Storia della Grande Armenia Mosè di Korene, che scrive nel V secolo d.C., ma attinge a leggende e a documenti molto più antichi, riferisce uno scambio di lettere fra Tiberio e Abgar (toparca di Edessa dal 13 al 50 d.C.), nel corso del quale Abgar informa Tiberio della morte e della resurrezione di Cristo e lo invita a punire i Giudei, e Tiberio risponde che lo farà non appena avrà posto fine alla rivolta degli Iberi e di aver già destituito Pilato. L’allusione alla missione di Vitellio (particolarmente interessante l’accenno agli Iberi e alla punizione dei Giudei e di Pilato) è trasparente[32] e rivela come nella tradizione degli Armeni, presso i quali Vitellio aveva operato, il ricordo della missione da lui svolta a favore dei Cristiani, fosse rimasto vivo.

Abgar V Ukkama riceve il mandilion da Taddeo. Tempera su tavola, icona, 944. Sinai, Monastero di S. Caterina.

La tradizione cristiana occidentale, la cui voce più antica è rappresentata per noi da un famoso passo di Tertulliano (Apol. V 2), affermava, invece, che Tiberio, ricevuta la relazione di Pilato, presentò al Senato una proposta tesa ad ottenere il riconoscimento di Cristo come dio e, avendo ottenuto un rifiuto, in seguito al quale il culto reso a Cristo diveniva per lo stato romano superstitio illicita, pose il veto ad eventuali accuse contro i Cristiani. I moderni respingono per lo più questa notizia, ritenendola un’invenzione apologetica. Io credo che l’episodio riferito da Tertulliano sia storico. Non ho intenzione qui di riprendere tutte le argomentazioni che, a più riprese, ho svolto altrove[33] e che non possono essere respinte, a mio avviso, con giudizi o battute che non hanno niente a che fare con un corretto metodo storico, come «inverosimile» o «troppo bello per esser vero». Mi limiterò, invece, a riproporre quelli che io ritengo, al di là delle facili ripulse, i punti degni di maggiore attenzione:

1) Rifiutare come un’invenzione apologetica il passo di Tertulliano affermando, come è stato fatto da più parti[34], che Tertulliano «non mette in rilievo il rifiuto del Senato, ma la benevolenza di Tiberio che minaccia gli accusatori dei Cristiani», significa, a me sembra, isolare il passo dal suo contesto: Tertulliano sta, infatti, cercando di spiegare ai suoi interlocutori, i Romani imperii antistites della dedica, i quali, alla sua difesa del Cristianesimo secondo ragione e secondo giustizia, oppongono l’autorità delle leggi (Apol. IV 3: «Non è lecito che voi esistiate»), che le leggi possono rivelarsi ingiuste e che devono in questo caso essere cambiate (ibid. IV 13). Per questo, e solo per questo, egli cerca l’origini delle leggi anticristiane (ibid. V 1) e individua tale origine nel rifiuto opposto dal Senato alla richiesta di Tiberio. Un rifiuto esplicito di riconoscimento da parte del Senato, che faceva del Cristianesimo una superstitio illicita (Tertulliano sta cercando di spiegare il «non è lecito che voi esistiate») non era certamente conforme agli interessi della apologetica cristiana, che preferiva calcare sulla responsabilità dei cattivi imperatori. Subito dopo, infatti, Tertulliano, senza più parlare né di Tiberio né del Senato, ricorda che fu Nerone ad applicare per primo la normativa anticristiana.

Il senatoconsulto di cui parla Tertulliano non è un’invenzione dell’apologista africano, ma deriva a lui dagli Atti di un processo celebrato a Roma sotto Commodo, fra il 183 e il 185, il processo contro Apollonio (senatore romano, secondo Gerolamo) che fu messo a morte per Cristianesimo «in base a un senatoconsulto» – dice Eusebio (H.E. V 21, 4), che possedeva gli Atti antichi – il cui contenuto, riferito dagli Atti greci a noi pervenuti (p. 171 Lazzati: «Il senatoconsulto dice che non è lecito essere Cristiani»), corrisponde esattamente al Non licet esse vos, risultante, secondo Tertulliano, dal senatoconsulto tiberiano. Bisogna aggiungere che la forma del senatoconsulto era, dal punto di vista giuridico, l’unica che, in età giulio-claudia, poteva autorizzare o rifiutare l’accoglienza di un nuovo culto[35].

Se la fonte di Tertulliano sono gli Atti autentici del processo di Apollonio (insisto sul fatto che il s.c. è ricordato da Eusebio e non solo negli Atti tardi e interpolati), cioè i documenti ufficiali di un processo tenuto a Roma, e la difesa in esso pronunziata dallo stesso Apollonio (la prima apologia latina, secondo la tradizione) davanti al prefetto del pretorio Tigidio Perenne, l’ipotesi di una invenzione cristiana cade da sé.

3) L’argumentum e silentio, di per sé debolissimo, è in questo caso inesistente: Tacito non parla del senatoconsulto perché, per sua esplicita ammissione, egli si occupa, per il 35, solo di politica estera (Ann. VI 38, 1) «per riposarsi l’anima dai mali interni». Eppure, Tiberio, che in quel periodo non era a Capri, ma alle porte di Roma (ibid. 45, 2), trattava in continuazione, anche per lettera, col Senato le faccende dello stato. Non è vero, inoltre, che i pagani ignoravano questo senatoconsulto: a parte gli Atti di Apollonio, c’è un frammento porfiriano che ne attesta l’esistenza[36].

4) L’atteggiamento che Tertulliano attribuisce a Tiberio con la proposta che dette origine al s.c., lungi dall’essere «inverosimile», concorda perfettamente con la linea politica che Tiberio sembra aver seguito in Palestina con l’intervento di Vitellio; proponendo il riconoscimento del culto di Cristo, Tiberio mirava a dare alla nuova «setta» nata in seno al Giudaismo, la stessa liceità che Roma riconosceva, dal tempo di Cesare, al Giudaismo ed intendeva sottrarre in questo modo i seguaci di essa in Giudea (tale era l’ambito di diffusione della nuova fede nel 35) all’autorità e alle vessazioni del Sinedrio. I Romani avevano seguito questa linea fin dal tempo della creazione della provincia, con i Samaritani, che erano stati sottratti alla tutela religiosa giudaica e la cui fedeltà era stata in tal modo assicurata a Roma[37]. Tiberio, che preferiva risolvere le controversie esterne con la diplomazia e con l’astuzia piuttosto che con le armi, mirava ad ottenere lo stesso risultato con i Cristiani.

Non essendo riuscito ad ottenere dal Senato ciò che desiderava, Tiberio intervenne in modo più diretto attraverso il suo legato.

I due Testamenti (dettaglio). Sarcofago, marmo, prima metà del IV sec. d.C. da San Paolo Fuori le Mura. Roma, Museo Pio Cristiano.

Il non aver compreso che la proposta di Tiberio riguardava la Giudea e non Roma ha contribuito, a mio avviso, allo scetticismo che la maggior parte dei moderni ha mostrato finora nei riguardi della notizia di Tertulliano: Tiberio non poteva sapere, nel 35, che il Cristianesimo avrebbe esercitato, al di fuori della Giudea, un proselitismo di gran lunga maggiore di quello del Giudaismo, che egli aveva mostrato di paventare nel 19. La proposta del 35 fu una proposta politica, strettamente collegata con la politica di pacificazione che Tiberio conduceva verso una provincia difficile, dal punto di vista religioso, come la Giudea.

Da questo momento fino a Nerone, i governatori di Giudea seppero come dovevano comportarsi nei riguardi dei «Christiani» e la loro presenza si rivelò per i seguaci della nuova fede una salvaguardia. Solo nel periodo in cui la provincia ritornò autonoma, sotto il governo di Agrippa I, dal 41 al 44, la persecuzione legale dei seguaci di Cristo in Giudea ritornò possibile e si giunse alla condanna a morte di Giacomo Maggiore e all’arresto di Pietro.

 

***

Note:

[1] Sull’iscrizione di Pilato a Cesarea, pubblicata da A. Frova, in RIL 95, 1961, pp. 49ss., v. ora C. Gatti, A proposito di una rilettura dell’epigrafe di Ponzio Pilato, in «Aevum», 55, 1981, pp. 13ss.; J.P. Leomonon, Pilate et le gouvernement de la Judée, Parigi 1981, pp. 23ss.; L. Prandi, Una nuova ipotesi sull’iscrizione di Ponzio Pilato, in «Civiltà classica e cristiana», 2, 1981, pp. 25ss. Sull’autenticità del passo di Tacito v. H. Fuchs, Tacitus über die Christen, in «Vigiliae Christianae», 4, 1950, pp. 65ss., e Lemonon, op. cit., pp. 173-174. Sulla probabile data del processo di Gesù, 7 aprile del 30, v. J. Blinzler, Il processo di Gesù, tr. it. Brescia 19662, pp. 85ss.; cfr. Lemonon, op. cit., p. 133 (7 aprile del 30 o 27 aprile del 31).

[2] Sulla ricostruzione dei due processi subiti da Gesù, davanti al sinedrio e davanti al governatore romano e su tutti i problemi da essi posti, rinvio all’esauriente libro del Blinzler, citato nella nota precedente. Sul problema v. anche Lemonon, op. cit., pp. 173ss. Sull’attendibilità di Giovanni richiama ora l’attenzione F. Millar, Riflessioni sul processo di Gesù, in «Gli Ebrei nell’impero romano», trad. it. a cura di A. Lewin, Firenze 2001, pp. 77ss.

[3] Per la prima posizione v. in particolare E. Bickerman in «R.H.R.», 112, 1935, pp. 232ss.; per la seconda, J. Juster, Les juifs dans l’empire Romain, Parigi 19142, pp. 127ss.; H. Lietzmann, Kleine Schriften, Berlino 19582, pp. 251ss. e 269ss.; P. Winter, On the Trial of Jesus, Berlino 1961. Più sfumata la posizione di T.A. Burkill in «Vigiliae Christianae», 10, 1956, pp. 80ss., E.M. Smallwood, The Jews under Roman Rule, Leida 1976, pp. 140ss.

[4] Per l’analisi dettagliata dei racconti evangelici sul processo di Gesù rinvio allo studio del Lemonon, op. cit., pp. 177-189; sul problema di Anna e Caifa v. ora anche E. Lorenzini, Il sommo sacerdote Caifa, Cesena 2003.

[5] At 2, 23ss.; 3, 13; 7, 52ss.; 13, 27-29.

[6] IX 125 (trad. Orlandi, Milano 1966).

[7] Lemonon, op. cit., pp. 265ss.

[8] Lemonon, op. cit., pp. 217ss., 245.

[9] Cfr. A. Pelletier, L’originalité du temoignage de Flavius Joséph, in «RSR» 52, 1964, pp. 177ss. ; Lemonon, op. cit., pp. 174ss. La sostanziale autenticità del testo di Giuseppe è sostenuta da L. Préchac, Réflexions sur le testimonium Flavianum, in «Bibl. de l’Association Budé», 1969, pp. 101ss.; I. Ramelli, Alcune osservazioni circa il Testimonium Flavianum, in «Sileno», 24, 1998 (2000), pp. 21ss.; e ora in «Stylos», 12, 2003, pp. 109ss.

[10] Sulla lettera di Mara Bar Serapion, v. J. Blinzler, op. cit., pp. 43ss. (che la data poco dopo il 73 d.C.); I. Ramelli, Storicismo e Cristianesimo in area siriaca, in «Sileno», 25, 1999 (2001), pp. 197ss.; e ora in «Stylos», 12, 2003, p. 111, che pensa alla stessa data.

[11] Particolarmente interessante a questo proposito è il IV editto di Cirene, 1.63. Sui problemi posti da questo editto e dal suo confronto col I editto di Cirene, v. F. De Vischer, Les édits de Cyrene, Osnabrück 19652, pp. 16ss., p. 68; cfr. Lemonon, op. cit., p. 77.

[12] Juster, op. cit., pp. 81ss.

[13] Cfr. l’analisi del Lemonon, op. cit., pp. 81ss.

[14] P. Winter, Marginl Notes ecc., in «Z.N.W.», 50, 1959, pp. 22ss. Per la confutazione di tale ipotesi v. Blinzler, op. cit., pp. 203ss.

[15] Fl. Jos. B.I. VI 126; A.I. XV 417; l’iscrizione è pubblicata in «Rev. Arch.», 23, 1872, p. 220: essa afferma tra l’altro che colui che sarà preso dentro il tempio «sarà causa a se stesso della propria morte».

[16] Un esempio di un procedimento di questo tipo ci è fornito da At 21, 27ss., in cui Paolo, colto nel tempio con alcuni presunti pagani, rischia la lapidazione immediata ed è salvato in extremis dall’intervento romano.

[17] L data è ricavabile da Gal 1, 15-24, che colloca nel 36 l’incontro di Paolo a Gerusalemme con gli Apostoli (14 anni prima del 49, col calcolo inclusivo), incontro posteriore di tre anni alla conversione di Paolo (e alla morte di Stefano); cfr. M. Sordi, in «Studi Romani», 8, 1960, pp. 393ss. Per S. Dockx, Date de la morte d’Etienne, in «Biblica», 55, 1974, pp. 65ss., la morte di Stefano risale al 36.

[18] F. Parente, in «Riv. di Filol. Class.», 94, 1968, p. 77.

[19] Così Blinzler, op. cit., p. 213 (con precedente bibliografia) e, ora, Lemonon, op. cit., pp. 92ss.

[20] M. Sordi, Il cristianesimo e Roma, Bologna 1965, pp. 23ss.

[21] Fl. Jos. A.I. XX 91 (200); cfr. Blinzler, op. cit., p. 212; Lemonon, op. cit., p. 90. I sostenitori dei poteri del Sinedrio in materia di esecuzioni capitali interpretano il passo nel senso che l’abuso di Ananos sarebbe stato quello di aver convocato il Sinedrio senza l’autorizzazione romana (cfr., da ultimo, Smallwood, op. cit., pp. 149ss.). Questa interpretazione, già respinta da me in «Riv. di Filol. Class.», 98, 1970, pp. 309ss., è rifiutata anche da Lemenon, op. cit., p. 91 e n. 129.

[22] L’abilità dell’accusa montata dai grandi sacerdoti contro Gesù è messa in rilievo dal Lemonon, op. cit., p. 188 e n. 202.

[23] L’attacco di Seiano al Giudaismo è ricordato da Filone (Leg. ad Caium, 159/61; In Flaccum, 1) ed è collocato dalla Smallwood, in «Latomus», 15, 1956, pp. 322ss., intorno al 28/31 d.C. Tiberio si era, in effetti, mostrato ostile al proselitismo giudaico a Roma già nel 19 (Tac. Ann. II 85, 4; Suet. Tib. 36, ecc.). Tale ostilità riguardava però solo il proselitismo in Roma e non toccava né la liceità del Giudaismo né, tantomeno, il rispetto della religione giudaica in Palestina.

[24] Phil. Leg. ad Gaium, 299ss.; cfr. Lemonon, op. cit., pp. 205ss., che colloca l’episodio dopo il 31 (anno della caduta di Seiano); cfr. pp. 133-134 (con bibliografia n. 20) e pp. 223ss.; su questo e altri interventi di Pilato, v. G. Firpo, Erennio Capitone e Ponzio Pilato, in «Studi offerti a… C. Vona», Chieti 1987, pp. 237ss.

[25] Fl. Jos. A.I. XV 405; XVIII 90ss., 122ss. Per la Smallwood, op. cit., pp. 171ss., le visite furono due, una nel 36 e l’altra nel 37; per il Lemonon, op. cit., pp. 242ss., furono tre, una nel 36 e due nel 37.

[26] Cfr. supra n. 17.

[27] At 11, 26. Sull’origine romana e ufficiale del nome cristiano v. R. Paribeni, in «Atti R. Acc. Lincei», 1927, p. 685; E. Peterson, in Miscellanea G. Mercati, Città del Vaticano 1946, p. 362; M. Sordi, op. cit., pp. 30 e 456-457; G. Scarpat, Il pensiero religioso di Seneca, Brescia 1977, p. 134 n. 8; S. Xeres, Il nome Christianoi, in CISA, 18, 1992, pp. 211ss.

[28] Lemenon, op. cit., pp. 274ss., per il quale, come già per la Smallwood, in «J. th. S.», NS 13 (1962), pp. 14ss., Caifa fu deposto proprio a causa dei suoi rapporti con Pilato.

[29] Per il 35 d.C. Chron. Hieron., pp. 176-177 Helm; Chron. Pasch., p. 430. Tertulliano (Apol. V 2) ed Eus. (H.E. II 2, 1) non danno una data precisa, ma sembrano presupporre la già avvenuta diffusione del Cristianesimo in tutta la Palestina (ciò che ci porta alla dispersione degli Apostoli in Giudea e in Samaria, seguita alla lapidazione di Stefano, At 8, 1ss.).

[30] Fl. Jos. A.I. XV 405 (Vitellio scrive a Tiberio); XVIII 90 (Vitellio va a Gerusalemme con la risposta di Tiberio: è nel corso di questo intervento che Vitellio destituisce Caifa); di Vitellio sono attestati dei Commentarii, che Tertulliano conosceva e di cui si trovano le tracce nelle A.I. di Flavio Giuseppe, cfr. A. Galimberti, I commentarii di L. Vitellio, in «Historia», 48, 2, 1999, pp. 224ss.

[31] Fl. Jos. A.I. XVIII 85ss. Sull’episodio del monte Garizim, v. Lemonon, op. cit., pp. 230ss.; G. Firpo, art. cit., p. 253.

[32] Si tratta degli Iberi del Caucaso, con cui L. Vitellio ebbe effettivamente a che fare (Tac. Ann. VI 32, 5; 33, 1) e non degli Spagnoli (F.H.G. V, pp. 329-330, trad. franc.). Su questi argomenti v. M. Sordi, I primi rapporti fra lo stato romano e il Cristianesimo, in «Rend. Acc. Lincei», 12, 1957, pp. 81ss.; I. Ramelli, Edessa e i Romani, in «Aevum», 73, 1999, pp. 107ss.

[33] M. Sordi, I primi rapporti…, pp. 59ss.; Ead., L’apologia del martire Apollonio, in «Rivista di St. della Chiesa», 18, 1964, pp. 169ss.; Ead., Il Cristianesimo e Roma, cit., pp. 25ss. e passim.

[34] Lemenon, op. cit., pp. 254-255.

[35] Cfr. A. Giovannini, Tacite, l’incendium Neronis et les Chrétiens, in «Rev. Etud. August.», 30, 1984, pp. 3ss. (che ritiene, ma, a mio avviso, a torto, che il s.c. fosse di età neroniana). Attribuendo ad Apollonio (che, secondo Gerolamo, era senatore) la notizia di Tertulliano, si spiegano due presunte difficoltà della notizia stessa: a) la conoscenza da parte dell’apologista di un documento che doveva trovarsi negli archivi del Senato accessibili solo ai senatori; b) la denominazione di Syria Palaestina (attuale al tempo di Apollonio) della provincia di Giudea.

[36] Su questo frammento v. ora M. Sordi – I. Ramelli, Il senatoconsulto del 35 in un frammento porfiriano, in «Aevum», 78, 2004, pp. 59ss.

[37] Cfr. Lemenon, op. cit., p. 238.