Tiberio Sempronio Gracco

di W. Blösel, I Gracchi e la disgregazione della nobilitas fino alla dittatura di Silla (dal 133 al 78), in Id., Roma: l’età repubblicana. Forum ed espansione del dominio (trad. it. a cura di U. Colla), Torino, Einaudi, 2016, pp. 133-138.

 

I due fratelli che dovevano dare un forte impulso alla storia degli anni dal 133 al 121 appartenevano all’alta nobilitas, e in certo modo vi erano quindi predestinati. Tiberio Sempronio Gracco, nato nel 162, e suo fratello Gaio, più giovane di nove anni, avevano per padre un uomo che era stato due volte console (nel 177 e nel 163) e aveva celebrato un trionfo, e per madre Cornelia, la figlia di Scipione l’Africano. Inoltre la loro sorella Sempronia aveva sposato Scipione Emilano. All’età di soli quindici anni, Tiberio Gracco, al comando di suo cognato, aveva ottenuto la corona muralis, perché per primo era salito sulle mura di Cartagine. Aveva poi sposato la figlia di Appio Claudio Pulcro, il censore del 136, appartenente anch’egli alla più elevata nobilitas. Ma la vergogna di aver concordato e redatto nel 137, quand’era questore, gli articoli del trattato della capitolazione di Mancino di fronte ai Numantini parve aver posto termine alla sua carriera prima ancora che fosse cominciata. Perciò, Tiberio Gracco cercò di riacquistare popolarità come tribuno della plebe.

Al massimo dall’inizio del III secolo, però, il tribunato della plebe non era più, fatte salve poche eccezioni, come quello di Gaio Flaminio nel 232, un mezzo per imporre le richieste dei semplici cittadini, ma piuttosto un metodo impiegato dall’aristocrazia senatoria per soffocare sul nascere, grazie al veto tribunizio, le iniziative di legge dei sommi magistrati che fossero ad essa sgradite, e per produrre consenso all’interno del ceto dirigente.

 

Due personaggi togati (forse magistrati). Statuetta, bronzo, I sec. d.C. Getty Museum.

 

Contro le iniziative di legge di Gracco l’opposizione di molti tra i senatori era garantita: infatti, egli mirava a limitare fortemente l’utilizzazione dell’ager publicus da parte dei Romani ricchi, che fino a quel momento l’avevano occupato quasi completamente. Ognuno di essi avrebbe dovuto occuparne infatti soltanto cinquecento iugera (= centoventicinque ettari), e in aggiunta altri duecentocinquanta iugera (= sessantadue ettari e mezzo) per ogni figlio. Agli attuali proprietari doveva quindi rimanere ancora una parte considerevole dell’agro pubblico, e inoltre in pieno diritto di proprietà. L’agro pubblico così recuperato doveva essere distribuito agli agricoltori poveri: ognuno doveva riceverne da venti a trenta iugeri (= da cinque a sette ettari e mezzo), sufficienti al mantenimento di una famiglia. I nuovi possessori dovevano inoltre versare un piccolo vectigal allo Stato, anche a indicare che non erano proprietari del lotto di terreno, che doveva restare inalienabile. In generale, la proposta di legge agraria avanzata da Gracco può essere considerata di ispirazione moderata, tanto più che il limite legale di cinquecento iugeri di agro pubblico sussisteva già almeno dal 167, anche se evidentemente non era mai stato rispettato con rigore. Dietro alla sua iniziativa c’erano comunque anche il suocero, Appio Claudio Pulcro, poi Publio Mucio Scevola, il noto giurista, oltre che console per il 133, e suo fratello Publio Licinio Crasso Divite Muciano, il futuro console del 131: tutti pesi massimi, nella scena politica romana. Probabilmente, l’idea fu di Pulcro, un uomo estremamente sicuro di sé, che intendeva in tal modo toccare problemi che angustiavano una molteplicità di cittadini e acquistarsi così una popolarità legata a contenuti concreti. Già nel 145, però, o forse nel 140, una proposta simile di distribuzione delle terre, presentata da Gaio Lelio, era fallita per l’opposizione dei senatori. Per questo motivo Gracco presentò la propria proposta direttamente al popolo per il voto, senza consultare precedentemente il senato, in modo che un parere negativo di quest’ultimo non potesse incidere sulle sue possibilità di fronte ai comizi.

 

Gruppo dell’Aratore. Statuetta, bronzo, 430-400 a.C. ca. da Arezzo. Roma, Museo di Villa Giulia.

 

Nell’adottare questa insolita procedura, Tiberio Gracco approfittò di una recente innovazione. Infatti, la Lex Gabinia tabellaria, del 139, e la Lex Cassia, del 137, avevano prescritto la votazione per mezzo di tabellae (schede), quindi segreta, nell’elezione dei magistrati e nel tribunale popolare. Per i voti sulle proposte di legge, questo avvenne certamente soltanto nel 131, grazie alla Lex Papiria. Prima, i cittadini romani avevano sempre espresso a voce il loro voto di fronte allo scrutatore. Gli stretti passaggi sui quali votavano, i pontes, erano però abbastanza ampi da permettere il controllo da parte dei loro patroni. L’introduzione delle schede indica già quindi un precedente allentamento delle relazioni clientelari tra ceti elevati e semplici cittadini, mentre per la massa dei Romani che si erano riversati nella metropoli nel corso del II secolo certamente ci si possono attendere soltanto deboli legami con i patroni. E però, proprio la votazione segreta verosimilmente puntellò il sistema clientelare, in quanto in questo modo un cittadino legato a più patroni poteva evitare di mettere in pubblico questa sua situazione conflittuale. E le parecchie migliaia di sostenitori che accompagnavano Tiberio Gracco nelle sue apparizioni pubbliche stanno a dimostrare che era riuscito a legare politicamente a sé moltissimi cittadini.

Aspettandosi violente orazioni a lui contrarie da parte dei senatori nelle tre contiones che precedevano il voto, la strategia oratoria di Gracco fu aggressiva fin dall’inizio. Secondo Plutarco[1], che riporta almeno nel suo indirizzo generale l’orazione di Gracco, nota ancora alle generazioni successive, egli compianse il dolore dei soldati-agricoltori romani, che venivano chiamati da generali ipocriti a difendere sepolcri e santuari ma che non erano più nemmeno padroni di se stessi, che erano celebrati come signori del mondo ma non potevano dire propria neppure una zolla di terra. Erano costretti, infatti, a combattere soltanto a beneficio di altri.

 

C. Cassio Longino. Denario, Roma 63 a.C. Ar. 3,75 gr. Rovescio: Longin(us) IIIV(ir). Cittadino in atto di votare, stante, verso sinistra, mentre ripone una tabella contrassegnata con U(ti rogas) in una cista.

 

La sua forte polemica contro la nobilitas spiega la dura opposizione da parte dei senatori, per i quali la restituzione di parte dell’agro pubblico già utilizzato avrebbe significato la perdita degli investimenti fatti per le coltivazioni di ulivi e altri alberi da frutto. Verosimilmente, nella legge agraria gli agricoltori più poveri fiutarono invece la possibilità di disporre di mezzi e terreno sufficienti per vivere, e anche quella di essere reclutati come legionari. La legge offriva infatti la possibilità di allargare notevolmente la base del reclutamento per l’esercito, sempre più stretta. Oltre alla sostanziale fondatezza degli argomenti di Gracco, forse i cittadini gli si avvicinarono nella prospettiva di non essere più solo un mero serbatoio di voti, utile al ceto superiore, ma di poter acquisire un proprio peso politico come forza d’opposizione, diventando quindi una sorta di «ago della bilancia». Comunque, l’aristocrazia senatoria tracciò una linea di sbarramento, inducendo un altro tribuno della plebe, Marco Ottavio, a opporre il veto alla lettura della proposta. Gracco annunciò allora la sospensione generale di tutte le attività amministrative (iustitium). Di fronte alla plebs urbana schierata con Gracco, non ebbe effetto il rituale squalor dei senatori, che si vestirono a lutto. In seguito alle preghiere rivoltegli da due consolari, Gracco accettò di trattare ancora con i senatori. Ma il loro contegno duramente ostile rese impossibile il compromesso, e Gracco rifiutò ulteriori incontri. Per quanto la cultura politica di Roma repubblicana richiedesse, in caso di forti conflitti d’opinione, di fare concessioni reciproche per salvare la faccia e giungere a un accordo, Gracco non poté accondiscendere alle richieste eccessive dei senatori e ritirare la legge agraria, tanto più che la plebe ne aveva riconosciuto l’assoluta fondatezza. Quando Ottavio pose duramente il proprio voto, Gracco fece votare dall’assemblea popolare la sua destituzione dalla carica, poiché Ottavio, per quanto fosse tribuno della plebe, non agiva nell’interesse del popolo. Nel pensiero di Gracco, l’idea astratta della volontà popolare era al di sopra di tute le funzioni di controllo e di creazione del consenso che il tribunato della plebe aveva esercitato nei due secoli precedenti. Dopo che già diciassette delle trentacinque tribù ebbero votato per la destituzione di Ottavio, prima della lettura del voto decisivo, quello della diciottesima, Gracco chiese ancora una volta a Ottavio di ritirare il proprio veto. Come la cittadinanza riunita in assemblea giudicasse la destituzione, del tutto priva di precedenti e molto dubbia dal punto di vista costituzionale, di un regolare tribuno della plebe, si comprese facilmente a destituzione avvenuta, perché subito dopo cercò, pur vanamente, di linciarlo.

 

Giannino Castiglioni, Mensor romano intento all’utilizzo della groma per tracciare allineamenti ortogonali. Scultura, fusione di bronzo a cera persa, 1936-1937. Reggio Emilia, Museo della Civiltà Romana.

 

Nella commissione preposta all’applicazione della legge agraria, Gracco fece eleggere se stesso, suo fratello Gaio, allora impegnato come soldato nell’assedio di Numanzia, e suo suocero, Appio Claudio Pulcro. Il senato, però, negò alla commissione i fondi necessari. Più ancora, il suo lavoro fu impedito dalla mancanza di esatti rilievi catastali dei territori dell’Italia meridionale. Inoltre, spesso venivano spostate le pietre di confine, terreni sottoposti a diverso regime giuridico venivano confusi insieme, o ancora una porzione di agro pubblico era stata venduta, contro la legge, e i nuovi possessori non volevano restituirla. La commissione agraria fu subissata perciò di denunce. Vista la situazione, Gracco con una legge le affidò quindi anche l’arbitrato nei conflitti, e il ceto superiore perse così ogni voce in capitolo contro questa magistratura, che riuniva in sé la fase istruttoria e quella giurisdizionale.

Cippo gromatico graccano. Illustrazione dal CIL I, 2933a (p. 923) = AE 1973, 222 = AE 1980, 354a, da Celenza Valfortore (FG).

Alla mancanza di fondi della commissione agraria venne poi in soccorso una circostanza favorevole e insperata: Attalo III, re di Pergamo, nel suo testamento lasciò in eredità il proprio regno ai Romani. Infatti, dopo la guerra di Perseo del 168, le continue vessazioni di Roma contro il regno di Pergamo avevano indotto Attalo ad affidarne la responsabilità direttamente ai Romani, dopo la sua morte (che avvenne poi nel 133). Gracco, proponendo per legge di utilizzare gli introiti provenienti dall’eredità di Pergamo per coprire le spese della legge agraria, sorpassò il senato nel suo ambito precipuo, la politica estera e finanziaria. Il senato rischiava perciò di essere messo ai margini dall’assemblea popolare. In seguito a questo attacco frontale, Gracco doveva aspettarsi, al termine della carica, di essere accusato davanti a un tribunale composto esclusivamente da senatori. Il suo rientro nei ranghi della nobilitas non pareva più possibile. Per evitare la fine della propria vicenda, non gli rimaneva che cercare di proseguire nella carica, restando in tal modo giuridicamente inattaccabile.

Quando, nell’estate del 133, si presentò per essere rieletto, molti dei suoi sostenitori, provenienti dalla campagna, non poterono essere presenti, perché era il pieno periodo della mietitura. Il pontifex maximus Publio Cornelio Scipione Nasica riunì allora un folto gruppo di senatori per cercare insieme la svolta decisiva. Diffusero quindi ad arte la voce per cui Gracco avrebbe in realtà mirato al regno, e si sarebbe già addirittura procurato il diadema regale di Attalo. Poi, infuriati, sempre con il sommo sacerdote in testa, assaltarono con i loro accoliti il Campidoglio, dove si svolgevano i comizi elettorali, e il popolino alla vista di tutti quei senatori armati di pietre e randelli arretrò. Due tribuni della plebe colpirono allora Gracco con una gamba di seggio; in totale persero la vita circa duecento Romani. Il cadavere di Gracco fu gettato poi nel Tevere, per impedire che si potesse identificare un luogo preciso dove ricordare e venerare la sua figura di martire politico. Nei mesi seguenti, molti dei suoi sostenitori vennero condannati a morte, senza possibilità di difesa.

 

L’uccisione di Tiberio Gracco. Illustrazione di Denis Gordeev.

 

Un assassinio nel cuore per definizione pacificato della repubblica, anzi addirittura nel centro religioso di Roma, rappresentava un salto di qualità, nella lotta politica. La particolare forma in cui si era manifestata la violenza dei senatori, che non avevano scelto la spada, come sarebbe stato nella consuetudine aristocratica, ma si erano presentati al popolo con armi come pietre e randelli, come se fossero stati essi stessi popolo, doveva far pensare a un tirannicidio.

Tiberio Gracco aveva mirato a sottrarsi al consueto controllo da parte degli appartenenti al suo ordine destituendo il suo collega, facendosi rieleggere e stabilendo l’inoppugnabilità delle decisioni della commissione agraria. Lo sfruttamento delle competenze proprie del tribunato della plebe aveva liberato l’enorme potenziale di questa magistratura, nato nella fase rivoluzionaria della sua fondazione, e aveva creato un precedente che apriva nuove, allettanti prospettive ai giovani aristocratici, in un’epoca di aspra concorrenza e di diminuite risorse.

Questa esplosione di violenza mostra chiaramente il pericolo a cui era esposto il sistema politico di Roma quando le complesse trattative all’interno del suo ceto dirigente venivano bloccate: entrambe le parti erano diventate rappresentative di grandi gruppi, e questo rendeva impossibile qualsiasi concessione, anche parziale. Il consolidamento degli interessi particolari divise la cittadinanza romana, e condusse infine a una sua duratura lacerazione. A tutta questa situazione, si aggiunse l’ambizione personale di Tiberio Gracco, che con la sua proposta clamorosa voleva compensare la perdita d’immagine seguita alle trattative per la capitolazione di Mancino. Soccombere allo strapotere dei nobiles avrebbe significato la fine della sua carriera politica. Secondo il giudizio di uno storico del mondo antico, Bernhard Linke, egli «finì in fuorigioco per la dinamica propria della sua disponibilità al rischio».

 

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Note:

[1] Plutarco, Tiberius Gracchus, 9.

 

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Bibliografia ragionata (tratta da Blösel, pp. 248-250):

BRUNT P.A., The Fall of the Roman Republic and Related Essays, Oxford 1988 (trad. it., La caduta della Repubblica romana, Roma-Bari 1988).

STOCKTON D., The Gracchi, Oxford 1979.

THOMMEN L., Das Volkstribunat der späten römischen Republik, Stuttgart 1989.

 

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Altri studi:

BAUMAN R.A., The Gracchan Agrarian Commission. Four Questions, Historia 28 (1979), pp. 385-408.

BRENDAN NAGLE D., The Etruscan Journey of Tiberius Gracchus, Historia 25 (1976), pp. 487-489.

DART C.J., The Impact of the Gracchan Land Commission and the dandis Power of the Triumvirs, Hermes 139 (2011), pp. 337-357.

GARNSEY P., RATHBONE D., The Background to the Grain Law of Gaius Gracchus, JRS 74 (1985), pp. 20-25.

GEER R.M., Notes on the Land Law of Tiberius Gracchus, TAPhA 70 (1939), pp. 30-36.

KATZ S., The Gracchi. An Essay in Interpretation, CJ 38 (1942), pp. 65-82.

LINDERSKI J., The Pontiff and the Tribune. The Death of Tiberius Gracchus, RQ II (2007), with addenda.

MORGAN M.G., WALSH J.A., Ti. Gracchus (TR. PL. 133 B.C.), The Numantine Affair, and the Deposition of M. Octavius, CPh 73 (1978), pp. 200-210.

ROSELAAR S.T., References to Gracchan Activity in the Liber Coloniarum, Historia 58, 2 (2009), pp. 198-214.

STANLEY SPAETH B., The Goddess Ceres and the Death of Tiberius Gracchus, Historia 39 (1990), pp. 182-195.

TANNEN HINRICHS F., Der römische Straßenbau zur Zeit der Gracchen, Historia 16 (1967), pp. 162-176.

TAYLOR L.R., Forerunners of the Gracchi, JRS 52 (1962), pp. 19-27.

TILLEY A., The Ages of the Gracchi, CR 2 (1888), pp. 37-38.

VON STERN E., Zur Beurteilung der Politischen Wirksamkeit des Tiberius und Gaius Gracchus, Hermes 56, 3 (1921), pp. 229-301.

 

 

 

 

Il generale dell’esercito romano nel I secolo a.C.

di E. GABBA, in M. SORDI (a c. di ), Guerra e diritto nel mondo greco e romano. Contributi dell’Istituto di storia antica, vol. XXVIII, Milano 2002, pp. 155-162.

Questo intervento si basa su alcuni miei lavori precedenti. Come si vedrà dai testi, io sostanzialmente farò riferimento a una serie di scritti che si collocano lungo un percorso cronologico che, pur incominciando dalla fine del IV secolo, in realtà è centrato sul I secolo a.C.

Il concetto base, che rappresenta anche la conclusione, è che la caratteristica del comandante militare romano nel I secolo a.C. è strettamente collegata con un profondo mutamento, intervenuto nella composizione della forza militare romana, che emerge con nette caratteristiche in opposizione alle situazioni precedenti. La connotazione del generale nel I secolo a.C. è, infatti, fondamentalmente militare e sta in rapporto alla situazione socio-politica dell’esercito, che è venuta acquisendo i suoi lineamenti dalla fine del II secolo a.C. e che ha modificato profondamente il rapporto precedente fra il generale e le sue truppe.

Generale romano. Statua, marmo, 75-50 a.C. ca. dal Santuario di Ercole (Tivoli).

Io mi sono già occupato dell’esercito professionale che si contrappone – non in maniera totalmente drastica ma in modo molto evidente – al precedente tipo di esercito che era una milizia cittadina[1]. Il generale del I secolo non è più visto in relazione ai cittadini che si ritrovano nella milizia, dove la distinzione fra chi comanda e chi obbedisce si fonda sul riconoscimento, da parte dei cittadini militi, di una superiorità della propria classe dirigente tradizionale per virtù civiche, politiche e militari. Questo riconoscimento, che prescinde dalla divaricazione di carattere sociale – che fra IV e III secolo a.C. non è così grave come sarà poi –, è testimoniato molto bene dagli elogi degli Scipioni, cioè la messa in epigrafe di laudationes funebri, che si rivolgono al pubblico – almeno quelle del Barbato e del figlio –; in esse c’è il riconoscimento del cittadino, che esercita la sua attività e poi va a combattere nella milizia, nei confronti del suo comandante, il quale a sua volta è un cittadino di grado più elevato di cui si riconosce una certa serie di meriti[2].

Sarcofago di L. Cornelio Scipione Barbato con iscrizione (ILLRP, 309 Degrassi = ILS, I, 1 Dessau). Nefro, III sec. a.C. Mausoleo degli Scipioni sulla Via Appia.

Un altro esempio curioso: in Livio IX 16, 11 ss. c’è l’elogio funebre di Papirio Cursore che fu console nel 326, 320, 319, 315, 313 e dittatore nel 310 a.C. In tale elogio si dice che il cognomen Cursor dipendeva dal fatto che costui sapeva correre molto bene, vale a dire sapeva combattere con velocità, poi si elogia la sua capacità di mangiare, di bere molto e di sopportare bene le fatiche della guerra, cioè delle caratteristiche estrinseche e tuttavia interessanti. Un altro esempio ancora è il decalogo della laudatio funebris pronunciata nel 221 a.C. dal figlio per L. Cecilio Metello (Oratorum Romanorum fragmenta, ed. E. Malcovati, IV edizione, p. 10)[3] dove si dice che Metello si vantava di aver raggiunto dieci aspetti fondamentali nella vita politico-militare, fra i quali non figurano né il favore degli dèi, né i rapporti con i suoi cives: sono esclusivamente virtù e capacità personali che sono emerse nell’esercizio della sua attività politico-militare come cittadino romano dell’oligarchia.

L’avvio al riconoscimento al generale di un potere carismatico avviene in seguito con Scipione Africano, che rappresenta però nel suo contesto storico un’eccezione[4]. Mi limito a citare l’episodio di Carthago Nova nel 209 a.C., quando si trattava di dare l’assalto a questa fortezza cartaginese in Spagna. L’episodio è circondato da un alone carismatico che sfiora la leggenda. In Polibio X 2, 2-20 e in Livio XXVI 41, 3-25 (con un discorso che però qui non interessa) la giustificazione dell’impresa militare data dal generale ai suoi soldati è il motivo dell’appoggio divino, che sarà poi tradizionalmente connesso con la personalità di Scipione; è determinante questa affermazione nel rapporto verso i militi, per convincerli che l’impresa non sia disperata e perché ritengano invece possibile compierla. A questa giustificazione si sommano altre due caratteristiche: Scipione è presentato come esempio di continenza e di disinteresse. Si tratta di un caso abbastanza isolato. La motivazione dell’appoggio divino per il comandante militare è una cosa molto diversa dagli onori divini che il mondo greco attribuisce ai generali romani che combattono in Oriente.

Littore. Statuetta, bronzo, I sec. d.C. London, British Museum.

La situazione cambia completamente nel corso del II secolo a.C. e in proposito vi sono alcuni testi assolutamente fondamentali[5]. Mi riferisco al caso di Tiberio Gracco che nel 133 a.C. presenta la sua legge agraria. Come è noto, le due fonti principali sono le Guerre Civili di Appiano I 1 e la biografia dei due fratelli Gracchi di Plutarco, riportano dei brani di discorsi che Tiberio Gracco ha tenuto (non entro nel problema complicatissimo delle fonti, ma è ammesso che questi sono frammenti fededegni). Le argomentazioni che Tiberio adduceva erano di due tipi: quelle di fronte al Senato e quelle di fronte al popolo. Quello che ci interessa è uno dei discorsi tenuti davanti al popolo, in cui Tiberio afferma che i generali, quando tengono i loro discorsi ai soldati prima della battaglia raccontano delle cose inattuali allorché sostengono che il combattimento avviene pro aris et focis: siamo al di fuori di questa mentalità, perché la maggior parte dei soldati non ha neanche la tana che hanno le bestie, né focolari, né tombe da difendere. Perciò tale discorso giustificativo non è più attuale. Naturalmente dietro a questa inattualità c’è il fatto che i ceti medi che fornivano gli adsidui sono decaduti e si sono proletarizzati; perciò non c’è più una corrispondenza fra la realtà sociale della milizia alla quale i generali si rivolgono con gli argomenti antichi e le realtà che sono invece completamente nuove.

Questo è interessante perché fornisce un altro argomento a dei ragionamenti che troviamo, più che nel testo di Tiberio, negli scritti di Sallustio. Alla base di questo nuovo modo di ragionare, cioè l’assenza di corrispondenza fra la realtà sociale e i motivi tradizionali con i quali i soldati venivano incitati alla battaglia dai loro generali, emerge un ragionamento già presente in pensatori greci anche del V e del IV secolo a.C.: combatte volentieri chi ha qualcosa da difendere; chi non ha nulla da difendere combatte semplicemente per guadagno; da qui la famosa frase di Sallustio et omnia cum pretio honesta videntur, vale a dire tutte le cose diventano onorevoli se però c’è un contraccambio[6]. Sallustio presta questa tematica – peraltro ricorrente nella sua opera – anche alla fine del II secolo a.C. con un riverbero però di situazioni successive. Comunque nel discorso di Tiberio Gracco, il generale con quelle sue giustificazioni non è più in grado di corrispondere alla realtà sociale delle sue truppe.

Nel 106 a.C., Bellum Iugurthinum di Sallustio cap. 85, su cui ha scritto anche la collega Sordi[7], è il famoso discorso di Mario dopo la sua elezione, dove ci sono nuovi motivi dell’età triumvirale (quando, cioè, scrive Sallustio, che è in polemica con l’età triumvirale ma anche con Cicerone volendo rappresentare il declino della nobiltà oligarchica, che Sallustio fa risalire appunto al periodo della guerra giugurtina). In questo discorso ci sono almeno quattro punti da tener presenti: Mario elogia i suoi mores che non dipendono dalla tradizione ma sono di buona gente contadina, esalta la sua novitas – motivo caricato di significato dall’età triumvirale –, combatte l’avaritia dei generali dell’oligarchia (par. 45) e fa balenare la speranza di preda per i soldati. Siamo quindi di fronte a una realtà nuova e, in linea con gli argomenti del discorso di Tiberio Gracco, incomincia a far capolino l’accusa di avaritia ai generali dell’oligarchia, alla quale si contrappone Mario con i suoi mores intemerati che derivano dalla sua novitas, ma c’è anche la speranza di preda. Qualunque sia l’aderenza del discorso più o meno attuale, tuttavia esso conferma i frammenti di Tiberio Gracco, vale a dire che il richiamo di valori ideali per la truppa è ormai al di fuori di ogni attualità.

La milizia cittadina che si richiamava ai valori ideali è in via di sparizione; in questo contesto avviene la teorizzazione della necessità di arruolare truppe volontarie, che sono disposte a fare tutto agli ordini del generale per essere ricompensate, e così vengono meno la difesa del patrimonio e l’amor patrio. Il prestigio del generale si va sempre più appoggiando anche a interventi della divinità. Gli dèi intervenivano nella discussione polemica sull’imperialismo romano del II secolo a.C. come motivo giustificatorio verso l’esterno: sono numerosissime le iscrizioni di II secolo in cui è presente questo tema. Ora riprendiamo il motivo già presente in Scipione dell’appoggio della divinità, che diventa motivo strumentale interno per il rapporto fra il comandante e i suoi soldati; l’esempio più tipico è quello di Silla che addirittura assunse il cognome di Felix, nel senso di «fortunato», che nell’appellativo greco di ἐπαφρόδιτος veniva ad assumere il senso di essere appoggiato da Afrodite. Il generale dalla fine del II secolo a.C. ritiene normale richiamare questi motivi carismatici come evento legittimante, che sostituisce l’ideale della difesa della patria e rappresenta anche, come sappiamo, un contesto assolutamente nuovo.

L. Cornelio Silla. Aureo, campagna orientale, 84-83 a.C. AV 10, 76. Recto: Testa diademata di Venere voltata a destra con Cupido stante, tenente una foglia di palma (L. Sulla).

La personalità del generale, i suoi comportamenti e i suoi rapporti con le truppe diventano oggetto di una teorizzazione, che non era mai esistita in precedenza, se non negli accenni che prima ho fatto, e questa teorizzazione si collocava verso gli anni ‘60 del I secolo a.C. e si sviluppa attraverso il confronto fra due grandi personalità: il più grande generale dell’oligarchia del tempo, L. Licinio Lucullo, e Pompeo Magno. Il confronto avviene al momento della sostituzione di Lucullo con Pompeo nella conduzione della guerra mitridatica, cioè attorno al 67-66 a.C. La fonte principale è l’orazione De imperio Cnei Pompei del 67 a.C. per la legge Manilia e i passi che vedremo rappresentano una lunga trattazione dal par. 28 al par. 48[8].

Qui si pone un altro problema: se dietro all’orazione ci sia non solo una rielaborazione del testo pronunciato, ma anche una lunga discussione sulla figura del comandante, perché il problema è affrontato anche in modo esplicito nella biografia di Lucullo di Plutarco capp. 7 e 32-35, dove c’è una lunga spiegazione del modo di comportarsi di Lucullo, di cui si riconoscono i meriti militari indiscutibili, ma si accenna anche al fatto che tutte le campagne militari da lui condotte non hanno mai rappresentato il colpo decisivo per distruggere Mitridate. Questa discussione dei comportamenti di Lucullo si basa sopra alcuni motivi ben precisi: il suo distacco fortissimo verso le truppe – egli trascurava, cioè, le ragioni di soldati che combattevano da decenni in Asia –, il suo disprezzo per le loro esigenze di remunerazione e le accuse di approfittarsi della guerra e dei bottini. La biografia di Lucullo dipende dalle Historiae di Sallustio, come dice Plutarco; sarebbe interessante vedere se il testo di Sallustio, ripreso da Plutarco, risponde all’orazione ciceroniana e se ci siano alla base delle riflessioni dello stesso Cesare.

Cicerone (De imperio Cn. Pompei, par. 28) dice: in summo imperatore quattuor has res inesse oportere, scientiam rei militaris, virtutem, auctoritatem, felicitatem e poi spiega che con scientia rei militaris si intende che il generale deve essere competente. Questa è un’esigenza sempre più precisa anche quando la professione del generale ha un suo valore autonomo; nel IV secolo e ancora in seguito nessuno pretendeva che ci fosse una scientia rei militaris, al massimo si suppliva con un legato esperto. La virtus è il valore, il generale deve impersonare il valore militare, deve essere capace cioè di tradurre la scientia rei militaris in un’azione diretta. Poi l’auctoritas, come spiega Cicerone, significa avere autorevolezza sui soldati, allontanando da sé ogni accusa di avaritia. Infine la felicitas, cioè la fortuna: bisogna mostrare che il generale ha avuto l’appoggio degli dèi. Tutte qualità che non si ritrovano combinate in Lucullo. Ne emerge una figura di generale completamente nuova che corrisponde al nuovo rapporto che si è stabilito fra lui e le sue truppe, mentre passa del tutto in secondo piano il fatto che il generale rappresenti la res publica. Nel Bellum Hispaniense[9] si dice che un sottoufficiale, che aveva combattuto con Pompeo, passa dalla parte di Cesare perché il suo generale non aveva più avuto fortuna. Non si tratta di un “ribaltone”: semplicemente bisogna passare dalla parte di chi ha l’appoggio degli dèi. Siamo di fronte a una consapevolezza nuova.

«Minerva Giustiniani». Statua, marmo pario, seconda metà I sec. d.C. ca. dal Tempio di Minerva Medica sull’Esquilino. Roma, Musei Vaticani.

Mi sono occupato del problema in un volumetto sulle rivolte militari romane pubblicato nel 1974, dove avevo già precisato questi punti ma senza questo approfondimento. Nel De bello Gallico I 40, 12-13, al momento dello scontro militare di Cesare con Ariovisto a Vesontio (Besançon), ci sono i prodromi di una rivolta militare nella raffigurazione piena di sarcasmo che Cesare dà dei soldati e soprattutto dell’ufficialità, venuta al seguito del generale nella speranza del bottino, quando, resa nota la descrizione dei soldati di Ariovisto, si diffonde un timor panico in tutto l’esercito. Cesare interviene con questo discorso in cui chiede da quando in qua i soldati discutono col generale il diritto al comando: se il generale dà un ordine vuol dire che questo è possibile (scientia rei militaris), d’altra parte gli risulta che nei casi in cui un qualche esercito si sia rifiutato di ubbidire dipendeva dal fatto o che nelle campagne militari precedenti era mancata la fortuna (aut male re gesta fortunam defuisse) o aliquo facinore comperto avaritiam esse convictam, in seguito a qualche mal fatto era legittima l’accusa di avaritia verso il generale.

Ritornano nel discorso di Cesare almeno tre dei motivi fondamentali della connotazione che doveva esserci, secondo Cicerone, nel generale. Uno è il tema dell’avaritia, l’altro è quello della fortuna, cioè dell’appoggio degli dèi, e il terzo è quello della scientia rei militaris, e poi Cesare aggiunge che suam innocentiam perpetua vita, felicitatem Helvetiorum bello esse perspectam, cioè la sua assoluta purezza di fronte all’avaritia era dimostrata da tutta la sua vita, mentre la sua fortuna era dimostrata dallo scontro da poco concluso con gli Elvezi.

Il passo è ricco di artifizi, perché nella vita di Cesare fino ad allora appariva ben poca innocentia, ma nessuno poteva negare la sua felicitas. Si può andare più a fondo: è noto che questo discorso è stato rielaborato in Cassio Dione XXXVIII 35[10], dove è riportato il discorso di Cesare, ma è molto sbiadita l’aderenza alla rivolte dell’esercito. Ma la questione che Cesare sottace e che emerge in Cassio Dione è che i dubbi degli ufficiali erano sulla legittimità della guerra e non sulle capacità di Cesare di combattere. Tanto è vero che poi Catone propose di consegnare Cesare ai nemici, perché questi andava al di là degli obblighi che gli derivavano dal suo comando in Gallia. È interessante vedere che ci sono chiarissimi riferimenti a Lucullo; per questo dicevo poc’anzi che la figura di Lucullo è stata oggetto di una grossa discussione negli anni fra il 60 e il 50 a.C.; qui siamo nel 58 a.C., e non è passato molto tempo dal ritorno di Lucullo e dall’orazione di Cicerone.

Cesare in più parti del De bello Gallico raffigura se stesso come comandante e in più punti dichiara di essere intervenuto direttamente nello scontro quasi fisico contro l’avversario e qui si collega con un altro passo di Cicerone, il De officiis I 81 (fine 44 a.C.). Cicerone testimonia la lettura estesa del De bello Gallico di Cesare pubblicato fra il 52 e il 51 a.C. nello stesso anno in cui vengono pubblicati anche i libri del De re publica. E nel De officiis afferma: «è cosa bestiale e selvaggia scendere a combattere il nemico in mezzo alle schiere», come aveva fatto Cesare[11]. L’unico caso in cui è lecito combattere direttamente è quando lo si fa per salvarsi dalla schiavitù, cioè per difendere la libertà, che è il tema centrale del De officiis di Cicerone.

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[1] In due memorie del 1949 e del 1951, raccolte poi in GABBA E., Esercito e società nella tarda repubblica romana, La Nuova Italia, Firenze 1973, pp. 1 ss.; 47 ss.

[2] GABBA E., La concezione antica di aristocrazia, «Rend. Acc. Lincei», ser. IX, 6 (1995), pp. 464-468.

[3] ID., Ricchezza e classe dirigente romana fra III e I sec. a.C., ora in ID., Del buon uso della ricchezza, Guerini, Milano 1988, pp. 27-44.

[4] ID., P. Cornelio Scipione Africano e la leggenda, ora in ID., Aspetti culturali dell’imperialismo romano, Sansoni, Firenze 1993, pp. 113-132.

[5] ID., Aspetti culturali dell’imperialismo romano, pp. 37-55.

[6] ID., Esercito e società, pp. 31-45.

[7] SORDI M., L’arruolamento dei capite censi nel pensiero e nell’azione politica di Mario, «Athenaeum», 60 (1972), pp. 379-385; cfr. GABBA E., «Athenaeum», 61 (1973), pp. 135-136.

[8] GABBA E., Le rivolte militari dal IV secolo a.C. ad Augusto, Sansoni, Firenze 1975, pp. 23-24.

[9] Bell. Hisp. 17, 1-2. GABBA E., Le rivolte militari, pp. 73-75.

[10] ID., Aspetti culturali dell’imperialismo romano, pp. 165-168.

[11] ID., Per un’interpretazione del de officiis di Cicerone, «Rend. Acc. Lincei», ser. VIII, 34 (1979) p. 126.

La legge agraria di Tiberio Gracco

di D. Pangaro, Sulla legge agraria di Tiberio Gracco. La versione di Appiano, in InStoria, N. 59 – Novembre 2012 (XC).

La versione di Appiano

 

 

La res publica romana, come ci riporta il libro I delle Guerre Civili di Appiano, non appena effettuava la conquista militare di un determinato territorio lo suddivideva, e ne rendeva una parte ager publicus: questo terreno dello Stato, e quindi dei cives romani, veniva dato agli abitanti delle nuove realtà coloniali che si potevano creare a ridosso delle nuove conquiste oppure o anche a chi si insediava in città già esistenti. La Repubblica romana era solita riconoscere due tipi di giurisdizione alle colonie: erano propriamente dette coloniae Latinae (colonie di diritto latino) e coloniae civium Romanorum (colonie di diritto romano). Queste due realtà giuridiche avevano scopi comuni in origine, ma diritti ed assegnazioni di terra estremamente diverse: se concordiamo con l’ipotesi che queste servissero all’assolvimento di compiti difensivi di territori e coste, si dovrà però notare che queste erano partecipi dell’attività dello Stato in maniera differente, ed usufruivano dell’ager in parti non eguali.
Le colonie di diritto latino godevano di parziali diritti, ed avevano un quantitativo di terra più o meno uguale per tutti gli insediamenti dello stesso tipo giurisdizionale: giusto per citare qualche cifra diciamo che a Thurii, colonia calabrese dedotta nel 194 a.C., i 3000 pedites ed i 300 equites ebbero come dotazione circa 20 iugeri i primi, 40 iugeri i secondi; nell’altra colonia calabrese di Vibo, dedotta circa un anno dopo, i 3700 pedites e i 300 equites, ricevettero rispettivamente 15 iugeri e 30 iugeri.
Numeri importanti, e di sicuro maggiori rispetto a quelli dati in dotazione ai coloni romani, in genere 2 iugeri: ai non addetti ai lavori sembrerebbe che la res publica romana favorisse la nascita di colonie latine e sfavorisse invece quelle di diritto romano, scoraggiando queste ultime con la magra dotazione dei 2 iugeri. In realtà, il fatto stesso di essere cittadini romani dava diritto d’accesso a tutto l’ager publicus, potendo quindi sfruttare l’immenso territorio ottenuto con la conquista. D’altro canto, Roma non poteva occuparsi di approvvigionare le colonie latine, che, anzi, dovevano diventare esse stesse fonte di reddito e di milizie per la res publica: si dovevano creare le condizioni necessarie allo sviluppo di realtà statali formalmente autonome, favorendo la crescita in loco di attività economiche assai redditizie, laddove nelle colonie romane sussisteva il modello socio-agrario della piccola azienda familiare.

La deduzione delle colonie, sia romane sia latine, doveva seguire un iter preciso e prestabilito; in altre parole, occorrevano le giuste formule giuridiche recitate dagli “attori” preposti: in origine ogni nuova colonia veniva avallata con un senatus consultum; considerando che con tale termine si indicava solitamente quella delibera fatta dal Senato in casi d’emergenza, con cui si dava ordine perentorio ai consoli di eseguire gli ordini della res publica a qualsiasi costo, e se si prende ad esempio quello contro i Baccanali e quello ultimum che portò Mario ad intervenire contro i suoi tirapiedi Glaucia e Saturnino, si ha l’impressione che l’atto di fondar colonie fosse – almeno nei primi momenti – una procedura straordinaria, forzata e mal voluta dall’élite patrizia.

Il decreto stabiliva la natura giuridica della colonia (romana o latina) e il numero dei coloni che vi si dovevano recare; in seguito i comitia tributa eleggevano tre commissari incaricati della deduzione coloniale. Questi Triumviri coloniae deducendae agroque dividendo si occupavano di pianificare l’impianto urbano, di stabilire i confini della colonia, di preparare la costituzione della nuova comunità e infine reclutavano i coloni. La costituzione ne definiva la religiosità, l’ambito delle cerimonie, ne assicurava la legge, l’ordine e l’amministrazione della giustizia, oltre che specificare i magistrati locali e la loro modalità di elezione. Ma prima di ciò, i triumviri dovevano suddividere il territorio destinato ai nuovi coloni. Da questa suddivisione venivano escluse le terre viritane, l’ager compascuus, l’ager occupatorius, l’ager publicus stipendiorus datus adsignandus (lasciato al medesimo titolo agli antichi proprietari), l’ager publicus a censoribus locatus e l’ager quaestorius. Il territorio veniva diviso secondo un reticolato di quadrati, che misuravano circa 20 actus (710 metri) per ogni lato, coprendo una superficie totale di 200 iugeri: questi quadrati presero il nome di centurie, da cui la definizione di centuriazione del territorio. Si prendeva come punto di riferimento l’Est, un elemento naturale, e si tracciava una linea verso Ovest: questa prendeva nome di decumanus maximus; perpendicolarmente si tracciava una seconda linea, il kardo maximus, della stessa lunghezza (asse Nord-Sud). Di norma, il decumanus maximus corrispondeva alla strada principale, ed era più largo rispetto al Kardo Maximus, considerato come strada di livello inferiore. In seguito, si tracciavano altri decumani ed altri kardines paralleli a quelli principali, in modo da formare un reticolato di quadrati (la centuriazione).
Volendo rifarci alle fonti, Varrone nel De re rustica ci dà informazioni preziosissime a riguardo dei sistemi di misurazione romane: l’unità fondamentale era il giogo, che in Campania era definito “verso”, mentre presso i Romani e nel Lazio era chiamato “iugera”; 1 giogo (o iugera) era l’estensione di terreno che una coppia di buoi poteva arare in un giorno. Uno iugera corrispondeva a 2 actus quadrati: 1 actus era uguale a 120 piedi in lunghezza e larghezza; 2 iugeri formavano un heredium, un estensione di terra che si vuole sia stato per la prima volta distribuito da Romolo; 100 heredia costituivano una centuria, che era un’area di forma quadrata con lato di 2400 piedi. Le centurie erano disposte in modo che ce ne siano 2 per ogni lato, formando il saltus. L’affidamento ai coloni veniva definito tramite un sorteggio tra gli aventi diritto, e perciò il nome sors degli appezzamenti di terreno dati a questi.
Non sempre il decumanus maximus era orientato nella direzione Est-Ovest, ma poteva essere anche Nord-Sud: in questo caso si dirà che la centuriazione sarà rivolta verso Sud, quindi in Meridiem. Questo orientamento fu eseguito a Cosenza, dove si è riscontrata una centuriazione rettangolare di 200 iugera sulla sinistra del fiume Crati orientata, appunto, in Meridiem, ovvero verso Sud.
Le colonie avevano molteplici scopi: avamposto di difesa delle coste e di controllo interno del territorio, ma potevano essere un’eventuale testa di ponte per un futuro avanzamento nella conquista in un determinato scenario ostile, come anche semplice sfogo demografico di una popolazione in esubero. L’attività coloniaria fu, come ci dice Velleio Patercolo, particolarmente attiva a partire dal 383 a.C., diffondendo la colonizzazione nelle regioni limitrofe del Lazio, per poi arrestarsi nel periodo di tempo tra il 218 ed il 203 a.C., arco di tempo in cui Annibale restò in Italia; l’attività coloniale riprese, almeno in apparenza, nel 197 a.C., con la fondazione delle coloniae maritimae lungo l’Italia meridionale tirrenica, continuando poi negli anni del secondo tribunato di Gaio Gracco con le colonie di Scolacium Minervorum, Tarentium Neptunia e Cartagine, prima colonia extra-italica, consacrata a Giunone (Carthago Iunionia). Nell’età dei Gracchi, a differenza di quanto fossero stati negli anni precedenti, le colonie si distinsero per il ruolo economico e sociale che andavano rivestendo, ovvero si rivelarono un mezzo potente per risollevare le condizioni agricole nella penisola italiana, oltre che provvedere al bisogno delle masse di veterani.

Illustrazione che mostra l’utilizzo della groma per la centuriazione dei campi. Ricostruzione di G. Moscara.

 

Tiberio Gracco e la sua “vecchia” legge

Nel primo dei cinque libri delle Guerre Civili, il tredicesimo dei ventiquattro che compongono la Ῥωμαϊκά (Storia romana) di Appiano ci viene mostrata, sullo sfondo di una tensione via via crescendo tra alcuni personaggi, i più illuminati del tempo, e i rappresentanti della res publica, tanto gelosi del proprio potere quanto impauriti nel perderlo: questa situazione sfocerà in contrasti dapprima sul piano politico-legale ma successivamente in ripetuti massacri, conseguente poi ad una situazione terriera difficile, che schiacciava il civis romano, o l’Italico, proprietari di piccoli appezzamenti di terra, mentre ingrassava il patrimonio fondiario dei grandi possidenti terrieri. Da quello che apprendiamo dal testo di Appiano, la terra presa da Roma veniva, quando non assegnata per le deduzioni coloniali, venduta o affittata. I Romani erano soliti distinguere le terre conquistate, denominandole in maniera differente a seconda dell’utilizzatore finale: l’ager colonicus era dedicato alla fondazione di colonie; l’ager viritanus datus adsignatus, ovvero assegnazioni viritane (da viritim), date ai singoli cittadini; con ager compascuus scripturarius si denominava la parte comune di terreno lasciata al pascolo; infine l’ager occupatorius o arcifinalis, che era appannaggio esclusivo dei cittadini romani, pagando però un canone all’Erario. Sull’ager viritanus ci sarebbe da dire un altro aspetto molto importante, ovvero quello sociale. Queste assegnazioni sono fatte a favore dei poveri e dei veterani, e quindi con lo scopo di aiutare la plebe, oltre che di eliminare i latifondi frazionando i terreni. Le assegnazioni viritane erano sempre in minore quantità rispetto alle altre tipologie per l’ovvio motivo di non poter ricavare da queste terre del denaro da parte dello Stato: ma dai Gracchi in poi, questa tendenza cambiò, grazie alla formulazione di leggi agrarie e dalle entrate fiscali delle provincie.
In Appiano vi è citato ager publicus detto quaestorius: era detto così perché era il questore a decidere dell’alienazione di un determinato lotto di terra; la proprietas restava comunque alla res publica (che ufficialmente ne rimaneva il dominus), ma venivano garantiti a chi lo acquistava alcuni diritti, tra i quali l’ereditarietà e la possessio perpetua. Il terreno pubblico indicato per l’affitto era classificato come censorius, poiché erano i censori che tramite una sorta di gara d’appalto mettevano a disposizione la terra, che poteva produrre il più alto tasso di rendita; in cambio si chiedeva al cittadino possessore la corresponsione di un vectigal. La terra non assegnata era affidata – tramite un editto – a chiunque volesse coltivarla, dietro pagamento – anche qui – di un vectigal annuo che poteva essere un decimo, per quanto riguardava le seminagioni, e un quinto, per le colture arboree.

La fonte di Appiano, oltre a ciò, spiega che la terra incolta non fosse assegnata in questo modo per la mancanza di tempo, ma perché questi terreni non erano stimati abbastanza produttivi […]. Il dato riferito dallo storico alessandrino potrebbe restituire una notizia negativa, in quanto mostrerebbe la carenza di cives, cioè un’oligandrìa, volenterosi di lavorare nuove terre in cui non mancavano quelle popolazioni locali italiche cui venivano sottratte. Va inoltre ricordato che ai coloni romani era assegnato un terreno in ottime condizioni, con strutture preesistenti tali da poterlo rendere pronto allo sfruttamento.

Eugene Guillaume, Les Gracques. Gruppo scultoreo in bronzo, 1853. Ajaccio, Musée de Palais Fesch.

 

I ricchi imperversavano, prendendo per se la terra incolta che invece “spettava” agli italici, acquistando i terreni oppure offrendo dei canoni maggiori allo Stato: si rafforzava il ceto dei grandi possidenti terrieri a discapito dei piccoli proprietari, diventati capitecensi e quindi scesi in fondo all’ordinamento censitario. Si ricorse alle disposizioni di legge, limitando a 500 iugeri il terreno usufruibile per ogni cives romano, né di poter pascolare più di 100 capi di bestiame grosso o 500 di minuto. Ci si avvalse anche di un giuramento per vincolare tutti a rispettare le disposizioni dando, per un determinato arco di tempo, respiro ai ‘nuovi poveri’, che poterono restare sulle loro terre pagando l’affitto stabilito e coltivare il lotto assegnato loro fin dall’inizio.
In seguito, mancando forse un organo di controllo o perché coloro che erano preposti a farlo erano i maggiori detrattori della legge, tutto ritornò ad una situazione di caos, con i ricchi che spadroneggiavano sulle terre dello Stato e che, servendosi di prestanome compiacenti, si fecero intestare gli affitti di altre terre, per poi impossessarsene in maniera definitiva, lasciando così la penisola italiana piena sia di poveri non volenterosi di prestar servizio militare e di crescere figli, sia di schiavi impiegati nelle enormi estensioni di terra. Sullo sfondo di questo scenario scompaginato fece il suo ingresso Tiberio Sempronio Gracco che intendeva, grazie alla sua riforma, dare nuovo respiro alle masse di poveri cacciati con la forza dalle loro terre, e quindi nuova linfa al nerbo costituente della più grande ricchezza di Roma, il suo esercito. Egli era uomo nobile e ambiziosissimo, di grande potenza nel parlare, con un’oratoria che avrebbe potuto far apparire bella anche una causa meno nobile: fece una serie di discorsi, in cui ebbe parole di preoccupazione verso quella stirpe italica che tanto aveva dato a Roma, e che rischiava di esaurirsi a causa della povertà e della scarsezza demografica; inoltre inveì contro gli schiavi, inutili per la milizia e giammai fedeli ai padroni. Così il tribuno Tiberio Gracco propose di rinnovare la legge che vietava di occupare oltre 500 iugeri di ager publicus, con l’aggiunta di una clausola che consentiva, ai figli degli occupanti, di avere 250 iugeri a testa, per un totale di 1000 iugeri come possesso permanente e garantito: la terra che avanzava da questa riorganizzazione sarebbe stata riassegnata tra i poveri tramite l’istituzione di una commissione di tre uomini, un triumvirato agrario.
L’esubero di terra, quella occupata ed usufruita senza un pagamento di canone verso i detentori, sarebbe stata incamerata e successivamente suddivisa in lotti di 30 iugeri da distribuire parte ai cives romani, parte agli italici non come libera proprietà, ma come concessione ereditaria ed inalienabile. Il primo di questi triumvirati agrari fu composto da Tiberio Gracco, da suo fratello Gaio e dal suocero del primo Appio Claudio Pulcro: essi furono incaricati dell’incameramento e dell’assegnazione della terra in esubero, ma successivamente ebbero affidata l’importante e difficile mansione di indicare legalmente le terre demaniali e quelle di proprietà privata, compito che prima spettava solo ai censori, a consoli e pretori; Velleio Patercolo ci riporta inoltre la notizia che tale triumvirato fondava colonie. Plutarco nella Vita di Tiberio ci dice che il lavoro di Tiberio, e quindi della commissione triumvirale, poté procedere con calma poiché non vi furono opposizioni: si può intendere calma nell’accezione di un lavoro immenso, ossia la ricognizione di tutto l’ager publicus, e di conseguenza la demarcazione dei confini delle singole proprietà. Le assegnazioni non potevano essere fatte immediatamente dopo l’approvazione della legge: alcuni soggetti potevano dimostrarsi restii a cedere il surplus di terra, altri invece avere rimostranze a causa di assegnazione di terre non coltivabili. Si ritiene infatti che le assegnazioni siano state effettuate non prima del 131 a.C., e da questo deduciamo che la partecipazione di Tiberio Gracco sia stata solo all’inizio della parte preparatoria, ovvero non abbia partecipato all’attività triumvirale. Si aggiunga inoltre che tra il 132 ed il 131 a.C. si svilupperà un’intensa attività reazionaria anti-graccana. Come ultimo esempio del pensiero politico-economico di Tiberio Gracco, cioè la sua propensione alla questione della terra, riportiamo l’episodio del re Attalo III di Pergamo, morto nel 133 a.C., e del suo testamento, in cui nominava il popolo di Roma erede del suo regno. Tiberio Gracco propose una legge a favore del popolo, in base alla quale le ricchezze regali, trasportate a Roma, sarebbero state distribuite ai cittadini beneficiari della terra estratta a sorte, affinché potessero procurarsi gli attrezzi necessari alla coltivazione. Questo gesto, insieme allo schierarsi a favore della plebe rurale e alla deposizione illegale del tribuno Marco Ottavio lo portò ad inimicarsi il Senato: fu un punto di non ritorno per la politica e la vita del Gracco, che perì poco dopo insieme a 300 dei suoi, accusato di aver violato la santità del suo collega Ottavio. Tiberio Sempronio Gracco, che secondo Appiano fu ucciso per colpa del suo programma, ottimo ma attuato con la violenza, per Velleio Patercolo propose leggi che suscitarono in tutti intempestive cupidigie: egli sovvertì qualsiasi norma e trascinò lo Stato a rischi precipitosi e gravi anche se, a distanza di poche righe dice che si distinse come oratore insieme al fratello Gaio, dicendo inoltre che entrambi usarono malamente le loto ottime qualità.
Egli propose non nuove leggi, ma rinnovò semplicemente quelle che appartenevano ad un momento storico-politico in cui non sentiva il bisogno di proiettarsi verso la conquista mediterranea, ma di considerarsi pólis, con soldati-contadini auto-sufficienti che combattevano per la città, ma che ritornavano al momento della raccolta. Nel momento storico in cui Tiberio fece il suo lavoro, Roma si considera potenza mondiale, combatte e conquista fuori dai confini fisici della penisola italiana, comportando quindi lunghi periodi di permanenza lontano dalla fonte di ricchezza primaria, ovvero la terra.

Plutarco, Vita di Tiberio Gracco, II 1-2

Plutarco, Vita di Tiberio Gracco, II 1-2 (trad. it. di D. Magnino).

Eugene Guillaume, Les Gracques. Gruppo scultoreo in bronzo, 1853. Ajaccio, Musée Fesch.

 

[2.1] Ἐπεὶ δέ, ὥσπερ ἡ τῶν πλασσομένων καὶ γραφομένων Διοσκούρων ὁμοιότης ἔχει τινὰ τοῦ πυκτικοῦ πρὸς τὸν δρομικὸν ἐπὶ τῆς μορφῆς διαφοράν, οὕτω τῶν νεανίσκων ἐκείνων ἐν πολλῇ τῇ πρὸς ἀνδρείαν καὶ σωφροσύνην, ἔτι δὲ ἐλευθεριότητα καὶ λογιότητα καὶ μεγαλοψυχίαν ἐμφερείᾳ μεγάλαι περὶ τὰ ἔργα καὶ τὰς πολιτείας οἷον ἐξήνθησαν καὶ διεφάνησαν ἀνομοιότητες, οὐ χεῖρον εἶναί μοι δοκεῖ ταύτας προεκθέσθαι. [2] πρῶτον μὲν οὖν ἰδέᾳ προσώπου καὶ βλέμματι καὶ κινήματι πρᾶος καὶ καταστηματικὸς ἦν ὁ Τιβέριος, ἔντονος δὲ καὶ σφοδρὸς ὁ Γάϊος, ὥστε καὶ δημηγορεῖν τὸν μὲν ἐν μιᾷ χώρᾳ βεβηκότα κοσμίως, τὸν δὲ Ῥωμαίων πρῶτον ἐπὶ τοῦ βήματος περιπάτῳ τε χρήσασθαι καὶ περισπάσαι τήν τήβεννον ἐξ ὤμου λέγοντα, καθάπερ Κλέωνατὸν Ἀθηναῖον ἱστόρηται περισπάσαι τε τήν περιβολὴν καὶ τὸν μηρὸν ἀλοῆσαι πρῶτον τῶν δημηγορούντων .

[2.1] Come nelle statue e nei quadri dei Dioscuri, pur nella somiglianza complessiva, si hanno differenze formali che distinguono il pugile dal corridore, così in quei giovani, nel complesso, c’era un grande trasporto verso virtù e saggezza, liberalità, riflessione, magnanimità, apparvero e si resero evidenti grosse diversità quanto alla vita pubblica; perciò, non mi pare fuori luogo accennare innanzitutto a quelle. [2] Per quanto riguarda il volto, il modo di guardare e di muoversi, Tiberio era mansueto e sereno; mentre Gaio appariva teso e impetuoso; l’uno pronunciava i suoi discorsi stando compostamente fermo dove si trovava; l’altro fu il primo Romano ad agitarsi sulla tribuna e a far cadere la toga dalla spalla, mentre parlava – come si racconta dell’ateniese Cleone, che, primo degli oratori, si tolse il mantello e si percosse la coscia (cfr. Plut. Nic. 8, 6).