Il genere oratorio fra V e IV secolo a.C.

di I. Biondi, Storia e antologia della letteratura greca. 2.B. La prosa e le forme di poesia, Messina-Firenze 2004, pp. 184-195.

 

  1. I caratteri generali

Le origini dell’oratoria e la codificazione del genere | Benché i Greci credessero che l’oratoria avesse avuto origine in Sicilia con Corace e Tisia, maestri di Gorgia da Lentini, in realtà, furono le particolari condizioni socio-culturali della loro patria a permettere lo sviluppo di un sistema politico e giudiziario che implicava un continuo confronto fra individuo e collettività. Quindi, la capacità di usare la parola come strumento di spiegazione e di persuasione nella vita politica e giudiziaria si rivelò indispensabile anche prima del V secolo a.C.; anzi, sebbene sia in questo periodo che l’oratoria assunse le sue caratteristiche definitive, si specializzò nei vari settori e assurse alla dignità di forma d’arte, i suoi esordi furono molto più antichi.

Filosofo o sacerdote (Plutarco o Platone). Statua, marmo bianco, 280 a.C. ca. Delfi, Museo Archeologico Nazionale.

L’ammirazione per la parola eloquente e persuasiva è già molto evidente nell’epos omerico: lo dimostra l’apprezzamento nei confronti dei personaggi come Nestore (Iliade I 249) e Fenice (Iliade IX 438). In entrambi i casi, si tratta di uomini ormai anziani, in cui il vigore del guerriero ha lasciato il posto alla saggezza che deriva dall’esperienza di una lunga vita, utile quanto e forse più della forza, e considerata sempre con profondo rispetto. C’è poi la ben nota eloquenza di Odisseo, al quale gli dèi hanno concesso questo particolare dono, così come hanno dato ad altri forza o bellezza (Odissea VIII 167-175). Odisseo ci offre anche il più antico esempio a noi noto dell’uso dell’eloquenza a scopo utilitaristico; potremmo, infatti, citare numerosi esempi in cui il suo abile parlare aiuta l’eroe in situazioni difficili; ma basterà ricordare il discorso rivolto a Nausicaa, «dolce come il miele e vantaggioso» (Odissea VI 148-185), con cui l’eroe conquista la fiducia e la benevolenza della giovane figlia di Alcinoo. Talora, ai fini prettamente pratici (a cui sono rivolte anche le numerose e convincenti menzogne), si aggiunge il piacere del racconto, come quando Odisseo, in veste di mendicante, narra le proprie avventure al porcaro Eumeo, con l’evidente compiacenza di chi sa creare con la fantasia personaggi e fatti del tutto credibili (Odissea XIV 135-360).

Il passaggio dagli antichi regni achei alla civiltà della pólis favorì lo sviluppo dell’oratoria giudiziaria e politica. Grandi oratori furono gli uomini di stato come Solone, Pisistrato, Temistocle e Pericle, i quali, in momenti assai difficili per loro e per la città, dovettero il successo alla capacità di convincere gli altri della validità delle loro proposte e di saper suscitare nel popolo reazioni adeguate alle circostanze. In particolare, quest’ultimo aspetto, se vogliamo dare credito a Tucidide (II 65, 9), fu peculiare dell’eloquenza periclea.

La vita della pólis, ricca di numerose e varie occasioni, creò ben presto altri spazi per l’arte della parola: le festività pubbliche di carattere religioso, civile e sportivo, rappresentarono un’utile palestra per l’oratoria d’apparato, così come i tribunali e le assemblee lo erano per l’oratoria giudiziaria e politica. In conseguenza di questa intensa attività, a cui il movimento della Sofistica aggiunse una solida base di preparazione tecnica, l’oratoria assunse caratteristiche distinte a seconda degli scopi per i quali fu utilizzata. Si ebbe così un γένος δικανικόν, un «genere giudiziario», tipico dei tribunali; un γένος συμβουλευτικόν, un «genere deliberativo», di cui si servivano gli oratori politici; e un γένος ἐπιδεικτικόν, un «genere dimostrativo», usato per lo più in occasioni di carattere ufficiale, ma anche in discorsi fittizi.

Temistocle. Busto, copia in marmo di età romana da originale greco del V sec. a.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

L’espansione e il perfezionamento dell’uso della parola, a cui i sofisti diedero un impulso decisivo, determinarono anche la nascita di nuove professioni, nelle quali le caratteristiche intellettuali si univano a un solido senso pratico, che le rendeva al tempo stesso prestigiose e ben remunerate. Nacque così la figura del sofista, acclamato e ben retribuito professionista della parola, propugnatore di un ideale secondo cui, vista l’inconoscibilità e l’incomunicabilità del vero, il solo fine dell’eloquenza era quello di raggiungere τὸ εἰκός, il «verosimile», qualunque fosse lo scopo per il quale la parola era adoperata. Da questa matrice comune ebbero origine le professioni del logografo e del retore.

Il primo termine, che nel secolo VI e all’inizio del V aveva indicato semplicemente lo «scrittore in prosa», passò a indicare un professionista che, ottimo conoscitore della legge, e capace di esprimersi con incisività ed eleganza, prestava la propria opera a chi si trovava coinvolto in un procedimento giudiziario e non aveva la cultura e la preparazione necessarie per redigere da solo un discorso di accusa o di difesa, perché il diritto attico non consentiva l’impiego di avvocati.

Con il termine «retore» si indicò un personaggio di varia levatura, che sfruttava la propria eloquenza nelle assemblee pubbliche per sostenere il proprio pensiero politico (e allora si trattava di personalità di spicco, che, però, avevano molta cura della propria immagine e dosavano sapientemente i loro interventi nel dibattito), o per appoggiare proposte altrui. In questo caso, erano per lo più figure di secondo piano, seguaci di personaggi più importanti di loro, che non intendevano esporsi in prima persona al rischio di una γραφή παρανόμων, un’«accusa di illegalità», che avrebbe potuto pregiudicare la loro futura carriera. Sia retori sia logografi avevano fama di moralità piuttosto disinvolta, per cui la loro professione si acquistò ben presto una discutibile reputazione, tanto che grandi oratori pubblici, come Isocrate o Demostene, cercarono in ogni modo di far dimenticare che avevano iniziato la loro carriera come logografi.

Quando le opere dei più rinomati maestri di eloquenza e le orazioni giudiziarie, politiche ed epidittiche, cominciarono a circolare in redazioni scritte, anche l’oratoria entrò a far parte dei generi letterari e fu sottoposta a canoni e a classificazioni stilistiche. Ai grammatici alessandrini o, secondo altri, a Cecilio di Calacte, un retore di età augustea, è dovuto il cosiddetto Canone attico, un elenco di dieci oratori, considerati i migliori, ciascuno nel proprio genere: Antifonte, Andocide, Lisia, Isocrate, Demostene, Iseo, Licurgo, Eschine, Iperide e Dinarco. Notizie sulle biografie di questi oratori provengono da un’opera di Dionigi di Alicarnasso (fine del I secolo a.C.), intitolata Gli oratori attici; da un anonimo, comunemente indicato come Pseudo-Plutarco, che scrisse le Vite dei dieci oratori attici; e da alcune Vite che sconosciuti copisti premisero alle varie raccolte di orazioni.

La codificazione dei precetti retorici e il sorgere di varie scuole, spesso in concorrenza fra loro, favorì anche il diffondersi di diversi indirizzi stilistici, che diedero luogo a un vivace dibattito culturale, attivo soprattutto nell’ambiente latino del I secolo a.C. Fu in questo periodo, infatti, che nacque la tendenza a classificare l’oratoria greca in base a tre stili: quello «elevato» (elatus o gravis), solenne, raffinato, ricco di figure, di cui fu considerato caposcuola Gorgia; quello «medio» (mediocris), vivace, espressivo, teso a suscitare intense reazioni nel pubblico, la cui invenzione fu attribuita a Trasimaco di Calcedone; infine, lo stile «tenue» (tenuis o humilis), limpido, lineare, elegante, ma alieno da artifici, che ebbe in Lisia il suo massimo esponente. Naturalmente, si trattava di distinzioni intellettualistiche, che non potevano e non possono essere accettate se non con molta cautela, vista l’estrema varietà di contenuti, di circostanze, di pubblico, che condizionarono gli oratori, costringendoli non certo all’uniformità di stile, ma, al contrario, come si è già detto, a adeguare continuamente i loro toni alla situazione contingente, secondo le regole del τὸ πρέπον, «ciò che conviene», «che si adatta».

 

 

  1. L’oratoria giudiziaria nel V-IV secolo a.C.

Le caratteristiche generali del genere | Come abbiamo già accennato prima, l’arte del discorso rappresentò un elemento caratteristico della vita e della cultura greca già nella letteratura epica; ma soltanto nella seconda metà del V secolo a.C. essa divenne un genere letterario indipendente, in conseguenza delle mutate caratteristiche della vita politica, alle quali dovette adeguarsi la «parola pubblica», cioè quella destinata a esprimersi di fronte a un uditorio con ben precise finalità di ordine giudiziario, politico o celebrativo.

Secondo la tradizione, il siciliano Tisia, seguace di Corace, il retore a cui fu attribuita l’«invenzione» della tecnica argomentativa nell’oratoria giudiziaria, avrebbe composto un breve «manuale» in cui si indicava il modo di esporre i fatti e le prove concernenti ogni singolo caso, in modo da conferire loro la massima efficacia, inserendoli in una struttura espositiva semplice, ma funzionale e ben adattabile a ogni circostanza. Da questo schema si sviluppò in seguito il complesso delle quattro sezioni canoniche che caratterizzano, con varianti non sostanziali, le orazioni giudiziarie giunte fino a noi: il προοίμιον, o «esordio», che aveva la funzione di impressionare favorevolmente l’attenzione della giuria, presentando colui che pronunciava l’accusa o la difesa come cittadino rispettoso delle leggi, corretto e attendibile; la διήγησις, o «esposizione dei fatti», che doveva contenere un racconto preciso, ma non prolisso degli avvenimenti che avevano dato origine al processo e, se necessario, un riferimento agli antefatti ritenuti più significativi; la πίστις, o «argomentazione», che rafforzava con testimonianze e prove particolarmente convincenti la tesi sostenuta in propria difesa; la διάλυσις, o «confutazione» delle prove a carico, di solito non molto estesa, ma puntuale e stringente; infine, l’ἐπίλογος, o «conclusione», in cui si ricapitolava il discorso e, in vari casi, si cercava di coinvolgere emotivamente la giuria a favore di chi parlava.

Le varie parti dell’orazione avevano il pregio, così disposte, di offrire un quadro organico e ben articolato della motivazione dei fatti, della loro successione temporale e dei nessi causali; ma soprattutto lasciavano totale libertà al logografo (e in ciò consisteva appunto la sua bravura!) di delineare abilmente il carattere delle parti in causa, di applicare al racconto dei fatti opportuni criteri di selezione, evidenziandone alcuni, sfumandone o tacendone altri, di fare appello, di volta in volta, ad aspetti del costume, della morale comune pubblica o privata, del comportamento sancito dalle leggi. Gli antichi furono concordi nel riconoscere nelle orazioni di Lisia di Atene tutte queste qualità, accompagnate da non comuni capacità di eleganza e chiarezza espositiva; in conseguenza di ciò, per mettere in luce attraverso esempi concreti quanto abbiamo fin qui teorizzato, faremo riferimento proprio ad una delle sue più note orazioni, Per l’uccisione di Eratostene.

Lisia. Statua, marmo, copia romana del III sec. d.C. ca. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

 

  1. Un’orazione giudiziaria emblematica: Per l’uccisione di Eratostene

I caratteri generali dell’orazione | Il caso era, apparentemente, uno dei più semplici; un piccolo proprietario terriero, Eufileto (l’ironia della sorte ha voluto che questo archetipo dei mariti traditi si chiamasse il «Beneamato»!), venuto a conoscenza del fatto che un certo Eratostene (altro significativo “nome parlante”: «Forza dell’amore», appellativo quantomai appropriato per un giovanotto sempre a caccia di avventure galanti!) gli aveva sedotto la moglie, intrecciando con lei una relazione, aveva fatto in modo di coglierlo in flagrante adulterio, alla presenza di testimoni, e lo aveva ucciso. Tuttavia, se le cose fossero andate effettivamente così, non avrebbe dovuto esservi nessun processo, perché la legge ateniese riconosceva al marito tradito il diritto di farsi giustizia con le proprie mani, in caso di flagranza, classificando l’omicidio come φόνος δίκαιος («giusta uccisione»). In realtà, i parenti della vittima sostenevano una differente versione dei fatti: Eufileto, scoperta la tresca fra la moglie ed Eratostene, lo aveva attirato ingannevolmente in casa sua e lo aveva assalito, strappandolo addirittura da un luogo sacro, il focolare domestico presso il quale si era rifugiato. Se le cose si fossero effettivamente svolte così, la situazione legale di Eufileto sarebbe stata ben diversa, perché egli avrebbe commesso un «omicidio premeditato» (φόνος ἐκ προνοίας), punibile con la pena di morte, a meno che la sua tesi non fosse stata sostenuta da un eccellente legale. Così fu: la causa si svolse di fronte al tribunale del Delfinio, situato fuori le mura di Atene, nel santuario di Apollo Delphinios e, secondo alcune testimonianze antiche, Eufileto fu assolto – non sapremo mai se per la straordinaria abilità di Lisia, che gli compose l’orazione di difesa, oppure perché aveva effettivamente applicato i diritti che la legge gli concedeva in una storia di infedeltà coniugale finita in tragedia.

L’impressione che si ricava dalla lettura del discorso, forse il capolavoro di Lisia, è che quest’ultimo abbia organizzato la difesa evidenziando in ogni occasione il carattere mite di Eufileto, tranquillo e fiducioso fino al punto di apparire ingenuo; un uomo così, sembra suggerire l’abilissimo logografo, può commettere un delitto, vedendo tradita la propria buona fede e avendone le prove sotto gli occhi, ma difficilmente avrebbe la crudele freddezza (e l’intelligenza) necessaria per organizzare minuziosamente un omicidio da commettere a distanza di tempo.

 

Gruppo dei pittori del Louvre G 99. Una coppia di amanti sotto il mantello. Pittura vascolare dal frammento di una coppa attica a figure rosse, 525-500 a.C. ca. da Atene. Paris, Musée du Louvre.

 

L’esordio (προοίμιον) | Presentiamo, per cominciare, l’esordio della celebre orazione:

[1] Io apprezzerei molto, o giudici, che voi mi giudicaste, riguardo a questo caso, come giudichereste voi stessi se vi fosse capitata una simile offesa: so bene, infatti, che, se il vostro atteggiamento nei confronti di altri fosse lo stesso che verso voi stessi, non ci sarebbe uno solo di voi che non si indignerebbe per l’accaduto, anzi tutti giudichereste troppo lievi le pene contro chi commette azioni del genere!

[2] E questi fatti sarebbero giudicati così non solo presso di voi, ma in tutta l’Ellade; infatti, per questo reato soltanto, sia sotto un governo democratico sia sotto un regime oligarchico, è stata concessa la medesima punizione ai più deboli nei confronti dei più potenti, così che il più umile goda degli stessi diritti del più forte.

 

L’appello ai giudici, affinché valutino la situazione dell’imputato con la stessa disposizione d’animo che proverebbero se si trovassero al posto suo e avessero subito lo stesso torto, è un evidente tentativo di captatio benevolentiae e, in quanto tale, si configura come un τόπος, un «luogo comune» da manuale, presente anche in altre orazioni giudiziarie, non solo di Lisia. Tuttavia, in questo caso, l’appello ai giudici appare caratterizzato da una particolare intensità, visto che il caso riguarda la sfera della famiglia, a cui tutti gli uomini dovrebbero essere particolarmente sensibili, sia da un punto di vista affettivo sia giuridico. L’accenno al fatto che il giudizio pronunciato sulla vertenza di Eufileto potrebbe avere ripercussioni in tutta l’Ellade accresce iperbolicamente l’importanza dei giudici che dovranno pronunciare la sentenza. In questo caso, alla captatio benevolentiae nei loro confronti, si unisce il chiaro intento di evidenziare che ciò che accade ad Atene costituisce poi un punto di riferimento per il resto della Grecia; d’altra parte, tutta la legislazione greca è concorde nel condannare l’adulterio con estrema severità. Eufileto, infatti, ribadisce che, in questa occasione, il suo solo compito sarà quello di dimostrare che i fatti si sono svolti come egli ha già dichiarato, perché la ragione sia dalla sua parte:

 

[4] Io credo, signori giudici, che sia necessario che io dimostri questo, che Eratostene commise adulterio con mia moglie e la rovinò, svergognò i miei figli e mi arrecò offesa, entrando in casa mia, che io non avevo altro motivo di inimicizia verso di lui tranne questo, che non feci ciò per denaro, per divenire da povero, ricco, né per alcun altro interesse, se non la pena consentita dalle leggi.

 

Con queste parole, che ribadiscono come Eufileto non abbia fatto altro che applicare la legge sull’adulterio e che, quindi, il suo comportamento è stato, al di là di ogni possibile dubbio un φόνος δίκαιος, si conclude l’esordio.

Nicostrato. Scena di anakalypsis, fra due giovani sposi sul letto nuziale. Terracotta, 150-100 a.C. Dalla necropoli di Myrina (Turchia). Paris, Musée du Louvre.

 

L’esposizione dei fatti (διήγησις) | È, ovviamente, la parte più ampia e più ricca di particolari di tutte le orazioni giudiziarie, in quanto dalla precisione con cui venivano esposti i fatti e dal modo con cui si descriveva il comportamento delle parti in causa, i giudici dovevano ricavare tutti gli elementi a sostegno delle responsabilità dei convenuti e pronunciare, sulla base di quelli, una giusta sentenza. Per questo motivo, il discorso di Eufileto, con il quale egli si propone di dimostrare sia la legittimità della propria condotta sia l’assoluta illegalità di quella di Eratostene, è molto esteso e dettagliato, iniziando addirittura da quando egli decise di sposarsi. Tuttavia, al di là della narrazione, ciò che dovrebbe maggiormente attirare l’attenzione dei giudici, è l’assoluta buonafede di Eufileto, marito e padre di famiglia irreprensibile, in confronto a Eratostene, delineato come un seduttore di professione.

La διήγησις segue con esattezza l’ordine cronologico della vicenda e ogni segmento narrativo si conclude con parole tese a dimostrare l’irreprensibilità della condotta di Eufileto. Costui si sposa; il comportamento della giovane moglie, che egli tratta «in modo da non opprimerla, ma neppure lasciandola del tutto libera di fare ciò che volesse», è assolutamente impeccabile. La nascita di un bambino rafforza il legame affettivo fra gli sposi.

Muore la madre di Eufileto «e, morendo, divenne la causa di tutti i guai»: infatti, la nuora esce di casa per seguire il funerale e viene adocchiata da Eratostene. Costui comincia a far pervenire alla giovane donna dei messaggi per mezzo dell’ancella, che va al mercato a fare la spesa; e in questo modo «la rovinò».

Eufileto descrive ai giudici la propria casa: «Io possiedo una casetta a due piani, con il piano superiore uguale al piano terra, in corrispondenza dell’appartamento delle donne e quello degli uomini». La nascita del figlio comporta un capovolgimento delle abitudini abitative: temendo che la moglie, infatti, scendendo per la scala a pioli con il piccolo, possa farsi del male, Eufileto sposta il gineceo al piano terra, favorendo così, senza volerlo, gli incontri della donna con l’amante: «Ma io non sospettai mai niente, anzi ero così ingenuo da credere che mia moglie fosse la migliore di tutte le donne in città».

Un bel giorno, Eufileto torna improvvisamente dalla campagna e cena tranquillamente in compagnia della moglie. Dopo cena il bambino piange disperatamente (poi, si saprà che l’ancella lo pizzica per farlo strillare, di proposito, visto che è arrivato Eratostene!); Eufileto, allora, impone alla moglie di scendere per allattare il figlioletto. La donna, però, si finge restia, dichiarando che il marito vuole allontanarla per restare solo con una giovane ancella; poi, fra il serio e il faceto, chiude a chiave il marito nella stanza da letto e scende al piano terra. Eufileto, stanco e tranquillo, si addormenta beatamente. Durante la notte, però, sente cigolare la porta dell’ingresso e al mattino, quando la moglie lo fa uscire, gliene chiede il motivo. La donna risponde che si era spenta la lucerna che stava presso il bambino; perciò, si era recata dai vicini per riaccenderla. Eufileto, però, nota che la donna ha il viso imbellettato, benché fosse ancora in lutto per la scomparsa del fratello; «tuttavia, senza dire niente neppure di questo fatto, uscito di casa, me ne andai via in silenzio» – dichiara Eufileto.

Trascorre un certo tempo; Eufileto continua a vivere nell’ignoranza dei suoi mali, finché viene fermato da un’anziana donna, inviata da un’altra amante del bellimbusto, ormai trascurata da quello, che gli rivela senza mezzi termini tutta la tresca: «Quello che fa queste cose è Eratostene di Oe e ha rovinato non solo l’onore di tua moglie, ma anche di molte altre donne; infatti, questo è il suo mestiere!». A questo punto, Eufileto, apre finalmente gli occhi, ricordando tutti i particolari ai quali prima non aveva dato peso: «Tutte queste cose mi tornavano in mente ed ero pieno di sospetto».

Ecco che il ritmo dell’azione divine più rapido, perché il candido Eufileto, colpito nella sua dignità coniugale, si rivela capace di una volontà decisionale tanto pronta quanto astuta; avuto conferma dall’ancella complice dello svolgimento dei fatti, prepara la trappola per l’adultero. Quando costui torna a far visita all’amante, l’ancella avverte il padrone, che esce silenziosamente di casa e va a chiamare alcuni amici, che dovranno servirgli da testimoni. Una volta rientrato, «spalancata la porta della camera, noi, entrando per primi, lo vedemmo mentre ancora giaceva accanto a mia moglie; quelli venuti dopo lo videro nudo in piedi sul letto».

La situazione volge precipitosamente verso il tragico epilogo. Eratostene, dopo essere stato colpito e legato, chiede pietà, dichiarandosi disposto a risarcire i danni, pagando un indennizzo; ma Eufileto rifiuta sdegnosamente, affermando la legalità del proprio diritto: «Non io ti ucciderò, ma la legge della città; tu, violandola e tenendola in minor conto dei tuoi piaceri, hai preferito commettere una tale colpa verso mia moglie e i miei figli, piuttosto che obbedire alle leggi e comportarti da persona dabbene!».

 

Pittore anonimo. Donna intenta a filare la lana. Lekythos attico a figure rosse, 480-470 a.C. ca. Palermo, Museo Archeologico Regionale.

 

L’argomentazione (πίστις) | Benché la legittimità dell’azione di Eufileto emerga con chiarezza dal racconto appena concluso, egli aggiunge anche un’«argomentazione», che si fonda su quanto appena detto, sulla citazione dei testimoni e sulla lettura dei paragrafi di legge riguardanti i reati di adulterio, di violenza e di seduzione (purtroppo queste parti non sono state inserite nell’orazione). Tutto ciò deve servire a dimostrare che non è vero ciò che dichiarano i parenti dell’ucciso:

 

[27] Costui ha avuto la pena che le leggi impongono per coloro che commettono tali delitti, non preso a forza nella strada, né dopo che si era rifugiato presso il sacro focolare domestico, come dichiarano costoro.

 

La confutazione (διάλυσις) | Poiché non possediamo l’orazione di accusa, siamo costretti a dedurre dagli accenni nella confutazione di Eufileto quello che doveva essere il punto di forza su cui i parenti di Eratostene fondavano la tesi dell’omicidio premeditato: egli lo avrebbe attirato in casa sua con l’inganno, per simulare una flagranza di reato che in realtà non esisteva:

 

[37] Ora fate attenzione, signori giudici: questi mi accusano di avere, in quel giorno, ordinato all’ancella di andare a chiamare il giovanotto.

 

La confutazione dell’accusa, che procede in modo molto preciso e analitico, si apre con un ragionamento per assurdo: Eufileto non nega esplicitamente il fatto che gli viene contestato, ma dichiara che sarebbe stato convinto di essere dalla parte della ragione anche se avesse dato quell’ordine alla sua serva. Infatti, poiché egli era già certo dell’adulterio, qualunque mezzo sarebbe stato legittimo, pur di cogliere il colpevole sul fatto, dato che il reato era stato commesso e non una volta sola:

 

[38] Ma io, o giudici, avrei creduto di fare cosa giusta sorprendendo in flagrante in qualunque modo colui che ha sedotto mia moglie; infatti, sarei stato colpevole se avessi ordinato di mandarlo a chiamare, quando fra i due fossero state dette solo delle parole, ma non fosse avvenuto nulla di fatto; ma se avessi cercato di sorprenderlo, dopo che tutto era stato fatto e che gli era già penetrato più volte in casa mia, avrei creduto di agire secondo il mio diritto.

 

Inoltre, se Eufileto avesse deciso di agire premeditatamente, in quello stesso giorno egli avrebbe avvertito gli amici che avrebbero dovuto fargli da testimoni e avrebbe dato loro le istruzioni necessarie, invece di uscire a cercarli, mentre Eratostene era già in casa. Il fatto che alcuni di loro non erano a casa e che egli si sia dovuto accontentare di quelli che aveva trovato dimostra che il suo modo di agire è stato del tutto improvvisato: e di questo può addurre i testimoni.

 

[42] Invece, non sapendo niente di quello che sarebbe avvenuto in quella notte, presi quelli che mi fu possibile; e voi, testimoni di questi fatti, venite qui alla sbarra.

 

L’ultima parte della διάλυσις riprende e ribadisce alcuni argomenti già accennati nella parte precedente del discorso. Eufileto non aveva alcun altro motivo di odio nei confronti di Eratostene, anzi, non lo aveva neppure mai visto; inoltre, se davvero lo avesse attirato in casa sua con l’intenzione di eliminarlo, perché mai avrebbe dovuto cercarsi dei testimoni per compiere sotto i loro occhi un omicidio premeditato, aggravato per di più dall’atto empio di strappare un supplice dal sacro rifugio del focolare?

 

[46] E poi, se io avessi meditato di ammazzarlo illegalmente, avrei commesso un’empietà dopo aver chiamato dei testimoni, quando mi era possibile non avere nessuno di costoro consapevole della mia azione?

Pittore anonimo. I tre giudici dell’Ade, Radamante, Minosse ed Eaco (dettaglio). Pittura vascolare su cratere apulo a figure rosse, IV sec. a.C. Berlin, Antikensammlungen.

 

La conclusione (ἐπίλογος) | Nella parte conclusiva del discorso, Eufileto sfrutta abilmente a proprio vantaggio uno degli elementi strutturali tipici dell’ ἐπίλογος, il collegamento con gli argomenti della parte iniziale, sottolineando così la Ring Composition dell’intera orazione. La sentenza non riguarderà soltanto il suo caso individuale, ma l’intera città, perché, se i giudici lo condannassero, tanto varrebbe che fossero abrogate le leggi vigenti sull’adulterio; anzi, a questo proposito, Eufileto rafforza per absurdum la propria affermazione, proponendo addirittura che si puniscano i mariti che custodiscono le proprie mogli, garantendo invece l’impunità ai loro seduttori:

 

[48] Altrimenti, sarebbe molto meglio cancellare le leggi vigenti e farne delle altre, che stabiliranno le pene per coloro che difendono le proprie spose e concederanno l’assoluta impunità a coloro che vogliono commettere adulterio con quelle. [49] Questo sarebbe molto più giusto piuttosto che lasciare che i cittadini siano ingannati dalle leggi che ordinano che, se uno sorprende un adultero, può fare di lui ciò che vuole, mentre poi i processi sono più pericolosi per chi ha subito il torto che per coloro che svergognano le mogli altrui. Io, infatti, in questo momento, rischio la vita, i beni e tutto il resto, perché ho obbedito (ἐπειθόμην) alle leggi della città.

 

Il termine ἐπειθόμην, che nel testo greco è l’ultima parola dell’orazione, rappresenta una delle più significative testimonianze della raffinata abilità dialettica di Lisia; infatti, il verbo πείθω nella diatesi media significa sia «fidarsi» sia «obbedire», così che il discorso si chiude con un sottile, ma evidente, quasi ricattatorio ammonimento ai giudici, implicito nello stesso valore semantico del termine-chiave: condannare Eufileto, in via definitiva, equivarrebbe a togliere ogni valore ai fondamenti dell’educazione civica del buon cittadino ateniese, espressi in tre termini: «Ho obbedito (perché me ne sono fidato) alle leggi della città»; gli stessi concetti su cui si fonda, con ben altra sublimità morale, l’accettazione della morte da parte di Socrate.

 

 

  1. L’oratoria politica fra il V e il IV secolo a.C.

Le caratteristiche generali dell’oratoria politica | Nel corso del IV secolo a.C. l’oratoria ateniese conservò per certi aspetti le caratteristiche e le funzioni che l’avevano contraddistinta precedentemente, mentre per certi altri rispecchiò, in modo abbastanza evidente, le trasformazioni culturali, politiche e istituzionali in essere nella città. In questo quadro generale, l’oratoria giudiziaria, per il suo carattere funzionalmente specifico, non avvertì particolari necessità di cambiamento; quanto all’oratoria epidittica, il suo scopo celebrativo le conferì una tendenza sempre maggiore a cristallizzarsi su argomenti tradizionali, veri e propri τόποι di genere, espressi in uno stile spesso letterariamente perfetto, ma piuttosto intellettualistico e caratterizzato da una certa fissità di toni. Al contrario, l’oratoria politica fu costretta, per sua stessa natura, a tener conto del continuo mutare degli eventi e a adeguarvisi quasi quotidianamente.

Due fattori soprattutto influirono sul cambiamento dell’oratoria politica, uno di carattere culturale e uno di tipo istituzionale. La nuova figura del retore, istruito alla scuola dei sofisti e pronto a considerare l’attività politica come una vera e propria professione, si inserì di prepotenza nello spazio che un tempo era appartenuto soltanto ai magistrati civili e militari all’interno dell’assemblea: uomini come Solone, Pisistrato o Temistocle – un arconte, un tiranno e uno stratego – non ebbero mai bisogno di intermediari (o “portavoce”) per esprimere le proprie idee di fronte all’assemblea, né questa fu condizionata nelle proprie scelte dalle parole di oratori di mestiere. Ma nel IV secolo questo stato di cose mutò notevolmente; il retore divenne la figura di maggior rilievo nella vita pubblica, in quanto capace di diffondere le proprie convinzioni, di attirarsi dei sostenitori e di influenzare così l’opinione pubblica, grazie al carisma personale rafforzato da doti dialettiche sapientemente coltivate. A ciò contribuì anche, forse in misura minore, ma non marginale, un altro fenomeno culturale: la diminuita importanza del teatro (in particolare quello tragico) come mezzo di diffusione delle idee e di educazione di massa. Infatti, la mancanza di nuovi autori, degni di potersi confrontare con i grandi classici del passato, favorì ben presto la tendenza a riproporre agli spettatori opere ormai “classiche”, che non avevano perduto niente del loro valore poetico, ma che, sul piano educativo, proponevano ideali appartenenti ormai a un glorioso passato, che si poteva ammirare, ma non far risorgere.

Philipp Foltz, L’epitaffio di Pericle per i caduti del primo anno di guerra. Olio su tela, 1852.

 

La tradizione indiretta | La grande oratoria ateniese ci è nota attraverso due tradizioni, quella indiretta della storiografia e quella diretta delle raccolte di demegorie, i «discorsi pronunciati di fronte al popolo». Per quanto riguarda l’attendibilità della tradizione indiretta, sappiamo che i discorsi degli uomini politici venivano riferiti approssimativamente, tenendo conto del loro «senso generale», come dichiara Tucidide, perché mancava una stesura scritta dell’orazione, a cui fare riferimento. Gli uomini politici, infatti, non erano soliti scrivere i loro discorsi per intero, ma, come ci conferma anche Demostene, si dava redazione scritta solo alle parti più importanti come contenuto e più impegnative dal punto di vista oratorio – contrariamente a quanto avveniva per i discorsi epidittici, che, destinati a pubblica lettura, erano trascritti integralmente. A questo dobbiamo aggiungere il fatto che la possibilità di parlare in assemblea non fosse concessa a tutti, ma richiedeva precisi requisiti di carattere civico e politico ed era connessa alla fazione a cui l’oratore apparteneva, sia al tipo di influenza che egli intendeva esercitare sull’uditorio. Pertanto, oratori come Lisia o Dinarco, che erano meteci, non avrebbero avuto il diritto di parlare in pubblico, mentre aperti simpatizzanti del regime oligarchico, come Andocide o Antifonte, si astenevano dall’esporre la propria opinione di fronte all’assemblea popolare, perché oltre ad avere possibilità quasi nulle di incidere sull’opinione della maggioranza, il loro orientamento politico li avrebbe esposti anche a rischi personali, dato che il contrasto politico poteva assumere pure toni molto accesi, di vero e proprio duello oratorio.

Un quadro estremamente efficace di questo aspetto ci è offerto dallo scontro fra Nicia e Alcibiade a proposito della spedizione in Sicilia, descritto da Tucidide (VI 9-26). Si tratta di un magnifico esempio di quel carattere «agonale» che rappresentava la cifra principale di questo genere oratorio, dal momento che ciascuno dei relatori si sforzava di far valere le proprie proposte nel «consigliare» i concittadini: di qui il nome di συμβουλευτικοί λόγοι, attribuito normalmente ai discorsi politici. Dopo la prima fase di dibattimento, in cui la parola tocca ad alcuni personaggi minori, Nicia viene chiamato direttamente in causa dal gruppo di Alcibiade, che gli offre il comando dell’impresa. Egli replica con un invito alla prudenza, senza risparmiare allusioni alla sfrenata ambizione di Alcibiade e mettendo in luce, al tempo stesso, le notevoli difficoltà dell’impresa e del momento (VI 12-13, 1).

Concluso l’intervento di Nicia, è la volta di Alcibiade, il quale contrattacca dando prima la parola a una serie di gregari, il cui compito è quello di “cancellare”, o almeno di attenuare nell’animo degli ascoltatori, l’effetto moderatore delle parole del rivale. Il discorso di Alcibiade, caratterizzato dall’estrema sicurezza di sé, tipica del personaggio, ostenta i toni di un nazionalismo a oltranza, dietro cui si mimetizza abilmente la sua ambizione personale. Egli asserisce di agire in nome degli ideali democratici che Atene ha sempre difeso; rinunciare alla spedizione significherebbe rinnegare la più nobile tradizione della patria e venire meno agli impegni che essa ha assunto nei confronti dei suoi alleati:

 

Perciò, con quale argomento ragionevole potremmo noi stessi rifiutare, o di che cosa potremmo tener conto, per non portare aiuto agli alleati di laggiù? Poiché ci siamo obbligati con un giuramento, è necessario soccorrerli e non obiettare che essi non ci hanno, a loro volta, aiutato. Infatti, non li abbiamo accolti, perché ci soccorressero, ma perché, creando fastidi ai nostri nemici laggiù, impedissero loro di venire fin qui. In questo modo abbiamo conquistato il dominio, sia noi che quanti altri lo esercitarono, assistendo prontamente coloro che di volta in volta ci chiedevano aiuto, o Greci o barbari, poiché se tutti rimanessero tranquilli o stessero a sottolineare a chi si debba portare soccorso, aggiungendo ben poco al nostro impero, rischieremmo piuttosto di perdere anche quello che abbiamo. Infatti, ci si difende contro uno che è superiore non solo quando attacca, ma anche si previene affinché non attacchi. E non è possibile per noi calcolare fino dove vogliamo estendere il nostro dominio, ma è inevitabile, perché ci troviamo in questa situazione, attaccare gli uni e non lasciare sfuggire gli altri, perché c’è il rischio che siamo dominati da altri, se non siamo noi stessi a dominarli! E voi non dovete considerare la tranquillità nello stesso modo con cui la considerano gli altri, a meno che non cambiate il modo di vivere rendendolo simile al loro. Pertanto, avendo valutato che accresceremo il nostro impero di qui, qualora attacchiamo laggiù, facciamo la spedizione, per abbattere la superbia dei Peloponnesiaci, se sembrerà chiaro che noi disprezziamo la tranquillità del momento attuale per navigare addirittura contro la Sicilia; e, al tempo stesso, com’è naturale che sia, o domineremo tutta l’Ellade, aggiungendo a noi quelli di là, o recheremo danno ai Siracusani, e da ciò trarremo vantaggio noi e i nostri alleati.

(VI 18, 1-4)

 

Nicia, ormai in netta posizione di inferiorità, non può far altro che raccomandare agli Ateniesi di prepararsi il meglio possibile per la rischiosa impresa; ma con queste parole sancisce praticamente la vittoria dei suoi avversari politici, i quali colgono immediatamente l’occasione per coinvolgerlo e gli chiedono di stabilire lui stesso il numero delle navi e l’entità delle truppe del contingente. A questo punto, Alcibiade non interviene più direttamente, ma lascia a un suo gregario, un certo Demostrato (che il comico Aristofane indica con il significativo soprannome di «Sputaveleno»), il compito di stroncare definitivamente l’avversario.

 

Ritratto di atleta (il cosiddetto Alcibiade). Busto, marmo greco, copia romana di I sec. d.C.. Firenze, Galleria degli Uffizi.

 

La tradizione diretta: lo scontro fra Demostene ed Eschine | La conclusione delle lunghe e drammatiche vicende della Guerra del Peloponneso non segnò soltanto la sconfitta di Atene, ma anche l’inizio di una profonda crisi di valori politici e istituzionali destinata a imprimere una svolta decisiva alla storia greca e della civiltà occidentale. Né Sparta né Tebe, infatti, furono in grado di raccogliere costruttivamente l’eredità politica, economica e culturale di Atene; e così la prima metà del IV secolo a.C. fu caratterizzata dalla progressiva disgregazione della città-stato, che preparò il terreno all’avvento della monarchia macedone. In questo clima di instabilità e di confusione, stavano maturando cambiamenti politici complessi e irreversibili; e ben presto l’intero mondo mediterraneo ne avrebbe avvertito le conseguenze. Nel nord della Grecia, infatti, si stava consolidando il regno di Macedonia, abitato da una popolazione considerata «barbara», ed effettivamente rimasta a uno stadio di civiltà meno sviluppato di quello del restante mondo ellenico. Verso la metà del secolo, nel 358 a.C., salì al trono Filippo II, figlio di Aminta, il quale, nella prima giovinezza, era stato ostaggio a Tebe, quando la città aveva vissuto il suo effimero momento di egemonia. Durante quel periodo, il Macedone aveva avuto modo di conoscere a fondo l’organizzazione militare tebana, potenziata dalle riforme di Pelopida e di Epaminonda; e non gli erano sfuggiti gli insanabili conflitti tra le póleis, che ne logoravano le forze e che, in breve tempo, ne avrebbero messo a repentaglio la sopravvivenza stessa come organismi autonomi.

Demostene. Statua, copia romana da originale greco di Policleto (c. 280 a.C.). Città del Vaticano, Museo Pio-Clementino.

Forte di queste esperienze, Filippo, appena giunto al potere, attuò con le armi e la diplomazia un vasto piano di espansione, che, fiaccate rapidamente le resistenze di Atene e di Tebe, lo portò, a dispetto dei suoi oppositori (tra i quali svolse un ruolo determinante l’ateniese Demostene, il più grande oratore politico del tempo), a estendere il suo potere, diretto o indiretto, su tutta l’Ellade. Nell’ottica del sovrano macedone, il fine ultimo dell’impresa avrebbe dovuto essere una grandiosa spedizione comune di Macedoni e Greci contro l’Impero persiano; purtroppo, prima di poterla realizzare, Filippo cadde assassinato nel 336 a.C. e il comando dell’impresa fu assunto da suo figlio Alessandro, che lo condusse a termine con conseguenze di portata storica talmente vasta da superare ogni possibile previsione.

Tuttavia, prima che il giovane sovrano salisse al trono e riuscisse a condurre in porto felicemente la titanica impresa, la scena politica ateniese fu dominata dal violento scontro tra la fazione filomacedone (il cui massimo esponente fu Eschine) e quella antimacedone, capeggiata da Demostene. Le loro orazioni, che possediamo per tradizione diretta, ci offrono un quadro assai vivo dello spazio e dell’importanza che l’oratoria politica occupava ancora nella vita dello Stato e del cittadino. Quest’ultimo, intanto, pur presenziando alle assemblee con diritto di voto, più che parlare ascoltava, come fa Diceopoli, protagonista degli Acarnesi di Aristofane, mentre erano gli oratori professionisti che salivano sulla tribuna per pronunciare i loro discorsi; eppure, anche gli interventi di costoro obbedivano a ben calcolati piani. Infatti, i grandi uomini politici, capi di gruppi anche numericamente cospicui (che non potevano essere considerati dei partiti veri e propri, ma piuttosto aggregazioni di simpatizzanti intorno a personaggi o a famiglie, che si contendevano l’egemonia all’interno delle istituzioni democratiche), dosavano sapientemente i loro interventi e spesso si facevano sostituire da gregari, sia per non logorare la propria immagine, sia per evitare le conseguenze derivanti da ripetute accuse di illegalità – arma assai frequentemente usata nello scontro fra le fazioni. Abbiamo così una precisa distinzione di ruoli: intorno alla figura di primo piano, orbitavano retori minori, che appoggiavano e sostenevano il loro leader e magari si esponevano in sua vece a qualche indesiderato provvedimento legale; e, infine, c’erano quelli a cui era affidato il compito di frenare o di scatenare la massa, i «signori del tumulto e dell’urlo», come li definì Iperide (Contro Demostene VII 14, 6), alludendo alla funzione loro attribuita di pilotare opportunamente le reazioni popolari. Un episodio della carriera di Demostene dimostra quanto fossero utili ai loro leader questi personaggi minori: nel 438 a.C., nel corso della sua campagna antimacedone, l’oratore propose che gli Ateniesi intervenissero in difesa di Olinto, una città della penisola Calcidica minacciata da Filippo, ma, poiché Atene scarseggiava di mezzi, egli suggerì che si usassero a scopi militari i fondi del θεωρικόν, che, fino dai tempi di Pericle, per legge, potevano essere investiti solo per l’allestimento degli spettacoli teatrali. Demostene si rendeva perfettamente conto del rischio che correva, presentando una proposta simile: perciò, mandò avanti un proprio gregario, un certo Apollodoro, il quale subì l’accusa di illegalità al posto del suo capo, che poté continuare la sua carriera politica, destinata a vette altissime di successo e di popolarità, in un clima civile davvero rovente, ma eccezionalmente vivace.

Eschine. Busto, copia romana in marmo da originale del IV sec. a.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

Allo stesso tempo, le orazioni di Demostene e di Eschine sono il primo documento a noi noto di una lotta senza quartiere, che assunse spesso i toni di un violento alterco personale, in cui si mirava a distruggere l’avversario piuttosto che a spiegare con chiarezza i motivi per cui si sosteneva o si combatteva un determinato progetto politico, la cui grandezza, forse, sfuggì, nella sua vera dimensione, sia all’uno sia all’altro dei contendenti. Tale carattere influisce, ovviamente, anche sullo stile, sulla struttura retorica, sul tipo di argomentazioni, che presentano sostanziali differenze rispetto ai discorsi epidittici, destinati alla lettura: i periodo sono più brevi, per permettere all’oratore di mantenere l’opportuna intonazione della voce e anche l’intensità del volume indispensabile per farsi capire in mezzo a un pubblico spesso tumultuoso. Le forme elaborate, i τόποι di impronta nazionalistica o moraleggiante, le frasi a effetto si concentrano maggiormente nei proemi e nelle parti conclusive; queste ultime contengono di solito anche un breve riepilogo dei punti salienti della proposta appena presentata. Quanto alle argomentazioni, esse presentano talora delle affinità con quelle presenti nell’oratoria epidittica, come le riflessioni sul glorioso passato di Atene, sulla saggezza degli antichi legislatori, sul ruolo di «benefattrice dell’Ellade», che la città ha sempre esercitato fin dalle età più remote – divenuto particolarmente evidente durante le Guerre persiane; però, l’oratoria politica ne possiede anche di proprie, le più interessanti delle quali riguardano le riflessioni sulla figura dell’oratore, sul confronto fra le sue doti tecniche e le sue qualità morali, sul potere demagogico della parola, che lo rende un personaggio da seguire senza riserve o da evitare altrettanto incondizionatamente.

Tale è il contenuto, per esempio, dell’esordio dell’intervento di Demostene Sui fatti del Chersoneso, in cui si esortano gli ascoltatori a non seguire uomini politici dominati dallo spirito di parte:

 

Sarebbe necessario, o concittadini, che tutti gli oratori non parlassero mai né per odio né per compiacenza, ma che ciascuno manifestasse apertamente ciò che gli sembra meglio, soprattutto quando voi state dibattendo di argomenti importanti e di interesse comune; ma, poiché alcuni sono spinti a parlare o per spirito di polemica o per qualche altra ragione, voi, Ateniesi, che siete il popolo, la maggioranza, dovete approvare e mettere in pratica ciò che ritenete sia vantaggioso per la città, trascurando tutto il resto.

(Demostene, Sui fatti di Chersoneso 1)

 

Ecco invece un esempio della violenta polemica contro Eschine, reo, agli occhi di Demostene, di appoggiare la pace con Filippo il Macedone proposta da Filocrate (346 a.C.), in modo del tutto indegno delle gloriose tradizioni patrie:

 

Mentre voi stavate deliberando sull’argomento e non volevate neppure sentire la voce dell’abominevole Filocrate, quello ( = Eschine), alzatosi in piedi per parlare, in nome di Zeus e di tutti gli dèi, lo sosteneva con parole degne di molte morti, dicendo che non avreste dovuto ricordare i vostri avi, né sopportare quelli che parlavano delle loro vittorie e delle battaglie navali, e che egli avrebbe fatto formale proposta di stabilire una legge secondo cui voi non avreste portato aiuto a nessuno dei Greci che non avesse prima aiutato voi. E questo individuo perfido e sfrontato osava parlare, mentre erano ancora presenti e ascoltavano gli ambasciatori che avevate mandato a chiamare dai Greci, persuasi proprio da lui, quando non si era ancora venduto.

(Demostene, Sulla corrotta ambasceria 15-16)

 

La risposta di Eschine non si fece attendere e non fu da meno:

 

Nell’attività politica io mi sono trovato impelagato con un individuo imbroglione e malvagio, che non sarebbe capace di dire la verità neppure involontariamente. Quando dice una menzogna, costui, comincia il discorso giurando in nome dei suoi occhi impudenti! E non solo afferma che sono reali fatti mai avvenuti, ma indica perfino il giorno nel quale, a sua detta, essi hanno avuto luogo! E dopo esserselo inventato, aggiunge il nome di un tale che sarebbe stato presente, imitando chi dice la verità. Ma in una cosa siamo fortunati noi, che non abbiamo commesso alcun male, che nella millanteria del carattere e nell’arte di mettere insieme le parole, egli è senza cervello!

(Eschine, Sulla corrotta ambasceria 153)

 

Iperide. Busto, copia romana in marmo del II sec. d.C. da originale greco del IV sec. a.C.

 

 

  1. L’oratoria epidittica fra il V e il IV secolo a.C.

 

Le caratteristiche generali del genere | Come abbiamo precedentemente accennato, l’oratoria epidittica o celebrativa si distinse sostanzialmente dagli altri generi di eloquenza, soprattutto perché, essendo scritta e destinata alla lettura nell’ambito delle scuole, per finalità di esercizio, o in occasione di solennità pubbliche, si caratterizzava per un’estrema elaborazione formale. In essa si distinse soprattutto Isocrate, che scelse volontariamente, sia a fini politici sia pedagogici, questa forma di comunicazione, particolarmente adatta alle sue doti di grande chiarezza concettuale, unite a un’attenta e quasi esasperata ricerca formale, che richiedeva tempi assai lunghi di progettazione e di elaborazione. Esemplare, a questo proposito, il Panegirico, o «discorso per la festa» (πανηγύρις), che fu pubblicato nel 380 a.C. dopo una preparazione durata dieci anni. In esso, Isocrate vagheggiava una costruttiva collaborazione fra Sparta e Atene; le due antiche rivali avrebbero dovuto porsi come forze egemoni dell’intero mondo greco, allo scopo di combattere il nemico comune, la Persia, secondo un’ottica politica ormai anacronistica e fondata sulla nostalgica rievocazione delle innumerevoli benemerenze acquisite dalle due antiche città nei confronti dell’intero mondo ellenico.

Tuttavia, l’oratoria epidittica trovava la sua massima affermazione nei λόγοι ἐπιτάφιοι, discorsi commemorativi ed encomiastici per i caduti in battaglia, secondo un uso che si riteneva istituito da Solone. In realtà, non è possibile stabilire con certezza la data di inizio di tale costume; ma è probabile che essa risalga alla fine del VI secolo a.C., mentre il λόγος ἐπιτάφιος come genere letterario a sé stante ebbe origine dopo le Guerre persiane, forse nell’occasione in cui Cimone, tornando da Sciro con le ossa di Teseo, istituì feste solenni in onore dell’eroe attico; contemporaneamente, si istituirono anche le celebrazioni in memoria dei caduti. Il λόγος ἐπιτάφιος si pronunciava nell’ultimo giorno delle solennità, dopo una grande processione che accompagnava i feretri al cimitero del Ceramico. L’antichità ci ha tramandato sei di queste orazioni: la più antica è quella contenuta nel II libro delle Storie di Tucidide, tenuta da Pericle per i caduti nel primo anno della Guerra archidamica; la seconda, di Gorgia, di cui rimane solo la parte finale, fu pronunciata in occasione della pace di Nicia (421 a.C.); la terza, attribuita a Lisia, il quale, tuttavia, non avrebbe mai potuto svolgerla, data la sua condizione di meteco, commemorava i morti nella Guerra di Corinto e risale al 392 a.C.; la quarta è riportata in un dialogo platonico, il Menesseno, ed è attribuita a Socrate, il quale pronunciava unicamente per mettere in risalto le caratteristiche di questo genere oratorio; la quinta, l’unica che sia stata tenuta dopo una sconfitta, è quella attribuita a Demostene per i caduti di Cheronea (338 a.C.); la sesta è di Iperide, per i morti nella Guerra lamiaca (323-322 a.C.), nella quale l’oratore, violando la legge che imponeva un rigoroso anonimato, fece il nome e l’elogio dello stratego Leostene, suo amico personale.

Il fatto che il discorso concludesse solennemente una celebrazione ufficiale esigeva che esso seguisse uno schema ben preciso che, a parte varianti soggettive, compare in tutti gli ἐπιτάφιοι giunti fino a noi:

 

  • esordio ed excusatio: l’oratore si presenta al pubblico, mostrandosi sorpreso per essere stato prescelto, e invoca l’indulgenza dell’uditorio, perché certamente le sue parole non saranno adeguate a esaltare degnamente il valore di chi ha dato la vita per la città;

 

  • elogio degli antenati: la convinzione che il valore e il civismo siano frutto della tradizione e dell’educazione ricevuta, oltre che della natura, implica il ricordo degli avi e delle loro grandi imprese, che costituiscono per i discendenti un onore, ma anche una profonda responsabilità. Questa parte – di solito abbastanza estesa – si fonda in genere su una serie di τόποι, come la predilezione degli dèi per l’Attica, l’autoctonia degli Ateniesi, le loro eccezionali doti naturali, sviluppate da un’educazione unica per profondità e completezza, le grandi imprese da loro compiute nel mito e nella storia;

 

  • elogio della πολιτεία, la «costituzione politica», considerata un elemento fondamentale nell’educazione e nella formazione del cittadino; in questo senso, la democrazia di Atene ha dato prova di essere superiore a quella di qualunque altra città nell’inculcare valori morali e civici e nell’armonizzare le esigenze del singolo con quelle della collettività;

 

  • rievocazione dell’avvenimento bellico particolare, nel quale i caduti hanno sacrificato la vita;

 

  • commiato ai sopravvissuti, nei quali il rimpianto per la perdita di un congiunto sarà certamente compensato dalla gloria immortale che i caduti hanno conquistato per sé, per la patria e per i discendenti.

 

Alceo fr. 332

di F. Ferrari, La porta dei canti. Storia e antologia della lirica greca, Bologna 2005, pp. 244-245.

 

Pittore di Colmar. Simposiaste e musico. Pittura vascolare dal tondo di una kylix attica a figure rosse, 490 a.C. ca., da Vulci. Paris, Musée du Louvre.

 

Mirsilo, l’odiato tiranno succeduto a Melancro, è morto: bisogna «festeggiare» e ubriacarsi («a forza», πρὸς βίαν, aggiunge enfaticamente il poeta). Nel suo candido cinismo il distico (probabilmente iniziale del carme, come suggerisce l’analogo incipit dell’ode composta da Orazio per la morte di Cleopatra: Carmina I 37 nunc est bibendum, nunc pede libero / pulsanda tellus…) documenta la violenza degli odi tra fazioni in lotta per la conquista del potere. Un’esultanza, tra l’altro, che non portò frutti concreti ad Alceo e alla sua eteria, in quanto la comunità di Mitilene (in realtà un patto di tregua tra tutti gli altri gruppi aristocratici) assegnerà a Pittaco poteri illimitati proprio per proteggere la città «contro gli esiliati, di cui erano a capo Antimenida [fratello di Alceo] e il poeta Alceo» (Aristotele, Politica 1285a 33 ss. = Test. 470 Voigt, cfr. fr. 348 τὸν κακοπατρίδα‹ν› / Φίττακον πόλιος τᾶς ἀχόλω καὶ βαρυδαίμονος / ἐστάσαντο τύραννον, μέγ᾽ ἐπαίνεντες ἀόλλεες «Pittaco l’ignobile tutti insieme fra grandi lodi lo facevano tiranno di questa città imbelle, abbandonata alla sventura»).

 

Fonte: Ateneo X, 430 c.

Metro: endecasillabi alcaici (cfr. a fr. 129).

 

Νῦν χρῆ μεθύσθην καί τινα πρὸς βίαν

πώνην, ἐπεὶ δὴ κάτθανε Μύρσιλος.

 

«Ora bisogna ubriacarsi e che ognuno beva a forza, poiché Mirsilo è morto».

 

Alceo fr. 208a

di F. Ferrari, La porta dei canti. Storia e antologia della lirica greca, Bologna 2005, pp. 240-243.

A Mirsilo, e alla sua cospirazione per affermarsi come «tiranno» di Mitilene si riferisce – come ci informa lo stoico Eraclito – l’allegoria della nave dello Stato, sviluppata anche in un altro carme (fr. 6, 1-4):

Τὸ δηὖτε κῦμα τῶ προτέρω ᾽νέμω

στείχει, παρέξει δ᾽ ἄμμι πόνον πόλυν

ἄντλην, ἐπεί κε νᾶος ἔμβαι

νή[ατα .]όμεθ᾽ ἐ[

[. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .]

[. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .]

φαρξώμεθ᾽ ὠς ὤκιστα [

ἐς δ᾽ ἔχυρον λίμενα δρό[μωμεν

καὶ μή τιν᾽ ὄκνος μόλθ[ακος ἀμμέων

λάβηι· πρόδηλον γάρ μεγ᾽ [ἀέθλιον

μνάσθητε τῶν πάροιθε μ[οχθων

νῦν τις ἄνηρ δόκιμος γε[νέσθω

καὶ μὴ καταισχύνωμεν [ἀνανδρίαι

ἔσλοις τόκηας γᾶς ὔπα κε[ιμένοις

«Avanza di nuovo questa ondata prodotta dal vento di prima e ci costerà molta fatica vuotare la sentina quando l’acqua abbia invaso la nave… al più presto fortifichiamo ‹le fiancate›… e corriamo verso un porto sicuro… e nessuno si lasci prendere dalla fiacca esitazione ‹…›: una grande ‹tempesta› è palese; ricordate il ‹…› di prima; ora ogni uomo mostri di saper resistere, e non disonoriamo i nobili genitori che giacciono sotto la terra…».

Gruppo del pittore Leagro. Una nave. Pittura vascolare dall’interno di una kylix attica a figure nere, 520 a.C. ca., da Cerveteri. Paris, Cabinet des médailles.

Già in Archiloco i pericoli della guerra erano assimilati all’approssimarsi di una tempesta sul mare, ma solo con Alceo (e poi con Teognide 671-682) prende forma compiuta l’immagine della nave in mezzo ai flutti come simbolo politico, «manifestazione visibile ed emblematica della discordia civile che travolge la città di Mitilene (…). I venti, le onde, l’acqua della sentina, le sartie, i timoni, le scotte, il carico della nave, sono le immagini sensibili attraverso le quali il poeta comunica all’uditorio l’estrema gravità di una situazione, la furia di uno scontro cui difficilmente si potrà resistere. L’onda metaforizza il movimento e l’urlo dei guerrieri: nell’Iliade (15, 381 ss.) i Troiani che si abbattono sul muro sono come una grossa ondata (μέγα κῦμα) che s’abbatte sulla murata di una nave (νηὸς ὑπὲρ τοίχων); nei Sette a Tebe di Eschilo il nunzio esorta a difendere la città “prima che si scatenino i soffi di Ares, poiché urla l’onda (κῦμα) terrestre dell’esercito”. Con la stessa immagine marinaresca, che sembra questa volta ricalcare proprio quella di Alceo, il coro delle vergini descrive la sciagura della guerra che si abbatte sui Tebani (vv. 758 ss.): “un mare di mali sospinge l’onda (cioè l’onda dei guerrieri), l’una ricade, l’altra solleva la triplice cresta che mugghia intorno alla poppa della città”. L’acqua che penetra nella sentina della nave (ἄντλος) denota anch’essa l’onda degli uomini armati che irrompono nella città: nei Sette a Tebe (vv. 795 s.) il nunzio narra con esultanza al coro che la patria è ormai scampata al giogo, gode la quiete e “sotto i molti colpi delle ondate non accoglie l’acqua della sentina” (ἄντλος), cioè nessuna falla s’aperse all’impeto delle onde e, fuor di metafora, nessuna breccia s’aperse all’assalto dei nemici. I timoni (v. 9 ὀήϊα) e la vela (v. 7 λαῖφος) sono i simboli della nave/città: nei Sette a Tebe (v. 3) il custode della cosa pubblica è colui che governa il timone (οἴακα) sulla poppa della città. La violenza e le rovine della guerra sono espresse nel Reso (v. 232 s.) di Euripide con l’immagine di Ares che soffia impetuoso e lacera le vele della città di Ilio. Anche per la discussa espressione “restino saldi nelle scotte i due piedi (della vela)” (…) è indubbio che il termine “piedi” ha la funzione ambivalente di denotare, nell’ambito dell’allegoria, i due angoli inferiori della vela che vengono tirati o allentati dalle corde e, fuor di metafora, come è stato dimostrato mediante il confronto con Tirteo, i piedi del combattente. Lo stilema tirtaico che raffigura il soldato “ben saldo sulle gambe” che nel combattimento deve resistere (μενέτω) “con entrambi i piedi fissati al suolo”, presenta quella stessa immagine che la metafora alcaica veicola attraverso il nesso concettuale del restar saldo, del resistere (μένειν). I piedi, gli arti inferiori della vela e del combattente, sono gli strumenti tangibili e visivi della resistenza ad oltranza contro la furia dei venti e delle onde e, fuor di metafora, contro il divampare della guerra civile con il ritorno di Mirsilo a Mitilene, in senso più specifico, contro gli assalti della fazione avversa. Ad essi Alceo affida la propria salvezza» (Gentili 1984, 260-262).

Larga e duratura la fortuna del carme alcaico: oltre a Teognide (vv. 671-682) e ai Sette contro Tebe eschilei (in particolare vv. 62 ss., 208 ss., 795 ss.), vanno ricordati almeno Polibio (VI 44, 3-7), Orazio (Carmina I 37), Dione Cassio (LII 16, 3-4).

Fonte: Eraclito, Allegorie omeriche 5 (vv. 1-9); Cocondrio, Περὶ τρόπων 9 (Rhetores Graeci 3, 234 s. Spengel) (vv. 1-5); P. Oxy. 2297, frr. a b c (vv. 8-19), etc.

Metro: strofi alcaiche.

ἀσυν‹ν›έτημμι τὼν ἀνέμων στάσιν·

τὸ μὲν γὰρ ἔνθεν κῦμα κυλίνδεται,

τὸ δ’ ἔνθεν, ἄμμες δ’ ὂν τὸ μέσσον

νᾶϊ φορήμμεθα σὺν μελαίναι

χείμωνι μόχθεντες μεγάλωι μάλα·

πὲρ μὲν γὰρ ἄντλος ἰστοπέδαν ἔχει,

λαῖφος δὲ πὰν ζάδηλον ἤδη

καὶ λάκιδες μέγαλαι κὰτ αὖτο·

χάλαισι δ’ ἄγκυρραι, ‹ τὰ δ᾽ ὀήϊα ›

[                                                   ]

. [. . .] .[

-τοι πόδες ἀμφότεροι μένο[ισιν

ἐ‹ν› βιμβλίδεσσι· τοῦτό με καὶ σ[άοι

μόνον· τὰ δ᾽ ἄχματ᾽ ἐκπεπ[α]λάχμενα

τὰ] μεν φ[ό]ρηντ᾽ ἔπερθα, τῶν [. . .].

. . . .]ενοισ.[. . . . . . . . . . . . . .

«Non intendo questa posizione dei venti: infatti un’onda rotola di qua e di là un’altra, e noi siamo trascinati in mezzo al mare con la nera nave, molto tribolando per la grande tempesta; infatti l’acqua della stiva supera la base dell’albero e la vela (è) ormai tutta lacera e grandi brandelli ne pendono, e si allentano le ancore, e i timoni… ambedue le scotte restino salde nei canapi: questo possa salvare almeno me; e le merci le une (ormai) sfracellate, sono trascinate in alto…».

Il “Far West” dei Greci

di D. MUSTI, Storia greca. Linee di sviluppo dall’età micenea all’età romana, Milano 2010, 179-198.

La colonizzazione greca di età arcaica presenta caratteri del tutto nuovi rispetto alle frequentazioni di regioni del Mediterraneo orientale o occidentale di epoca micenea. È la stessa più antica tradizione storiografica a dare una chiara nozione della novità che compete alle fondazioni greche del secolo VIII e seguenti. Antioco di Siracusa o non conosce fondazioni micenee o almeno non stabilisce un rapporto di continuità tra le presunte colonie micenee e la storia delle città d’Italia e di Sicilia di cui parla. Un’anticipazione delle città coloniali all’epoca micenea (per Crotone, come per Metaponto, per Siri o per Taranto) è solo opera della storiografia più tarda: verosimilmente già di Eforo, certamente di Timeo e seguaci.

Lo storico moderno ha il dovere di raccogliere l’invito della storiografia greca più vicina a fatti e tradizioni di fondazione delle póleis coloniali, a cogliere lo stacco storico che quelle fondazioni rappresentano rispetto al passato, il valore di evento d’ordine politico-militare, che rompe, con la sua forza innovativa, la continuità di un fatto di lunga durata, routinier, quale la conversazione ininterrotta (e assai composita) fra le diverse rive del Mediterraneo, che i Greci riassumevano sotto la vaga formula dell’emporía (l’andar per mare, comunque probabilmente soprattutto per commerciare): insomma, quel sommesso, secolare scambio di uomini e cose fra le rive del Mediterraneo, che per i Greci, come per ogni uomo di buon senso, è appena lo sfondo ovvio di contatti, che non costituiscono di per sé né un evento politico né lo sbocco chiaramente individuabile di un processo socio-economico[1].

Tempio dorico greco di Era, a Selinunte (presso Castelvetrano, TP), noto anche come “Tempio E”.

La discussione sulla colonizzazione greca è rimasta a lungo impantanata nella fase alternativa tra l’interpretazione delle fondazioni come colonie commerciali e quella che ne fa colonie agrarie e di popolamento[2]. Di fronte al fenomeno coloniale converrà porsi diversi ordini di problemi: 1) le condizioni demografiche, socio-economiche e politiche, della madrepatria; 2) il fondamentale atteggiamento psicologico dei Greci di fronte al fatto della migrazione; 3) l’articolarsi e il rapportarsi delle diverse esigenze economiche, che sono inevitabilmente compresenti – benché in misura diversa nei diversi contesti – in tutte le colonie, e le nuove situazioni complessive che ne emergono; 4) il costituirsi di autentiche “aree di colonizzazione”, specie di entità macro-territoriali, al confronto con questa o quella pólis; 5) i rapporti con l’ambiente e con la popolazione locale; 6) i rapporti con la madrepatria.

È stato sempre notato come le aree più vitali in epoca micenea, e in particolare quelle che presentano strutture palaziali, non partecipino al moto coloniale dei secoli VIII e VII; si tratta dell’Attica, dell’Argolide, della Beozia (un caso a parte è quello della Messenia, ma in quanto oggetto della conquista spartana). Nella madrepatria sono soprattutto interessate le città dell’Istmo, Corinto e Megara, quelle euboiche dell’Euripo tra Eubea e Beozia/Attica, cioè Calcide ed Eretria, come anche (caso significativo e problematico) le città dell’Acaia; in Asia Minore, Rodi, Lesbo, Mileto e altre (ma queste inviano di forma colonie nel continente antistante e in aree contigue, e il fenomeno ha forse i caratteri dell’espansione, della costituzione di un impero coloniale, più che della migrazione).

Autore ignoto. La cosiddetta ‘Coppa di Nestore’. Kotyle LG II rodia, orientalizzante, dalla necropoli di San Montano a Lacco Ameno (Ischia), 720-710 a.C. ca. Museo Archeologico di Pithecusae.
Il reperto reca inciso su di un lato un’iscrizione retrograda in alfabeto eubolico; trattasi di un epigramma formato da tre versi, che alludono alla famosa coppa descritta in Il., XI 632 (una coppa appartenuta a Nestore, talmente grande che occorrevano quattro uomini per spostarla!):
«Νέστορος [εἰμὶ] εὔποτ[ον] ποτήριον
ὃς δ’ἂν τοῦδε πίησι ποτηρί[ου] αὐτίκα κῆνον
ἵμερος αἱρήσει καλλιστε[φά]νου Ἀφροδίτης».
«Di Nestore io son la coppa bella:
chi berrà da questa coppa subito
desiderio lo prenderà di Afrodite dalla bella corona».
Un ruolo particolare esercitano in Occidente Corinzi e Calcidesi. La loro espansione coloniale non dà luogo a competizione, ma piuttosto a una sorta di distribuzione di aree e a reciproca integrazione. Un carattere effimero, minoritario, da riportare verosimilmente a una minore intesa con le altre città colonizzatrici, ha la colonizzazione eretriese, di cui si conservano sporadici indizi: una presenza a Corcira, presto obliterata dalla colonia corinzia condotta, in sincronia con la fondazione di Siracusa (circa il 733), da Cheresicrate; una a Pitecussa, in cooperazione con i Calcidesi. Non è escluso che la guerra lelantina, che circa la seconda metà dell’VIII secolo (?) vide contrappose le due città dell’Eubea (e alleate, rispettivamente, Calcide con Samo e i Tessali, ed Eretria con Mileto), abbia posto fine all’espansionismo eretriese o all’intesa tra Eretria e Calcide, e provocato la crisi del moto coloniale eretriese, esaltando invece l’intesa tra Corinto e Calcide (che comunque può essere per sé anteriore al conflitto inter-euboico)[3].

Va intanto notato che i Greci che vanno a fondare colonie lontane dalla madrepatria tendono a “riprodurre” il paesaggio, la cornice ambientale e le opportunità strategiche della città di partenza. I Corinzi, che risiedono su un istmo, una striscia di terra che si affaccia su due mari e che perciò gode di almeno due porti, dispongono nella loro più famosa colonia d’Occidente, Siracusa, di due porti (Porto Grande e Laccio), e fondano una colonia sull’istmo della Pallene (Potidea). Se non altrettanto certo, è almeno probabile che un’analoga ricerca di condizioni e opportunità ambientali simili a quelle di partenza sia da leggere nel fatto che gli abitanti di Calcide d’Eubea, che si affaccia su un celebre stretto (l’Euripo), siano presenti nella fondazione di Zancle (Messina), come di Reggio, su più famoso stretto d’Occidente (del resto, in tema di analogie morfologiche, tra madrepatria e colonie, è stata già osservata la somiglianza tra la situazione di Focea e quella della sua colonia Marsiglia).

Isthmós (dalla radice i- di eîmi, «andare», come si addice a una «via» di terra) e porthmós (da póros e peírō, «attraversamento, attraversare», come si addice a un breve percorso di mare) sono due termini indicativi della mentalità dei coloni greci, che puntavano su posizioni strategiche da mettere a frutto camminando o attraversando.

Litra d’argento (0,58 gr.) da Nasso (Sicilia). 520–510 a.C. ca. Dritto – Testa arcaica di Dioniso, rivolta a sinistra; Rovescio – Grappolo d’uva.

Con la menzione della colonizzazione di Pitecussa (Ischia) abbiamo evocato quella che è stata considerata, con immagine pittoresca, l’«alba» della colonizzazione della Magna Grecia[4]. Un’alba che ha naturalmente colori alquanto diversi da quelli del giorno pieno della Magna Grecia, che si direbbe risplenda tra il VII e il VI secolo. La colonia greca di Lacco Ameno, databile a circa il 770 a.C., precede la fondazione di Cuma sul continente: si caratterizza per la scarsità del territorio (ritenuto tuttavia fertile, soprattutto per la produzione di vino) e la presenza di chryseîa, che sembra difficile interpretare come «miniere d’oro» e forse devono intendersi come «officine per la lavorazione dell’oro». A Pitecussa è stato messo in luce un quartiere di fornaci per la lavorazione di metalli, come il ferro proveniente dall’isola d’Elba[5]. È stato posto il problema se si tratti di una vera città o solo di uno scalo, di un emporio. Per Strabone era probabilmente una pólis: se noi ci poniamo il problema di definire diversamente, ciò è forse solo dovuto al fatto che pretendiamo di misurare il carattere di Pitecussa su quelle caratteristiche (territoriali, monumentali, urbanistiche, funzionali), che le altre póleis greche in àmbito coloniale assunsero nel corso del tempo, superando quella condizione di primo insediamento, che in genere solo un paio di secoli dopo appare pienamente superata[6]. Pitecussa è un insediamento gracile: non possiamo applicarle parametri di valutazione che, più o meno consapevolmente, derivano dall’assetto delle póleis «riuscite», quale conseguito nel VI secolo. La discussione su Pitecussa è un tipico caso di hýsteronpróteron storico e filologico.

Ingresso all’Antro della Sibilla, a Cuma.

Stando alla tradizione riflessa in Eusebio (da Eforo?), Cuma fu la prima colonia greca in Italia, fondata circa il 1050 a.C. Una cronologia così alta segnala di per sé quella prospettiva continuistica (che cioè non ammette soluzione di continuità, né differenze di qualità tra “presenze” greche di età micenea e “colonizzazione politica” di epoca arcaica), che si afferma da Eforo a Timeo. In realtà, date attendibili, che ci riportino a una più credibile cronologia di VIII secolo (Cuma fondata poco dopo Pitecussa), mancano per Cuma, come in generale per le colonie calcidesi d’Occidente (Zancle e Reggio sullo stretto tra la Sicilia e l’Italia, o Partenope e la stessa Neapolis), fatta eccezione per quelle colonie calcidesi di Sicilia (Nasso, Leontini, Catania), le cui fondazioni siano messe in una precisa relazione cronologica con la data di fondazione di Siracusa, come riflesso del fatto di essere state in qualche modo coinvolte nelle vicende siracusane. Nella storia, come nella cronologia, delle colonie greche d’Occidente la storiografia siceliota (anzi, essenzialmente, siracusana) appare determinante, e quella di V secolo (Antioco, come rispecchiato, tra l’altro, a quanto sembra, in Tucidide) fornisce indicazioni ad annum: 733 circa per Siracusa, e quindi 734 per la decana riconosciuta delle colonie greche di Sicilia, Nasso; 728/7 per Leontini, Catania (e giù di lì per Megara Iblea, fondazione di Megaresi di Grecia). Fluttuante, nella tradizione, anche la cronologia delle colonie delle altre aree coloniali, tranne che per un’eccezione (Crotone), data la sua presunta quasi-contemporaneità con Siracusa, e per gli eventuali annessi e connessi (Sibari nella tradizione antiochea preesiste – benché non ci sia detto di quanto – a Crotone; Metaponto, nella stessa tradizione, è posteriore alla fondazione di Taranto)[7].

Complessivamente, per le città del mar Ionio abbiamo dunque nella tradizione un doppio ordine di date: 1) quelle raccolte in Eusebio e Girolamo, che si avvicinano al 700 a.C., e 2) una data per Crotone, come una data possibile per Reggio, più alte e più vicine alle date delle fondazioni di Sicilia; si ha l’impressione che proprio in Antioco ci sia la tendenza ad avvicinare, a un livello cronologico piuttosto alto, le date dei processi coloniali in Sicilia e in Magna Grecia; è comunque certo che la tradizione cronografica tarda – che prende probabilmente le mosse da Eforo e seguaci – opera una forte divaricazione tra le fondazioni di Sicilia (di cui addirittura dà date più alte che in Antioco e Tucidide, come è il caso di Nasso, di Megara Iblea e della stessa Siracusa, che risalgono così a poco prima del 750 a.C.) e quelle della costa ionia d’Italia, che tale tradizione cronografica respinge nell’ultimo decennio dell’VIII secolo.

Mappa della Sicilia antica.

I problemi della cronologia si possono affrontare con l’occhio rivolto alle aree verso cui si dirigono i diversi moti coloniali. Pur senza trascurare le innegabili interferenze, e persino l’esistenza di colonie miste, ben note alla tradizione, occorre tenere in conto maggiore che per il passato l’esistenza di mete preferenziali delle diverse imprese coloniali, che tendono spesso a recuperare condizioni simili a quelle di partenza e a costituire aree di una qualche omogeneità, talora interrotte da enclaves ora più ora meno mal tollerate. È innegabile che da Crotone a Sibari a Metaponto si crei un’area achea, che ovviamente non sbocca nella creazione di un’unità territoriale e politica: le póleis restano autonome, ma costituiscono, o riscoprono puntualmente, nel corso del tempo, forme di solidarietà che sono di natura culturale, cultuale, economica e politica in senso lato.

Statere d’argento (8,1 gr.) da Sibari. 550-510 a.C. ca. Legenda – VM in exergo. Toro stante verso sinistra, con testa rivolta a destra. Dewing Coll. 406.

Il concetto stesso di Megálē Hellás, nelle sue diverse accezioni, ricopre comunque e sempre lo spazio occupato dalle colonie achee. Benché certamente non limitata a queste, in queste la nozione ebbe la sua humus fecondatrice[8]. Nel VI secolo le colonie achee tentano di eliminare l’enclave ionia di Siri, una città fondata da esuli di Colofone, che erano sfuggiti alla pressione lida, probabilmente al tempo del re Gige, intorno al 675 a.C. Circa un secolo dopo Siri fu distrutta e acaizzata da Metaponto, Crotone e Sibari. Secondo Antioco, l’aspirazione degli Achei a controllare la ricca Siritide, contendendone il possesso ai Tarentini (coloni di Sparta), risale all’VIII secolo e precede la fondazione della stessa Metaponto. Antioco sembra del resto realisticamente attento a quelle che potremmo chiamare “logiche territoriali”, che orientano l’espansione greca sul sito coloniale: gli Achei di Sibari mandano a chiamare (metapémpontai) altri Achei per occupare Metaponto, perché, occupando strategicamente l’altro punto estremo del territorio conteso (qual è, rispetto a Sibari, Metaponto), essi avrebbero controllato anche l’intermedia Siritide; così, per lo stesso autore furono gli Zanclei a chiamare (metapémpesthai) i loro consanguinei da Calcide, per fondare Reggio (si direbbe, in un’analoga prospettiva strategica di controllo calcidese dei due versanti dello Stretto): in Sicilia i Nassii, secondo Tucidide, nella loro espansione nell’area etnea, colonizzano prima la più lontana Leontini e solo successivamente l’intermedia Catania[9].

Ricostruzione assiometrica e pianta di un’abitazione sicula, nell’insediamento di Thapsos (Sicilia orientale).

Al loro arrivo in Sicilia i Greci trovavano già stanziate varie genti non greche, quale da più antica quale da più recente data, quale per un’estensione maggiore, quale concentrata in una zona più ristretta. Davano all’isola il nome e la facies culturale preminente i Siculi e i Sicani, i primi attestati nella parte orientale e centro-meridionale, i secondi nella parte occidentale. I primi erano stanziati alle spalle del territorio che fu di Zancle, e delle colonie calcidesi dell’area etnea (Nasso, Catania, Leontini), di Siracusa e Camarina, e lambivano certamente il territorio di Gela; loro centri, vivi ancora nel V secolo, erano Menai(non) (= Mineo?), il lago degli dèi Palici (= lago Naftia), e inoltre il sito che sotto il ribelle siculo Ducezio si ridenominò Morgantina. Identificati nella tradizione etnografica ora con gli Itali ora con gli Ausoni ora con i Liguri, e fatti provenire da punti diversi della penisola (da postazioni più settentrionali, al Lazio, o alla Campania e alla punta estrema d’Italia), i Siculi erano considerati dagli antichi – e lo sono dagli archeologi e storici moderni – strettamente imparentati con le popolazioni della penisola. Si tende tuttavia a distinguere tra una facies culturale ausonia, riscontrabile nelle Lipari e nel Milazzese già dal XIII secolo a.C., e una facies probabilmente sicula, documentabile a Pantalica, a Melilli, a Cassibile, solo alla fine, o dopo la fine, dell’età del Bronzo e del II millennio a.C. Ecateo colloca un insediamento a Nola. Io ho proposto, per l’etimologia di Ausoni, almeno come sentito dai Greci, la derivazione dalla radice au- di aúein, «ardere», con riferimento ai fenomeni vulcanici (fumo e fiamme) del Vesuvio e zone attigue. Finora rapporti con la cultura appenninica, tali da giustificare la tradizione di una migrazione, sembrano più forti per la civiltà ausonia che per la civiltà propriamente sicula (posto che si debba veramente distinguere tra le due; le fonti letterarie solo in parte consentono con una distinzione, che resta in certa misura convenzionale e provvisoria, pur se assai suggestiva)[10].

Protome bovina del centro siculo di Castiglione (Ragusa).

Nel corso del Tardo Bronzo, dal XVI/XV al XIII secolo a.C., è d’altronde verificabile nella Sicilia orientale (in particolare a Thapsos) come, e soprattutto, nelle isole Lipari, una presenza notevole di materiale miceneo (a Lipari persino tardo-minoico), che è sicura prova di frequentazioni. Mancano finora prove di veri e propri insediamenti micenei, cioè esempi di edilizia abitativa egea (benché tanto a Pantalica quanto a Thapsos sia dato riscontrare l’esistenza di edifici che per struttura, proporzioni, probabili funzioni fanno pensare a costruzioni di tipo palaziale e perciò in qualche misura di influenza egea)[11]. Quanto ai Sicani, già l’apparentemente comune radice del nome ha suscitato fra gli antichi e fra i moderni la tesi di una fondamentale affinità con i Siculi. Rispetto a questi, tuttavia, i Sicani mostrano minori caratteristiche indoeuropee, e perciò sono considerati o una popolazione pre-indoeuropea proveniente dall’area iberica, via mare o forse anche – il che crea nuove possibilità di interferenze storiche con i Siculi – via terra (salvo, naturalmente, per l’attraversamento dello stretto di Messina), o una popolazione indoeuropea, che ha perduto, col passaggio nell’isola, le sue caratteristiche originarie[12]. Accanto a Siculi e Sicani, gli Elimi, con i loro centri di Segesta, Erice (ed Entella, poi rapidamente oscizzata dal V secolo in poi), e i Fenici (con che Tucidide intendeva anche i Cartaginesi) insediati a Solunto, Panormo, Mozia, nell’area nord-occidentale. Agli Elimi si attribuiva un’origine dai Troiani, nonché da Focesi che avevano partecipato alla guerra di Troia; certo essi presentano connessioni con civiltà orientali, in particolare con l’ambiente cipriota e fenicio (culto di Afrodite Ericina) o siriaco e microasiatico; l’ellenizzazione aveva compiuto, verificabile nel V secolo, ma probabilmente anche prima, passi notevoli (basti pensare al tempio dorico superstite a Segesta, al rapporto di competizione e però anche di interazione con Selinunte, agli stretti rapporti con Atene, che con Segesta stipula un trattato poco prima della metà del V secolo, e in suo aiuto interviene in Sicilia, contro Selinunte e Siracusa, nel 427 e nel 415 a.C.)[13].

Il cosiddetto “Trono Ludovisi”: sul lato frontale spicca il bassorilievo che rappresenta Afrodite Anadyomene, che sta sorgendo dalle acque vestita da un leggerissimo chitone, che lascia intravedere le curve del corpo. Due Horai poste ai lati sorreggono un velo che nasconde la parte inferiore della scena. Il manufatto marmoreo è stato rinvenuto nei pressi del Tempio di Venere Erycina a Roma, e datato al 460-450 a.C. circa. Museo Nazionale Romano di Palazzo Altemps.

Si pone qui un problema di definizione della categoria di ellenizzazione, un po’ più rigorosa di quella che si adotta in generale. Ellenizzazione finisce col significare, nel linguaggio corrente, due cose profondamente diverse fra loro: acculturazione, perciò permeazione di elementi di cultura greca, per lo più consistenti in oggetti archeologici tipicamente “polisemici”, cioè suscettibili delle più diverse interpretazioni storiche; e controllo politico. Si pone l’ulteriore problema, se i Siculi siano stati in questo senso più ellenizzati dei Sicani. Se con ciò s’intende una maggiore infiltrazione di oggetti e di espressioni culturali greche di epoca arcaica, ciò, sembra potersi, allo stato della nostra informazione, affermare per i Siculi; benché nuove scoperte archeologiche

modifichino rapidamente il quadro anche per il territorio sicano. Se però per ellenizzazione s’intende controllo del territorio, è facile affermare il contrario. Basti pensare all’estensione del dominio territoriale all’interno dell’isola e attraverso di essa, da una costa all’altra, delle città greche più impegnate a costruirsi una chōra. Ora, tra il 488 e il 472 il tiranno di Agrigento, Terone, riuscì a costituirsi un dominio continuo, trasversale, e che perciò includeva o attraversava il territorio sicano, tra la sua città ed Imera, sita sulla costa settentrionale. Il territorio selinuntino confina d’altronde con quello segestano, e questo non può non aver comportato una qualche capacità di tenere sotto controllo la popolazione sicana dell’area o delle sue immediate vicinanze. In questa direzione avanzò certo già Falaride nel VI secolo; ma gli scontri che egli dovette affrontare (quando conquistò ad esempio la sicana Uessa) o la minaccia che i Sicani nel VI secolo potettero esercitare su Imera mostrano che ancora per una larga parte del VI secolo i Sicani erano capaci di una resistenza che viene meno nel secolo successivo[14].

Pittore di Edimburgo. Atena nella Gigantomachia. Pittura vascolare da una lekythos attica a sfondo bianco, da Gela. 500 a.C. ca. Museo Archeologico Regionale di Palermo.

Più complessa, ma anche particolarmente istruttiva, la storia del rapporto di Siracusa e di Gela col proprio hinterland. Siracusa fonda nel 633 Acre (=Palazzolo Acreide) e nel 643 Casmene (probabilmente da identificare con Monte Casale): è evidente che, durante le prime tre generazioni di vita della grande colonia, il problema principale è per essa quello di un controllo del territorio in profondità, in primo luogo della valle dell’Anapo, che è via di penetrazione verso l’interno, ma anche sgradita minaccia dell’interno sulla costa. Nel 598 Siracusa “sfonda” sulla costa occidentale, dando vita a Camarina. Ormai il disegno siracusano appare più chiaramente quello della costituzione di un territorio ampio e continuo, con la conquista di un sito sulla costa occidentale dell’isola, già occupata, verso nord, da Gela (fondata da coloni rodio-cretesi nel 688) e da Selinunte (fondata da Megaresi di Megara Iblea, non senza l’apporto della madrepatria greca, da cui proveniva l’ecista Pammilo) intorno al 628 o al 650[15]; solo successiva alla fondazione di Camarina sembra la nascita di una sottocolonia geloa, Akragas (Agrigento), forse da collegare con fermenti politici interni a Gela, quali si addicono alle vicende delle colonie nel VI secolo, e come sembrerebbe suggerito dalla precoce instaurazione di una tirannide ad Agrigento, con Falaride.

Didracma d’argento (8, 37 gr.) da Agrigento. 480-470 a.C. ca. Dritto: aquila stante, verso sinistra, con attorniata dalla legenda AKRAC; rovescio: un granchio.

Caratteristica della tradizione emmenide (Terone e la sua stirpe) è comunque la provenienza diretta (o presentata come tale) da Rodi, con un certo ridimensionamento della componente culturale cretese[16]. Il rapporto di Siracusa con la popolazione del territorio appare caratteristico: questa viene asservita, ma costituisce uno strato sociale di particolare rilievo, se ha una sua denominazione particolare (Kyllýrioi, o Killi-[Kalli-]kýrioi), perciò un ruolo complessivo ben definito agli occhi della città, ed è inoltre capace di istituire forme di convivenza e alleanza politica con gli strati popolari della stessa Siracusa, con il suo dâmos, che nel V secolo costituisce documentabilmente già un popolo opposto a quello dei gamóroi (proprietari terrieri). Non è da trascurare il fatto che la colonia dorica di Siracusa adottasse, nei confronti della popolazione indigena, quel tipo di rapporto socioeconomico che le città doriche in Grecia realizzano verso le popolazioni del contado.

Ma quanto si estendeva il dominio territoriale di Siracusa, al di là di quei cunei strategici che essa riuscì presto a realizzare, o di quel dominio più compatto ed esteso, ma pur sempre limitato, che essai si era ormai creata all’inizio del VI secolo? Ci aiuta molto la considerazione dei compiti che ancora all’inizio del V secolo dovevano affrontare il tiranno di Gela, Ippocrate, morto nel 491, combattendo contro la sicula Ibla (= Ragusa? Paternò?), e il successore a Gela, Gelone (491-485/4), divenuto poi tiranno di Siracusa (485/4-478). Ippocrate assediò, nell’area etnea, Callipoli, Nasso, Leontini, più a nord Zancle, più a sud Siracusa e (significativo della complessità del rapporto di quest’ultima con gli indigeni) i di lei alleati Siculi. I tentativi di Ippocrate riescono con le città calcidesi, ma sono destinati a fallire contro Siracusa (del resto aiutata, dopo una sconfitta sul fiume Eloro, dai confratelli Corinzi e Corciresi) e contro i Siculi di Ibla. Il tentativo di Ippocrate di costituirsi un dominio continuo trasversale, dalla costa occidentale a quella nord-orientale, fallisce di fronte alla resistenza di indigeni e di parte dei Greci[17].

Apollónion di Ortigia, a Siracusa. Tempio dorico, eretto a partire dalla fine del VI secolo a.C.

Più concentrato su aree di tradizionale competenza siracusana o vicine a Siracusa appare l’impegno analogo, e pur diverso quanto a dimensioni, di Gelone: egli interviene a Siracusa in favore dei gamóroi esuli a Casmene, contro il dâmos e i Kyllýrioi, e, trasferito il centro del suo potere da Gela (che affida al fratello Ierone) a Siracusa, concentra in questa città tutti i Camarinesi, più di metà dei Geloi, e inoltre gli aristocratici di Megara (nonostante i loro sentimenti anti-siracusani) e gli Eubeesi di Sicilia, vendendo in schiavitù la parte più umile della cittadinanza delle città vinte[18]. Qui è all’opera in primo luogo un’idea di sviluppo demografico e urbano del centro-guida, Siracusa, che può avere solo l’effetto di obliterare o indebolire altri centri greci; naturalmente ciò comporta anche una concezione territoriale del dominio di Siracusa, che può costare il sacrificio di altre città greche, in favore dell’unica città. Sembra invece meno perseguito il disegno di un dominio territoriale indifferenziato sui centri siculi, quale aveva accarezzato Ippocrate.

Quando, poco dopo il 580, Pentatlo arriva in Sicilia con un manipolo di Cnidii, egli registra ormai nell’isola il “tutto esaurito”, rispetto alla possibilità di nuovi insediamenti greci, arricchitisi, nel 580, della nuova fondazione di Agrigento. Appellandosi alla sua discendenza da Ippote, a sua volta discendente di Eracle, Pentatlo cerca di insediarsi al Lilibeo e forse ad Erice, sostenendo Selinunte contro Segesta, ma è sconfitto (e ucciso) dagli Elimi e dai “Fenici”; i suoi seguaci occupano però le isole Eolie, fuori del territorio siciliano propriamente detto, scacciandone i pochi occupanti. Lipari diventa il centro cittadino; Iera (=Vulcano), Strongyle (= Stromboli) e Didima (=Salina) costituiscono il territorio agricolo. Moduli di proprietà privata saranno forse esistiti nella città, non certo nelle isole, che sono proprietà comune e più tardi diventano proprietà privata, ma limitata nel tempo (ogni vent’anni i titoli di proprietà si azzerano e si ha una redistribuzione del territorio).

Litra d’argento (0,6 gr.) da Siracusa. 470 a.C. ca. Testa di Aretusa rivolta a destra.

L’esperimento comunistico degli Cnidii a Lipari è sentito e sottolineato dalla tradizione antica come una singolarità. A spiegarla concorrono le condizioni ambientali (un territorio agricolo fisicamente separato dal centro urbano), ma forse anche le particolari tradizioni che caratterizzano gli ambienti dorici nei rapporti di proprietà della terra. Non sembra accettabile la tesi che scorge nel rafforzamento, o addirittura nella prima realizzazione, di una presenza cartaginese in Sicilia, militarmente organizzata, una reazione all’impresa di Pentatlo. Questi fu contrastato infatti da Elimi e “Fenici” (forse, nel linguaggio di Pausania, i Cartaginesi): non risulta che gli altri Greci l’abbiano realmente aiutato[19]. Non si può motivare la nascita di un fatto di tale significato e portata come l’epicrazia cartaginese in Sicilia con un episodio che sin dall’inizio si poneva come un tentativo senza prospettive e senza supporti, che violava un’intesa, oltre che una situazione di fatto, chiara a tutti gli occupanti stranieri della Sicilia. Il modificarsi della presenza cartaginese in Sicilia è da collegarsi in primissimo luogo con mutamenti della politica estera di Cartagine nel suo complesso, cioè con un’impostazione aggressiva verificabile in Africa, come in Sardegna, oltre che nella stessa Sicilia. Il contrasto greco-cartaginese è conseguente alle imprese di Malco (ca. 550), e al costituirsi all’interno del mondo greco – soprattutto ad opera dei tiranni – di nuove concezioni del rapporto con il territorio (il territorio degli indigeni, quello degli altri stranieri di Sicilia, quello degli stessi Greci): ed è realtà della fine del VI e soprattutto del V secolo[20].

Gli sviluppi politici interni alle colonie, tra la fondazione e il VI secolo, costituiscono uno dei capitoli più difficili della storia della grecità coloniale. le stesse origini sociali sono spesso avvolte nel buio: in particolare quelle di Taranto e di Locri Epizefiri, per le quali parte della tradizione parla della partecipazione, diretta o indiretta, di elementi servili: figli di iloti e di donne spartiate (Partenii, cioè figli di parthénoi, di donne legalmente “vergini”) nel primo caso, servi unitisi con le loro padrone nel secondo caso[21]. La presenza di elementi servili è attestata soprattutto nella tradizione più antica. Nella tradizione locale v’è diversità di comportamento delle due città: l’aristocrazia locrese sembra aver perpetuato la tradizione di un’origine ilotica e della nobiltà dei capostipiti femminili delle cento case più nobili; la presenza ilotica nelle origini di Taranto sembra invece complessivamente respinta dalla città[22].

Tempio dei Dioscuri, Agrigento. Ordine dorico, metà V secolo a.C.

I moderni assumono spesso atteggiamenti ipercritici e normalizzatori nei confronti di queste tradizioni; ma bisogna distinguere tra la forma leggendaria e la sostanza storico-sociale del racconto. Le origini socialmente complesse di una colonia, da una mistione di padroni e servi, sono, nella tradizione greca sempre produttrice di paradigmi, ricondotte alle guerre “servili” per eccellenza della storia greca arcaica, le guerre cioè per l’asservimento dei Messeni agli Spartani; guerre che d’altra parte vedono operare insieme o convivere, nel campo dei conquistatori, padroni e servi (a Sparta, gli iloti). Ma, fatta astrazione dai particolari della forma leggendaria, sarebbe difficile negare che un fenomeno così strettamente collegato con gli sviluppi demografici e i relativi contraccolpi sociali ed economici, come quello della colonizzazione, non abbia qualche volta interessato e coinvolto strati sociali inferiori. Se la tradizione non ne parlasse mai, probabilmente dovremmo sospettarlo: ora la tradizione ne parla, per Taranto e per Locri. Ne parla tuttavia solo in parte, ma sta di fatto che nelle tradizioni più antiche è fatto posto al dato scabroso della commistione di servi, mentre sembra avere origini e caratteristiche comuni la tradizione “normalizzatrice”, che espunge dalla storia delle origini delle città quell’imbarazzante presenza.

Così, per Taranto, Antioco attesta la nascita dei Partenii fondatori di Taranto (e dello stesso loro capo, Falanto)[23] dagli iloti (presentati tuttavia come Spartiati declassati per inadempienze di obblighi militari), mentre Eforo riduce gli iloti a comparse del complotto dei Partenii contro gli Spartiati, e soprattutto rende incomprensibile le ragioni della ribellione e del complotto dei Partenii, poiché questi, lungi dall’essere figli di iloti, sarebbero il frutto di unioni promiscue programmate dagli stessi Spartiati, che consentirono forse ai più giovani di unirsi anche con le mogli dei più anziani, per essere poi (incoerentemente) umiliati a un rango sociale inferiore, che li spinge alla rivolta. Al ruolo di Eforo nella storia delle origini di Taranto corrisponde quello di Timeo nella storia delle origini di Locri; questi infatti adduce, contro Aristotele, molti argomenti volti a negare l’origine semiservile dei Locresi; uno di tali argomenti è però palesemente mal posto. In antico, infatti, i Greci non avrebbero avuto schiavi comprati con denaro; ma, appunto, se c’è qualcosa di vero nella tradizione delle origini complesse di Locri, è chiamato in causa uno strato di servitù rurale e non uno di schiavi comprati.

Dai primi due secoli di vita delle colonie trapela qualcosa dell’attività dei legislatori, come Zaleuco di Locri o Caronda di Catania; ma del contenuto reale della loro opera ci impediscono di farci un’idea precisa le molte interferenze e sovrapposizioni (Caronda è legislatore a Catania, ma anche in altre città calcidesi, come Reggio) e soprattutto la manipolazione pitagorica, che di essi ha fatto altrettanto discepoli del maestro venuto in Italia solo intorno al 530 a.C. Trapela anche qualcosa dei rapporti con il territorio e con la popolazione indigena, che furono in diversi casi di sopraffazione, come mostra il cessare, qualche decennio dopo la fondazione greca, della vita di centri indigeni costieri, con eventuale conseguente spostamento degli indigeni più all’interno (ciò si verifica sul sito dell’Incoronata poco a ovest di Metaponto, in vari siti della Sibaritide, da Amendolara a Torre Mordillo a Francavilla Marittima, e nell’area locrese, come a Canale e Ianchina e in siti vicini). Che il modulo dei rapporti servili venisse trapiantato in area coloniale è più inducibile dall’esistenza della schiavitù in Magna Grecia e Sicilia, e dalla concomitante considerazione che di norma tali schiavi non dovevano essere Greci (la norma, in questo àmbito, conosce significative eccezioni, proprio nella politica dei tiranni del V secolo, che praticano consistenti violazioni dei principi greci, abolendo città e privando i loro abitanti della condizione primaria della libertà)[24].

La tradizione greca insiste, come si è detto, sugli aspetti territoriali e perciò agrari del fenomeno coloniale; in tale luce ci appare quindi anche il fenomeno delle sotto-fondazioni. Ma, come per il rapporto tra madrepatria e colonia va tenuto conto della creazione di un’area di tensione commerciale, cioè di una direttrice preferenziale di scambi (così è per esempio tra Corinto e Siracusa), così tra la Grecia propria e le zone coloniali si vanno costituendo aree minori, dove si esprime una determinata produzione artigianale o si fondano rapporti commerciali.

Metopa. Perseo decapita Medusa, assistito da Atena, dal Tempio C (Selinunte). VI secolo a.C. ca. Museo Archeologico Regionale di Palermo.

I primi due secoli di vita delle colonie occidentali sono anche quelli in cui da un regime sociale tendenzialmente ugualitario, quale si postula (e in taluni casi, per esempio a Megara Iblea, si verifica)[25] per le prime due o tre generazioni di coloni, succede una sempre maggiore stratificazione sociale, e quindi si determina la possibilità di conflitti (stáseis), con seguenti espulsioni o pericolose secessioni di una parte del corpo civico. Di pericolosa secessione deve trattarsi nel caso dei Geloi che (forse alla fine del VII secolo) si rifugiarono a Maktorion (= Monte Bubbonia?), e che furono riportati in patria dall’antenato dei Dinomenidi, Teline, che, per la sua opera di mediatore, ottenne il privilegio della ierophantía (una sorta di sacerdozio legato ai riti misterici “delle dee”, cioè, di Demetra e Core). Da Siracusa, a metà del VII secolo, furono cacciati i cosiddetti Miletidi, che sostarono a Mile prima di partecipare, con gli Zanclei, alla fondazione di Imera (circa il 648 a.C.)[26].

È del tutto comprensibile che in taluni casi il conflitto non sboccasse nella sola espulsione di una parte e affermazione di quella rimasta in patria, ma che cambiassero anche le forme del regime. Le prime tirannidi di Sicilia a noi note sono quella di Panezio a Leontini (a cui può aver dato occasione qualche conflitto sociale determinandosi in relazione al controllo e alla distribuzione delle proprietà nella fertile piana) e quella di Falaride ad Agrigento. C’è una coincidenza complessiva con il quadro cronologico delle tirannidi della Grecia arcaica, che suscita fiducia nella tradizione. La precocità della tirannide di Falaride nella storia della città, fondata appena nel 580 a.C., risulta più accettabile, se si pensa che la stessa fondazione di Agrigento potrebbe riflettere conflitti all’interno della società geloa, che del resto in età arcaica fu turbata dalla stásis sedata da Teline. Queste prime tirannidi siceliote hanno dunque ancora motivazioni simili a quelle delle tirannidi arcaiche in genere: le tirannidi siceliote di fine VI e soprattutto V secolo hanno motivazioni e sbocchi ben più caratteristici[27]. […]


[1] Su questi temi, cfr. gli Atti del convegno Momenti precoloniali nel Mediterraneo antico, Ist. Civiltà fenicia e punica, Roma 1988; D. Musti, Strabone e la Magna Grecia. Città e popoli dell’Italia antica, Padova 1988; Id., in Storia di Roma I, Torino 1988, pp. 39 sgg.

[2] Per il tradizionale (e ormai obsoleto) dibattito sul carattere commerciale, o invece agrario e di popolamento, delle colonie greche, v. A. Gwynn, in «JHS» 38, 1918, pp. 88 sgg.; A.W. Byvanck, in «Mnemosyne» 1936/7, pp. 181 sgg.; A. Blakeway, in «ABSA» 22, 1932/3, pp. 170 sgg.; A.J. Graham, Colony and Mother-City in Ancient Greece, Manchester 1964; Id., in «JHS» 91, 1971, pp. 35 sgg.; D. Asheri, Storia della Sicilia. La Sicilia antica, a c. di E. Gabba – G. Vallet, I 1, 1979, pp. 98 sgg.

[3] Sulla cronologia e il contesto della guerra lelantina, una plausibile ricostruzione in B. d’Agostino, «Dial. di Archeologia» 1, 1967, pp. 20 sgg. Se si accettano le testimonianze di Esiodo, Opere e Giorni, ai vv. 650-662, e di Plutarco, Moralia 152d, sulla morte di Anfidamante di Calcide (per Plutarco avvenuta nel corso della guerra lelantina), se ne ricava un nesso cronologico tra la guerra stessa e la cronologia di Esiodo, che avrebbe partecipato alle gare funebri in onore di Anfidamente.

[4] D. Ridgway, L’alba della Magna Grecia (trad.it.), Milano 1984. Sulla “coppa di Nestore”, cfr. G. Buchner – C.F. Russo, in «RAL» 8, 1955, pp. 216 sgg.; D. Musti, Democrazia e scrittura, in «Scrittura e civiltà» 10, 1986, cit., pp. 21 sgg.

[5] Sui cryseîa di Pitecussa (miniere d’oro o oreficerie?), Strabone, V C. 247. Pitecussa sembra una pólis a tutti gli effetti per Strabone (cfr. ōikisan); ma v. Livio, VIII 22, 6 per un’altra concezione (i Cumani primo <in> insulas Aenariam et Pithecusas egressi, deinde in continentem ausi sedes transferre).

[6] Per es., sull’aspetto di Megara Iblea nel VI sec., v. G.Vallet – F.Villard – P. Auberson, Mégara Hyblaea. 1. Le quartier de l’agora archaïque, École Française de Rome 1976.

[7] Su Tucidide, VI 3-5, cfr. commento di K.J. Dover, in A.W. Gomme – A. Andrewes – K.J. Dover, A Historical Commentary on Thucydides IV, Oxford 1970, pp. 198-210 (sulla provenienza da Antioco e sulle cronologie). Per la vicinanza di Eusebio alle cronologie di Tucidide, J. De Waele, Acragas Graeca I, Rome 1971, p. 83.

[8] D. Musti, L’idea di Megálē Hellás, in «RFIC» 114, 1986, pp. 286-319 (= Strabone e la Magna Grecia cit., pp. 61-94). V. ora D. Musti, Magna Grecia. Il quadro storico, Roma-Bari 2005, pp. 122 sgg.

[9] Cfr. FGrHist 555 Ff 12 e 9 (per Metaponto e Reggio) e lo stesso Antioco come probabile fonte di Tucidide, VI 3, 2 (v. il mio Strabone e la Magna Grecia cit., pp. 40-42).

[10] Per la distinzione tra cultura ausonia e cultura sicula, L. Bernabò Brea, La Sicilia prima dei Greci, Milano 1985; G. Voza ne La Sicilia antica I, 1, cit. a n.45, pp. 28 sgg. Sull’etimologia di Ausoni, D. Musti, Ausonia terra 1, in «RCCM» 41, 1999, pp. 167-172; A. Pagliara, ibid., pp. 173-198. Sugli episodi di «seismós kaì pûr» (terremoto ed eruzione vulcanica) e sui fenomeni di maremoto che hanno interessato, in età antica, l’area campana, v. D. Musti, Lo tsunami di Pitecusa (IV secolo a.C.), in «Bollettino della Società Geografica Italiana» ser. XII, 10, 2005, pp. 567-575.

[11] Su Siculi, Sicani, Elimi, cfr. L. Braccesi in La Sicilia antica I, 1 cit., pp. 53 sgg.; E. Manni, Geografia fisica e politica della Sicilia antica, Palermo, 1981; L. Agostiniani, Iscrizioni anelleniche di Sicilia. I. Le iscrizioni elime, Firenze 1977.

[12] Sul rapporto tra Siculi e Sicani e tra i due gruppi (considerati entrambi indoeuropei) e gli Elimi (fondo mediterraneo), cfr. S. Mazzarino, Dalla monarchia allo stato repubblicano, Catania 1945, pp. 11-47.

[13] Sul trattato tra Atene e Segesta, H. Bengtson, Die Staatsverträge des Altertums II, München-Berlin 1962, pp. 41 sg. (per una data 458/7). Cronologie più basse vengono di quando in quando riproposte.

[14] Sul caso di S. Angelo Muxaro, identificabile con Camico, reggia di Cocalo e sede della tomba di Minosse, cfr. G. Rizza e AA.VV., in «Cronache di Archeologia» 18, 1979; sull’ellenizzazione dei centri indigeni della Sicilia occidentale, E. De Miro, in «Kokalos» 8, 1962, pp. 122 sgg.; «Bollettino dell’Arte» 1975, pp. 123 sgg.; Id., in AA.VV., Forme di contatto e processi di trasformazione delle società antiche, Cortona 1981, Pisa-Roma 1983, pp. 335 sgg.

[15] Sul problema della data di fondazione di Megara Iblea: G. Vallet – F. Villard, in «BCH» 76, 1952, pp. 289 sgg.; ibid. 82, 1958, pp. 16 sgg. (in favore di una cronologia 750 circa, anteriore a quella di Siracusa); ora però più disponibili per una data nella seconda metà dell’VIII secolo a.C., in Megara Hyblaea… Guida agli scavi, a c. di G. Vallet – F. Villard – P. Auberson, École Française de Rome, 1983 (cfr. P. Vannicelli, in «RFIC» 115, 1987, pp. 335 sgg.).

[16] Tucidide è fra i principali e più decisi testimoni della compresenza rodia e cretese a Gela, e un testimone isolato (anche se autorevolissimo) per la fondazione di Agrigento da parte di Gela (VI 4, 4). Pindaro (in partic. Olimpica II, ma cfr. anche III, per l’insistito collegamento col mondo dorico-laconico) e gli scolii mettono in evidenza la provenienza dei fondatori di Agrigento dall’area delle doriche Sporadi meridionali (Rodi, Cos) e dal Peloponneso, con particolare riferimento alla provenienza degli Emmenidi, antenati di Terone, e tendenza a negare la tappa intermedia a Gela.

[17] Sulla campagna di Ippocrate in direzione di Zancle, Erodoto, VII 154, 2 -155, 1. Ippocrate tende a insediare nelle città suoi fiduciari.

[18] Sui sinecismi forzati operati da Gelone, cfr. Erodoto, VII 155, 2- 156; M. Moggi, I sinecismi interstatali greci, Pisa 1976, pp. 100 sgg.

[19] Cfr. Diodoro, V 9; Pausania, X 11, 3-5 (= Antioco, FGrHist 555 F 1). Lo stesso Diodoro, altrove, usa “Fenici” per “Cartaginesi”.

[20] Contro la cronologia alta di G. Maddoli, non sufficientemente motivata, cfr. quanto osservato in «Kokalos» 26/27, 1980/1, pp. 252 sgg., e 30/31, 1984/5, pp. 338 sg. La cronologia alta è ora seguita da S. Bianchetti, Falaride e Pseudo-Falaride. Storia e leggenda, Roma 1987, pp. 24 sg., con varie conseguenze sulla valutazione del senso dell’avanzata di Falaride nell’interno e in direzione di Imera, avanzata che diventerebbe la risposta a una politica di dominio territoriale cartaginese aperta dalla spedizione di Malco. Se un bersaglio immediato c’è, è piuttosto nei Sicani: a Malco (con Orosio, IV 6, 7) si colloca in un periodo di espansione cartaginese in Africa e Sardegna, oltre che in Sicilia, e dopo la battaglia di Alalia (del 540 circa) (cfr. anche H. Bengtson, Storia greca, trad. it., I, p. 221).

[21] Cfr. D. Musti, Sul ruolo storico della servitù ilotica. Servitù e fondazioni coloniali, in «Studi storici» 1985, pp. 587 sgg. (= Strabone e la Magna Grecia cit., pp. 151 sgg.).

[22] Cfr. Polibio, XII 5-10; e il mio studio su Problemi della storia di Locri Epizefirii, in Atti Convegno Taranto 1976, Napoli 1977, pp. 37-65. Aristotele ha, sulle origini semiservili di Locri e, rispettivamente, di Taranto, posizioni diverse.

[23] Sullo statuto di Falanto, cfr. lo studio cit. in n. 21 (diversamente da G. Maddoli, in «MEFR» 95, 1983, pp. 555 sgg.). Sull’adulterio, Giustino, III 4, 1-11, probabilmente da Eforo.

[24] Va probabilmente ripensata e attenuata la netta contrapposizione, un tempo proposta (cfr. G. Vallet, in «Kokalos» 8, 1962, pp. 30 sgg.), fra l’espansione “pacifica” dei Calcidesi e quella aggressiva dei Siracusani in territorio siculo; la differenza di comportamento è piuttosto tra politica dei tiranni, volta alla costituzione di un compatto dominio territoriale, e politica delle libere póleis (calcidesi – cioè ioniche – o doriche che siano) nei confronti dei Siculi: questa è ispirata al principio dell’autonomia delle città, è anzi suscettibile di una qualche estensione al mondo indigeno. Ducezio non è un tiranno, nello stato siculo che crea; quest’ultimo appare come una realtà policentrica, una syntéleia, con forte coesione sacrale e istituzionale. E l’autonomia da Siracusa sarà garantita dai Cartaginesi ai Siculi, oltre che ad alcune città calcidesi, nel trattato del 405 con Dionisio I (Diodoro, XIII 114). Su Zaleuco, cfr. il mio studio cit. in n. 22, pp. 72-80; su Caronda, cfr. G. Vallet, Rhégion et Zancle, Paris 1958, pp. 313 sgg.; F. Cordano, in «MGR» 6, Roma 1978, pp. 89 sgg.

[25] Sulla storia di Megara Iblea, cfr. n. 6.

[26] Su Teline, Erodoto, VII 153 sg. Sui Miletidi, Tucidide, VI 5, 1; sulla storia e l’archeologia di Imera, N. Bonacasa, Il problema archeologico di Himera, in «ASAA» 43, 1984, pp. 319 sgg.; A. Adriani, N. Bonacasa, N. Allegro e AA.VV., Himera 1-2, Roma 1970-1976 (campagne di scavo 1963-1973), ecc.

[27] Per le fonti sulle tirannidi di Panezio a Leontini, di Terone figlio di Milziade e di Pitagora (Peithagoras) a Selinunte, di Falaride ad Agrigento, cfr. H. Berve, Die Tyrannis bei den Griechen cit., I, pp. 129, 137 e 129-132, rispettivamente. Panezio di Leontini e Terone di Selinunte (rispettivamente VII e VI sec. a.C.) sono comunque titolari di tirannidi effimere, e caratterizzate per giunta nel senso di una spiccata contrapposizione sociale (l’una appoggiata dal popolo contro i possidenti, l’altra agli stessi schiavi).