L’Historia Augusta

L’Historia Augusta, secondo il filologo svizzero Isaac Casaubon (1559-1614), o Vita diversorum principum et tyrannorum, secondo il titolo tràdito dai manoscritti, è una raccolta di trenta biografie di imperatori dal II al III secolo, da Adriano a Numeriano (117-284), con lacune per gli anni 244-260. L’opera non comprende solo i profili degli Augusti, ma anche quelle che gli studiosi hanno definito «vite sussidiarie», brevi biografie o di eredi designati o di usurpatori (tyranni): una serie di notizie che rende l’Historia Augusta un testo di importanza fondamentale per le attuali conoscenze del periodo fra il II e il III secolo, su cui scarso è l’apporto di altre fonti. In effetti, si tratta di una delle opere tra le più curiose della tarda antichità tanto per il suo carattere di enigma letterario quanto per il suo peculiare contenuto, che mescola spudoratamente verità e invenzione.

Un letterato nel suo studio. Rilievo, marmo, III-IV sec. d.C. Roma, Museo della Civiltà romana.

L’Historia Augusta presenta, infatti, una serie di problemi assai intricati, in modo particolare in merito ad attribuzione e a datazione, tutte questioni che secoli di dibattito critico non hanno risolto e che ancora giacciono sostanzialmente aperte (Johne 1976). Per quanto riguarda la datazione, nel suo insieme la raccolta si presenta composta tra la fine del III e gli inizi del IV secolo, se non altro per la serie di dediche e apostrofi rivolte in più luoghi a imperatori da Diocleziano a Costantino (cfr. S.H.A. Clod. 1, 1; 3, 1; Aurel. 44, 5). L’altra vexata quaestio filologica riguarda la paternità della raccolta, perché le varie biografie figurano scritte da sei distinti autori, non altrimenti noti: Elio Sparziano, Giulio Capitolino, Volcacio Gallicano, Trebellio Pollione, Elio Lampridio, Flavio Vopisco. Non pochi indizi hanno fatto supporre che la redazione appartenga a un’età successiva, in quanto i presunti biografi rivelano conoscenze inconciliabili con l’epoca alla quale dichiarano di appartenere. Per questo e per altre contraddizioni, si è fatta strada nel tempo l’ipotesi che i sei nomi siano del tutto fittizi e che l’opera sia stata composta in epoca più tarda, probabilmente da un unico autore, un falsario che grazie all’anonimato sperava di rendere più attraenti i suoi scritti. Altri hanno preferito un’ipotesi intermedia e cioè che qualcuno, nella seconda metà del IV secolo, abbia ripreso e rielaborato biografie originariamente redatte in età dioclezianea e costantiniana (Dessau 1889; contra Mommsen 1890; Lippold 1991; 1998). L’orientamento tradizionalista e anticristiano dell’opera ha fatto comunque propendere per una datazione agli anni di Giuliano (361-363) o ai primi anni d’impero di Teodosio (379-395), momenti in cui si ebbe una breve ma intensa ripresa pagana; altri ancora hanno pensato addirittura al V o al VI secolo (cfr. Baynes 1926; Hartke 1940; 1951; Straub 1963).

P. Licinio Egnazio Gallieno. Busto, marmo, 261 d.C. ca. Bruxelles, Musée Royal

Dal punto di vista ideologico, chi ha composto le biografie doveva essere di estrazione senatoria: infatti, gli imperatori sono valutati positivamente o negativamente in base alla loro condotta nei confronti del venerando consesso. Così, per esempio, Massimino Trace (235-238), che si oppose al latifondo e si batté contro l’evasione fiscale dell’élite senatoria africana, è raffigurato come una «belva crudelissima», brutale, ignorante e ingorda, solo muscoli e niente cervello; Gallieno (253-268), invece, che escluse i senatori dalla carriera militare, è presentato come un lussurioso, un uomo disonesto e incapace: «Regge lo Stato con la competenza dei bambini quando giocano a fare gli imperatori» (S.H.A. Gall. 10, 2). Diversamente, il filosenatorio Severo Alessandro (222-235) è descritto come un principe modello, idealizzato al punto che il suo profilo apparve ad Edward Gibbon una «goffa imitazione della Ciropedia». Al contrario, le biografie di Commodo, Caracalla, Elagabalo sono un vero e proprio «museo degli orrori».

Dal punto di vista stilistico, la narrazione è condotta in modo piano e monotono, «giornalistico» e sciattamente cronachistico. Sul piano contenutistico, l’opera è piena di incongruenze, esagerazioni macroscopiche su particolari secondari, che fanno perdere il punto di vista sui maggiori problemi storici; presenta molte profezie post eventum, fastidiosi pettegolezzi e notizie certamente false, al punto che qualcuno l’ha intesa come una parodia della storiografia ufficiale. Inclini alla curiosità aneddotica, queste biografie sono state considerate la degenerazione del modello svetoniano, al quale intendono riallacciarsi (forse sono andati perduti la prefazione e i ritratti di Nerva e di Traiano, che avrebbero continuato il De vita Caesarum; cfr. (S.H.A. Max. Balb. 4, 5; Prob. 2, 7; Quatt. tyr. 1, 1-2). Anche lo schema compositivo è lo stesso dei ritratti di Svetonio: esposizione cronologica fino all’assunzione del potere imperiale e, nella fase successiva, per categorie tematiche (per species).

C. Vibio Treboniano Gallo. Statua, bronzo, III sec. da Roma. New York, Metropolitan Museum of Art.

Fine prevalente dell’opera, a onta delle dichiarazioni di documentazione rigorosa (conscientia, fidelitas, diligentia), è l’intrattenimento del lettore, ma anche il suo ammaestramento morale, presentando modelli positivi da emulare e modelli negativi da evitare. D’altronde, in tutta la raccolta si avverte fortissima la tendenza all’inserimento, accanto a dati storici, di elementi di pura invenzione. Questo, tuttavia, non accade in maniera sistematica, ma in misura crescente a mano a mano che l’opera procede; le informazioni contenute nella prima serie di biografie (fino circa a quella di Caracalla), infatti, sono in larga parte accettabili, ma dalla vita di Macrino in poi iniziano a prendere il sopravvento gli elementi fantasiosi: riferimento a documenti falsi, personaggi totalmente inventati, notizie strampalate, il tutto narrato con un aplomb degno di un grande biografo.

Per esempio, Giulio Capitolino informa che i genitori di Massimino Trace si chiamavano, rispettivamente, Micca e Ababa. Sembrerebbe un’encomiabile completezza di informazione, se non fosse che non solo la notizia è palesemente inventata, ma per di più si tratta di una storpiatura delle parole che compongono la notizia dello storico greco Erodiano, che aveva definito l’imperatore un μιξοβάρβαρος, «mezzo barbaro» (Hdn. VI 8, 1): da qui il padre Micca e la madre Ababa. C’è poi una costante passione per i giochi di parole: Caracalla che si sarebbe potuto fregiare anche del titolo di Geticus Maximus, e non perché avesse trionfato sui Geti/Goti, ma perché aveva fatto assassinare il fratello Geta. Talvolta, all’interno delle singole biografie amplissimo spazio è concesso ai particolari più curiosi e insoliti, come mostra questo brano tratto dalla vita di Elagabalo, che si sofferma a lungo sulle sue assurde stravaganze: «Aveva anche l’abitudine di invitare a cena otto persone tutte calve, oppure otto persone strabiche, otto sofferenti di podagra o anche otto sordi, otto individui tutti di carnagione scura, oppure otto spilungoni o otto grassoni, divertendosi, nel caso di questi ultimi, a osservare gli equilibrismi cui dovevano ricorrere per prendere posto intorno alla tavola (S.H.A. Helag. 25, 1).

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Riferimenti bibliografici:

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La fine della Tetrarchia

di F. Sampoli, L’imperatore di Cristo, in Archeo monografie – Storie di grandi imperatori, Agosto 2009, pp. 188-220.

Alla vigilia di lanciarsi nella lunga e avventurosa cavalcata per il potere del mondo, Flavio Valerio Costantino si richiamò alla gloria militare di Claudio II il Gotico, affermando che suo padre, Costanzo Cloro, ne era il diretto discendente.  Era il 310 e chiaro l’intento: attribuire alla propria gens e a se stesso nobilitas, honos, ius imperii. Ci furono subito panegiristi cristiani pronti a giurare sulla veridicità di ascendenze nobili, anche se lui, Costantino, era figlio naturale di una stabularia.

Di sicuro Claudio II (Marco Aurelio Valerio Claudio) era illirico, come Costanzo Cloro. Nato a Sirmium (oggi Sremska Mitrovica) sulla Sava nel 219, aveva militato sotto Decio e Valeriano, poi generale sotto Gallieno, finché, nel luglio 268, all’indomani dell’uccisione proditoria di quest’ultimo, le legioni della Moesia lo proclamarono imperatore. Pare che sia lui sia Aureliano (gli succederà nell’Impero) abbiano partecipato o fossero a conoscenza della congiura.

Per compiacere Costantino, gli scrittori cristiani, a cominciare da Eusebio di Cesarea e Lattanzio, lo negarono per Claudio. A Roma il Senato si affrettò a convalidare la volontà dell’esercito; la situazione politico-militare era critica: i barbari premevano alle frontiere, vacillavano le difese sul Reno e sul Danubio, era perduta più di metà dell’Asia. Claudio II affrontò prima i Goti, che erano dilagati oltre il Danubio; li batté nella Thracia occidentale e, quattro settimane più tardi, li macellò come pecore nella desolazione estiva della piana di Naissus (oggi Niš, in Serbia). Ma alla sua valentia militare fu avversa la fortuna: spostatosi con l’esercito in Pannonia, morì di peste nell’anno 270. Un fratello minore di lui, Prisco, aveva una figlia, Claudia, andata sposa a un certo Eutropio. Dal loro matrimonio, scrivono i panegiristi, nel 250 era nato Costanzo Cloro.

M. Aurelio Flavio Valerio Claudio II ‘il Gotico’. Antoniniano, Milano 270 d.C. Ar. 2,92 gr. Recto: Divo Claudio; testa radiata, barbata e drappeggiata dell’imperatore, voltata a destra.

Il padre, Costanzo Cloro.

Nei De Caesaribus Sesto Aurelio Vittore (storico latino del IV secolo d.C.), definisce la nobilitas di Costanzo Cloro una leggenda. Accettata per adulazione. D’altronde, era venuta fuori abbastanza tardi con il figlio Costantino; né Costanzo Cloro in vita aveva mai avuto l’improntitudine di inorgoglirsene o di rivendicarla. Pensava che la nobilitas dipendesse piuttosto dal coraggio e dalle capacità militari di ognuno; le sue gli valsero, appena trentacinquenne il titolo di Caesar, poi quello di Augustus. C’è comunque da aggiungere che, quanto a menzogne ideologicamente programmate, i panegiristi cristiani avevano pochi rivali. Costanzo Cloro era di Naissus – la città resa celebre dalla vittoria di Claudio II il Gotico – e proveniva dalla campagna come altri suoi commilitoni, che erano Diocleziano, Massimiano, Galerio, Severo, Licinio, Massimino Daia, insomma contadini o guardiani di armenti, ma saliti ai fastigi dell’Impero per virtù, ferocia, ardire nelle armi. La loro nazionalità era illirica. Provenivano dalle nebbie della Sava, dai monti della Dardania, dalle colline intorno a Naissus. Alti di statura, biondi, resistenti alle fatiche della guerra e combattenti impavidi, per un secolo, si può dire, ridettero tempra e spirito vitale all’Impero romano, giunto alla parabola di un lento disfacimento.

Costanzo Cloro aveva poco più di un anno quando ad Abrittus (città le cui rovine si conservano nella località di Hisarlaka, presso Razgrad, in Bulgaria, n.d.r.), nella Dobrugia nei pressi del Danubio orientale, un esercito romano cadde nell’agguato di un terreno paludoso e fu trucidato dai Goti. Vi morì anche l’imperatore Decio, cinquantenne, pannonico di origine e duro, tenace, innamorato come nessun altro della romanità. La perdita risultò disastrosa per due motivi: nella palude di Abrittus andò distrutto oltre a un esercito, anche il prestigio militare dell’Impero. Dopo secoli di dominio la potenza di Roma franava come una fortezza corrosa dall’interno. Vituperosamente l’Impero venne a patti con i Goti, concedendo loro non solo tutto il bottino ammassato al di qua e al di là del Danubio, ma impegnandosi a pagare loro un tributo annuo proprio perché non riattraversassero il Danubio. Era scontato che una pace, comprata e degradata fino a una tale ignominia, spalancasse agli stessi Goti e agli altri popoli di confine le porte dell’opulenza e della debolezza dell’Impero. L’una e l’altra erano esche troppo ghiotte per giovani popoli avidi di preda. Spinti dal successo dei Goti, né vincolati da tributi o patteggiamenti, si riversarono oltre il Danubio, devastarono le province illiriche, la Moesia, oltrepassarono il Bosforo a oriente, a occidente si spinsero fino alle porte di Roma.

Battaglia tra Romani e Germani. Bassorilievo, marmo proconnesio, 251-252 d.C., dal sarcofago «Grande Ludovisi». Roma, Museo di P.zzo Altemps.

Ma c’era di peggio della peste, che aveva ucciso l’imperatore Decio, o dell’incombente minaccia ai confini: la lacerazione interna dell’Impero, che nella Historia Augusta va sotto il nome dei «Trenta tiranni» (Tyranni triginta), giacché tanti – uno dopo l’altro, a volte due o tre insieme – funestarono Roma e le province con lo scempio delle guerre civili. Ci vollero diciotto anni e un imperatore come Claudio II per aver ragione dei Goti e, morto lui, un altro imperatore illirico, Aureliano, per ridare all’Impero romano fiducia e capacità di ripresa. Nel 267, a diciassette anni, che era allora l’età per arruolarsi nell’esercito, Costanzo Cloro militò sotto l’imperatore Gallieno. Il fronte era quello del Danubio. Gallieno era succeduto al padre Valeriano, prigioniero dei Sasanidi dopo una disgraziata campagna militare (260) e morto in cattività; in pratica ereditava la situazione politico-militare dell’Impero più caotica, nefanda, incontrollabile dell’intero secolo. La figura di Gallieno è controversa. Il biografo dell’Historia Augusta, Trebellio Pollione, lo accusava di ogni infamia – viltà, lussuria, ingordigia, eccesso di ellenismo, imprudenza, avidità – e perfino di un’imperdonabile leggerezza: coltivare la poesia e, in particolare, scrivere epitalami. Ammiano Marcellino, di gran lunga il maggior storico della decadenza, è meno severo. La storiografia moderna ha invece riabilitato Gallieno, gli riconosce addirittura «una grande figura di imperatore», sia per il valore militare, sia per la «posizione eminente» che rappresenta nell’evoluzione dell’Impero romano. Il fatto, comunque, più stranamente controverso è che il «corrotto», l’«ignavo», il «gaudente» Gallieno sia stato ucciso in un accampamento vicino a Mediolanum da una congiura militare per una motivazione specifica: il rigore e la disciplina che intendeva introdurre o forse aveva già introdotti nell’esercito.

P. Licinio Egnazio Gallieno. Busto, marmo, 261 d.C. ca. Bruxelles, Musée Royal.

Elena, la stabularia.

Costanzo Cloro seguì il nuovo imperatore, Aureliano, nelle campagne sul Danubio, poi in Oriente e fino a Palmyra contro la regina Zenobia. Nel 273, al ritorno da Palmyra, si fermò a Drepanon in Bithynia (oggi Yalova, in Turchia). Era il riposo del guerriero dopo tante battaglie. E fu a Drepanon che Costanzo Cloro vide e si innamorò di Elena. Faceva la stabularia in una di quelle osterie, dove al piano di sopra era lecito alle ragazze, le stabulariae, intrattenere rapporti con i clienti, vogliosi di compagnia femminile. Elena era bella, procace, l’occhio timido di cerbiatta, ma nel portamento altera come una principessa. Aveva poco più di sedici anni: per una donna d’Oriente il fiore della giovinezza. Costanzo Cloro, ventitreenne, biondo, struttura atletica, apparteneva, per la sua virtù militare, all’alta ufficialità delle legioni. Non ebbe difficoltà ad avere nel letto l’avvenente stabularia. Quello che agli occhi degli altri e di lui stesso sembrò inconsueto, fu invece la continuità della loro relazione. Il concubinato non era una difformità, al contrario: fra gli ufficiali delle legioni era quasi una regola tenere amanti ovunque la necessità del servizio militare li destinasse di guarnigione. I panegiristi cristiani si sono arrampicati sugli specchi per trasformare la convivenza di Costanzo Cloro con Elena nel vincolo sacrale del matrimonio.

Statua di matrona (Elena, madre di Costantino). Marmo, V secolo d.C. Roma, Musei Capitolini.

Nel 275, a Byzantium Aureliano venne ucciso in una congiura. Succedono altri imperatori: Tacito (275-76), Probo (276-82), Caro (282-83), Carino (283-84), in ultimo Diocleziano dal 284 al 305. Costanzo Cloro ha combattuto dal Danubio al Reno, alla Thracia, all’Illyricum contro Franchi, Sarmati, Geti, Vandali. Ha unanimi riconoscimenti di coraggio, di sagacia militare, primo ufficiale nella guardia imperiale, poi tribuno, comandante di legione, infine governatore della Dalmatia (279). Ora ha la possibilità di fermarsi, ed Elena è accanto a lui, desiderosa di amare, il suo grembo è come la terra arata, pronta a ricevere il seme: e l’anno dopo (280) a Naissus gli partorisce un figlio, Costantino.

L’idillio familiare conobbe pause già nel 282 con l’uccisione di Probo, la cui morte si portò dietro i contraccolpi più o meno fisiologici dei cambi di potere. Un segnale impietoso dei tempi è anche in questo: che in meno di quindici anni furono dodici gli imperatori legittimi o illegittimi morti ammazzati. Allora e nel biennio successivo Costanzo Cloro si seppe districare con una certa abilità, valutando tempestivamente uomini e circostanze. Ed Elena? Era cambiata con la maternità: non più la giovane avvenente che aveva affascinato Costanzo Cloro, ma ora, piuttosto, madre scrupolosa e gelosa della propria creatura. Improvvisamente, nel 284, la separazione. Diocleziano, il nuovo imperatore, opera negli alti gradi dell’esercito una serie di «avvicendamenti». Costanzo Cloro è scaraventato sul Reno contro i Germani, mentre Elena con il figlio deve tornare in Bithynia a Nicomedia (oggi Izmit), dove Diocleziano ha stabilito la capitale. Non rivedrà mai più Costanzo Cloro. Passano quattro anni, prima lettere sempre più rade, poi il silenzio, infine la notizia per lei dirompente: Costanzo Cloro ha sposato la figliastra dell’Augustus Massimiano, Teodora. Bella, raffinata, figlia di una Siriana e molto più giovane di lui. Nel giro di una decina di anni gli darà sei figli.

La tetrarchia.

Ma Diocleziano ha in mente, soprattutto, un progetto nuovo per la struttura dell’Impero. Con l’obiettivo preciso di scongiurare le continue ribellioni nelle province o nei vari scacchieri periferici, aumentando nel contempo la vigilanza e ripristinando la disciplina nell’esercito, divide l’Impero in Oriente e Occidente, chiama il vecchio commilitone Massimiano, al quale affida l’Occidente, riservando a sé l’Oriente, oltre la preminenza del comando e delle grandi decisioni. Di lì a poco perfeziona la divisione nella tetrarchia: due Augusti, Diocleziano e Massimiano; e due Caesares alle dipendenze degli Augusti: rispettivamente Galerio e Costanzo Cloro. Poi quattro capitali: Nicomedia (Diocleziano), Sirmium (Galerio), Mediolanum (Massimiano), Augusta Treverorum (Costanzo Cloro). Indubbiamente la tetrarchia, almeno negli anni a cavallo del secolo, riportò l’Impero all’antico prestigio e l’efficienza militare delle legioni a livelli che sembravano perduti. Ai margini, tuttavia, restavano sussulti di rivolta. Due si ebbero, in Africa proconsularis e in Aegyptus, in due città dal nome fatidico: Carthago e Alexandria. Nell’una e nell’altra si erano proclamati imperatori Giuliano e Achilleo. Contro Achilleo (anno 296) si mossero da Nicomedia lo stesso Diocleziano, portando con sé il giovanissimo Costantino. La resistenza di Achilleo, rinchiuso dentro Alexandria, costrinse Diocleziano a tagliare gli acquedotti. Quando la città si arrese, fu il massacro. Archiviato il capitolo Alexandria, Costantino seguì Diocleziano in Mesopotamia, dove il Caesar d’Oriente, Galerio, era impegnato sul fronte dell’Eufrate contro i Sasanidi. Ignaro o ostentatamente dimentico delle precedenti campagne di Roma, Galerio si era avventurato nelle pianure desolate della Mesopotamia alla mercé della cavalleria sasanide. A stento riuscì a salvare le legioni dalla distruzione. Diocleziano lo accolse senza rimproveri, ma lo costrinse a percorrere a piedi più di un miglio dietro il suo carro per la grande strada di Antiochia. L’anno dopo Galerio, umiliato, roso dalla rabbia, cambiò truppe e tattica. Accertatosi del modo di accamparsi dei Sasanidi, li assaltò di notte, cogliendoli di sorpresa. Ne fece strage. Quanto alle condizioni, che allora impose ai vinti, valsero ad assicurare all’Impero quarant’anni di pace sulla frontiera del Tigri.

Mappa dell’Impero romano durante la prima Tetrarchia di Diocleziano (284-305 d.C.).

Costantino come Achille.

Tornato a Nicomedia con Diocleziano, Costantino ha vent’anni. Combatte nella Moesia e sul Danubio contro Goti e Sarmati, le incursioni dei quali erano, si può dire, periodiche come le stagioni dell’anno. La guerra contro i Sarmati fu anche teatro di un episodio d’altri tempi ed ebbe l’effetto di richiamare alla memoria l’epicità dei duelli omerici dell’Iliade. Costantino che sfida e scende a singolar tenzone con il capo dei barbari, al cospetto dei due eserciti schierati, e ne esce vincitore. Di statura e struttura atletica, era inoltre coraggiosissimo e come tale, allora e poi in seguito, amatissimo dai soldati. Anzi, la fiducia e la popolarità che riscuoteva fra loro, la sua virtù militare, la rapidità delle risoluzioni sono la chiave per capire – come per Alessandro, Annibale o Cesare – la straordinarietà delle sue vittorie. Diocleziano, che a Nicomedia lo aveva tenuto vicino a sé quasi come un ostaggio (o almeno all’inizio, secondo le insinuazioni di Lattanzio), ebbe modo e tempi per valutare di lui l’ardire dell’animo e le qualità militari, come aveva valutato quelle del padre Costanzo Cloro. La stima manifestatagli in più occasioni da Diocleziano, aggiunta alla popolarità fra i soldati, finì per ingelosire Galerio. Con dispetto il Caesar d’Oriente intravide in Costantino non soltanto un futuro, valente condottiero d’eserciti, ma un avversario temibile. I prodromi della rivalità saltarono fuori alle dimissioni di Diocleziano; dimissioni che, inusitate e impreviste, furono un evento sconvolgente.

Pretoriani ed equites singulares. Bassorilievo, marmo, II sec. d.C., dal Grande fregio traianeo. Roma, Arco di Costantino.

Il gran rifiuto di Diocleziano.

Nella storia romana c’era un unico precedente: Lucio Cornelio Silla, che, nel 79 a.C., aveva rinunciato alla dittatura. Lo fece pubblicamente, scegliendo la platea sbigottita e trepidante del Foro. Diocleziano, quasi quattrocento anni dopo, preferì per il gran rifiuto la piana a tre miglia da Nicomedia, dove aveva convocato l’assemblea dei soldati. Era il 1 maggio 305: dritto nella persona, ma pallido per la strana malattia che lo affliggeva da un anno, Diocleziano per l’ultima volta passò in rivista i vessilli delle legioni, gli ufficiali, la guardia palatina prima di salire alla tribuna e rendere esplicita la sua decisione. Per le fatiche sopportate e per la debolezza degli anni (toccava in realtà appena i sessanta) non se la sentiva più di reggere il peso del governo; quindi cedeva la somma del potere a chi aveva energie e forze adeguate per adempiere ai doveri e ai compiti richiesti dalla vastità dell’Impero. In quello stesso giorno a Mediolanum, rispettando le disposizioni concordate in precedenza per un corretto funzionamento della tetrarchia, anche Massimiano abdicava dal suo potere di Augustus. Li avrebbero sostituiti Gaio Galerio in Oriente, Costanzo Cloro in Occidente. Restava da nominare i nuovi Caesares, che furono rispettivamente Valerio Massimino Daia e Flavio Valerio Severo. Presente alla cerimonia dell’abdicazione del passaggio di consegne c’era un testimone avidissimo di notizie e retore: Lucio Celio Firmiano Lattanzio (autore in seguito di un libro famoso per l’apologia del Cristianesimo, De mortibus persecutorum). Di Diocleziano e del suo rifiuto scriverà dodici anni dopo, quando era ad Arelate (Arles) e precettore di Crispo, il figlio naturale di Costantino. Nel racconto di Lattanzio la figura di Diocleziano è molto diversa da quella dell’imperatore imperturbabile e controllato degli storici pagani. Alla tribuna dinanzi all’esercito schierato si presenta addirittura in lacrime. La decisione di dimettersi gli è stata imposta con le minacce, o peggio con l’incubo di una guerra civile, da Galerio che oltretutto gli era genero, avendo sposato la sua unica figlia Valeria. E ci sarebbe stata anche un’altra imposizione di Galerio: la nomina dei due nuovi Caesares. Lattanzio sostiene che la scelta di Diocleziano era caduta su Costantino (per l’Occidente) e Massenzio (per l’Oriente), quest’ultimo figlio legittimo di Massimiano e, fra l’altro, genero di Galerio. Il racconto di Lattanzio si colora di imprevisti: ecco che all’annuncio dei nuovi Caesares un vento iroso scompiglia le linee irrigidite dell’esercito. Si pensa perfino che Costantino abbia cambiato nome, tanto più che i soldati lo vedevano sulla tribuna; finché Galerio, senza nemmeno voltarsi, allunga una mano all’indietro, afferra Massimino Daia, poi Severo e li trascina in prima fila alla vista dei soldati. La nomina dei due Caesares poneva le premesse, in un non lungo volgere di lune, a future rivalse, discordie, guerre civili. Rientrato in città, Diocleziano cambiò la biga in una carrozza da viaggio e, senza fermarsi ulteriormente a Nicomedia, proseguì per il Bosforo, poi per le strade polverose della Thracia fino alla solitudine di Spalatum (Split, in Croazia). Con lui finiva una struttura politica, una concezione del potere. Doveva averlo avvertito lui stesso nel momento in cui si accingeva all’abdicazione, se arrivò a proporre alla dignità di Caesares Costantino e Massenzio. Ritornava cioè al principio di successione ereditaria in luogo dell’altro, aristocratico e razionale, dell’adozione e della scelta per merito. Ma era anche riconoscere, almeno in parte, il fallimento di una costruzione politica, immaginata e portata avanti dalle geometrie della ragione. Nella quale, quasi da neofita, lui, Diocleziano, che era figlio di schiavi, aveva creduto con un eccesso di ottimismo, riversando nell’efficacia delle leggi concepite la salvaguardia risolutiva di tutti i problemi politici e sociali.

Diocleziano. Testa, marmo, 284-305 d.C. da Nicomedia. Istanbul, Museo Archeologico.

Costanzo Cloro richiama il figlio.

Scomparso Diocleziano dalla scena politica, Costantino non aveva più ragione né voglia di rimanere a Nicomedia, né tanto meno intendeva militare agli ordini dell’uno o dell’altro dei Caesares, in particolare di Galerio. Ambizione e orgoglio lo mordevano alla nuca. Dei nuovi Caesares, Flavio Valerio Severo, bravo generale e più bravo bevitore, era sempre stato alle dirette dipendenze di Galerio; l’altro Massimino Daia, era più giovane, irruente, superstizioso e figlio della sorella dell’Augustus. In pratica due creature di quest’ultimo. Nella tetrarchia Galerio assumeva non solo il compito di primus inter pares, che era stato di Diocleziano, ma indirettamente – attraverso il Caesar d’Occidente, Severo – veniva a invadere il terreno dell’altro Augustus, Costanzo Cloro. Il quale non tardò a far sentire la sua voce. Dapprima in forma, si può dire, amichevole, con la richiesta a Galerio di Costantino, adducendo a pretesto lo stato non buono di salute e il naturale desiderio paterno di rivedere il figlio primogenito dopo dodici anni. Galerio indugiò a rispondere, poi enumerò una serie di motivi. Taceva ovviamente quello vero, determinante: che padre e figlio uniti, proprio per le loro ambizioni, qualità militari, generale consenso negli eserciti, sarebbero stati prima o poi tentati dalla grande avventura di essere i soli padroni del mondo. Su Costantino, in particolare, anche nel periodo di Nicomedia, non mancavano descrizioni celebrative dei panegiristi. Senza alcun dubbio, nelle operazioni di guerra sui vari fronti, aveva dato prove di coraggio, abilità, grande valore, risolutezza. Basta ricordare il duello omerico con il capo dei Sarmati. Dalle statue, poi, appare evidente come fosse aitante e forte della persona. Eusebio di Cesarea aggiunge che «non c’era nessuno che gli si potesse paragonare per grazia e bellezza del corpo, nonché per la statura, e che superava tutti i suoi coetanei in gagliardia e attività al punto da sembrare loro perfino temibile». Per di più a Nicomedia, nel 303, Costantino era stato testimone della persecuzione dei cristiani e insieme dell’incendio del palazzo imperiale, che doveva fugare le residue perplessità di Diocleziano. La persecuzione era stata voluta soprattutto da Galerio Caesar quando nell’esercito si era trovato di fronte a casi di viltà, mascherati da motivi religiosi. I soldati che avevano disertato – obiettori di coscienza ante litteram – erano cristiani.

Costanzo Cloro. Testa, marmo, 300 d.C. ca. Berlin, Altes Museum.

La persecuzione dei cristiani.

Diocleziano, contrario all’inizio a decisioni radicali, aveva ordinato allora un’inchiesta nell’esercito. Sospettati di slealtà, i cristiani erano stati ipsō factō radiati. Ma il vero e più pericoloso covo degli adepti della religione salvifica del Cristianesimo era all’interno del palazzo e costituito dagli eunuchi. Forse per loro istigazione lo stesso palazzo imperiale andò a fuoco, bruciarono le stanze di Diocleziano. Era troppo anche per uno come lui, disposto alla ragionevolezza. Da allora non ebbe più dubbi: i cristiani erano i nemici subdoli dell’Impero. Arrestati, gli eunuchi furono giustiziati uno dopo l’altro e con loro altre persone, eminenti per gli uffici che avevano ricoperto come per il favore che avevano goduto. Potentissimi quondam eunuchi necati, scrive Lattanzio. Sulla persecuzione dei cristiani Costantino aveva evitato di pronunciarsi; sull’incendio, invece, se l’era cavata proponendo la caduta di un fulmine, visto che pioveva. Insomma Galerio, due anni dopo, non aveva nessuna ragione valida per opporsi alla richiesta di Costanzo Cloro per il figlio Costantino, anzi solo un presentimento, partorito dalla paura. Continuò, in ogni modo, a tergiversare, affidandosi agli eventi. Il grande gioco del potere era già in atto. E Costantino non attese oltre: una notte fuggì e, temendo di essere raggiunto, in ogni stazione di posta, dopo aver cambiato i cavalli, azzoppò gli altri che rimanevano, affinché gli inseguitori non se ne potessero servire. Attraversò il Bosforo, percorse la Thracia, l’Illyricum, la Pannonia, entrò in Gallia e arrivò a Bononia (Boulogne-sur-Mer), dove suo padre stava imbarcando le truppe per una spedizione in Britannia contro i Pitti e gli Scoti.

Galerio officia un sacrificio propiziatorio prima della battaglia. Rilievo, marmo, inizi IV sec. d.C. su pannello. Thessaloniki, Arco di trionfo di Galerio.

La fuga avvenne nella primavera del 306, e non fu soltanto la lunga cavalcata di un giovane nel pieno delle forze (aveva ventisei anni), ma anche irta di non poche difficoltà, giacché Costantino si portava dietro il figlio naturale Crispo, natogli l’anno precedente, e la madre di lui, Minervina, con la quale viveva morē uxoriō. Come Costanzo Cloro, più di vent’anni prima, con Elena, la stabularia. Solo che lui, Costantino, scappando, non poteva lasciare ostaggi nelle mani vendicative di Galerio. La spedizione in Britannia ebbe un esito rapido. Nell’isola Costantino combatté a fianco del padre; più verosimilmente, per la precarietà della salute di Costanzo Cloro, ottenne sul campo le insegne del comando delle legioni; il che spiega come, alla morte del padre, Augustus d’Occidente, proprio le legioni, senza esitazione alcuna, lo proclamarono imperatore.

Caesar d’Occidente.

Costanzo Cloro morì a Eboracum (York) il 21 o il 25 luglio del 306, a cinquantasei anni. Era stato Augustus d’Occidente poco meno di quindici mesi. Al suo capezzale la moglie Teodora con i sei figli e Costantino. Gli storici del tempo sono abbastanza incerti sul fatto che Costanzo Cloro abbia o no designato il suo primogenito a succedergli. La proclamazione di Costantino venne dalle truppe, spontaneamente, ritornando alla vecchia e deleteria provocazione per cui fosse l’esercito ad eleggere un imperatore. Il che era poi il contrario della costruzione ideata e voluta da Diocleziano. Di sicuro l’esercito sbarcato in Britannia, eleggendo il figlio di Costanzo Cloro, intendeva assicurare la continuità del comando, sotto il quale aveva militato per quindici anni, apprezzandone sia la sagacia militare, la temperanza, la sollecitudine, sia il tenore di vita uguale negli accampamenti come nella residenza imperiale. Si diceva, per esempio, che in occasione di ricevimenti o di pranzi ufficiali Costanzo Cloro si facesse prestare da amici e dignitari l’argenteria. A ogni buon conto l’elezione di Costantino si avvalse anche del pieno consenso di un corpo di Alemanni che in Gallia si era imbarcato con Costanzo Cloro. Era il segno dei tempi: in seguito, quando l’impiego di interi corpi di “barbari” divenne normale e indispensabile, l’Impero affrettò la propria rovinosa catastrofe.

Costantino. Follis, Londinium 310 d.C. Æ 4,32 gr. Recto: Soli invicto comiti; Sole, stante verso sinistra, con la destra alzata e un globo nella sinistra; le sigle T-F ai suoi fianchi e PLN in exergo.

Costantino, di solito risoluto nelle decisioni militari, nella situazione specifica si comportò da politico navigato, forse ricordandosi della lezione di Diocleziano. Scrisse una lettera a Galerio. Travolto, diceva, dalla morte del padre, come dal fermento dell’esercito, aveva accettato o meglio subito la proclamazione a “imperatore” per stroncare sul nascere le possibili degenerazioni di mestatori e capipopolo, come era accaduto in passato prima della tetrarchia dioclezianea. In breve, gli era mancato proprio il lasso necessario di giorni per sollecitare direttamente da lui, Galerio, l’investitura costituzionale. Prudente, modesto il tono della lettera, non però servile, giacché Costantino era cosciente di rivendicare con giusta ragione il diritto alla successione del padre.

A Nicomedia Galerio fu tutt’altro che convinto. Quello che più lo imbestialiva era l’ipocrisia di Costantino, la stessa che imputava ai cristiani e per la quale era stato ed era con loro inesorabile. Furibondo, accecato dalla rabbia, voleva addirittura trapassare da parte a parte con la spada l’incolpevole messaggero. Anche le minacce, dichiarate al momento, si esaurirono come il fuoco nelle are dei sacrifici. Non solo la distanza di Nicomedia da Eboracum era immensa, ma, soprattutto, avrebbe dovuto affrontare sul campo l’esercito d’Occidente, formato in gran parte da Celti e Germani. Non tanto la ragione, insomma, quanto l’incertezza di una guerra civile, l’abilità militare e, al di là delle poche parole cortesi o “ipocrite”, la risolutezza di Costantino lo indussero a ratificare la scelta dell’esercito delle Galliae. Si riservò, comunque, una non piccola rivalsa: promosse Severo da Caesar ad Augustus, facendolo subentrare a Costanzo Cloro con sede a Mediolanum, e dette a Costantino il titolo di Caesar. La forma dell’istituzione tetrarchica si poteva dire slava, come era salvo, apparentemente, il rispetto fra i suoi quattro membri.

Ma non resistette che due mesi. I venti inclementi d’autunno scoperchiarono prima il tetto della costruzione dioclezianea, poi presero a sgretolare i cornicioni, infine i muri di sostegno. La rovina prese l’avvio proprio da Roma, la capitale dimenticata e abbandonata. Diocleziano c’era stato una sola volta insieme con Massimiano, nel novembre 303, per il ventennale della sua proclamazione all’Impero. Mai Costanzo Cloro e Galerio. A Roma, invece, abitava Massenzio. Avvelenato per essere stato escluso dalla spartizione del potere, lui che era l’unico figlio maschio di Massimiano, si fece interprete dell’insofferenza e della rivolta di Roma contro l’Augustus d’Oriente. Per avidità o perché pressato da vuoti di cassa, Galerio aveva in effetti ordinato un censimento sui beni dei sudditi dell’Impero con lo scopo preciso di gravare nuove imposte sugli immobili, come sulle persone.

C. Galerio Valerio Massimiano. Testa, porfido, inizi IV sec. d.C. dal palazzo imperiale di Felix Romuliana (od. Gamzigrad, Serbia).

Di Massenzio i panegiristi delinearono il ritratto di un uomo corrotto, dissoluto, sensuale, crudele. Forse aveva davvero queste tare del carattere e del comportamento. Era anche «brutto e meschino d’aspetto», faceva della notte giorno e appunto di notte entrava nelle case e violentava le donne. Lo strano, tuttavia, è che tutti questi difetti, vizi, brutture dell’animo vennero fuori quando si mese a contendere il possesso dell’Italia a Costantino. In pratica cinque anni dopo.

Fino al 306 l’Italia e Roma in primis erano state quasi esenti da regolari tassazioni (Roma lo era dalla conquista della Macedonia). Adesso, però, i funzionari inviati da Galerio e preposti all’estimo, temendo occultamenti o frodi, usavano non pochi mezzi coercitivi e perfino la tortura. Fu la causa o il principio più saldo per la rivolta. Machiavelli dice che un principe, nella pratica di governo, deve soprattutto fuggire l’odio, e questo lo può quando si astenga «dalla roba de’ sua cittadini e de’ sua sudditi… perché gli uomini sdimenticano più presto la mote del padre che la perdita del patrimonio». Era un pensiero di Tacito, ma Arbelio, vicarius in urbe Roma, l’aveva scordato o non l’aveva mai letto o temeva più le ire di Galerio che le dimostrazioni popolari. Furono spogliate le famiglie più ricche e non solo quelle; carri pieni di suppellettili, argenteria, vasi dorati, statue, attraversavano ogni giorno le strade. La loro vista eccitava la folla. Per contro le guardie di Arbelio erano insolenti, volutamente spregiose. Accadde che da Hostia per quattro o cinque giorni non arrivassero i barconi con il grano. La città era alla fame, ma ci voleva un capo che prendesse su di sé l’onere e l’orgoglio di riscattare la grandezza di Roma, come la libertà dell’Italia dal dispotismo di un armentario illirico. Per il nome e la volontà di riscatto Massenzio era l’uomo. Galerio, ovvero Arbelio per lui, commise l’errore definitivo: minacciò una riduzione drastica delle coorti pretoriane, addirittura la loro soppressione. Fu una fiammata: Arbelio ucciso, saccheggiato il palazzo vicariale, Massenzio acclamato imperatore romano. Era il 28 ottobre 306.

Massenzio. Follis, Roma 307-312 d.C. Æ 3,2 gr. Recto: Maxentius P(ius) F(elix) Aug(ustus). Testa laureata e barbata dell’imperatore, volta a destra.

Per Galerio franava il mondo. Nel giro di appena diciotto mesi i legami, le aspettative, le leggi, la struttura medesima della tetrarchia, di cui si vantava di essere ora il capo supremo, gli si disfecero tra le mani, divennero passato. Non era mai stato un abile politico, pensava da soldato come in un campo di battaglia. e adesso la rivolta in atto non era in un angolo dell’Impero, ma in Italia, e il capo era suo genero. Non cercò neppure un approccio. Era offeso: Massenzio si tenesse pure sua figlia in ostaggio; Severo, che da Mediolanum si sarebbe subito mosso con un esercito, non avrebbe incontrato difficoltà o resistenza, doveva combattere con una plebaglia, quella romana, avvezza solo ai giochi del circo e a vivere di congiari (le distribuzioni alla plebe di olio e di vino, n.d.r.); e Massenzio – il genero impostogli da Diocleziano – non era che un imbelle vizioso.

La sorpresa Severo l’ebbe non appena si trovò di fronte alle mura di Roma. Fino ad allora si era figurato di compiere una rapida spedizione punitiva: vide sulle Mura aureliane macchine da lancio e armati spavaldi pronti a resistere a qualunque assedio. Inoltre, già nei primi giorni, successe un fatto increscioso e assolutamente imprevisto e che ebbe conseguenze devastanti: un numeroso contingente di cavalleria maura disertò, passando a Massenzio. Certo era stato adescato con il miraggio di donativi speciali, ma era proprio questo che inquietava. Arrivarono altre defezioni. Infine, una mattina di gennaio, il pallido sole invernale, alzatasi la nebbia, scoprì nella campagna intorno a Roma la desolazione che segue all’abbandono di un esercito.

Ricompare Massimiano.

Severo fuggì a Ravenna in attesa di aiuti e di ordini precisi da parte di Galerio. Quanto era accaduto gli appariva incredibile, peggio di un brutto incubo. Poi venne a sapere che dalla villa in Calabria, in cui si era ritirato, Massimiano era piombato a Roma. Forse c’era già anche durante l’assedio. Chiamato dal figlio o spinto dall’insopprimibile desiderio di potere. Massimiano conosceva bene Galerio e sapeva che non avrebbe avuto pace finché non si fosse vendicato del doppio scacco subito. Per non avere contemporaneamente a combattere con tutti e due, avrebbe dovuto ingabbiare Severo prima che Galerio giungesse in Italia. Si presenta davanti alle mura di Ravenna, parla di tregua, ricorda ai soldati il suo recente passato di Augusto, ottiene anche un colloquio con Severo. Promesse, giuramenti, elogi ammantati di sottili adulazioni. Non era forse meglio, aggiunge, affidarsi alla lealtà di un vecchio Augusto piuttosto che alla collera irata del nuovo? Lo convince. Severo esce da Ravenna diretto a Roma per stipulare le condizioni di un accordo. Ma, varcate appena le mura, è ucciso. Zosimo sostiene che l’uccisione avvenne tra Spoletium (Spoleto) e Interamna (Terni) e che fu Massenzio a tendergli l’imboscata e che poi «gli strinse il cappio intorno al collo». Per Massimiano la calata di Galerio in Italia era scontata. Di sicuro sarebbe venuto con un esercito imponente, agguerrito; né lui, Massimiano, era al momento in grado di opporglisi. Pensò, allora, a Costantino come all’unica alleanza capace e di contrastare e di battere l’Augustus d’Oriente. D’accordo, la morte proditoria di Severo rendeva la situazione ancor più difficile dal punto di vista morale, ma restava il fatto che Massenzio e il figlio di Costanzo Cloro si erano ripresi i territori (l’Italia il primo, le Gallie il secondo) assegnati loro dalla volontà e dalla decisione di Diocleziano, poi stravolte da Galerio. L’incontro con Costantino ebbe luogo ad Augusta Treverorum. La neve imbiancava ancora le campagne intorno al Reno e Massimiano aveva con sé la sua ultima figlia, Fulvia, bella di un fascino esotico, giovanissima, e la offrì in matrimonio a Costantino. Dimenticata o morta, secondo le fonti cristiane, Minervina, l’amante e madre di Crispo. Il matrimonio fu celebrato il 31 marzo del 307 ad Augusta Treverorum con grandi festeggiamenti. Allo scopo di attirare il genero nell’alea della sua politica, Massimiano si prestò ora a conferirgli il titolo di Augustus. Insomma, per una combinazione di eventi, Massimiano aveva dato in moglie le figlie prima al padre, poi al figlio e posto loro sul capo, successivamente, con le proprie mani, la corona di imperatore.

Massimiano. Testa, marmo, fine III sec. – inizi IV sec. d.C. dalla villa romana di Chiragan. Toulouse, Musée St.-Raymond.

Galerio contro Roma.

Galerio scese in Italia con l’esercito d’Oriente, i veterani illirici e l’animo vendicativo e gonfio di ferocia. Arrivò fino a Narnia (Narni), a sessanta miglia da Roma, incontrando una resistenza limitata. Ma la grande battaglia in campo aperto, come si aspettava, contro Massimiano e il genero non avvenne. Si ripeté, anche se in scala meno sconvolgente, ciò che era successo a Severo. Tanto erano forti l’astio, il rancore, la paura, la collera contro Galerio che i Romani, spontaneamente, dettero a Massimiano e Massenzio le ricchezze che avevano sottratto alla sua rapacità. A questo si aggiungono la liberalità di Massenzio e il ricordo delle elargizioni alle truppe di Severo, esche fin troppo appetibili per la diserzione. Galerio più che combattere contro i nemici, fu ora costretto a trattenere anche i veterani. La loro fedeltà cominciava a mostrare buchi, aperti alla corruzione. Ritirandosi, permise loro saccheggi indiscriminati e selvaggi. Le campagne furono bruciate, villaggi e piccole città rasi al suolo. L’esercito di Galerio che ripassava le Alpi era carico di preda, di rabbia e di buia impotenza. Come il suo imperatore.

Massenzio aveva tallonato a distanza la ritirata del suocero. Massimiano, invece, fremeva dal desiderio di non lasciare impunite le distruzioni che l’altro si lasciava dietro di sé. Corre da Costantino: gli si profilava davanti, dice, la più insperata delle occasioni: sbarazzarsi una volta per sempre di Galerio, in fuga dall’Italia, stanco e avvilito l’esercito. Se attaccato improvvisamente e al momento opportuno, l’avrebbe avuto alla sua mercé e l’esercito si sarebbe disfatto come una grossa palla di lardo messa al fuoco. L’Impero, insomma, si poteva ridurre a una questione familiare. E, tuttavia, nemmeno le voglie di una giovanissima moglie bastarono a impigliare fra le lenzuola del letto la lucidità di Costantino. Semmai, proprio la prospettiva di un Impero da gestire o spartire in famiglia, lo dissuase.

Massimiano valeva Galerio; fra i due era da preferire il secondo, impulsivo, prevedibile, meno dissimulatore e meno abile nel gioco della politica. inoltre Costantino, che era stato a lungo sulla frontiera del Danubio, sapeva perfettamente che le migliori truppe di Galerio erano di stanza appunto su quel fronte e, all’occorrenza, potevano essere richiamate in qualunque momento. Fra l’altro le comandava un commilitone di Galerio, a lui legato da vecchia amicizia e generale validissimo, Licinio.

Padre e figlio.

Non si rassegnò Massimiano, vedendo svanirgli un potere o almeno la possibilità di un ritorno al potere, che gli era sembrato a portata di mano. Rientrò in Italia, fidando nella riconoscenza di Massenzio. Per due volte l’aveva salvato dagli eserciti di Severo e di Galerio. Giudicava il figlio dissoluto ed indolente, come la madre siriana, e abituato a vivere non negli accampamenti, ma fra i bagni, il circo, le orge notturne. Meno che mai sarebbe stato in grado di governare o destreggiarsi in una situazione che di giorno in giorno diveniva più drammatica, in continuo cambiamento, e che richiedeva nervi saldi e prontezza di azione. Galerio, operata una nuova divisione dell’Impero d’Oriente, aveva affidato a Licinio (nominato Augustus al posto di Severo) la Raetia, la Pannonia, l’Illyricum, cioè le regioni a ridosso dell’Italia. Nel caso di un attacco come gli avrebbe resistito Massenzio? In Italia era al potere per un colpo fortunoso di mano. Ma se gli era stato facile impadronirsene, molto più difficile gli sarebbe stato mantenerla. In breve, gli occorreva una guida, la mente e l’esperienza di chi aveva alle spalle una serie vittoriosa di battaglie, sostenute nei diversi fronti, e quindi sapeva come guidare un esercito. Contrariamente a quanto si aspettava, Massenzio non solo non cedette, ma gli si rivoltò con arroganza: lui, Massenzio, era l’imperatore d’Italia, legittimato dal voto del popolo romano e del Senato. Per Massimiano, roso dall’ossessione di quello che era stato (padrone di una metà del mondo), fu uno schiaffo intollerabile da sopportare, ricevuto per di più dal figlio. Cieco di furore arrivò, nel buio dell’esasperazione, fino a deturpare se stesso, mettendo in giro una voce ignobile: che Massenzio non era suo figlio, ma nato dall’adulterio di sua moglie con un Siriano. Poi gonfio del vecchio orgoglio, si presenta alla caserma dei pretoriani e alla tribuna inveisce contro Massenzio. Un uomo corrotto, imbelle, che mai nella mischia di una battaglia ha rischiato il ferro del nemico, può vestire la porpora di imperatore? Nel fervore dell’accusa e dell’indignazione gliela strappa di dosso. Credeva già di udire urla e gridi di consenso. Niente. Lo investì, invece, il gelo del silenzio. Poi via via mugugni, contestazioni che andavano a infrangersi contro la tribuna come marosi contro gli scogli. Era la fine. L’altro, figlio o bastardo, lasciò la tribuna e si gettò nelle braccia dei pretoriani. A Massimiano la fortuna mostrava ora la livida faccia della malignità. Tutti l’avevano tradito: la moglie, il figlio e, in parte, anche l’altra figlia ad Augusta Treverorum. Partì per l’Illirico e, solitario e triste, andò alla ricerca dell’unico che gli restava e in cui aveva sempre avuto una fede intemerata: l’esule volontario di Spalatum.

La riunione di Carnuntum.

Carnuntum era una cittadina della Pannonia alla confluenza del Danubio con l’Inn e il Lech (oggi in territorio austriaco). Nel novembre del 308 vi si riunirono i membri della tetrarchia con l’esclusione del non riconosciuto Massenzio e di Costantino, che al momento, forse, era il membro più determinante. L’idea era partita da Galerio, con lo scopo preciso di ridare fondamenti legali e spettacolari a una struttura politica per molti versi traballante. Pretesto: la consacrazione ufficiale ad Augustus di Licinio Valerio Liciniano.

Altare dedicato a Mitra da Galerio, Licinio, Massimino Daia e Costantino. Marmo, 308 d.C. CIL III 4413. Carnuntum Museen.

Naturalmente Diocleziano e Massimiano nei posti d’onore per conferire, almeno alla facciata, lustro e solennità. Diocleziano era stato molto restio a lasciare il palazzo di Spalato per Carnuntum. A spingerlo erano state due persone a lui più vicine e interessate: Massimiano e Valeria, la figlia; ambedue con la volontà dichiarata di convincerlo a riprendere nella tetrarchia la sua posizione di Iovius, di indiscusso primato. Massimiano vi aggiunse i rigurgiti ambiziosi di rientrare nel ruolo che aveva avuto. Un progetto o un disegno politicamente anacronistico, inattuabile. L’autunno in Pannonia era piovoso e lo scenario naturale, grigio e spoglio, induceva a riflettere sull’instabilità della fortuna. Silla e Cesare avevano insegnato che l’esercito era il potere. Diocleziano e Massimiano, che non avevano più il comando degli eserciti che legittimassero la validità, nonché la forza delle loro richieste, incredibilmente (Massimiano, soprattutto), se ne dimenticarono. E il loro passato di Augusti, al di fuori delle ipocrite e sontuose attestazioni di rispetto, non poteva avere, né ebbe alcun peso sulla bilancia decisionale del potere.

Carnuntum servì a Galerio per l’ultima illusione di un prestigio e di una maestà, che in parte erano soltanto formali, e a Licinio Valerio Liciniano per una specie di investitura sacrale, a lungo desiderata, dalle mani dell’Augustus Iovius. In definitiva fu anche l’epilogo della tetrarchia. Dall’indomani avrebbero preso a spirare i venti furiosi e distruttivi delle guerre civili. Augusti e Caesares, gli uni contro gli altri, senza esclusioni di colpi, con massacri e stragi fin nello stesso ambito familiare. Proprio niente di nuovo sotto il sole.

Non erano finite le brume autunnali sul Danubio che Massenzio lasciò Carnuntum e si diresse ad Arelate, nella Gallia meridionale, presso la figlia Fulvia e il genere Costantino. Era avvilito, moralmente distrutto. A Carnuntum i contrassegni esterni dell’antica considerazione gli erano sembrati una mascheratura da Saturnali. Nella cerimonia, poi, dei commiati, Galerio – dopo aver recitato una sorta di apologia di se stesso – vi aveva aggiunto una nota vendicativo-sarcastica, eleggendolo insieme con lui console per il 309. Sapeva bene che i consoli nominati a Nicomedia e Serdica non erano riconosciuti a Roma, e viceversa. Sicché lui, Massimiano, sarebbe stato console contro o al posto del figlio Massenzio.

Diocleziano. Antoniniano, Lugdunum 290-291 d.C. AE 5, 02 gr. Recto: Iovi Augusto. Giove stante, con Vittoria su globo e scettro, e un’aquila ai suoi piedi.

L’inganno di Arelate.

Ad Arelate – dove Costantino da Augusta Treverorum aveva trasferito una parte del governo e soprattutto il tesoro per le campagne di guerra – Massimiano depone la porpora per la seconda volta. Si sentiva estraneo, tagliato fuori dalla vita attiva della politica e ripensava alla saggezza e al distacco di Diocleziano. «Se tu vedessi quali cavoli mi crescono negli orti di Spalatum – gli aveva detto, accomiatandosi da lui – nemmeno mi avresti chiesto di tornare ad occuparmi dell’Impero».  Arrivò la primavera e con essa ripresero sul Reno le invasioni dei popoli germanici. Questa volta furono i Franchi, popolo fra i più valorosi e amanti della guerra. Costantino si mosse da Augusta Treverorum con la solita rapidità. Era la sua arma migliore e più sorprendente. Ma, improvvisamente, sulla riva sinistra del Reno, poi nella Gallia si propagò la voce che i Franchi avessero rotto, massacrato l’esercito romano, lo stesso Costantino fosse morto sul campo. Valorosamente. La voce arrivò ad Arelate. Sgomento e paura. Non per Massimiano, che anzi di colpo riacquistò energie, spirito combattivo, iniziativa. La morte di Costantino lo rimise di necessità in gioco. Potè riprendersi la porpora di Augustus. Né lasciò tempo in mezzo: si impadronì del tesoro imperiale, poi radunò e parlò ai soldati di stanza ad Arelate, corse all’accampamento fuori città, dispensò denaro a piene mani. Era convinto che la fortuna gli alitasse di nuovo sulla faccia. Ma se lui conosceva, per esperienza, i vantaggi della violenza, le sorprese dell’inganno, l’altro, il creduto morto, fu un fulmine di guerra. Appena informato di quello che stava accadendo ad Arelate, stipulò una tregua con i Franchi: rinunciava a inseguirli e ad ammucchiare i loro cadaveri sulla riva del fiume, purché ripassassero subito il Reno e se allontanassero per quaranta miglia; poi velocemente giunse a Soana, imbarcò le truppe Ad Catalaunos e, seguendo la corrente del Rodano, arrivò ai porti di Arelate. Massimiano era pratico di guerra e di movimenti di truppe, ma rimase meravigliato, atterrito dalla stupefacente rapidità di Costantino. Neppure tentò di opporglisi in qualche modo. Fuggì a Massilia (Marsiglia), ritenuta imprendibile. E Costantino pose l’assedio alla città dalla parte di terra. Massimiano credeva di contare su due fattori: la via libera sul mare, che gli consentiva rifornimenti e quindi una resistenza a oltranza; l’aiuto di Massenzio. I Massalioti vanificarono l’uno e l’altro, aprendo le porte a Costantino.

Ricostruzione a disegno del teatro di Arelate (od. Arles).

La versione dei panegiristi cristiani.

Sulla morte di Massimiano le versioni sono diverse. Il dato certo è che, il giorno dopo la resa della città, Massimiano comparve in catene davanti al vincitore. Incerto è se, nella circostanza, si parlassero o no; e quale morte fosse riservata al prigioniero. Costantino gli concesse di morire da Romano, suicidandosi, oppure lo fece impietosamente strangolare? La versione dei panegiristi cristiani è più fantasiosa e molto meno credibile, conoscendo il carattere duro, inflessibile di Costantino e come in seguito si sia comportato con chiunque – legato o no a lui da vincoli di parentela – avesse attentato al suo potere. Dunque, secondo Eusebio e Lattanzio, Costantino fece grazia della vita a Massimiano e non solo: gli permise di vivere a corte, benché spogliato di ogni potere. E a corte, ad Augusta Treverorum, Massimiano cercò un giorno dopo l’altro di persuadere la figlia a rendersi complice dell’assassinio del marito; assassinio che si doveva compiere di notte e nel letto matrimoniale. Fausta acconsentì o finse di acconsentire; finché un giorno rivelò il piano al marito. La notte stabilita per l’assassinio di Costantino, il posto di lui nel letto fu preso da un eunuco. Sicché, quando Massimiano, lordo di sangue e uscito dalla camera, si mise a gridare di essere il solo imperatore, ecco che dal fondo del corridoio, illuminato improvvisamente dalle torce dei soldati, gli venne incontro proprio Costantino, la figura alta e ieratica come una condanna.

Nell’estate del 310 Galerio era nella Moesia a Serdica (l’odierna Sofia), che con Nicomedia in Bithynia divideva il vanto di capitale dell’Impero d’Oriente. La montagna a ridosso della città rendeva l’aria più salubre di quella affocata di Nicomedia. Inoltre Serdica gli ricordava gli anni della giovinezza, della prima milizia, le battaglie sul Danubio e il periodo esaltante di quando era Caesar e aveva sposato Valeria, la figlia di Diocleziano. Dopo l’euforia momentanea di Carnuntum gli riaffiorarono alla mente i problemi non risolti, gli scacchi subiti: l’Italia e l’Africa proconsularis in mano a Massenzio, invendicati il fallimento della sua «spedizione» fin quasi alle porte di Roma e la morte di Severo. E non stava bene in salute. Aveva un temperamento bilioso e facilmente irritabile. Nel riposo, per la rabbia, si era messo a bere più del dovuto, ingrassava, poi un giorno si scoprì un’ulcera ai genitali, che più o meno rapidamente gli si propagava al basso ventre. Nell’inverno gli si aprirono altre ulcere, le loro bocche pullulavano di vermi. Il fetore era enorme. Si chiamarono medici, maghi, guaritori, si immolarono vittime sulle are dei vari dèi. Bagni, profumi, pomate erano inutili contro i vermi e il fetore. Il corpo di Galerio si decomponeva in un sozzo, inarrestabile, vituperoso marciume.

Rotonda di Galerio, Thessaloniki.

L’editto di Galerio.

Lo scrupoloso cronista della malattia di Galerio è Lucio Celio Firmiano Lattanzio. Nel suo libro De mortibus persecutorum – scritto comunque dopo il 317 ad Augusta Treverorum, alternando la sua attività di retore a quella di precettore di Crispo, il bastardo primogenito di Costantino – con freddo, pietoso sadismo segue ogni ulteriore fase del male, che era poi la prova evidente del castigo di Dio per la persecuzione dei cristiani. Fu Valeria, la moglie dell’Augustus (che si diceva essere cristiana o simpatizzante insieme con la madre Prisca della nuova religione) a chiamare medici cristiani per la malattia del marito. Non servirono a nulla. Alla fine di aprile del 311 Galerio si umiliò a emettere, in favore dei cristiani, l’editto di ritrattazione e di tolleranza. Nemmeno questo gli servì per scampare alla morte. E implacabile il giudizio di Lattanzio: «Coloro che si avventarono contro Dio, giacciono sconfitti; coloro che torturarono a morte i giusti hanno esalato l’anima colpevole fra meritati tormenti, sotto i colpi della mano di Dio». Gaio Galerio Massimiano morì a Serdica il 3 o 4 maggio del 311. Era stato eletto Augustus esattamente sei anni prima, il 1 maggio 305. Al suo capezzale, oltre alla moglie, il solo Licinio, venuto da Sirmium sulla Sava. A lui il morente raccomandò la moglie e il figlio bastardo Candidiano. Ma come non lo avevano «miracolato» i medici cristiani o l’editto di tolleranza, così non sortirono alcun effetto le raccomandazioni per la moglie e il figlio. Anzi Licinio, che gli era stato commilitone fin dalla giovinezza e a lui doveva titoli, cariche, comandi di eserciti, province, lo avrebbe tradito miserevolmente, arrivando addirittura ad uccidergli e l’una e l’altro.

La spartizione dell’Impero d’Oriente.

I sintomi della guerra civile si erano avvertiti già nei bui risvolti della riunione di Carnuntum. Massimino Daia non era stato affatto contento della consacrazione di Licinio ad Augustus. Per quanto più giovane, credeva di avere più titolo e diritti di lui. Erano entrambi feroci, sensuali, avidi di potere. E si odiavano visceralmente. Ingordo, rozzo e depravato Massimino Daia; Licinio più abile ed esperto condottiero, ma gonfio di libidine, come un soldato mercenario. Nella morte di Galerio videro un’occasione unica di rifarsi: l’uno defraudato da una sorte avversa, l’altro dall’invidia degli antagonisti. Licinio di province aveva solo la Raetia, la Pannonia e parte dell’Ilyricum; Massimino Daia la Syria e l’Aegyptus. Ora si spalancavano loro le province di Galerio: l’altra parte dell’Illyricum, la Graecia, la Macedonia, Moesia Superior e Moesia Inferior, tutta l’Asia Minor, inclusa la Bithynia con la capitale Nicomedia.

Massimino Daia. Busto, porfido, inizi IV sec. d.C. Cairo Museum.

Avvantaggiò enormemente Massimino Daia la circostanza in cui Galerio durante la malattia e al momento della morte si trovasse a Serdica. Né lui si era mosso per visitarlo o per i funerali, benché gli fosse nipote e debitore della nomina a Caesar, fra l’altro non voluta ed ostacolata da Diocleziano. Così, avendo mano libera in Asia, si spinse con l’esercito fino alla Troas, occupò Nicomedia e arrivò al Bosforo senza colpo ferire. Licinio, ancora impelagato a Serdica, era stato colto di sorpresa e quando,  radunato in tutta fretta un esercito, corse al Bosforo, l’altra riva era saldamente presidiata dalle truppe di Massimino Daia. Stettero a guardarsi attraverso la liquida barriera del mare, misurando l’uno le forze dell’altro, finché decisero che era meglio venire ad una tregua, lunga o breve che fosse. Del resto nessuno dei due era, al momento, preparato per una guerra, né intendeva rischiare in una battaglia i territori appena conquistati. E in effetti il Bosforo, con il mare che separava le due rive, diveniva un confine naturale: da una parte l’Occidente, dall’altra l’Oriente.

Un imprevisto della tregua, trasformata poi in accordo, fu la fuga repentina da Licinio di Valeria insieme con la madre Prisca e il figlio bastardo di Galerio, Candidiano. Attraversato il Bosforo, Valeria chiese asilo all’altro contendente, Massimino Daia a Nicomedia, tornata ora a essere capitale dell’Oriente. Lattanzio addebita la fuga alla paura di Valeria di fronte alla libidine di Licinio. Lui sessantenne, lei sotto i trenta. Per lo più le passioni senili sono pervicaci, distruttive e non di rado (come nel caso in questione) impossibili a dominarsi. Valeria era illirica, bionda, una di quelle bellezze misteriose, dal fascino segreto. Galerio ne era stato innamorato e geloso, ma da lei non aveva avuto figli. Delle donne all’apice del potere la vicenda umana di Valeria è fra le più penose. Toccò i due estremi della fortuna. La sua avvenenza fisica le fu al tempo stesso causa di passioni e di grandi sciagure. È strano come la storia, paludata o austera, dimentichi o releghi in un canto la storia cosiddetta «minore», il dietro della facciata per intendersi, o quella che ha il letto come naturale gioco di contesa, e il cui peso non è meno determinante, a volte, dei colpi di Stato o delle battaglie perdute o vinte. In una struttura politica, quale la tetrarchia per esempio, immaginata e portata avanti dalle geometrie della ragione, le rivalità di potere si intrecciarono con i vincoli di famiglia e con quelli generati dalle passioni. Gli uni e gli altri, come era sempre accaduto dal tappeto di Cleopatra o dal ballo discinto di Ester, univano o strangolavano. Galerio aveva sposato la figlia di Diocleziano, Valeria, e la passione per lei fu un aculeo di continuo presente nella lotta mortale fra Licinio e Massimino Daia. Costantino, unito in matrimonio con Fausta, figlia di Massimiano e sorella di Massenzio, combatté e uccise sia l’uno che l’altro. Ugualmente si comportò con Licinio, al quale dapprima, per convenienza politica, da in moglie la sorellastra prediletta Costanza, poi, nel giro di pochi anni, muove guerra per arraffare il potere unico del mondo, arrivando impietosamente alla morte dello stesso e del figlio (ovverosia cognato e nipote).