ΟYΤΩΣ AΤΑΛΑIΠΩΡΟΣ ΤΟIΣ ΠΟΛΛΟIΣ H ΖHΤΗΣΙΣ ΤHΣ AΛΗΘΕIΑΣ, ΚΑI EΠI ΤA EΤΟIΜΑ ΜAΛΛΟΝ ΤΡEΠΟΝΤΑΙ. «Così poco faticosa è per i più la ricerca della verità e molti si volgono volentieri verso ciò che è più a portata di mano». (Thuc. I 20, 3)
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Telefane e il suo trattato 𝑆𝑢𝑙𝑙𝑎 𝑐𝑖𝑡𝑡𝑎̀ sono noti unicamente grazie alla citazione di Ateneo di Naucrati[1]. Il titolo Περὶ τοῦ ἄστεος suggerisce che l’opera apparteneva al filone della letteratura periegetica, e cioè che era una sorta di “guida” di Atene, anche se nulla osta che possa essersi trattato di altro, dato che nel frammento superstite si ha soltanto il riferimento al demo di Diomea, al suo celebre 𝐻𝑒𝑟𝑎𝑘𝑙𝑒𝑖𝑜𝑛 e a un’associazione di “professionisti della risata”. Jacoby (𝐹𝐻𝐺 IV, 507) nel suo commento al passo aveva ipotizzato che l’autore fosse di età imperiale (forse del II secolo?), ma nulla vieta di pensare che possa essere vissuto in epoca precedente[2].
Ippoloco il Macedone nella sua lettera a Linceo ricorda i buffoni attici Mandrogene e Stratone. Ad Atene c’era un gran numero di furbi di questa razza: per esempio, nel tempio di Eracle nel demo di Diomea se ne riuniva una sessantina, e in città erano appunto conosciuti come i “Sessanta” e si diceva: «Questo l’hanno detto i Sessanta», e anche: «Sono stato dai Sessanta». Tra costoro c’erano Callimedonte, detto “l’Aragosta”, e Dinia, e poi Mnasigitone e Menecmo, come afferma Telefane nel suo saggio 𝑆𝑢𝑙𝑙𝑎 𝑐𝑖𝑡𝑡𝑎̀. Tale divenne la fama del loro umorismo che anche Filippo II di Macedonia, quando ne sentì parlare, mandò loro un talento perché mettessero per iscritto le battute e gliene inviassero.
Pittore Pitone. Un attore di farsa fliacica con canestro. Sul lato A di un cratere a campana a figure rosse, 360-350 a.C. ca. da Paestum. Paris, Musée du Louvre.
Il libro XIV dei 𝐷𝑒𝑖𝑝𝑛𝑜𝑠𝑜𝑓𝑖𝑠𝑡𝑖 dedica i primi capitoli ai cosiddetti γελωτοποιοί («buffoni»)[3]. A questa categoria di epoca tardo-classica ed ellenistica appartenevano anche i πλάνοι («burloni», «illusionisti»; ma anche «impostori»), i quali esercitavano propriamente l’arte di ingannare gli altri. Ateneo, in particolare, ne ricorda soprattutto due: Cefisodoro e Pantaleonte[4]. Del primo parla il commediografo Dionisio di Sinope negli 𝑂𝑚𝑜𝑛𝑖𝑚𝑖 (Ὁμώνυμοι), titolo che tradisce con ogni probabilità una serie equivoci in cui incappavano due personaggi dello stesso nome:
Si dice che ad Atene ci fosse un tal Cefisodoro
detto il Burlone, che dedicava
il suo tempo a quest’attività.
Costui correva veloce in salita,
ma poi faceva la discesa tranquillo, appoggiandosi al suo bastone[5].
Ne parlava anche il comico Nicostrato in un frammento de 𝐼𝑙 𝑆𝑖𝑟𝑜 (Σύρος):
Per Zeus, non male ha fatto Cefisodoro
il Burlone, che si dice abbia messo in una strettoia
dei portatori con fascine in braccio, così che nessuno potesse più passare[6].
Invece, delle trovate di Pantaleonte riferisce Teogneto ne 𝐼𝑙 𝑠𝑒𝑟𝑣𝑜 𝑑𝑒𝑣𝑜𝑡𝑜 (Φιλοδέσποτος):
Questo stesso Pantaleonte si prendeva gioco dei forestieri
e di chi non lo conosceva, e di solito si comportava
come sotto l’effetto di una sbornia, perché per far ridere
Perfino lo stoico Crisippo di Soli parla di costui nel V libro del suo trattato 𝑆𝑢𝑙 𝑏𝑒𝑛𝑒 𝑒 𝑠𝑢𝑙 𝑝𝑖𝑎𝑐𝑒𝑟𝑒:
Quel burlone di Pantaleonte sul letto di morte si prese gioco di entrambi i figli, uno dopo l’altro, dicendo a ciascuno, separatamente, che solo a lui avrebbe rivelato dove avesse sepolto il suo tesoro; così, quando in seguito si ritrovarono a scavare inutilmente fianco a fianco, quelli si accorsero di essere stati gabbati[8].
Pittore Asteas. Scena di farsa fliacica – tre uomini (Gynmilos, Kosios e Karion) derubano un poveraccio (Kharinos) nella sua stessa casa. Lato A di un calyx-krater, 350-340 a.C. ca., da Sant’Agata dei Goti. Paris, Musée du Louvre.
Nel passo di Telefane, l’accenno agli artisti attici Mandrogene e Stratone, di cui parla il macedone Ippoloco nella sua lettera al comico Linceo di Samo[9], porta il discorso a un’ulteriore digressione sui giullari più in voga nell’Atene di IV secolo e alla menzione di una consorteria, nota come “i Sessanta” (οἱ ξ̄); a quanto pare, doveva trattarsi di un cenacolo di gaudenti, famoso in tutta la Grecia per i suoi spettacoli faceti, che aveva sede presso il santuario di Eracle nel demo di Diomea: questo 𝐻𝑒𝑟𝑎𝑘𝑙𝑒𝑖𝑜𝑛, strettamente connesso al ginnasio di Cinosarge, appena fuori le mura di Atene, ospitava una grande festa in onore del semidio, con processioni, sacrifici e banchetti sacri[10].
Il cenacolo dei “Sessanta” è letteralmente un ℎ𝑎́𝑝𝑎𝑥 𝑙𝑒𝑔𝑜́𝑚𝑒𝑛𝑜𝑛, non ricorrendo in altre fonti. A rigor di termini, Ateneo riporta Telefane solo per i nomi di alcuni membri di questa consorteria, non per l’interesse mostrato da re Filippo per le buffonate. Tuttavia, altrove il Naucratita (Aᴛʜᴇɴ. VI 76, 260d) riferisce che «a quelli che si riunivano ad Atene nel tempio di Eracle di Diomea per parlare di argomenti ridicoli, [Filippo] era solito mandare una quantità adeguata di monetine e ordinava ad alcuni di trascrivere ciò che dicevano e di inviargli il tutto», riprendendo l’aneddoto da Egesandro di Delfi[11]; se anche Telefane accennasse al medesimo fatto rimane oscuro.
In ogni caso, l’aneddoto secondo il quale il sovrano argeade fu disposto a pagare di tasca propria pur di avere una copia scritta delle battute dei “Sessanta” dimostrerebbe che questo cenacolo avesse raggiunto una certa notorietà prima della battaglia di Cheronea, ma non è dato sapere quanto a lungo rimase in attività dopo il 338 a.C.
Ora, la passione di Filippo il Macedone per buffoni e motteggiatori, barzellette e canzoni oscene, nonché per la volgarità, le bisbocce e la dissolutezza è altrimenti ben attestata. A questo proposito, si può ricordare che il suo nemico giurato, l’oratore Demostene, si esprimeva in questi termini: «… e gente evitata da tutti, … attori di pagliacciate e autori di pessime canzoni presentati ai suoi ospiti per allietarli; questi gli piacciono e li tiene intorno a sé»[12].
Pare che lo stesso argomento fosse ampiamente affrontato anche da Teopompo di Chio nelle sue 𝑆𝑡𝑜𝑟𝑖𝑒 𝑓𝑖𝑙𝑖𝑝𝑝𝑖𝑐ℎ𝑒. Nel IX libro, dopo aver descritto il comportamento adulatorio del tessalo Agatocle e della sua abilità nel mettere di buon umore il re, Teopompo commenta dicendo che «il Macedone (𝑠𝑐. Filippo) aveva sempre intorno a sé questo genere di persone, con le quali, per la loro intemperanza nel bere e l’atteggiamento buffonesco, trascorreva di solito la maggior parte del suo tempo; inoltre, le consultava ogniqualvolta dovesse prendere decisioni su fatti della massima importanza»[13].
Nel libro XXVI il Chiota ricorda che «Filippo, sapendo che i Tessali erano dissoluti e vivevano in modo licenzioso, organizzò dei banchetti con la loro partecipazione e fece di tutto per risultare loro simpatico, danzando, gozzovigliando e accettando ogni genere d’indecenza (era triviale già di suo, si ubriacava ogni giorno e godeva di quelle abitudini che tendono a tutto questo; amava inoltre la compagnia delle persone comunemente definite “di spirito”, capaci cioè di dire e fare cose stupide)»[14].
Filippo II. Testa, copia di marmo da originale greco. Copenhagen, Ny Carlsberg Glyptotek.jpg
Quindi, lo stesso autore riferisce alcune notizie sulle sbornie del sovrano macedone e il suo amore smodato per il vino:
Filippo era proprio una testa matta e si buttava a capofitto in mezzo ai pericoli, in parte per indole, in parte per gli effetti del vino: era infatti un grande bevitore e spesso si lanciava in sortite completamente ubriaco[15].
E ancora nel libro LIII, dopo aver narrato i fatti di Cheronea, Teopompo parla dei meticolosi preparativi del banchetto per celebrare quella vittoria così decisiva, e chiosa:
Egli era sempre perfettamente equipaggiato di tutto il necessario per il simposio e per intrattenere la compagnia. Poiché infatti gli piaceva bere ed era d’indole dissoluta, aveva un folto seguito di parassiti, musicanti e persone che lo divertivano con facezie[16].
Pare che, dopo la sua morte, al re macedone fosse stato tributato un culto divino, celebrato sul Cinosarge, come rivela Clemente Alessandrino:
Ora decretano che sul Cinosarge si adori il Macedone di Pella, Filippo figlio di Aminta, quello dalla “clavicola spezzata e storpio da una gamba”, lo stesso cui fu cavato un occhio[17].
Alessandro III il Grande. Tetradramma, Anfipoli 325-323/2 a.C. ca. Ar. 17, 21 g. Recto: testa di Eracle voltata a destra con leontea.
Dei quattro membri del collegio dei “Sessanta” espressamente ricordati da Telefane, soltanto Callimedonte può essere identificato con sicurezza[18]. Si tratta del figlio di Callicrate, originario del demo attico di Collito, che fu politico ateniese di orientamento oligarchico e per le sue posizioni filomacedoni fu costretto all’esilio nel 324.[19] Riparò a Megara e lì insieme a un gruppo di fuoriusciti della stessa fazione avrebbe giurato di tornare ad Atene e abbattere il regime democratico; per questa ragione l’oratore Demostene si fece promotore di una εἰσαγγελία contro di lui per alto tradimento[20]. Postosi al servizio di Antipatro, reggente di Alessandro, allo scoppio della guerra lamiaca nel 323 Callimedonte agì per conto dei Macedoni:
L’oratore Pitea e Callimedonte il Carabo, lasciata Atene, si dichiararono per Antipatro e con gli amici e i messi di quest’ultimo girarono per la Grecia, cercando di impedire che le varie città si ribellassero ai Macedoni e si schierassero a fianco degli Ateniesi[21].
Descritto come un «uomo temerario e odiatore del popolo» (ἁνήρ θρασύς καὶ μισόδημος), nel 322 prese parte alla delegazione macedone alla Cadmea per stipulare la pace con le città greche sconfitte, le quali, accettate le condizioni poste da Antipatro, riaccolsero i propri fuoriusciti[22]. In questo modo anche Callimedonte poté rientrare in patria, dove, grazie all’instaurazione di un regime plutocratico, basato sul censo, in breve tempo divenne un uomo d’affari di successo, ottenendo alcune concessioni minerarie[23]. Il suo ritorno ad Atene, tuttavia, non durò a lungo: infatti, nel 318 un nuovo rivolgimento politico riportò al potere i democratici e Callimedonte fu costretto a riprendere la via dell’esilio; stavolta trovò rifugio a Beroea, nella Grecia settentrionale. Anche lui, come Focione e altri oligarchici, fu raggiunto dal bando di condanna a morte[24]. Dopo questa data non si hanno ulteriori informazioni sul conto di Callimedonte, e perciò si ipotizza che abbia continuato a vivere lontano da Atene[25].
L’interesse per questo personaggio è suscitato dal soprannome con cui era noto presso gli antichi, cioè ὁ Κάραβος (“l’Aragosta”): le sue caratteristiche fisiche e il suo stile di vita lo resero oggetto di scherno da parte dei poeti comici almeno dal 340 a.C. Callimedonte era infatti strabico, un formidabile ghiottone, andava pazzo per la matrice di scrofa bollita, per le anguille e soprattutto per l’aragosta.
Il commediografo Alessi in un frammento dialogato della sua 𝐿’𝑒𝑞𝑢𝑖𝑣𝑎𝑙𝑒𝑛𝑡𝑒 (Ἰσοστάσιον), dove sembra alludere alla consorteria dei “Sessanta”[26], lo elenca proprio con questo soprannome:
I nomignoli di questi ghiottoni compaiono anche nel 𝐶𝑎𝑚𝑝𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑑𝑒𝑙 𝑝𝑎𝑛𝑐𝑟𝑎𝑧𝑖𝑜 (Παγκρατιαστής) dello stesso autore e lì sono classificati nelle due categorie di “pane” (i cereali) e “companatico” (il pesce), un vero τρεχεδείπνους καταλέγων («catalogo di cacciatori di pranzi»)[28].
Anche Antifane in un frammento de 𝐿𝑎 𝑝𝑒𝑠𝑐𝑎𝑡𝑟𝑖𝑐𝑒 (Ἁλιευομένη) menziona il politico ateniese tra alcuni illustri estimatori di pesce[29].
Pescatore con aragosta (dettaglio dalla scena con Ulisse e le Sirene). Mosaico 260-268 d.C., da Thugga (od. Dougga, Tunisia). Tunis, Musée National du Bardo.
A quanto sembra, uno dei motivi per cui a Callimedonte fu appioppato il soprannome di Κάραβος fu la sua smodata passione per i crostacei, celebrata in maniera ironica da un passo della 𝐷𝑜𝑟𝑐𝑖𝑑𝑒, 𝑜𝑣𝑣𝑒𝑟𝑜 𝑙𝑎 𝑑𝑜𝑛𝑛𝑎 𝑐ℎ𝑒 𝑠𝑐ℎ𝑖𝑜𝑐𝑐𝑎 𝑏𝑎𝑐𝑖 (Δορκίς ἢ Ποππυζούση) di Alessi:
Dai pescivendoli è stato votato,
come dicono, di porre una bronzea statua
di Callimedonte nel mercato del pesce, alle Panatenee,
che tiene nella destra un’aragosta arrostita,
dato che soltanto lui per quelli della loro categoria
è il salvatore, mentre tutti gli altri son la rovina![30]
Da una scena simile, ambientata forse al mercato del pesce, si riferisce anche un breve dialogo tra due interlocutori ignoti, tratto dalla commedia 𝐹𝑒𝑑𝑜𝑛𝑒 𝑜 𝐹𝑒𝑑𝑟𝑖𝑎 (Φαίδων ἢ Φαιδρία), nel quale si mette alla berlina la ὀψοφαγία di Callimedonte, che lo rende una vera furia:
(A) Sarai ispettore del mercato, se gli dèi lo vorranno,
per impedire a Callimedonte – se tieni a me –
d’imperversare tutto il giorno per il mercato del pesce!
(B) Oh, un’azione degna d’un tiranno, altro che ispettore mercatale, ci vorrebbe!
Quello è un attaccabrighe, ma è un benemerito della città![31]
Mentre il primo personaggio auspica l’intervento dell’amico, una volta divenuto funzionario, perché lo protegga dalla voracità di Callimedonte, l’altro ammette che, nonostante un ἀγορανόμος avesse l’incarico di mantenere l’ordine pubblico in piazza, controllare la qualità e il peso delle merci, riscuotere dazi e fare da arbitro nelle contese, contenere un simile ghiottone sarebbe andato al di là dei suoi poteri. Benché certi dettagli siano dovuti all’inventiva del poeta comico, è probabile che negli anni 330-320 a.C., in un periodo forse di rincari sui prezzi del pesce (?), un decreto pubblico abbia realmente premiato Callimedonte con l’erezione di un monumento bronzeo per i buoni uffici svolti per la cittadinanza. D’altronde, come attestano alcuni reperti epigrafici, questo genere di riconoscimenti era caratteristico della vita pubblica ateniese tra la fine del IV e gli inizi del III secolo a.C. e i decreti attuativi che li ratificavano elogiavano le qualità dei beneficiati con formule abbastanza convenzionali, quali εὔχρηστος/πρόθυμος/φίλος/χρήσιμος τῷ δήμῳ/τῇ πόλει (𝐼𝐺 II² 356, 28-29; 584, 21; 498, 19).
Ora, la spiegazione del soprannome ὁ Κάραβος relativamente alla ghiottoneria di Callimedonte non è l’unica. Sempre Alessi in un dialogo dal 𝐶𝑟𝑎𝑡𝑒𝑎, 𝑜𝑣𝑣𝑒𝑟𝑜 𝑙𝑎 𝑓𝑎𝑟𝑚𝑎𝑐𝑖𝑠𝑡𝑎 (Κρατεύα ἢ Φαρμακοπώλη) lo associa allo strabismo del personaggio:
(A) Da tre giorni ho in cura le pupille di Callimedonte!
(B) Le pupille? Intendi dire le sue figliole?
(A) Macché, quelle degli occhi!
Neppure Melampo, il solo che riuscì a sanare
dalla follia le figlie di Preto, sarebbe buono a raddrizzargliele![32]
In questo passo l’equivoco è giocato sul termine κόρη, cioè «ragazza» ma anche «pupilla (degli occhi)». Neppure il mitico indovino e guaritore “dai piedi neri”, Melampo, che guarì le κόραι di Preto dalla pazzia potrebbe fare qualcosa per le “insani κόραι” di Callimedonte. Può darsi che lo strabismo fosse il motivo più probabile del suo nomignolo data la stretta analogia con gli occhi mobili dell’aragosta[33]. Il commediografo Timocle, invece, nello stesso frammento de 𝐼𝑙 𝑡𝑟𝑎𝑓𝑓𝑖𝑐𝑜𝑛𝑒 (Πολυπράγμων) spiega che il soprannome ὁ Κάραβος dipendesse sia dal difetto dello sguardo sia dalla voracità di quell’uomo:
Poi, all’improvviso, Callimedonte
l’Aragosta si fece appresso. Mi fissava –
così almeno mi sembrava – discorrendo con un altro.
Di quel che diceva non capivo una parola, ovviamente!
Eppure, annuivo come un ebete: già, le sue pupille
guardano in direzione opposta a quel che ci si aspetta![34]
Scena di vita marina. Mosaico, ante 79 d.C. dalla Casa del Fauno, Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
Come si è accennato, l’oligarca ateniese era appassionato anche di anguilla. Così, in un frammento de 𝐿𝑎 𝑑𝑟𝑜𝑔𝑎𝑡𝑎 𝑑𝑖 𝑚𝑎𝑛𝑑𝑟𝑎𝑔𝑜𝑟𝑎 (Μανδραγοριζομένη) del solito Alessi, un parassita dichiara il proprio amore per i padroni di casa che lo nutrono e lo mantengono:
Alla passione per questa specie ittica allude anche il poeta Menandro nella sua commedia giovanile dal titolo 𝐿𝑎 𝑠𝑏𝑟𝑜𝑛𝑧𝑎 (Μέθη), in cui Callimedonte è reso un parente stretto (εἷς τῶν συγγενῶν) delle anguille[36].
In un frammento de 𝐿’𝑢𝑜𝑚𝑜 𝑑𝑒𝑙 𝑃𝑜𝑛𝑡𝑜 (Ποντικός) Alessi mette in ridicolo l’oratore ateniese per una certa predilezione verso la «matrice di scrofa» (μήτρα), pietanza considerata una vera leccornia, soprattutto se servita bollita e condita con aceto e succo di silfio:
Per la patria chiunque è disposto a sacrificarsi,
ma forse Callimedonte l’Aragosta avrebbe preferito morire
La ὀψοφαγία del personaggio è l’obiettivo degli strali di Antifane in un passo del 𝐺𝑜𝑟𝑔𝑖𝑡𝑜 (Γοργύθος), nel quale chi parla dichiara di desistere dai propri propositi più a malincuore «di quanto farebbe Callimedonte, se dovesse rinunciare a una testa di glauco»[38]; ma è attaccata anche da Eubulo ne 𝐼 𝑠𝑜𝑝𝑟𝑎𝑣𝑣𝑖𝑠𝑠𝑢𝑡𝑖 (Ἀνασῳζομένοι), in cui si dice che «lui solo tra i mortali / è capace d’ingoiare tranci di pesce a palate da casseruole / bollenti, senza lasciarne traccia»: un’abilità tipica del ghiottone![39]
Infine, la tradizione indiretta da Ateneo conserva alcuni riferimenti comici nei quali Callimedonte da “consumatore di aragosta” si trasforma in “aragosta da consumare”: è il caso di un frammento dialogato de 𝐼𝑙 𝑚𝑒𝑑𝑖𝑐𝑜 (Ἰατρός) di Teofilo, in cui l’eloquenza dell’oratore è giudicata fiacca e scipita come una pietanza ormai raffreddata[40]. Siccome Erodico Crateteo nei suoi 𝐾𝑜𝑚𝑜𝑑𝑜𝑢̀𝑚𝑒𝑛𝑜𝑖 (F 4, 126 Düring) attesta che Agirrio era figlio di Callimedonte, il poeta Filemone nel suo 𝐼𝑙 𝑐𝑜𝑟𝑡𝑒𝑔𝑔𝑖𝑎𝑡𝑜𝑟𝑒 (Μετιών) dice che, quando al ragazzo fu servita un’aragosta, quello salutò suo padre e se lo mangiò[41].
[10] Aʀɪsᴛᴏᴘʜ. 𝑅𝑎𝑛. 651; 𝑆𝑐ℎ𝑜𝑙. 𝑎𝑑 𝐴𝑟𝑖𝑠𝑡𝑜𝑝ℎ. 𝑙.𝑐.; Hᴀʀᴘ¹. 𝑠.𝑣. Ἡράκλεια, ἐν Διομείοις Ἡράκλειον; Sᴜɪᴅ. 𝑠.𝑣. ἐν Διομίοις Ἡράκλειον 1179 Adler; 𝐼𝐺 II² 1245; 1247. A proposito dell’ubicazione di questo tempio e della sua relazione con la collina di Cinosarge, vd. Bɪʟʟᴏᴛ 1992, 124-125; cfr. anche Tʀᴀᴠʟᴏs 1980, 340.
[17] Cʟᴇᴍ. 𝑃𝑟𝑜𝑡𝑟. IV 54, 5, νῦν μὲν τὸν Μακεδόνα τὸν ἐκ Πέλλης τὸν Ἀμύντου Φίλιππον ἐν Κυνοσάργει νομοθετοῦντες προσκυνεῖν, τὸν “τὴν κλεῖν κατεαγότα καὶ τὸ σκέλος πεπηρωμένον”, ὃς ἐξεκόπη τὸν ὀφθαλμόν. Per una possibile connessione tra Filippo, il Cinosarge e i “Sessanta”, vd. Vᴇʀsɴᴇʟ 1973, 278-279.
[18] Considerate la carriera di quest’uomo politico e la considerazione nutrita da Filippo II per il gruppo dei “Sessanta”, la cronologia per l’attività dell’associazione è confermata nella seconda metà del IV secolo. Tuttavia, stando a un verso degli 𝐴𝑐𝑎𝑟𝑛𝑒𝑠𝑖 di Aristofane (Aʀɪsᴛᴏᴘʜ. 𝐴𝑐ℎ𝑎𝑟𝑛. 605), è molto probabile che l’𝐻𝑒𝑟𝑎𝑘𝑙𝑒𝑖𝑜𝑛 di Diomea sia stato luogo di aggregazione dei γελωτοποιοί già in precedenza, dato che si accenna ai Διομειαλαζόνας («spacconi diomei»). Cfr. Sᴛᴏʀᴇʏ 1995.
di I. BIONDI, Storia e antologia della letteratura greca. III. L’Ellenismo e la tarda grecità, Firenze 2004, 41-42.
Sulla biografia di Arato non si hanno molte notizie, nonostante circolassero in antico ben quattro vitae, derivate dal commentatore Boeto di Sidone. Nativo di Soli in Cilicia, si trasferì da giovane ad Atene, dove frequentò l’ambiente degli Stoici, che lasciò nella sua formazione una significativa impronta. Nel 276 da Atene si trasferì a Pella, in Macedonia, alla corte di Antigono II Gonata (276-239 a.C.), sovrano di notevole cultura e simpatizzante con il pensiero stoico, filosofo e letterato egli stesso. A Pella si trovavano altri intellettuali di prestigio, come il poeta tragico ed elegiaco Alessandro Etolo, attivo anche presso la Biblioteca di Alessandria intorno al 280 a.C.; il filosofo e poeta satirico Timone di Fliunte (320-230 a.C.); il filosofo Menedemo di Eretria, fondatore della scuola di pensiero che portava il nome della sua città natale. Molta della produzione letteraria di Arato nacque proprio in questo contesto culturale, e, però, buona parte di essa è andata perduta: come la raccolta Κατὰ λεπτόν («Argomenti leggeri»), che conteneva anche delle trenodie per defunti importanti (Ἐπικήδεια), degli epigrammi (dei quali almeno due si sono conservati in Anth. Pal. XI 437 e XII 129) e vari inni. In occasione della vittoria di Antigono sui Galati a Lisimachia (277 a.C.) o delle nozze del sovrano con Fila, figlia di Seleuco, avvenute l’anno precedente, Arato compose un Inno a Pan (un frammento del quale va forse identificato con SH 958: vd. Barigazzi 1974), andato perduto. Inoltre, il poeta scrisse delle ἠθοποιίαι ἐπιστολαί (SH 106), «lettere sulla formazione del carattere»; i suoi scritti didascalici furono significativi per la storia della letteratura antica: restano cinque titoli di opere astronomiche, che almeno parzialmente citano sezioni dei Φαινόμενα (Fenomeni), a cui si aggiunge un Κανών, in cui, fra l’altro, si descrivono le orbite dei pianeti attraverso calcoli matematici (cfr. Leonida di Taranto, Anth. Pal. IX 25, 3). Di Arato si conoscono anche sette titoli di testi che trattano di anatomia e farmacopea: si conserva un frammento sulle suture craniche. Di questi libri, tuttavia, la Ὀστολογία (SH 97) non era un’opera sull’anatomia ossea, ma più probabilmente un trattatello sulla negromanzia tramite gli scheletri.
Antigono II Gonata e Fila. Affresco, ante 79 d.C. dalla domus di Fannio Sinistore a Boscoreale.
Secondo le vitae I e III, Arato lasciò poi la Macedonia per soggiornare qualche tempo in Siria, presso Antioco I Sotere, fratello di Fila, dove attese alla revisione critica dell’Odissea e, probabilmente, anche dell’Iliade. Tornato in Macedonia vi rimase fino alla morte, avvenuta forse poco prima di quella del suo protettore Antigono Gonata, scomparso nel 240/239.
Antigono II Gonata. Dramma, zecca macedone ignota 277-239 a.C. ca. AE 6,26 g. Obverso: Pan innalza un trofeo militare (monogramma A – B).
L’opera maggiore di Arato, quella per cui i contemporanei lo considerarono un novello Esiodo, fu un poema in esametri, i Fenomeni, giunto fino a noi con i commenti di vari grammatici. L’opera, che forse fu commissionata da Antigono Gonata, è un trattato di astronomia; il suo autore ebbe come modello gli scritti del matematico Eudosso di Cnido (408-355 a.C.), discepolo di Platone e di Archita, filosofo pitagorico e matematico di Taranto (400 ca. a.C.).
London, British Library. Ms. Harley 647 (IX sec.), Arato di Soli, Phaenomena, ff. 10v-11r. Le costellazioni dei Pesci e di Perseo.
Il poema di Arato si apre con un’invocazione a Zeus e descrive poi la volta stellata del cielo, distinguendo le costellazioni dei due emisferi. Successivamente, il poeta espone la teoria dei circoli che dividono la sfera celeste, e il sorgere e il tramontare delle costellazioni. L’ultima parte dell’opera è dedicata alla descrizione dei segni premonitori delle variazioni meteorologiche, attraverso l’osservazione del mondo naturale e del comportamento degli animali. Per il suo contenuto, in alcuni manoscritti questa sezione del poema, che fu poi tradotta in esametri da Cicerone, porta il titolo di Pronostici attraverso i segni naturali. I contemporanei di Arato espressero giudizi molto lusinghieri sulla sua opera che, pur avendo il suo archetipo in Esiodo, si riallacciava anche al più tardo filone didascalico di Xenofane, Parmenide ed Empedocle. In particolare, ne fu molto ammirata la λεπτότης, la «sottigliezza»; un apprezzamento che rientra perfettamente nel gusto dell’epoca e che aveva la sua massima espressione in Callimaco, autore di un epigramma altamente laudativo nei confronti del poeta (Anth. Pal. IX 507; cfr. anche Leonida, Anth. Pal. IX 25). Tra l’altro, come si è ricordato, Arato stesso aveva intitolato Κατὰ λεπτόν una delle sue antologie poetiche, nome che sembra alludere proprio a questa qualità, quasi come se fosse la sua personale σφραγίς; a conferma di ciò pare essere anche l’acrostico λεπτή in Arat. 783-787. Gli antichi celebravano di Arato anche la dedizione al lavoro e le notti insonni, la sua profonda dottrina, la ripresa stilistica di Esiodo, le competenze didascaliche, ma anche la δύναμις di filosofo naturale (frutto, cioè, della sua visione stoica del mondo), che a dispetto di altri poeti-astronomi doveva essere una sua caratteristica esclusiva (cfr. Boeto di Sidone, Scholia in Aratum vetera, p. 12 f. Martin).
«Atlante Farnese» che regge il globo celeste. Statua, marmo, copia romana di III sec. d.C. da originale ellenistico. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
Già prima di lui, un allievo di Eudosso, Cleostrato di Tenedo, era stato il primo a mettere in versi le proprie conoscenze astronomiche. Altri Fenomeni – in prosa o in poesia – furono composti anche dal già menzionato Alessandro Etolo, ma anche da Ermippo di Smirne (III secolo), da Egesianatte di Alessandria (II secolo) e da Alessandro di Efeso (I secolo a.C.). Rispetto a questa tradizione, comunque, il poema di Arato riscosse un subito successo, al punto che, a scapito delle opere omonime e dell’astronomia matematica (sic), divenne ben presto un elemento fondamentale della ratio studiorum successiva: in effetti, il papiro più antico che conserva i vv. 480-494, P. Hamb. 121, risalente alla prima metà del II secolo d.C., rivela proprio il suo impiego come testo scolastico (cosa che contribuì al fiorire di un’intensa attività di commento).
Paris, Bibliothèque nationale de France. Ms. lat. 8878. Beatus de Liebana, Commentaria in Apocalypsin (ante 1072), f. 139v. Cielo stellato.
Per il lettore moderno, tuttavia, risulta difficile condividere tanto entusiasmo; però è innegabile che nel mondo antico Arato ebbe una straordinaria fortuna, come dimostra il gran numero di scienziati e di grammatici che lo lo studiarono: il più celebre di tutti fu probabilmente Ipparco di Nicea, uno dei più grandi astronomi greci, vissuto nel II secolo a.C. e autore di un dotto commento in tre libri sui Fenomeni. Inoltre, dal I secolo a.C. al IV d.C., da Varrone Atacino a Cicerone, da Germanico a Manilio e a Festo Avieno, anche la cultura romana si impegnò, con esiti diversi, nella traduzione dell’opera, mentre illustri poeti come Virgilio (Buc. III 60, Georg. I) e Ovidio (Fas. III 105-110) attinsero al testo arateo, com’è dimostrato da evidenti reminiscenze di esso. Perfino l’apostolo Paolo, nel discorso Areopagitico (Act. 17, 28-29) citò il v. 5 del proemio, senza precisare il nome del poeta (ὡς καί τινες τῶν καθ’ ὑμᾶς ποιητῶν εἰρήκασιν, «come hanno detto alcuni dei vostri poeti»), per dimostrare che non è necessario cercare Dio lontano da noi, dal momento che tutti «viviamo, ci muoviamo e siamo in Lui, come hanno detto alcuni dei vostri poeti: infatti, noi siamo sua stirpe (τοῦ γὰρ καὶ γένος ἐσμέν)».
Andreas Cellarius, Planisphaerium Arateum. Illustrazione, 1661, da Harmonia macrocosmica.
Una così vasta fortuna dell’opera di Arato, che si protrasse, attraverso le traduzioni latine, durante il Medioevo e il primo Rinascimento, fu probabilmente dovuta al fatto che il poema vide la luce in un’epoca in cui non esisteva quella distinzione fra arte e scienza per noi rigorosa e irrinunciabile; in conseguenza di ciò, esso poté essere apprezzato dal pubblico di età ellenistica come un’illustre testimonianza della poesia erudita che, riallacciandosi all’antica tradizione esiodea, si arricchiva del gusto della ricerca rara e minuziosa, tipico dei tempi nuovi, ed esponeva, con abbondanza e varietà di informazioni e con limpida eleganza di stile, il tema dell’astronomia, da sempre carico di grande attrattiva.
di Bɪᴏɴᴅɪ I., Storia e antologia della letteratura greca. III. L’Ellenismo e la tarda grecità, Firenze 2004, 365-366.
I principali prosecutori della poesia bucolica furono Mosco di Siracusa (metà del II secolo a.C.) e Bione di Smirne (fine II secolo a.C.), entrambi ricordati nel lessico bizantino Suda; le loro opere ci sono giunte nello stesso corpus che comprendeva anche quelle di Teocrito.
London, British Library. Add MS 11885 (XV sec.), f. 35v. Mosco di Siracusa, Europa.
Mosco fu considerato dal Suda «secondo a Teocrito». Egli unì, come molti autori del suo tempo, l’attività filologica a quella poetica. Probabilmente allievo del grande Aristarco, della sua opera di grammatico ci è rimasto solo un titolo, Sulle parole rodie, forse un lessico o una raccolta di termini rari. Giovanni Stobeo ci ha conservato tre frammenti di poesia bucolica, in dialetto dorico, in cui il motivo pastorale si intreccia a quello amoroso. Il primo svolge un tema caro alla poesia ellenistica: il confronto fra la piacevole vita del contadino e quella, ben più dura e travagliata, del pescatore. Di maggior ampiezza è un epillio intitolato Europa, contenuto nel corpus teocriteo: questo componimento, in esametri, narra il mito di Europa, rapita da Zeus in forma di toro, tema assai frequente anche nelle arti figurative. Il poemetto, di carattere prevalentemente descrittivo, è ambientato in una cornice di paesaggio che richiama il ratto di Persefone a opera di Ade, trattato nell’inno omerico A Demetra. Esso contiene però anche numerose concessioni al gusto ellenistico: il racconto di un sogno, l’ἔκφρασις del cesto d’oro in cui la principessa tiria depone i fiori appena raccolti, opera di Efesto, che vi ha raffigurato il mito di Io, e, infine, un episodio di carattere romanzesco, il rapimento della fanciulla sotto gli occhi delle compagne. La tradizione antica attribuisce a Mosco anche un carme in esametri, Eros fuggitivo, in cui la stessa Afrodite fornisce i connotati del terribile figlioletto, promettendo in compenso un bacio «e anche di più», a chiunque lo ritroverà. La graziosa descrizione insiste sul contrasto fra il delicato aspetto infantile di Eros, fanciullo «dalla voce di miele», e la sua crudele potenza, capace di far soffrire chiunque. Opera di livello inferiore e di dubbia autenticità è il poemetto Megara, in esametri, in cui la sposa di Eracle e sua madre Alcmena si confidano a vicenda le sofferenze sopportate a causa dell’eroe. Molto discutibile l’attribuzione a Mosco di un altro componimento della raccolta teocritea, il XXVII, Colloquio d’amore, in cui si descrive la seduzione di una fanciulla, per la verità non troppo restia, a opera di un pastore. Compositore colto e raffinato, Mosco esercitò una certa influenza su autori posteriori, come Nonno di Panopoli, che si ispirò a lui nelle Dionisiache, e Orazio, che ne imitò l’Europa in Odi III 27.
Pierre-Maximilien Delafontaine, Venere e Cupido. Olio su tela, 1860.
Poche e incerte sono anche le notizie circa Bione di Flossa, presso Smirne; da un elogio funebre in versi, opera di un suo sconosciuto discepolo (alcuni lo hanno attribuito, con poco fondamento, a Mosco), sappiamo che il poeta soggiornò a lungo in Sicilia e che morì avvelenato; ma la notizia è tutt’altro che certa. Giovanni Stobeo ci ha trasmesso sedici componimenti in dialetto dorico (alcuni sono forse epigrammi, altri parti di opere più ampie); il suo carme più esteso, l’Epitafio di Adone, che gli fu attribuito nel Rinascimento dall’umanista Camerario, proviene da altre raccolte. Il modello è l’idillio teocriteo sulla morte di Dafni; ciò risulta evidente anche dall’uso dell’ἐφύμνιον, il «ritornello», che Teocrito riprese forse dai lamenti funebri (θρῆνοι o γόοι) e che ha la funzione di scandire le varie fasi della lamentazione rituale. Il componimento di Bione è caratterizzato dall’insistita evidenza dei particolari, macabri ed erotici insieme: Afrodite, folle d’amore, supplica il giovane morente di non perdere coscienza, almeno fino al momento in cui ella raccoglierà dalle sue labbra, con un ultimo bacio, l’estremo respiro. Intanto, il sangue che sgorga dalla mortale ferita macchia il grembo e il seno della dea, le cui tenere carni sono state crudelmente lacerate dai rovi in mezzo ai quali ha vagato in cerca dell’amante. Sofferenza e sensualità, Eros e Thanatos, si fondono in questa descrizione, che ispirò al giovane Foscolo l’inizio dell’ode A Luigia Pallavicini caduta da cavallo.
Pieter Paul Rubens, La morte di Adone. Olio su tela, 1614 c. Jerusalem, Israel Museum.
In età umanistica venne attribuito a Bione anche il frammento di una composizione intitolata l’Epitalamio di Achille e Deidamia, in cui si narravano, in una cornice bucolica, gli amori dell’eroe con la figlia di Licomede, re di Sciro, presso il quale egli era stato nascosto sotto mentite spoglie. Anche un frammento papiraceo, pubblicato nel 1932, e contenente un dialogo fra Pan e Sileno, è stato attribuito, per motivi stilistici, a Bione.
Achille sull’isola di Sciro. Mosaico, II-III sec. d.C. da Zeugma. Gaziantep, Mosaic Museum.
Il genere bucolico ebbe in seguito riconoscimento ufficiale con l’opera del grammatico Artemidoro, vissuto nel I secolo a.C., in età augustea, il quale raccolse in un’edizione miscellanea «le Muse bucoliche, prima disperse», come affermò egli stesso in un epigramma dell’Anthologia Palatina (IX 205); e fu probabilmente attraverso la sua silloge che Virgilio venne a conoscenza di questo genere letterario e dei suoi maggiori esponenti.
di M. CAVALLI, L’autore, l’epoca, il testo della Biblioteca, in APOLLODORO, Biblioteca, Milano 2011, XIII-XVIII.
L’identità dell’autore della Bibliotecaresta enigmatica. Il nome Apollodoro ricorre per la prima volta nell’opera di Fozio, il patriarca-scrittore del IX secolo d.C., che riunì riassunti ed estratti di 279 opere da lui lette nella raccolta intitolata anch’essa Biblioteca, o Myriobiblos. Sia Fozio che le note dei copisti sui suoi manoscritti identificano dunque l’autore della Biblioteca in Apollodoro il Grammatico; gli scoliasti, poi, riportano anche la sua appartenenza geografica, ateniese: e l’unico scrittore di questo nome a noi noto è, appunto, il grammatico ateniese Apollodoro, attivo ad Alessandria e poi a Pergamo intorno alla metà del II secolo a.C., del quale purtroppo nulla ci è stato tramandato. Sappiamo, però, che tra le sue opere esistevano quattro libri di Cronache in versi, dedicati alla sistemazione cronologica di tutto il periodo compreso fra la guerra di Troia (datata al 1184/3 a.C.) e il 120/19 a.C.; e soprattutto l’importante trattato Sugli dèi in ventiquattro libri, ampia compilazione mitologica, che tentava di dare ordine a tutta la materia tradizionale del mito nelle sue connessioni con il culto, le feste, la poesia, il pensiero filosofico stesso. Ma l’identificazione dell’autore della Biblioteca con il grammatico ateniese risulta impossibile, già sulla scorta dei pochi frammenti di Apollodoro in nostro possesso e delle allusioni alla natura delle sue opere e del suo pensiero presenti in altri autori. Il trattato Sugli dèi, infatti, si fondava su una forte impronta razionalistica, con la quale Apollodoro intendeva svincolarsi dal leggendario, per risolvere, invece, scientificamente i problemi inerenti alla divinità e al mito, soprattutto attraverso l’uso dell’indagine etimologica: e il principale assunto della sua opera consisteva nell’identificazione delle divinità con forze naturali oppure con famosi personaggi dell’antichità, morti da tempo e ritenuti dèi.
Vincenzo Foppa, Fanciullo che legge Cicerone. Affresco, 1464, dal Banco Mediceo di Milano. London, Wallace Collection.
Proprio il razionalismo di Apollodoro ha indotto a considerare impossibile la tradizionale attribuzione della Biblioteca: già nel 1873 C. Robert, nella sua dissertazioneDe Apollodori Bibliotheca, negava che un’opera così ingenua e anonima, lontana da ogni tentativo critico sul materiale del mito e qualsiasi volontà di elaborazione formale e stilistica, si potesse ascrivere al rigoroso e scettico grammatico ateniese, alcuni frammenti del cui lavoro, inoltre, rivelano particolari mitici in decisa contraddizione con passi presenti nella Biblioteca. Ma c’è di più. Nella Biblioteca compare un riferimento a Castore, autore di studi storici, contemporaneo di Cicerone: e questo dato sposta la composizione dell’opera almeno alla metà del I secolo a.C., periodo che resta fisso dunque, per la Biblioteca, almeno quale terminus post quem, e nega definitivamente la sua attribuzione ad Apollodoro di Atene. Il problema dell’individuazione del suo autore – che viene comunque chiamato, per comodità, Apollodoro o pseudo-Apollodoro – è reso ancor più arduo non solo dalla totale assenza all’interno dell’opera di riferimenti cronologici o di allusioni a fatti storici e contemporanei, ma anche dall’assoluto silenzio sull’esistenza di Roma e delle leggende relative alla sua fondazione. Così, per esempio, pur raccontando ampiamente lo stanziamento degli eroi reduci da Troia in diverse aree del Mediterraneo, come pure la fuga di Enea con il vecchio padre Anchise sulle spalle, niente Apollodoro riporta sull’arrivo dell’eroe nel Lazio e sulle vicende che stanno alla base della tradizione romana. Poteva Apollodoro non conoscere l’esistenza di Roma? È difficile crederlo, a meno di non ipotizzare che scrivesse in un luogo e in un’epoca in cui la fama di Roma ancora non si fosse diffusa: forse, dunque, in un remoto paese ai confini del mondo greco, e certo non dopo Augusto. Oppure, come suggeriscono alcuni critici, si dovrebbe piuttosto pensare a un silenzio deliberato a Roma e alle sue leggende, per qualche motivo – ideologico? politico? didattico? – che a noi rimane assolutamente oscuro. In ogni caso, una datazione della Biblioteca intorno alla metà del I secolo a.C. (l’unica che potrebbe in certo modo giustificare il silenzio su Roma) presenta nuove difficoltà, dato che l’opera non viene mai menzionata da alcun autore precedente a Fozio (IX secolo d.C.), e che lo stile e alcune abitudini verbali del suo autore sembrano semmai collocarla tra il I e il III secolo d.C. Ma più probabilmente l’assenza dei riferimenti a Roma nella Biblioteca trova spiegazione nella natura stessa dell’opera, lavoro di compilazione mitografica non originale, e basato più sulla semplice trascrizione e riduzione di originali precedenti, che non sulla loro rielaborazione critica. In questo modo – ipotizzando cioè per la Biblioteca una fonte mitografica antecedente le fortune di Roma imperiale (quindi, senz’altro anteriore al I secolo a.C.), che non citasse dunque il mondo romano perché d’importanza ancora provinciale – il silenzio su Roma trova giustificazione nella volontà di seguire pedissequamente il modello, senza intervenire sulla sua traccia con innovazioni determinate da condizioni storiche e culturali diverse.
Pittore Duride. Scuola di scrittura su tavoletta con stilo. Dettaglio dal lato B di una kylix attica a figure rosse, inizi V sec. Berlin, Staatliche Museen.
L’identità e l’epoca dello pseudo-Apollodoro restano, in ogni caso, impossibili da determinare: per quanto alcuni critici siano concordi, per ragioni stilistiche, nel collocare la sua opera intorno al I-II secolo d.C., gli unici dati certi in nostro possesso lasciano aperto tutto l’enorme periodo tra la metà del I secolo a.C. e gli inizi del IX secolo d.C. Il nome stesso “Apollodoro”, presente sia in Fozio che nei manoscritti della Biblioteca, si presta a differenti possibilità di interpretazione. Forse un errore o un falso dei copisti; forse un inganno dell’autore, nel tentativo di far vivere anche la sua modesta opera nella gloria dell’insigne grammatico ateniese; o forse, invece, semplicemente un caso di omonimia, data la natura piuttosto comune del nome “Apollodoro”. Più difficile risulta interpretare questa tradizionale attribuzione come volontà di indicare, nel testo della Biblioteca a noi pervenuto, il riassunto o la riduzione di un originale di Apollodoro: fra i titoli del grammatico ateniese tramandati da più fonti come sicuramente autentici, infatti, questo non compare; ed è impossibile, del resto, che la Biblioteca costituisca una riduzione del trattato Sugli dèi, la cui natura filologico-grammaticale sembra decisamente altra rispetto alla struttura solo compilativa dell’opera apocrifa. Ma certo le ricerche mitologiche di Apollodoro – e quindi soprattutto il Perì theòn – costituirono una delle principali fonti per la successiva trattatistica mitografica: ed è appunto nell’ambito di tale genere, sviluppatosi in diversi filoni dai rigorosi studi storici, letterari ed etimologici degli eruditi alessandrini, che va collocata la Biblioteca, unico esempio di una certa ampiezza e complessità, peraltro, che sia giunto fino a noi. Isolata è, infatti, la struttura sistematica di questa raccolta, che attua il tentativo di esaurire tutta la materia mitologica greca, collegando in una stretta sequenzialità genealogica e cronologica i racconti relativi alle diverse aree geografiche e alle diverse tradizioni.
Processione con immagini di divinità. Rilievo, marmo, III sec. d.C. Roma, S. Lorenzo fuori le Mura.
Più comune, invece, il tipo di raccolta monotematica, che si organizza cioè nella volontà di riunire in una collezione miti separati, ma del medesimo argomento. Sotto il nome di Eratostene – ma si tratta certamente di un riassunto d’epoca posteriore al III secolo a.C. – sono stati tramandati i Catasterismi (“Trasformazioni in stelle”), opera che raccoglie le più importanti leggende collegate con l’origine delle costellazioni; di Antonino Liberale, attivo fra il II e il III secolo d.C., ci sono giunte, invece, le Metamorfosi, collezione sui miti relativi alla trasformazione di esseri umani in animali e piante, che ricalca probabilmente la perduta raccolta di Nicandro, l’autore del II secolo a.C. che costituisce la principale fonte delle Metamorfosi di Ovidio. Risale poi al I secolo a.C. l’unica opera superstite di Partenio di Nicea, I patimenti d’amore, che riunisce trentasei storie d’amore a conclusione tragica, e che costituì una sorta di repertorio mitologico-erotico per l’elegia amorosa romana. In lingua latina possediamo poi altre due importanti opere, le Favole e l’Astronomia poetica, giunte a noi sotto il nome di Igino, ma certamente non ascrivibili al bibliotecario della Biblioteca di Apollo al Palatino, attivo sotto Augusto: raccolte lacunose e spesso maldestre, esse sembrano semmai da collocare in epoca antoniniana, e la loro rilevanza deriva soprattutto dall’averci tramandato leggende altrimenti sconosciute, tra le quali gli argomenti delle opere perdute dei tragici.
Elemento comune a questi esempi di compilazione mitografica posteriori al III secolo è la natura libresca del materiale mitico raccolto, che deriva, come si è detto, da ricerche e opere di autori precedenti, e non da un lavoro “sul campo” che riporti le diverse tradizioni orali. È Apollodoro stesso a dichiarare le sue fonti: Omero, Esiodo, i tragici e Apollonio Rodio sono le autorità letterarie che sorreggono l’intera struttura della Biblioteca, e proprio dal confronto tra le opere e l’utilizzo fattone da Apollodoro emerge con evidenza la fedeltà e la serietà che impronta tale rielaborazione. Si può dunque presumere che vengano riportate con altrettanto rigore anche le testimonianze tratte da autori per noi ormai perduti, e di cui la Biblioteca costituisce una delle poche fonti; e, in generale, l’assenza di una posizione critica autonoma di Apollodoro, che lo porta ad accettare anche interpretazioni e tradizioni mitologiche contrastanti senza mai impostare una loro conciliazione, sembra garantire l’autenticità e la concretezza dei suoi riferimenti agli autori precedenti. Fra questi, Ferecide di Atene è certamente il più importante, e alla sua autorità Apollodoro si affida con devota costanza: nativo di Lero, ma vissuto ad Atene nella prima metà del V secolo a.C., scrisse un ampio trattato in dieci libri in cui le tradizioni epiche e mitologiche venivano organizzate probabilmente secondo un criterio cronologico e genealogico simile a quello della Biblioteca. Anche Acusilao di Argo, attivo in epoca immediatamente anteriore alle guerre persiane e autore di una Cosmogonia e di un trattato in tre libri dal titolo Genealogie, viene citato con notevole frequenza da Apollodoro, che ci offre in questo modo la possibilità di conoscere alcuni fondamenti della più antica mitografia, per noi totalmente perduta. Ma numerosi altri autori – poeti o eruditi –, di cui nulla possediamo, vengono ripresi da Apollodoro; i più significativi sono il cosiddetto “autore della Tebaide”, poema epico del Ciclo; Pisandro di Rodi, poeta epico attivo probabilmente a cavallo tra il VII e il VI secolo a.C., autore di un famoso poema dedicato a Eracle; Paniassi, della prima metà del V secolo a.C., zio di Erodoto, autore di un poema in quattordici libri dedicato a Eracle, e di una composizione in versi elegiaci dedicata agli avvenimenti della migrazione ionica; Erodoro, storico attivo intorno al 500 a.C., autore di due importanti raccolte di leggende su Eracle e sugli Argonauti; Asclepiade di Tragilo, allievo di Isocrate e attivo nel tardo IV secolo a.C., autore di una raccolta intitolata Tragodoumena, cioè “Cose rappresentate nelle tragedie”, in cui gli argomenti tragici venivano integrati da varianti della stessa leggenda.
Ganimede con berretto frigio. Testa, marmo, copia di età severiana da originale greco di IV sec. a.C. Roma, Domus Augustana.
A differenza delle altre raccolte mitografiche pervenute, dunque, la Bibliotecasi organizza non sulla giustapposizione di leggende tra loro slegate, ma in un progetto complesso di raccordi genealogici e cronologici, che ha l’ambizione di esaurire e di dipanare l’intera tradizione greca dalle origini del mondo fino al ritorno degli eroi dopo la guerra di Troia. Robert Wagner ha individuato con estremo rigore il piano di lavoro di Apollodoro, premettendo alla sua edizione della Biblioteca un ampio sommario della materia, diviso in sedici capitoli che corrispondono agli itinerari mitici seguiti dall’autore: Teogonia; la famiglia di Deucalione; la famiglia di Inaco; la famiglia di Agenore (Europa); la famiglia di Agenore (Cadmo); la famiglia di Pelasgo; la famiglia di Atlante; la famiglia di Asopo; i re di Atene; Teseo; la famiglia di Pelope; precedenti della guerra di Troia; materia dell’Iliade; avvenimenti della guerra di Troia non trattati da Omero; i “ritorni” degli eroi; le peregrinazioni di Odisseo. Ma il testo della Biblioteca a noi pervenuto non è integrale. Tutti i manoscritti esistenti si interrompono nel corso delle avventure di Teseo, segno evidente del loro essere tutti copia di un unico manoscritto più antico, forse rovinato dal tempo o comunque già mancante di un’ampia parte dell’opera. Nel 1885, però, Robert Wagner scoprì nella Biblioteca Vaticana di Roma un manoscritto della fine del XIV secolo contenente un’epitome della Biblioteca, redatta quando l’opera poteva essere letta ancora integralmente, e che riportava quindi anche il riassunto della parte per noi perduta. Due anni dopo, nel Monastero di Mar Sabba a Gerusalemme vennero scoperti i frammenti di una seconda epitome della Biblioteca, contenuti nel cosiddetto Codex Sabbaiticus, e il cui testo si discosta in taluni punti da quello dell’epitome Vaticana. A giudizio di Wagner quest’ultima potrebbe essere opera del commentatore bizantino Giovanni Tzetze (XII secolo), che nei suoi lavori impiegò ampiamente citazioni tratte dalla Biblioteca, le quali spesso si accordano con il testo dell’epitome Vaticana e discordano invece da quello della Sabbaitica: e, del resto, il manoscritto contenente l’epitome Vaticana racchiude anche parte del commento di Tzetze a Licofrone.
A Robert Wagner si deve la magistrale edizione della Biblioteca pubblicata a Leipzig nel 1894 (edizione Teubner), più volte ristampata, che contiene anche il testo delle due epitomi, Vaticana e Sabbaitica. […]
di I. BIONDI, Callimaco, in Storia e antologia della letteratura greca. 3. L’Ellenismo e la tarda grecità, Messina-Firenze 2004, pp. 155-167.
Callimaco: la voce più significativa della poesia ellenistica
Il Bello. Ritratto funebre, tavola lignea dipinta, II sec. d.C. ca. dal Fayyum. Moskva, Puškin Museum.
Callimaco nacque a Cirene, colonia greca di Thera, a nord della Grande Sirte, negli anni fra il 315 e il 310 a.C., da famiglia aristocratica. I suoi si vantavano di discendere dal fondatore stesso della città, un figlio di Polimnesto, il quale aveva mutato il proprio nome, Aristotele, in quello di Batto, che nel dialetto libico locale significava «sovrano». Il padre di Callimaco portava lo stesso nome dell’antico capostipite; e proprio negli anni in cui nacque il poeta, la famiglia godeva di grande fama e prosperità grazie all’appoggio di Ofella, generale del re Tolemeo I, che nel 322 a.C. aveva conquistato Cirene. È probabile che Callimaco abbia trascorso a Cirene gli anni della giovinezza e vi abbia completato la prima fase della propria formazione culturale; verso il 290 o il 285 a.C. (nessuna delle due date è certa!), egli lasciò la città per trasferirsi ad Alessandria, dove, verso il 270 a.C., ebbero inizio la sua vita a corte e la sua attività nella Bibliotheca, destinata a continuare fino alla sua morte.
Il poeta ebbe così a disposizione il materiale raro ed erudito che tanto lo appassionava e che lasciò un’impronta indelebile in tutta la sua produzione; gli anni dal 270 al 245 a.C. furono forse i più fecondi della sua vita. Il poeta continuò a godere del favore di Tolemeo II Filadelfo, che governò l’Egitto fino al 246 a.C. e, in seguito, di Tolemeo III Evergete, sposo di Berenice, figlia di Megas e originaria di Cirene, dalla quale Callimaco ottenne una particolare protezione. In questo periodo (246-245 a.C.) il poeta ebbe modo di conoscere un altro grande intellettuale del suo tempo, Apollonio Rodio, con il quale intrattenne un rapporto assai complesso e, a quanto sembra, anche polemico. La data della scomparsa di Callimaco ci è sconosciuta, ma non dovrebbe essere di molto posteriore al 244 a.C.
Tolomeo III Evergete. Busto, copia romana in marmo da originale ellenistico di III sec. a.C., dalla Villa dei Papiri (Ercolano). Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
La tradizione dei testi
La maggior parte della vastissima opera di Callimaco è andata perduta; degli scritti eruditi rimangono solo pochi frammenti, mentre ci è giunta completa – a parte qualche trascurabile lacuna – la raccolta dei sei Inni (A Zeus, Ad Apollo, Ad Artemide, A Delo, Per i lavacri di Pallade, A Demetra). Ciò fu dovuto a un anonimo grammatico che li inserì, verso il VI secolo d.C. (o, secondo altri, nel X secolo), in una raccolta che iniziava con gli inni omerici. L’Anthologia Palatina, compilata intorno alla metà dell’XI secolo, ci ha conservato sessantatré epigrammi (cinque derivano da altre fonti), che, pur non rappresentando l’intera produzione callimachea in questo genere, ne sono comunque un significativo esempio. Per gli Aitia, i Giambi, l’Ecale e altri componimenti abbiamo a disposizione un congruo numero di papiri, alcuni dei quali sono posteriori di pochi anni alla morte del poeta, mentre altri giungono fino al VII secolo d.C.
L’opera poetica di Callimaco fu anche oggetto di commenti grammaticali e storici da parte di un valido studioso della poesia ellenistica, Teone di Artemidoro, vissuto sotto il principato di Augusto e di Tiberio. Al suo lavoro si aggiunse, verso la fine del I secolo, quello di Epafrodito; da questi commenti derivano le διηγήσεις («argomenti», «riassunti») delle opere del poeta, contenute nel Papiro Milanese 18, che risale al II secolo. A questa tradizione si affianca quella indiretta, proveniente dagli scritti di dotti bizantini come Areta e Costantino Cefala (entrambi del X secolo) e Michele Choniates (fine del XII secolo), allievo di Eustazio, arcivescovo di Tessalonica, ai quali la produzione poetica callimachea era ben nota. La perdita della tradizione diretta può essere spiegata come conseguenza del bellum Latinum (IV Crociata) e del barbaro saccheggio che devastò Costantinopoli nel 1204, distruggendo l’esemplare o i pochi esemplari delle opere del poeta fino ad allora sopravvissuti.
P. Oxy. XI, 1362 (II sec.). Pagina manoscritta del fr. 178 Pf. dagli Aitia di Callimaco.
Opere di erudizione e di critica
Il vastissimo insieme delle opere erudite di Callimaco, andato quasi completamente perduto, può essere in parte ricostruito nelle linee e nei contenuti essenziali attraverso l’elenco dei titoli, tramandatoci dal lessico Suda. Possiamo così distinguere un gruppo di opere a carattere geografico (Sui fiumi dell’Europa, Sui fiumi dell’ecumene), forse ricollegabili con la polemica che divise Callimaco e Apollonio Rodio a proposito dell’itinerario seguito dagli Argonauti nel loro viaggio di ritorno. Una paradossografia, il primo testo di questo genere giunto fino a noi, che contiene la descrizione delle «cose strane e meravigliose» (παράδοξα καί θαυμάσια) del Peloponneso, dell’Italia e di tutta la terra. Un gruppo di opere di interesse naturalistico, che però rivela anche intenti nomenclatorii e storici (Sugli uccelli, Sui venti, Sui nomi dei mesi per popoli e per città, Sulla fondazione di isole e città). In un ambito più strettamente letterario, la massima testimonianza dell’erudizione di Callimaco furono i Pinakes (πίνακες τῶν ἐν πάσῃ παιδείᾳ διαλαμψάντων καὶ ὧν συνέγραψαν, «registri» o «tavole di tutti coloro che si distinsero in ogni settore della cultura e di ciò che scrissero»), una monumentale bibliografia ragionata, a carattere enciclopedico, di tutti i principali scrittori in lingua greca, suddivisa in vari settori, a seconda del genere. Nell’ambito delle varie sezioni, che erano almeno dieci (lirica, tragedia, filosofia, ecc.), gli autori erano catalogati in ordine alfabetico; ogni nome era accompagnato da una sintetica biografia (ampliata in seguito da Ermippo di Smirne), seguita dai titoli delle opere, corredati, quando era possibile, dall’incipit di ciascun testo. Allo stesso genere apparteneva anche un’altra opera, una «lista» (ἀναγραφή) di tutti i poeti drammatici, disposti in ordine cronologico, che si fondava forse su un analogo lavoro di Aristotele, le Didascalie. Tutti questi scritti, frutto delle ricerche di Callimaco nella Biblioteca di Alessandria, contribuirono a conferire anche alla sua poesia un carattere di straordinaria preziosità culturale e formale, che sarebbe poi divenuto elemento peculiare dell’intera letteratura ellenistica.
Gli Aitia: struttura e contenuti
I quattro libri degli Aitia, l’opera principale di Callimaco, rappresentano anche la testimonianza più completa e significativa della sua poesia e della sua poetica, che, nei secoli successivi, avrebbe avuto vasta risonanza nella letteratura latina. L’opera comprende un numero notevole di componimenti in distici elegiaci (finora ne sono stati identificati una quarantina), nei quali si narrano le «cause» (αἴτια) di miti, riti sacri, festività, eventi storici o ritenuti tali, appartenenti alla cultura del mondo ellenico o, più genericamente, a quella dell’area mediterranea. Quasi certamente, i due libri inziali furono composti in periodi diversi dal III e dal IV, che presentano differenti caratteristiche e sembrano perciò appartenere alla fase più matura, o addirittura tarda, della produzione di Callimaco.
Il I libro, dopo un’elegia autobiografica a carattere introduttivo (Elegia contro i Telchini), in cui Callimaco espone i punti chiave della sua poetica, contiene la descrizione dell’incontro del poeta con le Muse e il racconto di una di esse, Clio, su riti sacrificali in uso a Paro e sulla nascita delle Cariti. Trattando poi dei sacrifici in onore di Apollo, che si celebravano ad Anafe, un’isola del Mare Cretico, Callimaco vi inserisce una breve digressione, dedicata al viaggio degli Argonauti, di ritorno dalla Colchide a Iolco. La narrazione diverge in modo significativo da quella di Apollonio Rodio (Argonautiche IV); e non è escluso che proprio da ciò abbia avuto origine la polemica fra i due, di cui parlano le fonti antiche (se pure ci fu veramente). In seguito, Callimaco paragona i riti di Anafe a quelli di Lindos in onore di Eracle. Anche in questo caso, Apollonio Rodio (Argonautiche I, 1218-1220) appare in disaccordo con Callimaco nel descrivere il personaggio di Eracle; il poeta di Cirene, tuttavia, riconfermò in seguito le proprie scelte nell’Inno ad Artemide (vv. 159-161). Sempre nel I libro, Callimaco descrive anche la storia di Lino e Corebo, un mito poco noto di origine argiva, l’origine del culto di Diana Leucadia, quella dell’offerta espiatoria ad Aiace e gli avvenimenti connessi con la fondazione di Mallos, antichissima città della Cilicia.
Clio. Mosaico delle Nove Muse (dettaglio). Rodi, Palazzo dei Gran Maestri di Rodi.
Il contenuto del II libro, a causa della perdita delle διηγήσεις, i brevi «riassunti» delle varie composizioni in esso raccolte, ci è meno noto; esso comprendeva, in una successione che non conosciamo, le elegie sulla fondazione di alcune città della Sicilia, la storia di Busiride, il crudele re egizio ucciso da Eracle, e quella di Falaride, tiranno di Agrigento.
Il III libro, nella sistemazione definitiva, si apriva con l’Epinicio per Berenice, in cui era esposto l’αἴτιον dell’istituzione dei Giochi Nemei da parte di Eracle, che confermava la volontà di Callimaco di trattare l’impresa dell’eroe in toni diversi dall’epos. Seguivano poi gli αἴτια delle Tesmoforie, feste in onore di Demetra, quelli riguardanti il sepolcro di Simonide, e i miti delle fonti di Argo, dell’ospite di Isindo, di Artemide Ilitia, di Frigio e di Euticle di Rodi.
Il IV libro, che iniziava con un’invocazione del poeta alle Muse, comprendeva una serie di sedici αἴτια, di cui non ci è giunto quasi altro che l’incipit. L’ultimo di essi trattava un episodio del mito argonautico; in questo modo, l’intera opera si chiudeva con una struttura ad anello, riallacciandosi al già ricordato episodio del I libro. In seguito, però, probabilmente nello stesso periodo in cui inserì all’inizio degli Aitia l’Elegia contro i Telchini e all’inizio del III libro l’Epinicio per Berenice, Callimaco pose a chiusura dell’opera la Chioma di Berenice, che pure aveva avuto una tradizione autonoma come elegia celebrativa.
Un certo numero di frammenti, quasi tutti brevi e non sempre ben leggibili, come pure l’αἴτιον sul culto di Peleo e quello sugli Iperborei, non hanno ancora trovato sistemazione definitiva all’interno dell’opera.
La struttura di base degli Aitia sembra essere un colloquio del poeta con le Muse; egli, infatti, racconta di essere stato trasportato in sogno in Beozia, sul monte Elicona, là dove un tempo Esiodo, intento a pascolare il suo gregge, aveva incontrato anch’egli le Muse (Teogonia, vv. 22 sgg.). Qui il giovane Callimaco avrebbe conversato con le dee presso la fonte Castalia, interrogandole sui più svariati argomenti e facendo tesoro delle risposte ottenute dalle figlie di Zeus, divine depositarie di ogni memoria. Il motivo del sogno, esplicito riferimento all’opera esiodea, ebbe poi fortuna anche nella letteratura latina, tanto che fu ripreso da Ennio nei proemi del I e del VII libro degli Annales.
Accanto all’espediente narratologico del colloquio con le Muse, ben evidente nel I e del II libro, compaiono però altri accorgimenti per introdurre nuovi temi: una diretta apostrofe al protagonista dell’αἴτιον, accompagnata da un invito al racconto; un dialogo a domanda e risposta, tecnica che forse compare qui per la prima volta in un’opera in versi; una conversazione fra amici a simposio; il monologo di un oggetto che racconta la propria storia, come accade anche nella tradizione epigrammatica. Infine, soprattutto nel III e nel IV libro, il poeta sembra abbandonare ogni preoccupazione di organicità narrativa e si limita a una semplice giustapposizione degli episodi, come accade con l’Epinicio per Berenice, che apre il III libro, e con la Chioma di Berenice, che conclude il IV.
Muse e maschere teatrali (dettaglio). Bassorilievo su sarcofago, 200 d.C. ca. Berlin, Altes Museum.
La Chioma di Berenice, forse la più nota fra le composizioni di Callimaco, ci è giunta solo parzialmente nell’originale greco; possiamo disporre però della sua “versione” latina, composta da Catullo (Carmen LXVI) in distici elegiaci e tradotta nel 1803 da Ugo Foscolo. Lo spunto per la Chioma fu offerto a Callimaco da un evento accaduto poco dopo l’ascesa al trono di Tolemeo III Evergete, nel 244: appena assunto il potere, il sovrano dovette abbandonare l’Egitto per prendere parte a una campagna militare in Siria. In quell’occasione la sposa del re, Berenice, appartenente alla casa regale di Cirene, fece voto solenne di consacrare ad Afrodite la sua bellissima chioma, se il marito fosse tornato sano e salvo. Così, al rientro di Tolemeo, la regina mantenne la promessa e offrì i suoi capelli nel tempio di Arsinoe-Afrodite. Tuttavia, dopo qualche tempo, la chioma recisa della donna scomparve dal santuario e l’astronomo di corte, Conone, credette di identificarla in un nuovo gruppo di stelle da lui osservato, a cui diede appunto il nome di “Chioma di Berenice”. In questo modo, egli intendeva significare che gli dèi avevano voluto compensare, oltre all’amore coniugale, anche la pietas religiosa della regina, con il καταστερισμός (la «trasformazione in astro») dei suoi riccioli. Nella composizione di Callimaco è la chioma stessa a parlare, fiera dell’onore accordatole dagli dèi, ma anche rattristata per essere stata per sempre separata dal capo regale di Berenice. La bella sposa di Tolemeo era infatti solita prendersi grande cura dei suoi capelli, cospargendoli di preziosi profumi; ma come avrebbero potuto opporsi, le morbide ciocche della regina, al taglio crudele del ferro?
τί πλόκαμοι ῥέξωμεν, ὅτ’ οὔρεα τοῖα σιδή[ρῳ
εἴκουσιν; Χαλύβων ὡς ἀπόλοιτο γένος,
γειόθεν ἀντέλλοντα, κακὸν φυτόν, οἵ μιν ἔφηναν
50 πρῶτοι καὶ τυπίδων ἔφρασαν ἐργασίην.
ἄρτι [ν]εότμητόν με κόμαι ποθέεσκον ἀδε[λφεαί,
καὶ πρόκατε γνωτὸς Μέμνονος Αἰθίοπος
ἵετο κυκλώσας βαλιὰ πτερὰ θῆλυς ἀήτης,
ἵππο[ς] ἰοζώνου Λοκρίδος Ἀρσινόης,
55 ἤ[λ]ασε δὲ πνοιῇ με, δι’ ἠέρα δ’ ὑγρὸν ἐνείκας
Κύπρ]ιδος εἰς κόλπους ἔθηκε
Cosa faremo noi trecce, se monti sì grandi cedono
al ferro? Possa perire la stirpe dei Càlibi,
che, mala pianta, sorgente da terra, lo rivelarono
50 per primi, e mostrarono l’arte dei magli!
Da poco, recisa di fresco, mi rimpiangevan le chiome sorelle,
ed ecco il fratello di Memnone l’Etiope
si slanciava ruotando le ali screziate, vento ferace,
destriero della Locride Arsinoe, cinta di viole:
55 con il soffio mi [spinse], e, portandomi per l’umido aere,
Ambrogio Borghi, La regina Berenice (o Chioma di Berenice). Statua, marmo, 1878. Monza, Musei Civici.
La raffinata eleganza del brano citato, la grazia gentile dell’omaggio che non ha niente di ostentato né di servile, la preziosità dei riferimenti eruditi (il vento leggero «fratello di Memnone l’Etiope» è Zefiro, i «monti sì grandi» sono i massicci dell’Athos, attraverso cui Serse fece scavare un canale, per permettere il passaggio alla sua flotta da guerra, nel 480 a.C.) ci offrono un’eloquente testimonianza dello stile di Callimaco e di quella poetica alla quale egli rimase fedele per tutta la vita, a noi nota attraverso i numerosi accenni presenti in varie opere. Da questo punto di vista, ci appare particolarmente significativa l’elegia autobiografica che Callimaco, ormai vecchio, premise, in forma di prologo, al I libro degli Aitia. In essa il poeta respinge le critiche che sono state mosse alla sua arte, bollando gli avversari con il nome di “Telchini”, i maligni demoni figli di Ponto, il mare, e di Gea, la terra, il cui sguardo era carico di un potere malefico, che furono fulminati da Zeus per aver cercato di rendere sterile l’isola di Rodi, bagnandola con l’acqua infernale dello Stige.
Callimaco si difende dalle accuse dei suoi avversari, che gli rinfacciano, per velenosa invidia di non essere mai stato capace di affrontare composizioni poetiche veramente impegnative, ma di essersi limitato a “giocare” con i versi, come un ragazzo, benché la sua età sia ormai più che matura. Ma egli può addurre a suo sostegno la più autorevole delle testimonianze, quella del dio stesso della poesia, che gli è stato prodigo di consigli fin dal momento in cui il poeta si accinse per la prima volta a scrivere, dopo aver appoggiato la tavoletta sulle ginocchia. Il particolare non è privo di importanza; infatti, al poema di vasto respiro, non sostenuto da un’adeguata cura formale e destinato all’ascolto, si sostituisce la composizione di breve dimensione, perfetta nel suo nitore, destinata alla lettura e al giudizio di un pubblico scelto per sensibilità e cultura; doctus non meno dell’autore, come lo definiranno i poeti latini che, a partire da Catullo, assimilarono a fondo la lezione di Callimaco. Quest’ultimo ribadì i concetti-base della sua poetica anche in altre opere; leggiamo, ad esempio, l’epigramma XXVIII:
ἐχθαίρω τὸ ποίημα τὸ κυκλικόν, οὐδὲ κελεύθωι
χαίρω τίς πολλοὺς ὧδε καὶ ὧδε φέρει,
μισέω καὶ περίφοιτον ἐρώμενον, οὐδ᾽ ἀπὸ κρήνης
πίνω· σικχαίνω πάντα τὰ δημόσια.
Odio il poema ciclico, né una strada
mi piace che molti porti qui e lì.
Non sopporto un amante vagabondo, né dalla pubblica fonte
La metafora della κρήνη, la «fontana pubblica», richiama, per contrasto, un’altra immagine: quella della sorgente purissima, limpida e remota, che la massa non può contaminare:
105 L’Invidia furtiva all’orecchio disse ad Apollo:
«Non apprezzo il poeta che non canta neanche quanto il mare».
Apollo l’Invidia col piede scacciò, e disse così:
«Grande è il flutto del mare d’Assiria, ma spesso
sozzure di terra e molto fango sull’acqua trascina.
110 Ma a Deò non da ogni dove recano acqua le api,
ma quella che pura e incontaminata zampilla
da sacra sorgiva, piccola stilla, è l’offerta migliore»[3].
Il tono deciso dei testi fin qui citati testimonia assai bene l’asprezza della polemica che divideva i letterati di Alessandria e che li spingeva a un dissidio intellettuale senza esclusione di colpi. Un ulteriore documento di questo acceso scontro fra eruditi proviene da un commento antico al prologo degli Aitia, in cui si elencano addirittura i nomi di alcuni dei personaggi contro cui erano diretti gli strali di Callimaco; e probabilmente anche l’Ibis, un poemetto andato perduto, notissimo ai poeti romani e soprattutto a Ovidio, che forse lo ebbe come modello per la sua omonima composizione, altro non era che un virulento attacco contro Apollonio Rodio. Tale almeno era l’opinione comune dei grammatici antichi, che però non siamo in grado di verificare, a causa delle scarsissime notizie in nostro possesso.
Donna seduta con kithara. Probabilmente si tratta di un ritratto della regina Berenice II, mentre si esercita al canto. Affresco (dettaglio), 50-40 a.C. ca. dalla Villa di P. Fannius Synistor, Boscoreale.
Ma l’atteggiamento polemico di Callimaco non riguardava solamente l’accurato labor limae formale, da lui ritenuto indispensabile e che non sarebbe stato possibile in scritti di vasta mole; l’erudizione e la novità dovevano risaltare con brillante evidenza nella scelta, oltre che nella trattazione dei contenuti. È questa la «fonte intatta», il «sentiero non calpestato da alcuno» a cui il poeta allude più volte, per sottolineare l’originalità delle sue composizioni. In quest’ottica, egli affrontò spesso l’arduo compito di superare e di rovesciare tradizioni poetiche ormai ben consolidate e rese insigni da grandi nomi, compreso quello di Omero, utilizzando la tecnica dell’oppositio in imitando, tanto ardita quanto geniale. Ne abbiamo un esempio nell’Epinicio per Berenice, che ci è giunto grazie a due diversi ritrovamenti papiracei, pubblicati uno nel 1941 e l’altro nel 1977. Il tono generale della lirica ricorda Pindaro, un autore con cui Callimaco condivideva sia l’alto concetto di sé che quello dell’originalità della propria arte; inoltre, il poeta tebano aveva anche esaltato, nella Pitica IV, il trionfo di Arcesilao, un sovrano che aveva svolto un ruolo preminente nell’antica storia di Cirene, patria amatissima di Callimaco.
Il nucleo centrale dell’epinicio callimacheo trattava il mito di fondazione dei giochi Nemei da parte di Eracle. Ma il poeta si rifiutò di celebrare la parte più nota della vicenda, l’uccisione del leone, figlio di Ortro e di Echidna, che l’eroe dovette strangolare con le mani nude, perché la terribile belva era invulnerabile. Secondo il suo gusto, Callimaco rifuggì dai toni epici e si soffermò invece a descrivere il soggiorno di Eracle presso Molorco, l’umile campagnolo che avrebbe voluto sacrificare il suo unico montone per onorare degnamente l’ospite; e frugando con sguardo attento e curioso nelle zone più inesplorate di un’illustre tradizione (l’accoglienza di Molorco a Eracle ha il suo archetipo in quella di Eumeo a Odisseo, nel XIV libro dell’Odissea), il poeta celebrò, insieme all’αἴτιον delle solennità panelleniche, anche l’ingegnosa abilità con cui il pastore costruiva le trappole per i topi, flagello delle sue magre provviste.
Leone. Statua, marmo bianco pario, 400-390 a.C. ca. New York, Metropolitan Museum of Art.
Allo stesso modo, nel III libro degli Aitia, Callimaco si accinse a narrare la storia dell’antico e nobile γένος degli Acontiadi, collegato alle più remote vicende della città di Iuli, nell’isola di Ceo. Ben presto, però, la fantasia del poeta fu attratta, più che da una ricostruzione erudita, ma forse un po’ arida, dal piacere di raccontare una bella e drammatica storia d’amore, coronata, dopo molte peripezie, dall’immancabile lieto fine: la vicenda di Acontio e Cidippe.
La favola gentile fu trattata da Callimaco con la consueta originalità. Egli non si dedicò tanto a un preciso racconto dei fatti, quanto alla descrizione di ciò che più attraeva la sua fantasia: la straordinaria bellezza dei due protagonisti, la passione immediata e profonda di Acontio, la malattia oscura e crudele di Cidippe, la gioia del sogno d’amore finalmente coronato. A conclusione del racconto, il poeta, desideroso di garantirne ai suoi lettori la veridicità, citò anche la sua fonte, l’opera di Xenomede, uno studioso del V secolo a.C., autore di una storia locale dell’isola di Ceo; in questo modo, Callimaco volle dare risalto non solo alla sua capacità creativa, ma anche alla sua attenta fatica di ricercatore erudito, evidente, per altro, in ogni momento della narrazione.
I Giambi
Sotto questo titolo sono raccolti tredici componimenti in dialetto ionico, caratterizzato da alcuni dorismi, nei quali Callimaco sperimentò vari tipi di versi giambici. Il contenuto e le occasioni delle singole liriche sono assai vari e anche la cronologia non è sempre ben determinabile. Tuttavia, la raccolta trova un motivo di unità nella sua struttura ad anello, poiché la prima e l’ultima composizione hanno come protagonista Ipponatte e sono scritte in giambi scazonti (coliambi), il metro di cui l’antico giambografo del VI secolo fu ritenuto inventore. Nel giambo I, Callimaco immagina infatti che Ipponatte, ritornato dal regno dei morti, perduto ormai interesse alla «guerra» contro Bupalo, il suo odiato avversario, si rivolga ai letterati del Serapeo, perennemente in discordia fra loro, per esortarli alla modestia e alla concordia, con l’edificante storia della coppa di Baticle. Costui, uomo di grandi ricchezze, in punto di morte consegnò al proprio figlio Anfalce una coppa d’oro con l’incarico di consegnarla al più saggio fra i sette sapienti. Il giovane offrì allora il prezioso oggetto a Talete, che, però, lo mandò a Biante, ritenendolo più meritevole. Biante, a sua volta, ne fece dono a Periandro e così via, finché l’ultimo, Cleobulo di Lindos, restituì la coppa a Talete, che la consacrò ad Apollo Didimeo. In questo modo, ciascuno dei sette diede prova di un’umiltà e di un senso della misura che sembrano essere scomparse del tutto dal cuore dei letterati moderni, perennemente rosi dall’orgoglio e dall’invidia.
Anche il giambo II, che ha forma di favola esopica, affronta il tema della polemica letteraria. In esso si narra che un tempo anche gli animali avevano avuto da Zeus il dono della favella; ma poiché ne abusarono con sfacciata petulanza, il dio, irritato, li rese muti e aggiunse le loro voci a quelle che gli uomini già possedevano; per questo motivo Filtone si esprime come un cane ed Eudemo come un asino. Purtroppo, la mancanza di più ampie notizie su questi due personaggi ci impedisce di appurare con certezza la loro identità e di comprendere a fondo il senso dell’ironia di Callimaco.
Banchetto sul fiume. Mosaico, I sec. a.C. ca. dal «Mosaico con scena nilotica». Palestrina, Museo Archeologico Nazionale.
Il giambo III ha carattere morale e contiene un’aspra critica contro la corruzione dei tempi e degli uomini, che preferiscono il denaro alla virtù; di carattere analogo è il giambo V, in cui si rimprovera il comportamento scorretto e violento di un maestro di scuola nei confronti dei suoi allievi.
Il giambo IV riprendeva un tema antichissimo, quello della contesa fra piante. Un esempio di questo tipo di favola compare già nella letteratura assiro-babilonese: ne sono protagonisti la palma e il tamerisco, che, in un vivace battibecco, esaltano ciascuno le proprie qualità. In Callimaco, che afferma di narrare una favola lidia, i contendenti sono l’alloro e l’olivo, che rivendicano ciascuno per sé il primato assoluto; la parte finale del componimento, gravemente mutila, ci impedisce di comprenderne la conclusione.
Da quanto si è detto fin qui, appare evidente come, al di là della forma metrica, la poesia giambica di Callimaco abbia assai poco in comune con l’antico carattere di questo genere letterario; un’ulteriore testimonianza ci viene fornita dagli altri componimenti della raccolta, in cui il poeta trattò argomenti del tutto estranei al giambo tradizionale.
Il giambo VI, ad esempio, è una descrizione (ἔκφρασις) della statua crisoelefantina di Zeus Olimpio, opera di Fidia; i giambi VII, VIII, X e XI hanno invece carattere eziologico: nel VII, la statua stessa di Hermes illustrava una forma particolare del culto del dio, onorato in Tracia con l’appellativo di Perpheraios; nell’VIII si spiegava l’origine di una gara di corsa, attribuendone l’istituzione agli Argonauti; il X narrava le vicende dell’eroe Mopso, per spiegare il motivo per cui, in Panfilia, Afrodite veniva onorata con il sacrificio di un cinghiale. Il rito, infatti, traeva origine dalla promessa fatta da Mopso di offrire alla dea il primo animale che avrebbe ucciso a caccia. Nell’XI, Callimaco ricostruiva l’αἴτιον di un’espressione proverbiale.
Il giambo IX riprende i temi moraleggianti del III e del V, mentre nel XII, classificabile come poesia d’occasione, Callimaco, per festeggiare la bambina dell’amico Leonte, giunta al suo settimo giorno di vita, descrive i doni offerti dagli dèi alla piccola Ebe, la dea della giovinezza, figlia di Era e di Zeus, nella stessa circostanza. Particolarmente significativo è quello di Apollo: il dio della musica e della poesia compone infatti un canto in onore della fanciulla, sicuro che il trascorrere del tempo distruggerà i doni di tutti gli altri dèi, ma non il suo, che è il più bello perché è destinato a durare per sempre. Con queste parole, Callimaco riprende il tema dell’eternità della poesia, già trattato dai lirici del VI secolo (da Saffo, soprattutto), che passerà poi, con largo successo, nella letteratura latina: il celebre incipit oraziano Exegi monumentum aere perennius (Odi III 30) ne è forse l’esempio più noto.
Ragazza che gioca agli astragali. Marmo, 130-150 d.C., Berlin, Antikenmuseum.
Questa varietà di contenuti, in contrasto con le consuetudini ormai consolidate, dovette attirare qualche critica a Callimaco da parte di altri letterati, che avrebbero preferito una più tradizionale unità di argomenti. Ce lo dimostra il giambo XIII, in cui il poeta si difese dall’accusa di πολυείδεια, presentando l’«eterogeneità» dei temi come un pregio e non come un difetto e confermandone la legittimità con l’esempio di Ione di Chio, un versatile poeta amico di Sofocle, vissuto fra il 490 e il 421 a.C., autore di tragedie, ma anche di componimenti epici, elegiaci, lirici e filosofici. Come abbiamo già detto, nel giambo XIII, l’ultimo della raccolta, compariva di nuovo il personaggio di Ipponatte; ma le lacune del testo ci impediscono di comprenderne con chiarezza il motivo e la funzione. Con questa sua produzione, Callimaco iniziò un nuovo genere letterario, detto σπουδογέλοιον, «seriocomico»; la critica moderna lo ha giudicato assai significativo, non solo perché ci offre un’ulteriore dimostrazione del multiforme ingegno del poeta, ma anche perché esso ebbe una notevole risonanza nella letteratura latina. Infatti, nonostante l’affermazione di Quintilianosatura…tota nostra est (Institutio oratoria X 1, 93), si è ormai giunti alla convinzione che Callimaco abbia contribuito, insieme ai giambografi del VI secolo a.C. e alla commedia antica, a offrire temi e modelli alla poesia satirica latina e al genere letterario della satura, che da lui assimilò il carattere composito dei contenuti e la tendenza a esprimere concetti di elevata e perfino severa moralità con piglio disinvolto e faceto.
Serapide. Tavola, affresco, II-III sec. d.C. dall’Egitto.
Le poesie liriche
Callimaco compose anche un certo numero di poesie liriche, in cui compaiono, ancor più accentuate, quelle caratteristiche di raffinatezza formale e di ricercata varietà del metro che già si notano nella produzione giambica. A quanto pare, egli non le raccolse in un corpus a parte, distinto dalle altre opere; perciò, nel volumen che servì a un ignoto grammatico del I secolo come fonte per le διηγήσεις del Papiro Milanese 18, queste liriche sono inserite dopo gli Aitia e i Giambi.
La prima di esse era composta in endecasillabi faleci, il metro che diverrà così caro a Catullo; ne rimangono soltanto l’incipit e l’argomento, dal quale si può comprendere che il poeta cantava la storia delle donne dell’isola di Lemno, assassine dei loro uomini.
La seconda lirica era intitolata Παννυχίς, «festa notturna», ed era composta in un metro asinarteto spesso usato da Euripide, formato da un dimetro giambico unito a un verso itifallico; l’argomento ci informa che, nella parte centrale, il carme trattava le vicende dei Dioscuri e di Elena.
La terza composizione, della quale rimangono interi poco più di venti versi, era la già ricordata Apoteosi di Arsinoe, scritta poco dopo la morte della sposa di Tolemeo II Filadelfo, avvenuta nel 270 a.C. In essa il poeta dava ancora una volta prova di rara erudizione, usando un metro anapestico piuttosto inconsueto, l’archebuleo; il contenuto era caratterizzato da toni alti e patetici, soprattutto nella descrizione del lutto che aveva colpito le città d’Egitto per la morte della regina.
Arsinoe II con le fattezze di Iside-Selene. Busto, marmo, III secolo a.C. ca. Paris, Musée du Louvre.
Nel quarto carme, di cui restano circa dieci versi, in pentametri coriambici catalettici, Callimaco cantava il mito di Branco, un bellissimo pastorello di Mileto amato da Apollo, che aveva avuto dal dio il dono della profezia, trasmesso poi a tutti i suoi discendenti, la casta sacerdotale dei Branchidi.
A questi quattro componimenti lirici se ne possono aggiungere alcuni altri, di varia estensione, dei quali è rimasta traccia nei reperti papiracei e nella tradizione indiretta. Uno di essi, intitolato Γραφεῖον («Lo stilo», con cui si incidevano le parole sulla superficie cerata delle tavolette), era composto in distici elegiaci e, a quanto ci è dato sapere, trattava dello stile pungente e aggressivo della poesia satirica di Archiloco.
Berenice II. Alessandria d’Egitto, post 241 a.C. ca. Emidramma, AV 2, 13 g. Obverso: ΒΕΡΕΝΙΚΗΣ-ΒΑΣΙΛΙΣΣΗΣ, cornucopia, diadema e stella (simbolo dei Dioscuri).
L’Ecale
Questo poemetto in esametri è la prima testimonianza sicura di un nuovo genere letterario, l’epillio (ἐπύλλιον). Prima di Callimaco, il termine fu usato da Aristofane con il valore di «piccolo verso» e, in seguito, dal retore Ateneo, nel III secolo d.C., con il significato di «poemetto epico» di breve lunghezza, in cui predominano aspetti descrittivi o contenuti amorosi, piuttosto che storie di dèi e di eroi. Con questo tipo di composizione, Callimaco volle dimostrare la possibilità di una poesia diversa e più adatta ai mutati gusti del pubblico, scegliendo un argomento poco noto e sviluppandolo con grande perizia formale, oltre che con la consueta originalità e autonomia dalla tradizione. Il poemetto, che in origine doveva constare di un migliaio di versi (forse anche meno), ci è noto attraverso numerosi frammenti di varia estensione e attraverso le διηγήσεις del già citato Papiro Milanese 18. In esso Callimaco raccontava un’impresa di Teseo, la cattura del Toro di Maratona.
Sfuggito alle insidie di Medea, la terribile maga della Colchide divenuta moglie di Egeo, allora re di Atene, Teseo era tenuto sotto strettissima sorveglianza dal genitore, che temeva per la sua vita. L’eroe, però, eluso il controllo del padre, si mise in viaggio per affrontare il Toro di Maratona, un animale gigantesco e feroce che desolava la regione. Sorpreso dalla sera e da un violento temporale, Teseo fu costretto a chiedere ospitalità in un casolare, appartenente a una vecchia contadina, Ecale. Ella accolse cortesemente l’eroe e lo ricolmò di affettuose premure, offrendogli il meglio delle sue povere provviste. Dopo aver trascorso la notte in piacevole conversazione, l’eroe ripartì al sorgere dell’alba. In seguito, catturato e domato il terribile toro, Teseo ritornò dalla sua ospite per ringraziarla e per rassicurarla sul felice esito dell’impresa. Purtroppo, Ecale nel frattempo era morta; a Teseo, addolorato per la sua scomparsa, non restò che onorarne la memoria dando alla località il nome di Ecale e fondandovi un tempio dedicato a Zeus Ecalesio, con una festività annuale, in cui aveva luogo una gara di corsa.
Il poemetto, che ha carattere eziologico, testimonia l’erudizione di Callimaco non solo nella scelta dell’argomento, ma anche nei sottili collegamenti che legano il mito di Teseo a quello di Eracle, trattato nell’Epinicio per Berenice. Sappiamo infatti che per gli antichi le due figure di Eracle, di origine dorica, e di Teseo, l’eroe attico per antonomasia, erano contrapposte e complementari, come dimostra anche il fatto che si dicessero l’uno nato da Zeus, il dio del cielo, e l’altro da Poseidone, il signore del mare. Fra le fatiche di Eracle è compresa la cattura del toro di Creta; ma l’animale, una volta raggiunta l’Ellade, sfuggì all’eroe o fu liberato da lui, trovando dimora nelle campagne di Maratona, dove poi fu nuovamente catturato, questa volta da Teseo. Inoltre, il racconto dell’ospitalità offerta a Eracle da Molorco, che rappresenta una digressione descrittiva nella struttura dell’epinicio, appare molto simile, come intenti e come toni, al brano dell’epillio in cui Callimaco si sofferma a descrivere il povero casolare di Ecale, i vari utensili domestici, i rustici ma gustosi cibi da lei imbanditi all’eroe; un mondo semplice e sereno, contemplato con nostalgia dal cittadino di una grande e raffinata metropoli, che però rimpiange talvolta un genere di vita duro e povero, ma di più umana misura.
La “Vecchia mercantessa” (Old Market Woman). Dettaglio del volto. Statua, copia romana di età Giulio-Claudia da originale ellenistico di II sec. a.C. New York, Metropolitan Museum of Art.
Oltre all’Ecale, Callimaco aveva composto anche un altro epillio in esametri, la Galatea, di cui restano un frammento e la διήγησις. In esso, il poeta narrava il mito della Nereide Galatea e di suo figlio Galato, capostipite del popolo dei Galati, gli stessi che, nel 278 a.C., si spinsero fino all’Ellesponto, con un’impresa che colpì vivamente i contemporanei e che avrebbe potuto fornire al poeta lo spunto per la sua opera. Se così fosse, la Galatea sarebbe da considerare una delle opere giovanili di Callimaco.
Gli Inni
Dell’opera di Callimaco fanno parte anche sei inni, di varia estensione, metro e lingua; i primi quattro, infatti, furono composti in esametri e in dialetto epico ionico; il quinto è in distici elegiaci, con una coloritura dorica di carattere spiccatamente letterario, che richiama assai da vicino il linguaggio di un altro grande poeta ellenistico, Teocrito. Callimaco si servì dello stesso dialetto anche nell’ultimo inno, che, però, è in esametri. Tali deviazioni dagli aspetti tradizionali del genere non devono però stupirci, perché non fanno altro che confermare un carattere della poetica callimachea, la πολυείδεια, a cui abbiamo prima accennato. Gli Inni devono essere considerati composizioni letterarie, non cultuali; e se anche alcuni di essi, come il primo, il terzo e il quarto, conservano un’impostazione che richiama l’innografia omerica, essi furono destinati certo alla recitazione, forse in ambiente simposiale. Ciò si può dedurre dalla struttura del secondo, del quinto e del sesto, che hanno carattere espositivo, con un narratore che si rivolge al pubblico, durante lo svolgimento di un rito. Questa particolarità ha indotto alcuni studiosi a stabilire un raffronto con Teocrito, tentando di ricavarne anche delle indicazioni per la datazione, che si rivela però un problema piuttosto difficile. È certo infatti che gli Inni vennero composti in un arco di tempo assai lungo; elementi interni ad essi ci permettono di stabilire che il più antico è l’inno A Zeus, databile forse fra il 283 e il 280 a.C., mentre il più tardo è quello Ad Apollo, che potrebbe risalire al periodo fra il 258 e il 247 a.C. Un accenno all’invasione dei Galati (274 a.C.) e all’apoteosi di Tolemeo Filadelfo, scomparso nel 246, ci sono utili per datare l’inno A Delo; per gli altri tre, purtroppo, non abbiamo indicazioni sufficienti.
Il contenuto degli Inni presenta un’evidente fusione di antico e di nuovo; insieme a tracce della remota tradizione rapsodica compaiono aspetti tipici della cultura ellenistica: alla celebrazione degli dèi si affianca quella del sovrano, considerato come il protagonista di sfarzose cerimonie di gusto più orientale che greco; il mondo divino è descritto con una certa vena umoristica, che ha dei precedenti in Omero (Odissea VIII 266 sgg.), come il racconto boccaccesco ante litteram degli amori di Ares e Afrodite, sorpresi da Efeso, imprigionati in una rete ed esposti al ludibrio degli altri dèi. Ma in Callimaco compare anche il gusto per la descrizione precisa e concreta, per il particolare prezioso o quotidiano, assolutamente assente nella tradizione più antica; di conseguenza, la vita degli dèi si colora, nei versi nel nostro poeta, di toni molto più umani e “borghesi”, mentre sarebbe inutile cercarvi sentimenti di autentica religiosità, ormai estranei al mondo alessandrino.
Tolomeo III Evergete, Alessandria d’Egitto, 245-222 a.C. ca. Emidramma, AE 35, 46 g. Recto: Testa diademata e barbata di Zeus-Ammone, voltata a destra.
L’inno I, A Zeus, sembra riprendere, all’inizio, schemi tradizionali, narrando la nascita e l’infanzia di Zeus con forme e linguaggio di stampo epico, a cui si unisce però la tendenza a digressioni descrittive del tutto nuove. Così, quando il poeta racconta come Rea, dopo aver partorito Zeus, cercasse invano dell’acqua per purificarsi e per lavare il neonato, la sua attenzione si sofferma a lungo, con erudizione, ma anche con vivo realismo, sull’arido paesaggio dell’Arcadia, che non ha ancora ricevuto dal grembo di Gea il dono delle acque. Prima che Rea colpisca con lo scettro il fianco sassoso del monte, per farne scaturire le impetuose fiumane prigioniere nelle viscere della terra, l’occhio del poeta coglie tutti i particolari dell’ambiente desolato dalla calura: i lecci dalle chiome disseccate dalla siccità, i segni lasciati dalle ruote dei carri nella polvere delle vie, le petraie assolate popolate di serpi, il viandante sitibondo che cerca ansiosamente un filo d’acqua, ignorando che, sotto i suoi piedi, nel seno profondo della terra, ne scorrono rapinosi torrenti. La dimensione temporale del racconto è quella arcaica del mito; ma la descrizione del paesaggio prende spunto da un’esperienza concreta, che ci richiama alla mente l’ardente estate mediterranea già descritta da Esiodo e da Alceo. Ma l’infanzia di Zeus, allattato dalla capra Amaltea e affidato da Rea alle Ninfe, fu di breve durata; divenuto precocemente adulto, il giovane dio spartì con giustizia il potere con i suoi fratelli maggiori e assegnò a tutti gli altri dèi il controllo sulle attività umane, riservando per sé solo il compito di proteggere i re, «perché non c’è niente di più divino dei sovrani, stirpe di Zeus» (Inni I, 79-80). A questo punto, all’esaltazione della potenza di Zeus si ricollega l’omaggio a Tolemeo Filadelfo, esempio terreno di regalità, che il dio supremo ha voluto subito mettere alla prova, per saggiarne le capacità. Quest’allusione, prima di qualunque tono servile o bassamente adulatorio, permette di datare l’inno con una certa sicurezza al 283 o al 282 a.C., quando Tolemeo, appena salito al trono, dovette fronteggiare la ribellione provocata dai suoi fratelli maggiori e quando forse Callimaco non era ancora stato accolto a corte; si tratterebbe perciò del più antico fra gli Inni.
Statua di Apollo. Marmo, copia romana del II secolo d.C. da un originale ellenistico, da Cirene. British Museum.
L’inno II, Ad Apollo, può invece essere considerato il più tardo della raccolta, perché è databile agli anni in cui Cirene ritornò sotto il potere dei Tolemei, con le nozze fra Berenice e Tolemeo III Evergete. In esso, Callimaco, dopo aver esaltato il dio e i suoi benefici nei confronti dell’umanità, secondo gli schemi dell’innologia sacra, lo celebra con l’epiteto Κάρνειος, che il poeta considera «avito», perché tipico della città di Cirene, fondata dal suo antenato Batto proprio per volere del dio. Ma oltre a questa allusione alle glorie di famiglia, l’inno contiene un altro importante accenno autobiografico, che abbiamo già preso in esame: la scena finale in cui l’Invidia, che sussurra all’orecchio di Apollo calunnie contro il poeta, viene sdegnosamente allontanata dal dio con un calcio; il tono è analogo a quello dell’Elegia contro i Telchini, che, come abbiamo visto, appartiene agli anni senili del poeta.
Statua di Artemide. Bronzo, IV secolo a.C. ca. Museo Archeologico del Pireo.
L’inno III, Ad Artemide, è uno dei più estesi e anche dei più vari nel contenuto, tanto da sembrare privo di unità; ma questa caratteristica, presente anche negli Aitia, ci fa supporre che Callimaco abbia scelto deliberatamente tale struttura, nel desiderio di sperimentare una nuova tecnica narrativa, applicandola a un genere letterario così antico. L’inno è databile solo approssimativamente al periodo centrale dell’attività di Callimaco (forse dopo il I libro degli Aitia). Fra i passi degni di nota per l’erudizione, possiamo ricordare un accenno al mito di Eracle e Teodamante, in polemica con il modo in cui l’aveva trattato Apollonio Rodio, e uno sfogo di preziosa dottrina nella parte finale del componimento, in cui compare un elenco di luoghi e personaggi legati al culto di Artemide, forse un po’ troppo lungo e monotono per il nostro gusto. Al contrario, ci attraggono per la loro grazia e la loro perfezione formale alcune scenette, in cui il poeta descrive con una straordinaria freschezza l’infanzia di Artemide. All’inizio, il poeta ci mostra la dea, ancora bambina, mentre cerca di convincere il padre ad accontentare i suoi desideri, standogli seduta sulle ginocchia e accarezzandogli il volto, e, anche se questo padre è Zeus, il dio supremo ci appare come un qualunque genitore affettuoso, schiavo delle moine della figlioletta e assolutamente incapace di rifiutarle qualche cosa (Inni III, 4-40). D’altra parte, che Artemide sia una bambina decisa e capace di ottenere tutto ciò che vuole, lo dimostra il suo comportamento di fronte ai Ciclopi che devono fabbricarle l’arco e le frecce. Ben lontana dall’essere spaventata dai mostruosi giganti monocoli, che le altre dee minacciano di chiamare per intimorire i loro figli quando fanno i capricci, la piccola si arrampica sulle ginocchia poderose di uno di essi, Bronte, e aggrappandosi con le manine al folto pelo che copre il petto del Ciclope, ne strappa un ciuffo lasciandogli per sempre una chiazza depilata al centro del torace (Inni III, 72-86). In questo modo, Callimaco offre un magistrale esempio del gusto alessandrino, temperando la solennità del tema con un garbato umorismo; ne è riprova la scena in cui Eracle, perennemente affamato, esorta la futura cacciatrice a non perdere tempo con piccole prede, ma a dedicare la sua attenzione soltanto a cinghiali e a tori, suscitando così il riso di tutti gli dèi, che ben conoscono il formidabile appetito del fortissimo eroe (Inni III, 144-157).
Guerriero galata. Statuetta, terracotta, 200 a.C. ca. dall’Egitto.
L’inno IV, A Delo, il più ampio di tutti, riprende all’inizio un tema già trattato nell’inno omerico Ad Apollo Delio. In esso si narra che, quando Latona stava per partorire, nessuna delle terre voleva accoglierla, per timore della vendetta di Hera, gelosa della rivale. Questa parte iniziale del mito offre a Callimaco l’opportunità per un’ampia digressione geografica, che evoca agli occhi del lettore un vasto quadro di paesaggio, delineato con grande novità espressiva, oltre che con profonda erudizione. Infine, Latona, disperatamente in cerca di un rifugio che il mondo intero sembra negarle, giunge all’isola di Cos; e qui avviene il più straordinario dei miracoli: Apollo, ancora chiuso nel seno materno, fa sentire la sua voce profetica, dando così prova di una precocità superiore a quella di qualunque altro dio. Prima di Callimaco, il tema della precocità divina era stato trattato solo nell’inno omerico A Hermes, ben noto e assai apprezzato dai lettori ellenistici. In questo modo, il poeta entrò in competizione con il suo illustre modello e se ne distaccò, sviluppando l’argomento in modo completamente diverso. Apollo, infatti, consiglia alla madre di non fermarsi a Cos, perché non è conveniente che egli venga alla luce in quell’isola, che pure è fertile e bella; «ma un altro dio le Moire destinano a lei [sc. a Cos], / eccelsa prole di dèi Salvatori» (Inni IV, 165-166), che governerà fino all’estremo Occidente, dove a sera riposano i cavalli del Sole. La profezia di Apollo continua alludendo all’invasione dei Celti, designati qui con il nome di “Galati”, che la Grecia dovette fronteggiare intorno al 280 a.C. Questi popoli, emigrati verso sud in cerca di nuove terre, attaccarono dapprima la Macedonia, uccisero in battaglia il re Tolemeo Cerauno e dilagarono poi nel cuore dell’Ellade. Le loro orde giunsero in prossimità del santuario di Delfi, probabilmente con l’intenzione di spogliarlo dei ricchissimi doni votivi; ma furono respinti dagli Etoli. Questo accenno permette una datazione abbastanza precisa dell’inno; e l’invenzione poetica della profezia apollinea a proposito dell’isola di Cos, mentre contribuisce, in quanto parola divina, a dare un tono di ineludibile verità al presagio della futura grandezza di Tolemeo, ne attenua al tempo stesso il tono evidentemente encomiastico.
Statua della cosiddetta «Atena Farnese». Copia romana dall’originale di Pirro, della scuola fidiaca, V secolo a.C. Museo Archeologico Nazionale di Napoli.
L’inno V, Per i lavacri di Pallade, è scritto in distici elegiaci e non presenta alcun elemento interno che possa permettere una collocazione cronologica anche approssimativa. Oltre ad avere una metrica inconsueta per un inno, questo componimento è anche un esempio di poesia «mimetica», una forma innovativa portata a perfezione da Callimaco e da Teocrito, che conferisce all’inno la struttura di un discorso diretto, pronunciato dai protagonisti di un cerimonia rituale. In questo caso, il poeta rievoca la festa annuale di Pallade Atena ad Argo, durante la quale la statua della dea viene posta su un carro e portata a bagnarsi nelle acque del fiume Inaco. La voce narrante è quella di un banditore sacro, che invita le devote e dà loro istruzioni per il rito. Poiché l’apparizione della statua della dea rappresenta un’autentica epifania, nessun occhio maschile si deve posare sul suo simulacro, immerso nel bagno rituale; perciò, affinché nessun uomo sia tentato di cedere a una curiosità sacrilega, l’araldo narra il mito di Tiresia.
Un giorno, Pallade e la ninfa tebana Cariclo, sua inseparabile compagna e madre di Tiresia, vollero trovare sollievo alla calura pomeridiana, bagnandosi nelle fresche acque della fonte Ippocrene; Tiresia raggiunse quel luogo sacro per dissetarsi:
75 Τειρεσίας δ᾽ ἔτι μῶνος ἁμᾶ κυσὶν ἄρτι γένεια
περκάζων ἱερὸν χῶρον ἀνεστρέφετο·
διψάσας δ᾽ ἄφατόν τι ποτὶ ῥόον ἤλυθε κράνας,
σχέτλιος· οὐκ ἐθέλων δ᾽ εἶδε τὰ μὴ θεμιτά.
Ma ancora Tiresia solo coi cani, la guancia appena da barba
scurita, si aggirava per il luogo sacro;
mosso da sete indicibile giunse alle acque della fonte,
sciagurato: e, senza volerlo, vide la proibita visione[4].
Pallade Atena, adirata, alza un grido; una tenebra improvvisa, profonda come la notte, cade sugli occhi di Tiresia, che rimane immobile e muto. Ma sua madre Cariclo, disperata per il destino del figlio, invoca pietà dalla dea, che le ha finora dimostrato affetto e amicizia. Atena, pur senza mutare la legge irrevocabile che condanna alla cecità l’uomo che posi gli occhi su una nudità divina, si lascia impietosire e promette a Cariclo che suo figlio sarà compensato della perdita della vista con il dono della profezia. I suoi occhi mortali saranno ciechi per sempre, ma egli avrà la capacità di comprendere il misterioso linguaggio dei segni mandati dagli dèi, vivrà una vita lunghissima e conserverà le sue capacità di veggente anche dopo la morte.
L’inno, dunque, sviluppa anche il tema eziologico, caro a Callimaco; ma quello che maggiormente colpisce la nostra attenzione è la straordinaria capacità di suggestione che emana dai versi centrali dell’inno: la profonda calma meridiana, l’acqua della fonte, la quiete suprema che domina la montagna evocano nella fantasia del lettore un paesaggio carico di sacro mistero, in cui il sovrumano silenzio prelude a un’epifania divina, inviolabile dall’occhio umano. L’avventura di Tiresia è delineata in pochissimi versi, con tratti di una sobrietà scarna e stupendamente efficace: la visione involontaria, il grido di Pallade, l’improvvisa notte che piomba sugli occhi del giovane, suggellandovi per sempre l’immagine della dea; poi, l’immobilità di Tiresia e il suo silenzio, che lo assimilano all’incanto del paesaggio. Dopo questo momento di altissima poesia, l’inno riprende il suo ritmo più discorsivo e disteso, fino al commiato finale, quando la statua della dea, terminata la cerimonia, si appresta a far ritorno nel tempio, in mezzo alla schiera delle sue fedeli.
Iside-Demetra con spiga e scettro. Stele con rilievo, III-II sec. a.C. ca. dal Tempio di Iside. Dione, Museo Archeologico.
L’inno VI, A Demetra, è anch’esso un saggio di poesia «mimetica»; come nel precedente, la voce narrante è quella di un addetto alla cerimonia sacra, che si rivolge alle fedeli della dea, in attesa di celebrare le Tesmoforie dopo un giorno di digiuno rituale. Dopo il preludio, in cui si indicano alle donne le prescrizioni da seguire, mentre aspettano che giunga la processione della dea, il narratore inizia il racconto delle affannose peregrinazioni di Demetra in cerca di sua figlia Persefone, rapita da Hades. Ma la triste rievocazione delle pene della dea si chiude quasi subito: tutta la parte centrale dell’inno, che non è fra i più estesi, è dedicata al mito di Erisictone, l’eroe tessalo, figlio di re Triopa, che, per aver tentato di abbattere un bosco sacro a Demetra, fu punito da lei con una fame insaziabile. Il giovane intendeva usare il legname degli alberi consacrati per costruirsi una sala da banchetto nel suo palazzo; ma non appena ebbe vibrato il primo colpo d’ascia contro il tronco di un altissimo pioppo, la pianta emise un doloroso grido, che giunse alle orecchie della dea. Demetra, allora, assunte le sembianze di un’anziana sacerdotessa, cercò di distogliere Erisictone dal suo proposito; ma l’eroe la trattò con prepotenza e disprezzo, minacciando di colpirla con l’ascia, se avesse continuato a importunarlo. Allora Demetra riprese il suo vero, terribile aspetto e condannò il giovane sacrilego a essere tormentato implacabilmente dalla fame e dalla sete.
A questo punto, la funzione eziologica dell’inno sarebbe già compiuta, perché la punizione di Erisictone si ricollega, per contrasto, al digiuno rituale delle fedeli della dea, ormai giunta al termine. Ma Callimaco sente ancora il bisogno di dare libero sfogo alla sua fantasia e alla sua straordinaria capacità fabulatoria; il poeta, così sobrio e incisivo nel narrare l’avventura di Tiresia, cede qui al piacere del racconto. Erisictone è un principe di sangue reale e i suoi familiari non vorrebbero che il suo stato recasse loro disonore agli occhi dell’intera città; perciò, tentano in ogni modo di tener nascosta la sua terribile disgrazia, adducendo le più varie giustificazioni per le assenza del principe.
L’insaziabile voracità di Erisictone lo spingerà, dopo aver divorato tutte le scorte della reggia, a elemosinare il cibo per strada, rendendo così manifesta a tutti la sua terribile punizione.
Callimaco descrive la pena dell’eroe senza suscitare alcun senso di orrore religioso, ma inserendola nel contesto quotidiano di una realtà familiare, in cui essa crea umanissimi sentimenti di disagio e di vergogna. L’inno si chiude con un’invocazione a Demetra, perché conceda alle sue fedeli abbondanza e felicità.
Tolomeo III Evergete, Alessandria d’Egitto, 245-222 a.C. ca. Emidramma, AE 35, 46 g. Obverso: ΠΤΟΛEMAIOY- BAΣΙΛΕΩΣ, Aquila stante verso sinistra, sopra un fascio di saette, una cornucopia e il diadema reale.
Gli Epigrammi
La produzione poetica di Callimaco comprende anche un corpus di oltre sessanta epigrammi di vario argomento e di diversa estensione (dal monodistico, formato da due soli versi – un esametro e un pentametro – alla breve elegia), di cui non è possibile stabilire una cronologia interna, benché alcuni di essi contengano riferimenti storici o autobiografici. In base all’argomento trattato, essi possono essere suddivisi in quattro categorie: epigrammi funerari, votivi, erotici e letterari. Grazie a essi, Callimaco occupò una posizione di preminenza nell’ambito della prima generazione dei poeti appartenenti alla cosiddetta scuola ionico-alessandrina, per lo stile raffinato, la grazia elegante, la capacità di esprimere sia il pathos sincero che l’omaggio garbato, senza cadere mai in toni lacrimevoli o servili.
Gli epigrammi più interessanti per noi sono forse quelli letterari, in cui compaiono accenni alla poetica dell’autore, che arricchiscono e completano quelli presenti in altre opere. Grazioso e significativo, a questo proposito, l’epigramma I, Anthologia Palatina VII, 89, che ha come protagonista Pittaco, uno dei sette sapienti già ricordati nel giambo I. Il saggio vegliardo, mentre siede tranquillo in una piazzetta nella quale alcuni bambini giocano con le trottole, vene interrogato da un giovanotto in procinto di sposarsi. Poiché gli sono state offerte due possibilità, quella di unirsi a una ragazza ricca e di condizione sociale superiore alla sua, e quella di prendere in moglie una fanciulla di rango più modesto e di mezzi pari a quelli del futuro marito, il giovane vorrebbe conoscere l’opinione di Pittaco, prima di impegnarsi con l’una o con l’altra. Ma, mentre il saggio sta per rispondere, uno dei bambini, vedendo che un suo compagno sta per colpirgli la trottola, gli grida: τὴν κατὰ σαυτὸν ἔλα («Prendi quella alla tua portata!». Pittaco, allora, invita il giovane a considerare le parole del fanciullo come la risposta giusta ai suoi dubbi. Lo spirito della favoletta è simile a quello dei Giambi; e la critica è concorde nel riconoscere in essa un’ulteriore riconferma delle scelte letterarie e stilistiche di Callimaco, ben consapevole di ciò che si adattava maggiormente alla sua vena poetica.
Alla categoria degli epigrammi letterari di contenuto encomiastico appartiene il LI, scritto probabilmente dopo il 246 a.C., quando si celebrarono le nozze fra Tolemeo III Evergete e Berenice, figlia di Megas. Alludendo a una statua che raffigurava la giovane e bella sovrana, Callimaco afferma, con elegante omaggio cortigiano, che le Cariti ormai non sono più tre, ma quattro e senza la quarta «neanche le Cariti stesse sarebbero Cariti».
La stessa sorridente finezza toglie ogni senso del dramma alle sofferenze d’amore e riduce il rapporto fra innamorati a un gioco di schermaglie e di ripicche, in cui il rifiuto o l’abbandono possono causare malinconia, ma non certo profonde crisi esistenziali. Ne è esempio l’epigramma LXIII, dedicato a una ragazza di nome Conopio («Zanzaretta»), che sa essere pungente e dispettosa come il suo nome:
Ragazza in fuga. Parte della decorazione acroteriale, pietra locale, dalla Casa Sacra di Eleusi.
Il tema è quello del παρακλαυσίθυρον (il «lamento dell’amato presso la porta chiusa»), caro ai poeti erotici alessandrini e destinato a grande fortuna nella poesia lirica latina. La raffinatezza formale, evidenziata dall’insistito gioco delle anafore (vv. 1 e 3, 4-5), dà alla breve lirica un tono di elegante intellettualismo, assolutamente privo di dramma. Anche l’accenno finale all’inesorabile vicinanza della vecchiaia – un topos in questo genere di letteratura – esprime qui soltanto una ripicca un po’ stizzosa, unica possibilità di rivincita dell’amante respinto, non certo l’angosciosa premonizione della caducità della gioventù, della bellezza, dell’amore e della vita stessa, che rende così intense le poesie di Mimnermo.
Ma questa poesia tanto leggera e sorridente può anche trovare le espressioni più pure e intense di una mestizia raccolta e dignitosa, come accade in alcuni epigrammi sepolcrali, a cui la brevità conferisce un più profondo senso di composto dolore:
Δωδεκέτη τὸν παῖδα πατὴρ ἀπέθηκε Θίλιππος
ἐνθάδε, τὴν πολλὴν ἐλπίδα, Νικοτέλην.
Dodicenne il bambino ha qui deposto il padre Filippo,
Una fortuna grandissima, dall’antichità ai giorni nostri
Dopo Omero e Menandro, Callimaco è forse il poeta greco che ha avuto più fortuna, dall’antichità ai giorni nostri. Nella letteratura latina arcaica, Ennio si ispirò al proemio degli Aitia per comporre quello degli Annales, in cui, con evidente riferimento al testo callimacheo, narra che Omero gli apparve in sogno sul monte Parnaso. Anche il genere letterario dell’epillio, ripreso da Mosco, un poeta siracusano della seconda metà del II secolo a.C., ebbe una straordinaria fortuna: i maggiori fra i poetae novi, come Elvio Cinna, Licinio Calvo e lo stesso Catullo (Carmen LXIV) si ispirarono a esso; a Catullo appartiene anche la già ricordata versione della Chioma di Berenice.
In età augustea, il poeta elegiaco Properzio considerò titolo d’onore essere definito «il Callimaco romano» e anche Orazio, Ovidio (il personaggio di Bauci, Metamorphoseon VIII, 620 sgg. si ispira a quello di Ecale) e lo stesso Virgilio si rifecero speso a temi della poesia e della poetica callimachee; perfino la Ciris, poemetto di non sicura attribuzione, che apparterrebbe agli anni giovanili di Virgilio, risente di questa influenza. Dell’importanza di Callimaco per comprendere a fondo tono e contenuto della satira latina si è già parlato.
Tuttavia, ancora più notevole della sua influenza diretta di questo autore, fu quella esercitata per molti secoli dal suo canone stilistico: della subtilitas callimachea e delle sue continue esortazioni al labor limae fecero tesoro non solo la letteratura latina, ma anche la letteratura italiana rinascimentale e neoclassica. Agnolo Poliziano, nella Giostra, e Ugo Foscolo, nelle Grazie, ebbero senza dubbio presenti il testo e lo stile del poeta cirenaico che, in tempi più vicini a noi, non mancò di ispirare anche Pascoli (Poemi conviviali) e D’Annunzio (Alcyone) con la sua elegante preziosità, frutto di erudizione e di attenta ricerca filologica.
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Note:
[1] Callim. Aitia IV, fr. 110 Pf., 47-56, tr. G.B. D’Alessio.
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