Democratici alla riscossa

di D. Mᴜsᴛɪ, Storia greca. Linee di sviluppo dall’età micenea all’età romana, Milano 2010, pp. 480 sgg.

L’esposizione che Senofonte fa degli episodi militari, che portano al rientro dei democratici, è ricca di dettagli per tutte le fasi del racconto; e questo, strutturalmente, dà alla narrazione senofontea un carattere diverso dai testi di Aristotele e Diodoro[1]. Questi ultimi, infatti, danno una particolare espansione alla prima fase del rientro. Il momento di File, come del resto anche quello del Pireo, ha estensione e ruolo particolari. Proprio il rilievo ideologico del rientro, le condizioni in cui se ne determina la possibilità, l’accorrere di varia gente che va ad ingrossare le file democratiche, sono l’elemento costitutivo del racconto di Aristotele e di Diodoro; più rapida invece l’esposizione dei fatti militari, che seguono agli scontri di File e del Pireo. Si può dire insomma che, nella parte finale, il racconto di Aristotele e quello di Diodoro siano molto contratti. In Senofonte più della metà del racconto riguarda il seguito dello scontro del Pireo, con particolari che si riferiscono soprattutto alla parte ateniese oligarchica, e alla parte spartana; il che può dare l’idea della posizione che in questo momento occupa l’autore. Dopo lo scontro del Pireo si raccolgono i morti, e un lungo discorso dell’araldo dei mýstai di Eleusi, Cleocrito, fa presente agli uomini dell’altra parte – anch’essi impegnati nell’opera pietosa – quanto sia folle il combattersi, quanto male abbiano fatto i Trenta che, per i loro vantaggi, in otto mesi hanno ucciso più Ateniesi di quanto i Peloponnesiaci abbiano fatto in dieci anni[2]. Questa indicazione è importante, perché permette di collocare cronologicamente gli eventi: gli otto mesi, secondo Beloch[3], vanno considerati dal momento della capitolazione e pace, avvenute nell’aprile del 404; e perciò aiuterebbero a collocare tutti questi fatti nel novembre-dicembre del 404. A rigore, potremmo scalare un paio di mesi ancora, perché la vera e propria installazione del regime dei Trenta tarda un paio di mesi ed è soltanto verso giugno: quindi noi dovremmo datare la battaglia del Pireo verso febbraio. Questo però si accorda male con il fatto che la prima spedizione dei Tiranni contro File fu scoraggiata da una nevicata imprevista; ora l’episodio di File, stando alla dinamica degli eventi, si colloca circa tre settimane prima della battaglia del Pireo, in cui cade Crizia; potrebbe perciò essere conveniente sistemare la battaglia del Pireo verso novembre-dicembre del 404, più che a febbraio del 403, quando la neve doveva essere qualcosa di prevedibile. Dobbiamo allora forse considerare gli otto mesi dal momento in cui non c’era ancora formalmente il regime dei Trenta Tiranni, ma, con la capitolazione di Atene, se ne erano create le premesse.

Atene. Tetradramma, Ar. 17,27 g. 454-404 a.C. ca. Recto: Testa paludata di Atena verso destra, con orecchino, collana ed elmo attico crestato decorato con foglie di olivo.

Lo scontro del Pireo rappresenta una svolta, perché ora i Trenta vengono indotti a rimettere il potere a un nuovo collegio di magistrati, i Dieci, che devono esperire le vie della pace; cosa che il collegio non fa, secondo Diodoro; segue un collegio di Dieci, che saranno fra i veri autori della riconciliazione[4].

Nel racconto senofonteo c’è un dato importante per la collocazione dell’autore. Senofonte afferma che il giorno dopo lo scontro del Pireo (intorno al novembre-dicembre, secondo Beloch, del 404), i Trenta residui, ormai privi delle loro guide, Crizia e Carmide, erano riuniti in sinedrio, soli e abbandonati, perché i Tremila, che avrebbero dovuto essere il loro naturale supporto, si riunivano in luoghi diversi, per discutere la situazione. «Quanti avevano commesso qualche violenza, e per questo avevano ragione di temere, dicevano con forza che non bisognava cedere a quelli del Pireo; ma quanti erano convinti di non aver commesso alcun torto, consideravano per sé, e agli altri facevano presente, che non c’era nessun bisogno di tutti questi mali, e dicevano ancora che non bisognava obbedire ai Trenta, né permettere che la città andasse in rovina. Da ultimo, decisero di metter fine al loro governo, e di eleggerne altri; e ne elessero dieci, uno per tribù» (Elleniche II 4, 23). Se veramente Senofonte avesse avuto qualcosa di grave sulla coscienza, egli non avrebbe in nessun modo parlato in questi termini; la cosa che più doveva passare sotto silenzio è che, intorno al dicembre del 404, ci fosse fra i Tremila qualcuno che aveva delle colpe, e qualcuno che non ne aveva. Egli avrebbe potuto semplicemente dire: «I Tremila decisero di metter fine al regime dei Trenta»; ma evidentemente egli ritiene di essere tra coloro che non avevano nulla di particolarmente grave da rimproverarsi.

Filosofo. Busto, marmo pario, II-III sec. d.C. Museo Archeologico di Delfi.

I Trenta, dopo la sconfitta del Pireo, si ritirarono ad Eleusi; i Dieci sono molto preoccupati, e Senofonte descrive la diuturna guardia esercitata dai cavalieri per il timore di attacchi da parte di quelli del Pireo. Anche quelli del Pireo, intanto, si vanno organizzando e vanno promettendo l’isotéleia agli stranieri, che continuino a combattere dalla parte dei democratici. L’isotéleia è la condizione di colui che si trova a partecipare di télē (obblighi fiscali in primo luogo) dei cittadini; si tratta di una categoria privilegiata di meteci. Esiste il problema se l’isotelia equivalga semplicemente a immunità dal pagamento del metoíkion, cioè della tassa, probabilmente mite, di dodici dracme, versata dai meteci, o se invece significhi un più sostanziale adeguamento, senza che ci sia identificazione totale, alla condizione di cittadini.

Segue l’intervento spartano, condotto da Lisandro, che protegge gli oligarchici, e dal re Pausania II, che, per ragioni personali, oltre che per intima convinzione, contrasta i disegni di Lisandro, e in un primo momento deve attaccare, e sconfigge, quelli del Pireo, insieme con gli alleati peloponnesiaci (esclusi Beoti e Corinzi). Poi Pausania invita segretamente i democratici del Pireo a mandargli ambascerie di pace, e fa opera di convincimento anche con “quelli della città”; ambascerie delle diverse parti ateniesi giungono a Sparta. La pace è fatta, con un’amnistia (è a questo punto che Aristotele, almeno come Diodoro, colloca l’adozione del principio del mḕ mnēsikakeîn, il «non recriminare»), che esclude solo i Trenta, gli Undici (di giustizia) e i Dieci del Pireo; gli oligarchi che non lo vogliano possono ritirarsi ad Eleusi[5]. Archino riduce il numero dei giorni della decisione per trattenere in città gli incerti: misura abile, che si pone apparentemente contro i candidati al cambiamento di domicilio, cioè contro gli oligarchi, ma ha invece l’effetto reale di trattenerli nella cittadinanza. È chiaro che il risultato è quello che si addice a un rappresentante del filone moderato della rinata democrazia. Non a caso Aristotele lo colloca fra i rappresentanti della pátrios politeía e gli attribuisce tre misure, tutte dello stesso tenore: 1) l’opposizione al decreto di Trasibulo che finiva col premiare, fra i combattenti per la restaurazione democratica, anche gli schiavi con la concessione della cittadinanza; 2) la fermezza nel volere la condanna a morte di un cittadino che aveva osato «recriminare», cioè contravvenire al principio dell’amnēstía, del mḕ mnēsikakeîn, nei riguardi di coloro che appartenessero ai collegi governanti nel periodo dei Trenta; 3) l’abile riduzione del tempo concesso per l’opzione della residenza ad Eleusi, come già si è detto. Agli occhi di Aristotele, egli è un campione dell’homónoia, l’ideale moderato della concordia, che ormai si afferma ad Atene e nel mondo greco[6]. Per Senofonte (Elleniche II 4, 43) un grave episodio turba e chiude la vita effimera di Eleusi nel 401: insospettiti per notizie di intenzioni aggressive, gli Ateniesi con Trasibulo attaccano Eleusi; in un colloquio vengono uccisi a tradimento i generali oligarchici; solo ora (401) ci sono, per Senofonte, la pace e l’amnistia.


[1] Senofonte, Elleniche II 4, 1-43; Aristotele, Costituzione degli Ateniesi 34-40; Diodoro, XIV 32-33.

[2] Senofonte, Elleniche II 4, 20 sgg., in part. 21 sugli “otto mesi”.

[3] GG2 III 2, pp. 209 sgg., e in generale 204-211.

[4] Sul secondo collegio di Dieci succeduto a quello dei Trenta, J.K. Beloch, GG2 III 1, p. 12 n. 1, in base ad Aristotele, Costituzione degli Ateniesi 38, 3; Androzione, FGrHist 324 F 10.

[5] Cfr. n. 1.

[6] Aristotele, Costituzione degli Ateniesi 40.

Da fautore a vittima del regime (Xᴇɴ. 𝘏𝘦𝘭𝘭. II 3, 15; 23-56; 4, 1)

[15] In un primo tempo Crizia[1] condivideva le idee di Teramene e gli era amico; ma quando, più tardi, il primo si mostrò sempre più incline ad uccidere molte persone, poiché non dimenticava l’esilio subito durante la democrazia, Teramene gli si oppose, in quanto riteneva irragionevole l’uccisione di un uomo per la sola colpa di essere stato onorato dal popolo (dēmos), senza che avesse commesso alcuna ingiustizia nei confronti dei gentiluomini (kaloí kaì agathoí): «Poiché sia io – diceva – che tu abbiamo detto e fatto molto per riuscire graditi alla città». […] [23] I Trenta, a questo punto, ritenendolo un ostacolo alle loro azioni, incominciarono a tramare alle sue spalle; si incontravano in privato con i buleuti e lo accusavano di voler sovvertire il regime (politeía). Diedero istruzioni a un gruppo di giovani, che sembravano loro particolarmente audaci, di trovarsi sul posto con un pugnale sotto l’ascella, e convocarono il Consiglio (boulḗ)[2]. [24] Quando anche Teramene fu presente, Crizia si alzò e tenne il seguente discorso:

Assemblea degli dèi. Bassorilievo, marmo, 530-525 a.C. ca., dal Tesoro dei Sifni, Santuario di Apollo Delfico. Delfi, Museo Archeologico Nazionale.
Assemblea degli dèi. Bassorilievo, marmo, 530-525 a.C. ca., dal Tesoro dei Sifni, Santuario di Apollo Delfico. Delfi, Museo Archeologico Nazionale.

«Membri del Consiglio, se qualcuno di voi è convinto che le nostre esecuzioni hanno superato il dovuto, consideri che questo è normale ovunque avvengano mutamenti costituzionali; è inevitabile che qui gli avversari dell’oligarchia siano molto più che numerosi perché la nostra città è la più popolosa della Grecia e poiché il popolo è vissuto più a lungo in libertà (eleuthería). [25] Noi, dunque, ben sapendo come la democrazia sia per gente come noi e come voi un regime odioso (chalepḕn politeía), e convinti anche che il popolo mai sarà amichevole nei confronti degli Spartani, nostri salvatori, mentre i migliori (béltistoi) continueranno ad essere leali; per questi motivi, per l’intesa con gli Spartani, abbiamo imposto l’attuale costituzione. [26] E per quanto è in nostro potere, ci sbarazzeremo di chiunque scopriremo che si opponga all’oligarchia; ma soprattutto ci sembra legittimo, se è uno di noi a violare l’ordinamento costituito, fargli pagare il fio. [27] Ebbene, constatiamo che il qui presente Teramene stia cercando di rovinare con tutti i mezzi possibili noi e voi. Vi renderete conto che questa è la verità, se ci fate attenzione, che nessuno più di questo Teramene critica (pségōn) la situazione presente o fa opposizione (enantioúmenos) tutte le volte che vogliamo liberarci di qualche demagogo. Se fin dall’inizio avesse manifestato questo atteggiamento, sarebbe stato un nemico, tuttavia non potrebbe essere legittimamente considerato disonesto. [28] Invece, dopo essere stato il promotore dell’intesa e dell’amicizia con gli Spartani, nonché dell’abbattimento della democrazia, e avervi in modo particolare indotto a punire quelli che inizialmente erano portati in giudizio davanti a voi, ora, poiché sia voi che noi siamo divenuti nemici palesi del popolo, non approva più ciò che accade, per mettersi di nuovo al sicuro, facendo ricadere solo su di noi la responsabilità di quanto accaduto. [29] Sicché conviene che sia punito non solo come nemico, ma anche come traditore vostro e nostro. Il tradimento è infatti ben più pericoloso dell’ostilità, perché è più difficile guardarsi da ciò che è nascosto che da ciò che è evidente, e ben più odioso, poiché con i nemici gli uomini concludono trattati e tornano ad essere amici, mentre con un traditore, se lo scoprono, nessuno stringerebbe mai accordi, né gli concederebbe fiducia per il futuro. [30] E perché sappiate che costui non fa nulla di nuovo, ma che per natura è un traditore (phýsei prodótēs estín), vi ricorderò le sue azioni passate[3]. Costui, inizialmente stimato dal popolo grazie al padre Agnone[4], divenne il più determinato a trasformare la democrazia nel regime dei Quattrocento e ne divenne uno dei primi esponenti (eprōteuen en ekeínois). Quando però si rese conto che si stava realizzando una certa opposizione all’oligarchia, fu il primo a diventare capo del popolo (ēgemōn tōi dēmōi) contro di essa. Di qui gli deriva il soprannome di “Coturno”[5]: [31] e difatti il coturno sembra adattarsi † a entrambi i piedi. Ma, Teramene, l’uomo degno di vivere (áxion zēn) non deve mostrarsi capace di guidare i compagni soltanto nelle situazioni critiche, per ritirarsi subito indietro se sorge qualche difficoltà, ma, come su una nave, deve faticare finché non si alza il vento favorevole; altrimenti, come potrebbero arrivare a destinazione, invertendo la rotta ad ogni ostacolo? [32] I rivolgimenti costituzionali (metabolaì politeiōn) comportano sempre delle vittime, ma tu, per i tuoi voltafaccia[6], sei corresponsabile dell’uccisione di moltissimi uomini tra gli oligarchici per mano del popolo, come pure di un numero altissimo tra quelli della democrazia da parte dei migliori. Egli è colui che, incaricato dagli strateghi di recuperare i naufraghi nella battaglia navale nelle acque di Lesbo[7], non solo non li recuperò, ma accusò gli strateghi, mandandoli alla morte per salvarsi la vita. [33] Colui che si mostra in ogni circostanza preoccupato del proprio vantaggio personale, senza preoccuparsi minimamente della propria dignità e degli amici, perché dovremmo risparmiarlo? Come non prendere delle precauzioni, conoscendo i suoi voltafaccia, per impedirgli di comportarsi allo stesso modo con noi? Pertanto noi lo sottoponiamo al vostro giudizio, perché cospira contro di noi e tradisce sia noi che voi. Quanto al fatto che agiamo fondatamente, ponete attenzione anche a quanto segue. [34] Quella degli Spartani risulta essere la costituzione più bella (kallístē politeía)[8]: là, se un eforo, anziché rispettare le decisioni della maggioranza, si desse a criticare il governo e facesse ostruzionismo, non presumete che gli efori stessi e la città intera lo riterrebbero degno della massima pena? Voi dunque, se siete saggi, avrete dei riguardi non per costui, ma per voi stessi, perché la sua salvezza potrebbe incoraggiare i vostri oppositori, mentre da morto toglierebbe loro ogni speranza, dentro e fuori la città».

[35] Quello, detto questo, si sedette; si alzò allora Teramene[9], che prese la parola: «Per prima cosa, concittadini, mi riferirò a quanto egli ha detto su di me in ultima istanza. Dice infatti che, accusandoli, io abbia mandato a morte gli strateghi. Ma di certo non ho incominciato io a sollevare la questione contro di loro, bensì essi dichiararono che io non raccolsi le vittime dello scontro presso Lesbo, malgrado gli ordini che mi avevano impartito. E io, dicendo in mia difesa che a causa della tempesta era impossibile navigare né, tantomeno, recuperare i naufraghi, diedi alla città la sensazione di dire cose plausibili, mentre essi sembravano accusarsi da sé. Sostenendo a parole che era possibile salvare gli uomini, dopo averli abbandonati alla morte, si allontanarono con le navi. [36] Non mi meraviglia che Crizia sia male informato: quando infatti accaddero queste cose, egli non era presente, ma in Tessaglia insieme a Prometeo instaurò la democrazia e armò i penesti[10] contro i loro padroni; [37] speriamo che nulla di ciò che ha fatto laggiù capiti qui! Su di un punto, tuttavia, sono d’accordo con lui, ed è che, se qualcuno vuole porre fine al vostro potere e rafforzare coloro che ordiscono contro di voi, è giusto che costui riceva la massima pena; chi sia colui che sta comportandosi in questo modo, penso che possiate giudicarlo nel modo migliore se riflettete sull’operato passato e presente di ciascuno di noi. [38] Finché si trattò di insediarvi nella boulḗ, di designare le magistrature e di citare in giudizio quanti erano, secondo l’opinione comune, dei sicofanti[11], tutti concordavamo; ma quando costoro incominciarono ad arrestare persone stimate e rispettabili (kaloí kaì agathoí), anch’io cominciai a dissociarmi dal loro modo di pensare. [39] Infatti, con la morte di Leonte di Salamina[12], uomo di fama e capacità reali e riconosciute e che non aveva mai compiuto neppure un’azione ingiusta, sapevo che le persone simili a lui avevano paura e che, impaurite, avrebbero avversato questo regime. Riconobbi altresì che, dopo l’arresto di Nicerato, figlio di Nicia[13], persona facoltosa e che, come suo padre, non aveva mai fatto alcunché per ingraziarsi il popolo, gli uomini come lui sarebbero stati mal disposti nei nostri confronti. [40] Così anche dopo aver condannato a morte Antifonte, che in guerra aveva allestito due ottime triremi, sapevo che anche quanti erano stati devoti alla città, ci avrebbero tutti guardati con sospetto. Mi opposi anche quando dissero che ognuno di noi doveva arrestare un meteco: era infatti evidente che, giustiziati costoro, anche tutti i meteci sarebbero diventati ostili al regime. [41] E mi opposi anche quando disarmarono il popolo, non ritenendo che si dovesse indebolire la città; vedevo che neppure gli Spartani avevano voluto salvarci per questo, perché, ridotti in pochi, non potessimo essere loro di nessuna utilità: infatti, se fosse stato questo il loro progetto, sarebbero stati in grado di non lasciare in vita nessuno, prostrandoci con la fame ancora per qualche tempo. [42] E neppure ero d’accordo di stipendiare le guardie, dal momento che era possibile avvalersi del servizio degli stessi cittadini, finché avevamo facilmente il controllo di quanti governavamo. Poiché vedevo in città molti insofferenti a questo governo, molti costretti all’esilio, ancora una volta, non mi sembrava opportuno esiliare Trasibulo, Anito[14], Alcibiade; sapevo bene, infatti, che in questo modo l’opposizione sarebbe stata forte[15], se si davano alla massa (tò plḗthos) capi efficienti e a chi aspirava al potere un gran numero di sostenitori. [43] Ma colui che esprimeva queste opinioni apertamente dovrebbe essere considerato a buon diritto persona responsabile o traditore? No, Crizia, non è impedendo ai nemici di diventare più numerosi né mostrando come procurarsi più sostenitori a rendere forti gli oppositori, ma è proprio confiscando ingiustamente i beni e uccidendo chi non ha commesso alcuna colpa, che si aumenta il numero degli avversari e che si tradisce, oltre agli amici, se stessi per ignobile avidità. [44] Se non c’è altro modo per dimostrarvi che dico la verità, riflettete su questo: credete che Trasibulo, Anito e tutti gli altri esuli preferirebbero che si realizzasse qui ciò di cui io sto parlando o ciò che stanno compiendo costoro? Secondo me, infatti, ritengono che qui ormai abbiano sostenitori ovunque; ma se ci fosse favorevole la parte più considerevole della città, troverebbero difficile anche solo mettere il piede sul nostro territorio. [45] Quanto all’affermazione secondo cui io sarei sempre pronto a cambiar opinione, considerate anche quanto segue. Com’è noto, il popolo stesso votò la costituzione dei Quattrocento[16], consapevole che gli Spartani si sarebbero fidati di qualsiasi forma di governo, esclusa la democrazia. [46] Poiché quelli non recedevano in nulla, e fu chiaro che Aristotele, Melanzio e Aristarco con gli altri strateghi costruivano un forte sul promontorio[17] per fare entrare il nemico e ridurre così la città in loro potere e dei loro sostenitori, se io, che ero al corrente del piano, l’ho impedito, significa che ho tradito gli amici? [47] Mi dà poi del “Coturno”[18] perché cerco di adattarmi agli uni e agli altri. Ma chi non va bene né a una parte né all’altra, come bisogna chiamarlo, per gli dèi? Tu, infatti, sotto la democrazia tu eri considerato il peggior nemico del popolo, mentre sotto il regime oligarchico sei diventato il peggior nemico degli aristocratici. [48] Quanto a me[19], Crizia, mi sono sempre opposto a quanti ritengono che non vi possa essere una buona democrazia finché non siano resi partecipi del potere gli schiavi e i morti di fame che venderebbero la pólis per una dracma; ma sono sempre stato anche nemico di chi pensa che non ci possa essere una buona oligarchia finché non sia ridotta la città a subire la tirannide di pochi[20]. Governare la pólis insieme a coloro che sono in grado di difenderla con i cavalli e con gli scudi: ecco il programma[21] che ho sempre considerato migliore e che non intendo modificare[22]. [49] E se tu, Crizia, puoi citare qualche caso in cui, con i democratici o con gli tirannici, io abbia intrigato per togliere la cittadinanza alle persone perbene e rispettabili, parla: se mi si troverà colpevole d’averlo fatto ora o in passato, ammetterò di meritare una giusta morte fra i più atroci tormenti!».

Iscrizione di un decreto del Consiglio (boulḗ) e dell_Assemblea (ekklēsìa), del 450 a.C. Ricostruzione di Webster, 1913.
Iscrizione di un decreto del Consiglio (boulḗ) e dell’Assemblea (ekklēsìa), del 450 a.C. Ricostruzione di Webster, 1913.

[50] Non appena concluse il discorso dicendo queste parole, il Consiglio si mostrò chiaramente favorevole; Crizia, rendendosi conto che, se avesse permesso la votazione sulla questione al Consiglio, quello sarebbe stato assolto, e ritenendo ciò intollerabile, alzatosi e avvicinatosi ai Trenta, scambio qualche parola con loro, quindi uscì e ordinò a quelli armati di pugnale di mettersi bene in vista di fronte al Consiglio, vicino ai cancelli[23]. [51] Quando rientrò chiese di nuovo la parola: «Membri del Consiglio, ritengo sia compito di un capo degno del suo nome, quando vede gli amici sbagliare, non permetterlo. Anch’io farò proprio così! Ora, quelli che stanno là[24] affermano che non ci lasceranno fare se intendiamo prosciogliere un uomo che cerca palesemente di abbattere l’oligarchia. In base alle nuove leggi, nessuno di coloro che appartengono ai Tremila può essere condannato a morte senza il vostro voto, mentre, per quelli che sono esclusi, i Trenta hanno pieni poteri di farli giustiziare. Io – disse – con approvazione unanime, cancello il qui presente Teramene dalla lista. Costui – concluse – noi lo condanniamo a morte!»[25]. [52] A queste parole, Teramene balzò sull’altare di Estia e così parlò: «E io, concittadini, vi supplico con le cose più legittime in assoluto: che Crizia non abbia facoltà di cancellare né me, né chi voglia di voi, ma che in base a quelle leggi che costoro scrissero in merito alle persone della lista, proprio in base a queste leggi sia emessa la sentenza per me e per voi. [53] So bene – disse –, per gli dèi, che questo altare non mi servirà a nulla, eppure voglio dimostrarvi che costoro non solo stanno commettendo la massima violazione della giustizia umana, ma anche la peggiore empietà contro gli dèi! Mi meraviglio che voi – proseguì – cittadini rispettabili e stimati, non difendiate voi stessi, in quanto sapete che il mio nome non è affatto più facile da cancellare di quello di ciascuno di voi!» [54] Immediatamente l’araldo dei Trenta ordinò agli Undici[26] di arrestare Teramene. Entrati costoro con i loro agenti guidati da Satiro[27], un individuo assai violento e crudele, Crizia sentenziò: «Vi consegno Teramene, giudicato in conformità della legge. Catturatelo e conducetelo nel luogo prescritto; quindi agite secondo la procedura». [55] A queste parole, Satiro, con l’aiuto degli agenti, strappò Teramene dall’altare, tra le sue grida che invocavano a testimoni gli dèi e gli uomini. Il Consiglio non si mosse, intimidito dalla vista dei tizi, in tutto simili a Satiro, a ridosso della cancellata e dal cospicuo numero di guardie presenti nell’aula (bouleutḗrion), che si sapevano armati di pugnale. [56] Teramene fu trascinato attraverso l’agorà mentre, protestando a gran voce, attirava l’attenzione sulla sorte che subiva. Di lui, si cita anche questa frase: non appena Satiro lo minacciò che, se non avesse taciuto, avrebbe passato dei guai, Teramene chiese: «E se starò zitto, non ne avrò?». Per morire fu costretto a bere la cicuta e si racconta che gettasse per terra l’ultima goccia, come nel gioco del còttabo, accompagnando il gesto con queste parole: «Alla salute del mio bel Crizia!»[28]. So bene che una battuta del genere non meriti neppure di essere menzionata, ma trovo ammirevole in quell’uomo che, neppure nell’imminenza della morte, abbia perso il senso dell’ironia e dell’umorismo.

[4.1] Così morì Teramene […].

[3.15] τῷ μὲν οὖν πρώτῳ χρόνῳ ὁ Κριτίας τῷ Θηραμένει ὁμογνώμων τε καὶ φίλος ἦν· ἐπεὶ δὲ αὐτὸς μὲν προπετὴς ἦν ἐπὶ τὸ πολλοὺς ἀποκτείνειν, ἅτε καὶ φυγὼν ὑπὸ τοῦ δήμου, ὁ δὲ Θηραμένης ἀντέκοπτε, λέγων ὅτι οὐκ εἰκὸς εἴη θανατοῦν, εἴ τις ἐτιμᾶτο ὑπὸ τοῦ δήμου, τοὺς δὲ καλοὺς κἀγαθοὺς μηδὲν κακὸν εἰργάζετο, «ἐπεὶ καὶ ἐγώ, ἔφη, καὶ σὺ πολλὰ δὴ τοῦ ἀρέσκειν ἕνεκα τῇ πόλει καὶ εἴπομεν καὶ ἐπράξαμεν» […] [23] οἱ δ᾽ ἐμποδὼν νομίζοντες αὐτὸν εἶναι τῶι ποιεῖν ὅ τι βούλοιντο, ἐπιβουλεύουσιν αὐτῶι, καὶ ἰδίαι πρὸς τοὺς βουλευτὰς ἄλλος πρὸς ἄλλον διέβαλλον ὡς λυμαινόμενον τὴν πολιτείαν. καὶ παραγγείλαντες νεανίσκοις οἳ ἐδόκουν αὐτοῖς θρασύτατοι εἶναι ξιφίδια ὑπὸ μάλης ἔχοντας παραγενέσθαι, συνέλεξαν τὴν βουλήν. [24] ἐπεὶ δὲ ὁ Θηραμένης παρῆν, ἀναστὰς ὁ Κριτίας ἔλεξεν ὧδε.

Ὦ ἄνδρες βουλευταί, εἰ μέν τις ὑμῶν νομίζει πλείους τοῦ καιροῦ ἀποθνήισκειν, ἐννοησάτω ὅτι ὅπου πολιτεῖαι μεθίστανται πανταχοῦ ταῦτα γίγνεται· πλείστους δὲ ἀνάγκη ἐνθάδε πολεμίους εἶναι τοῖς εἰς ὀλιγαρχίαν μεθιστᾶσι διά τε τὸ πολυανθρωποτάτην τῶν Ἑλληνίδων τὴν πόλιν εἶναι καὶ διὰ τὸ πλεῖστον χρόνον ἐν ἐλευθερίαι τὸν δῆμον τεθράφθαι. [25] ἡμεῖς δὲ γνόντες μὲν τοῖς οἵοις ἡμῖν τε καὶ ὑμῖν χαλεπὴν πολιτείαν εἶναι δημοκρατίαν, γνόντες δὲ ὅτι Λακεδαιμονίοις τοῖς περισώσασιν ἡμᾶς ὁ μὲν δῆμος οὔποτ᾽ ἂν φίλος γένοιτο, οἱ δὲ βέλτιστοι ἀεὶ ἂν πιστοὶ διατελοῖεν, διὰ ταῦτα σὺν τῆι Λακεδαιμονίων γνώμηι τήνδε τὴν πολιτείαν καθίσταμεν. [26] καὶ ἐάν τινα αἰσθανώμεθα ἐναντίον τῆι ὀλιγαρχίαι, ὅσον δυνάμεθα ἐκποδὼν ποιούμεθα· πολὺ δὲ μάλιστα δοκεῖ ἡμῖν δίκαιον εἶναι, εἴ τις ἡμῶν αὐτῶν λυμαίνεται ταύτηι τῆι καταστάσει, δίκην αὐτὸν διδόναι. [27] νῦν οὖν αἰσθανόμεθα Θηραμένην τουτονὶ οἷς δύναται ἀπολλύντα ἡμᾶς τε καὶ ὑμᾶς. ὡς δὲ ταῦτα ἀληθῆ, ἂν κατανοῆτε, εὑρήσετε οὔτε ψέγοντα οὐδένα μᾶλλον Θηραμένους τουτουὶ τὰ παρόντα οὔτε ἐναντιούμενον, ὅταν τινὰ ἐκποδὼν βουλώμεθα ποιήσασθαι τῶν δημαγωγῶν. εἰ μὲν τοίνυν ἐξ ἀρχῆς ταῦτα ἐγίγνωσκε, πολέμιος μὲν ἦν, οὐ μέντοι πονηρός γ᾽ ἂν δικαίως ἐνομίζετο· [28] νῦν δὲ αὐτὸς μὲν ἄρξας τῆς πρὸς Λακεδαιμονίους πίστεως καὶ φιλίας, αὐτὸς δὲ τῆς τοῦ δήμου καταλύσεως, μάλιστα δὲ ἐξορμήσας ὑμᾶς τοῖς πρώτοις ὑπαγομένοις εἰς ὑμᾶς δίκην ἐπιτιθέναι, νῦν ἐπεὶ καὶ ὑμεῖς καὶ ἡμεῖς φανερῶς ἐχθροὶ τῶι δήμωι γεγενήμεθα, οὐκέτ᾽ αὐτῶι τὰ γιγνόμενα ἀρέσκει, ὅπως αὐτὸς μὲν αὖ ἐν τῶι ἀσφαλεῖ καταστῆι, ἡμεῖς δὲ δίκην δῶμεν τῶν πεπραγμένων. [29] ὥστε οὐ μόνον ὡς ἐχθρῶι αὐτῶι προσήκει ἀλλὰ καὶ ὡς προδότηι ὑμῶν τε καὶ ἡμῶν διδόναι τὴν δίκην. καίτοι τοσούτωι μὲν δεινότερον προδοσία πολέμου, ὅσωι χαλεπώτερον φυλάξασθαι τὸ ἀφανὲς τοῦ φανεροῦ, τοσούτωι δ᾽ ἔχθιον, ὅσωι πολεμίοις μὲν ἄνθρωποι καὶ σπένδονται καὶ αὖθις πιστοὶ γίγνονται, ὃν δ᾽ ἂν προδιδόντα λαμβάνωσι, τούτωι οὔτε ἐσπείσατο πώποτε οὐδεὶς οὔτ᾽ ἐπίστευσε τοῦ λοιποῦ. [30] ἵνα δὲ εἰδῆτε ὅτι οὐ καινὰ ταῦτα οὗτος ποιεῖ, ἀλλὰ φύσει προδότης ἐστίν, ἀναμνήσω ὑμᾶς τὰ τούτωι πεπραγμένα. οὗτος γὰρ ἐξ ἀρχῆς μὲν τιμώμενος ὑπὸ τοῦ δήμου κατὰ τὸν πατέρα Ἅγνωνα, προπετέστατος ἐγένετο τὴν δημοκρατίαν μεταστῆσαι εἰς τοὺς τετρακοσίους, καὶ ἐπρώτευεν ἐν ἐκείνοις. ἐπεὶ δ᾽ ἤισθετο ἀντίπαλόν τι τῆι ὀλιγαρχίαι συνιστάμενον, πρῶτος αὖ ἡγεμὼν τῶι δήμωι ἐπ᾽ ἐκείνους ἐγένετο· [31] ὅθεν δήπου καὶ κόθορνος ἐπικαλεῖται. [καὶ γὰρ ὁ κόθορνος ἁρμόττειν μὲν τοῖς ποσὶν ἀμφοτέροις δοκεῖ, ἀποβλέπει δὲ ἀπ᾽ ἀμφοτέρων.] δεῖ δέ, ὦ Θηράμενες, ἄνδρα τὸν ἄξιον ζῆν οὐ προάγειν μὲν δεινὸν εἶναι εἰς πράγματα τοὺς συνόντας, ἂν δέ τι ἀντικόπτηι, εὐθὺς μεταβάλλεσθαι, ἀλλ᾽ ὥσπερ ἐν νηὶ διαπονεῖσθαι, ἕως ἂν εἰς οὖρον καταστῶσιν· εἰ δὲ μή, πῶς ἂν ἀφίκοιντό ποτε ἔνθα δεῖ, εἰ ἐπειδάν τι ἀντικόψηι, εὐθὺς εἰς τἀναντία πλέοιεν; [32] καὶ εἰσὶ μὲν δήπου πᾶσαι μεταβολαὶ πολιτειῶν θανατηφόροι, σὺ δὲ διὰ τὸ εὐμετάβολος εἶναι πλείστοις μὲν μεταίτιος εἶ ἐξ ὀλιγαρχίας ὑπὸ τοῦ δήμου ἀπολωλέναι, πλείστοις δ᾽ ἐκ δημοκρατίας ὑπὸ τῶν βελτιόνων. οὗτος δέ τοί ἐστιν ὃς καὶ ταχθεὶς ἀνελέσθαι ὑπὸ τῶν στρατηγῶν τοὺς καταδύντας Ἀθηναίων ἐν τῆι περὶ Λέσβον ναυμαχίαι αὐτὸς οὐκ ἀνελόμενος ὅμως τῶν στρατηγῶν κατηγορῶν ἀπέκτεινεν αὐτούς, ἵνα αὐτὸς περισωθείη. [2.3.33] ὅστις γε μὴν φανερός ἐστι τοῦ μὲν πλεονεκτεῖν ἀεὶ ἐπιμελόμενος, τοῦ δὲ καλοῦ καὶ τῶν φίλων μηδὲν ἐντρεπόμενος, πῶς τούτου χρή ποτε φείσασθαι; πῶς δὲ οὐ φυλάξασθαι, εἰδότας αὐτοῦ τὰς μεταβολάς, ὡς μὴ καὶ ἡμᾶς ταὐτὸ δυνασθῆι ποιῆσαι; ἡμεῖς οὖν τοῦτον ὑπάγομεν καὶ ὡς ἐπιβουλεύοντα καὶ ὡς προδιδόντα ἡμᾶς τε καὶ ὑμᾶς. ὡς δ᾽ εἰκότα ποιοῦμεν, καὶ τάδ᾽ ἐννοήσατε. [34] καλλίστη μὲν γὰρ δήπου δοκεῖ πολιτεία εἶναι ἡ Λακεδαιμονίων· εἰ δὲ ἐκείνηι ἐπιχειρήσειέ τις τῶν ἐφόρων ἀντί τοῦ τοῖς πλείοσι πείθεσθαι ψέγειν τε τὴν ἀρχὴν καὶ ἐναντιοῦσθαι τοῖς πραττομένοις, οὐκ ἂν οἴεσθε αὐτὸν καὶ ὑπ᾽ αὐτῶν τῶν ἐφόρων καὶ ὑπὸ τῆς ἄλλης ἁπάσης πόλεως τῆς μεγίστης τιμωρίας ἀξιωθῆναι; καὶ ὑμεῖς οὖν, ἐὰν σωφρονῆτε, οὐ τούτου ἀλλ᾽ ὑμῶν αὐτῶν φείσεσθαι, ὡς οὗτος σωθεὶς μὲν πολλοὺς ἂν μέγα φρονεῖν ποιήσειε τῶν ἐναντία γιγνωσκόντων ὑμῖν, ἀπολόμενος δὲ πάντων καὶ τῶν ἐν τῆι πόλει καὶ τῶν ἔξω ὑποτέμοι ἂν τὰς ἐλπίδας.

[35] Ὁ μὲν ταῦτ᾽ εἰπὼν ἐκαθέζετο· Θηραμένης δὲ ἀναστὰς ἔλεξεν· Ἀλλὰ πρῶτον μὲν μνησθήσομαι, ὦ ἄνδρες, ὃ τελευταῖον κατ᾽ ἐμοῦ εἶπε. φησὶ γάρ με τοὺς στρατηγοὺς ἀποκτεῖναι κατηγοροῦντα. ἐγὼ δὲ οὐκ ἦρχον δήπου τοῦ κατ᾽ ἐκείνων λόγου, ἀλλ᾽ ἐκεῖνοι ἔφασαν προσταχθέν μοι ὑφ᾽ ἑαυτῶν οὐκ ἀνελέσθαι τοὺς δυστυχοῦντας ἐν τῆι περὶ Λέσβον ναυμαχίαι. ἐγὼ δὲ ἀπολογούμενος ὡς διὰ τὸν χειμῶνα οὐδὲ πλεῖν, μὴ ὅτι ἀναιρεῖσθαι τοὺς ἄνδρας δυνατὸν ἦν, ἔδοξα τῆι πόλει εἰκότα λέγειν, ἐκεῖνοι δ᾽ ἑαυτῶν κατηγορεῖν ἐφαίνοντο. φάσκοντες γὰρ οἷόν τε εἶναι σῶσαι τοὺς ἄνδρας, προέμενοι ἀπολέσθαι αὐτοῦς ἀποπλέοντες ὤιχοντο. [36] οὐ μέντοι θαυμάζω γε τὸ Κριτίαν <παρανενομηκέναι<· ὅτε γὰρ ταῦτα ἦν, οὐ παρὼν ἐτύγχανεν, ἀλλ᾽ ἐν Θετταλίαι μετὰ Προμηθέως δημοκρατίαν κατεσκεύαζε καὶ τοὺς πενέστας ὥπλιζεν ἐπὶ τοὺς δεσπότας. [37] ὧν μὲν οὖν οὗτος ἐκεῖ ἔπραττε μηδὲν ἐνθάδε γένοιτο· τάδε γε μέντοι ὁμολογῶ ἐγὼ τούτωι, εἴ τις ὑμᾶς μὲν τῆς ἀρχῆς βούλεται παῦσαι, τοὺς δ᾽ ἐπιβουλεύοντας ὑμῖν ἰσχυροὺς ποιεῖ, δίκαιον εἶναι τῆς μεγίστης αὐτὸν τιμωρίας τυγχάνειν· ὅστις μέντοι ὁ ταῦτα πράττων ἐστὶν οἶμαι ἂν ὑμᾶς κάλλιστα κρίνειν, τά τε πεπραγμένα καὶ ἃ νῦν πράττει ἕκαστος ἡμῶν εἰ κατανοήσετε. [38] οὐκοῦν μέχρι μὲν τοῦ ὑμᾶς τε καταστῆναι εἰς τὴν βουλείαν καὶ ἀρχὰς ἀποδειχθῆναι καὶ τοὺς ὁμολογουμένως συκοφάντας ὑπάγεσθαι πάντες ταὐτὰ ἐγιγνώσκομεν· ἐπεὶ δέ γε οὗτοι ἤρξαντο ἄνδρας καλούς τε κἀγαθοὺς συλλαμβάνειν, ἐκ τούτου κἀγὼ ἠρξάμην τἀναντία τούτοις γιγνώσκειν. [39] ἤιδειν γὰρ ὅτι ἀποθνήισκοντος μὲν Λέοντος τοῦ Σαλαμινίου, ἀνδρὸς καὶ ὄντος καὶ δοκοῦντος ἱκανοῦ εἶναι, ἀδικοῦντος δ᾽ οὐδὲ ἕν, οἱ ὅμοιοι τούτωι φοβήσοιντο, φοβούμενοι δὲ ἐναντίοι τῆιδε τῆι πολιτείαι ἔσοιντο· ἐγίγνωσκον δὲ ὅτι συλλαμβανομένου Νικηράτου τοῦ Νικίου, καὶ πλουσίου καὶ οὐδὲν πώποτε δημοτικὸν οὔτε αὐτοῦ οὔτε τοῦ πατρὸς πράξαντος, οἱ τούτωι ὅμοιοι δυσμενεῖς ἡμῖν γενήσοιντο. [40] ἀλλὰ μὴν καὶ Ἀντιφῶντος ὑφ᾽ ἡμῶν ἀπολλυμένου, ὃς ἐν τῶι πολέμωι δύο τριήρεις εὖ πλεούσας παρείχετο, ἠπιστάμην ὅτι καὶ οἱ πρόθυμοι τῆι πόλει γεγενημένοι πάντες ὑπόπτως ἡμῖν ἕξοιεν. [41] ἀντεῖπον δὲ καὶ ὅτε τῶν μετοίκων ἕνα ἕκαστον λαβεῖν ἔφασαν χρῆναι· εὔδηλον γὰρ ἦν ὅτι τούτων ἀπολομένων καὶ οἱ μέτοικοι ἅπαντες πολέμιοι τῆι πολιτείαι ἔσοιντο. ἀντεῖπον δὲ καὶ ὅτε τὰ ὅπλα τοῦ πλήθους παρηιροῦντο, οὐ νομίζων χρῆναι ἀσθενῆ τὴν πόλιν ποιεῖν· οὐδὲ γὰρ τοὺς Λακεδαιμονίους ἑώρων τούτου ἕνεκα βουλομένους περισῶσαι ἡμᾶς, ὅπως ὀλίγοι γενόμενοι μηδὲν δυναίμεθ᾽ αὐτοὺς ὠφελεῖν· ἐξῆν γὰρ αὐτοῖς, εἰ τούτου γε δέοιντο, καὶ μηδένα λιπεῖν ὀλίγον ἔτι χρόνον τῶι λιμῶι πιέσαντας. [42] οὐδέ γε τὸ φρουροὺς μισθοῦσθαι συνήρεσκέ μοι, ἐξὸν αὐτῶν τῶν πολιτῶν τοσούτους προσλαμβάνειν, ἕως ῥαιδίως ἐμέλλομεν οἱ ἄρχοντες τῶν ἀρχομένων κρατήσειν. ἐπεί γε μὴν πολλοὺς ἑώρων ἐν τῆι πόλει τῆι ἀρχῆι τῆιδε δυσμενεῖς, πολλοὺς δὲ φυγάδας γιγνομένους, οὐκ αὖ ἐδόκει μοι οὔτε Θρασύβουλον οὔτε Ἄνυτον οὔτε Ἀλκιβιάδην φυγαδεύειν· ἤιδειν γὰρ ὅτι οὕτω γε τὸ ἀντίπαλον ἰσχυρὸν ἔσοιτο, εἰ τῶι μὲν πλήθει ἡγεμόνες ἱκανοὶ προσγενήσοιντο, [43] τοῖς δ᾽ ἡγεῖσθαι βουλομένοις σύμμαχοι πολλοὶ φανήσοιντο. ὁ ταῦτα οὖν νουθετῶν ἐν τῶι φανερῶι πότερα εὐμενὴς ἂν δικαίως ἢ προδότης νομίζοιτο; οὐχ οἱ ἐχθρούς, ὦ Κριτία, κωλύοντες πολλοὺς ποιεῖσθαι, οὐδ᾽ οἱ συμμάχους πλείστους διδάσκοντες κτᾶσθαι, οὗτοι τοὺς πολεμίους ἰσχυροὺς ποιοῦσιν, ἀλλὰ πολὺ μᾶλλον οἱ ἀδίκως τε χρήματα ἀφαιρούμενοι καὶ τοὺς οὐδὲν ἀδικοῦντας ἀποκτείνοντες, οὗτοί εἰσιν οἱ καὶ πολλοὺς τοὺς ἐναντίους ποιοῦντες καὶ προδιδόντες οὐ μόνον τοὺς φίλους ἀλλὰ καὶ ἑαυτοὺς δι᾽ αἰσχροκέρδειαν. [44] εἰ δὲ μὴ ἄλλως γνωστὸν ὅτι ἀληθῆ λέγω, ὧδε ἐπισκέψασθε. πότερον οἴεσθε Θρασύβουλον καὶ Ἄνυτον καὶ τοὺς ἄλλους φυγάδας ἃ ἐγὼ λέγω μᾶλλον ἂν ἐνθάδε βούλεσθαι γίγνεσθαι ἢ ἃ οὗτοι πράττουσιν; ἐγὼ μὲν γὰρ οἶμαι νῦν μὲν αὐτοὺς νομίζειν συμμάχων πάντα μεστὰ εἶναι· εἰ δὲ τὸ κράτιστον τῆς πόλεως προσφιλῶς ἡμῖν εἶχε, χαλεπὸν ἂν ἡγεῖσθαι εἶναι καὶ τὸ ἐπιβαίνειν ποι τῆς χώρας. [45] ἃ δ᾽ αὖ εἶπεν ὡς ἐγώ εἰμι οἷος ἀεί ποτε μεταβάλλεσθαι, κατανοήσατε καὶ ταῦτα. τὴν μὲν γὰρ ἐπὶ τῶν τετρακοσίων πολιτείαν καὶ αὐτὸς δήπου ὁ δῆμος ἐψηφίσατο, διδασκόμενος ὡς οἱ Λακεδαιμόνιοι πάσηι πολιτείαι μᾶλλον ἂν ἢ δημοκρατίαι πιστεύσειαν. [46] ἐπεὶ δέ γε ἐκεῖνοι μὲν οὐδὲν ἀνίεσαν, οἱ δὲ ἀμφὶ Ἀριστοτέλην καὶ Μελάνθιον καὶ Ἀρίσταρχον στρατηγοῦντες φανεροὶ ἐγένοντο ἐπὶ τῶι χώματι ἔρυμα τειχίζοντες, εἰς ὃ ἐβούλοντο τοὺς πολεμίους δεξάμενοι ὑφ᾽ αὑτοῖς καὶ τοῖς ἑταίροις τὴν πόλιν ποιήσασθαι, εἰ ταῦτ᾽ αἰσθόμενος ἐγὼ διεκώλυσα, τοῦτ᾽ ἐστὶ προδότην εἶναι τῶν φίλων; [47] ἀποκαλεῖ δὲ κόθορνόν με, ὡς ἀμφοτέροις πειρώμενον ἁπμόττειν. ὅστις δὲ μηδετέροις ἀρέσκει, τοῦτον ὢ πρὸς τῶν θεῶν τί ποτε καὶ καλέσαι χρή; σὺ γὰρ δὴ ἐν μὲν τῆι δημοκρατίαι πάντως μισοδημότατος ἐνομίζου, ἐν δὲ τῆι ἀριστοκρατίαι πάντων μισοχρηστότατος γεγένησαι. [48] ἐγὼ δ᾽, ὦ Κριτία, ἐκείνοις μὲν ἀεί ποτε πολεμῶ τοῖς οὐ πρόσθεν οἰομένοις καλὴν ἂν δημοκρατίαν εἶναι, πρὶν [ἂν] καὶ οἱ δοῦλοι καὶ οἱ δι᾽ ἀπορίαν δραχμῆς ἂν ἀποδόμενοι τὴν πόλιν <δραχμῆσ< μετέχοιεν, καὶ τοῖσδέ γ᾽ αὖ ἀεὶ ἐναντίος εἰμὶ οἳ οὐκ οἴονται καλὴν ἂν ἐγγενέσθαι ὀλιγαρχίαν, πρὶν [ἂν] εἰς τὸ ὑπ᾽ ὀλίγων τυραννεῖσθαι τὴν πόλιν καταστήσειαν. τὸ μέντοι σὺν τοῖς δυναμένοις καὶ μεθ᾽ ἵππων καὶ μετ᾽ ἀσπίδων ὠφελεῖν διὰ τούτων τὴν πολιτείαν πρόσθεν ἄριστον ἡγούμην εἶναι καὶ νῦν οὐ μεταβάλλομαι. [49] εἰ δ᾽ ἔχεις εἰπεῖν, ὦ Κριτία, ὅπου ἐγὼ σὺν τοῖς δημοτικοῖς ἢ τυραννικοῖς τοὺς καλούς τε κἀγαθοὺς ἀποστερεῖν πολιτείας ἐπεχείρησα, λέγε· ἐὰν γὰρ ἐλεγχθῶ ἢ νῦν ταῦτα πράττων ἢ πρότερον πώποτε πεποιηκώς, ὁμολογῶ τὰ πάντων ἔσχατα παθὼν ἂν δικαίως ἀποθνήισκειν.

[50] Ὡς δ᾽ εἰπὼν ταῦτα ἐπαύσατο, καὶ ἡ βουλὴ δήλη ἐγένετο εὐμενῶς ἐπιθορυβήσασα, γνοὺς ὁ Κριτίας ὅτι εἰ ἐπιτρέψοι τῆι βουλῆι διαψηφίζεσθαι περὶ αὐτοῦ, ἀναφεύξοιτο, καὶ τοῦτο οὐ βιωτὸν ἡγησάμενος, προσελθὼν καὶ διαλεχθείς τι τοῖς τριάκοντα ἐξῆλθε, καὶ ἐπιστῆναι ἐκέλευσε τοὺς τὰ ἐγχειρίδια ἔχοντας φανερῶς τῆι βουλῆι ἐπὶ τοῖς δρυφάκτοις. [51] πάλιν δὲ εἰσελθὼν εἶπεν· Ἐγώ, ὦ βουλή, νομίζω προστάτου ἔργον εἶναι οἵου δεῖ, ὃς ἂν ὁρῶν τοὺς φίλους ἐξαπατωμένους μὴ ἐπιτρέπηι. καὶ ἐγὼ οὖν τοῦτο ποιήσω. καὶ γὰρ οἵδε οἱ ἐφεστηκότες οὔ φασιν ἡμῖν ἐπιτρέψειν, εἰ ἀνήσομεν ἄνδρα τὸν φανερῶς τὴν ὀλιγαρχίαν λυμαινόμενον. ἔστι δὲ ἐν τοῖς καινοῖς νόμοις τῶν μὲν ἐν τοῖς τρισχιλίοις ὄντων μηδένα ἀποθνήισκειν ἄνευ τῆς ὑμετέρας ψήφου, τῶν δ᾽ ἔξω τοῦ καταλόγου κυρίους εἶναι τοὺς τριάκοντα θανατοῦν. ἐγὼ οὖν, ἔφη, Θηραμένην τουτονὶ ἐξαλείφω ἐκ τοῦ καταλόγου, συνδοκοῦν ἅπασιν ἡμῖν. καὶ τοῦτον, ἔφη, ἡμεῖς θανατοῦμεν. [52] ἀκούσας ταῦτα ὁ Θηραμένης ἀνεπήδησεν ἐπὶ τὴν ἑστίαν καὶ εἶπεν· Ἐγὼ δ᾽, ἔφη, ὦ ἄνδρες, ἱκετεύω τὰ πάντων ἐννομώτατα, μὴ ἐπὶ Κριτίαι εἶναι ἐξαλείφειν μήτε ἐμὲ μήτε ὑμῶν ὃν ἂν βούληται, ἀλλ᾽ ὅνπερ νόμον οὗτοι ἔγραψαν περὶ τῶν ἐν τῶι καταλόγωι, κατὰ τοῦτον καὶ ὑμῖν καὶ ἐμοὶ τὴν κρίσιν εἶναι. [53] καὶ τοῦτο μέν, ἔφη, μὰ τοὺς θεοὺς οὐκ ἀγνοῶ, ὅτι οὐδέν μοι ἀρκέσει ὅδε ὁ βωμός, ἀλλὰ βούλομαι καὶ τοῦτο ἐπιδεῖξαι, ὅτι οὗτοι οὐ μόνον εἰσὶ περὶ ἀνθρώπους ἀδικώτατοι, ἀλλὰ καὶ περὶ θεοὺς ἀσεβέστατοι. ὑμῶν μέντοι, ἔφη, ὦ ἄνδρες καλοὶ κἀγαθοί, θαυμάζω, εἰ μὴ βοηθήσετε ὑμῖν αὐτοῖς, καὶ ταῦτα γιγνώσκοντες ὅτι οὐδὲν τὸ ἐμὸν ὄνομα εὐεξαλειπτότερον ἢ τὸ ὑμῶν ἑκάστου. [54] ἐκ δὲ τούτου ἐκέλευσε μὲν ὁ τῶν τριάκοντα κῆρυξ τοὺς ἕνδεκα ἐπὶ τὸν Θηραμένην· ἐκεῖνοι δὲ εἰσελθόντες σὺν τοῖς ὑπηρέταις, ἡγουμένου αὐτῶν Σατύρου τοῦ θρασυτάτου τε καὶ ἀναιδεστάτου, εἶπε μὲν ὁ Κριτίας· Παραδίδομεν ὑμῖν, ἔφη, Θηραμένην τουτονὶ κατακεκριμένον κατὰ τὸν νόμον· [55] ὑμεῖς δὲ λαβόντες καὶ ἀπαγαγόντες οἱ ἕνδεκα οὗ δεῖ τὰ ἐκ τούτων πράττετε. ὡς δὲ ταῦτα εἶπεν, εἷλκε μὲν ἀπὸ τοῦ βωμοῦ ὁ Σάτυρος, εἷλκον δὲ οἱ ὑπηρέται. ὁ δὲ Θηραμένης ὥσπερ εἰκὸς καὶ θεοὺς ἐπεκαλεῖτο καὶ ἀνθρώπους καθορᾶν τὰ γιγνόμενα. ἡ δὲ βουλὴ ἡσυχίαν εἶχεν, ὁρῶσα καὶ τοὺς ἐπὶ τοῖς δρυφάκτοις ὁμοίους Σατύρωι καὶ τὸ ἔμπροσθεν τοῦ βουλευτηρίου πλῆρες τῶν φρουρῶν, καὶ οὐκ ἀγνοοῦντες ὅτι ἐγχειρίδια ἔχοντες παρῆσαν. [56] οἱ δ᾽ ἀπήγαγον τὸν ἄνδρα διὰ τῆς ἀγορᾶς μάλα μεγάληι τῆι φωνῆι δηλοῦντα οἷα ἔπασχε. λέγεται δ᾽ ἓν ῥῆμα καὶ τοῦτο αὐτοῦ. ὡς εἶπεν ὁ Σάτυρος ὅτι οἰμώξοιτο, εἰ μὴ σιωπήσειεν, ἐπήρετο· Ἂν δὲ σιωπῶ, οὐκ ἄρ᾽, ἔφη, οἰμώξομαι; καὶ ἐπεί γε ἀποθνήισκειν ἀναγκαζόμενος τὸ κώνειον ἔπιε, τὸ λειπόμενον ἔφασαν ἀποκοτταβίσαντα εἰπεῖν αὐτόν· Κριτίαι τοῦτ᾽ ἔστω τῶι καλῶι. καὶ τοῦτο μὲν οὐκ ἀγνοῶ, ὅτι ταῦτα ἀποφθέγματα οὐκ ἀξιόλογα, ἐκεῖνο δὲ κρίνω τοῦ ἀνδρὸς ἀγαστόν, τὸ τοῦ θανάτου παρεστηκότος μήτε τὸ φρόνιμον μήτε τὸ παιγνιῶδες ἀπολιπεῖν ἐκ τῆς ψυχῆς.
[4.1] Θηραμένης μὲν δὴ οὕτως ἀπέθανεν[…].

Pamfaio. Simposiasta che gioca al kóttabos. Pittura vascolare da un tondo di kylix attica a figure rosse. 510 a.C. ca. Musée du Louvre
Pittore Pamfaio. Simposiasta che gioca al kóttabos. Pittura vascolare da un tondo di kylix attica a figure rosse. 510 a.C. ca.  Paris, Musée du Louvre.

***

Testo greco da Xenophontis Opera Omnia, ed. E.C. Marchant, Oxford 1900.
Note e traduzione, in parte di G. Daverio Rocchi, in parte mie e di mia elaborazione.


[1] Fu il più rappresentativo dei Trenta, di famiglia aristocratica. Implicato nella mutilazione delle Erme (cfr. Senofonte, Elleniche I 4, 14), era stato in seguito prosciolto. Dopo l’abbattimento del governo dei Quattrocento, nel quale ebbe un ruolo di scarso rilievo, con la restaurazione della democrazia andò in esilio, ritirandosi in Tessaglia, dove, secondo la testimonianza di Senofonte, collaborò con i penesti (Elleniche II 3, 36) contro i loro padroni. È ricordato anche come allievo di Socrate e scrittore. Compose poemi elegiaci e tragedie di cui rimangono alcuni frammenti.

[2] La boulḗ, in regime democratico, espletava alcune funzioni giurisdizionali. Qui, peraltro, si tratta di un istituto che sopravvisse svuotato di ogni reale carattere democratico. Per la sua composizione cfr. Senofonte, Elleniche II 3, 11.

[3] Paragrafi 30-31: la stessa accusa di trasformismo politico sarà poi da Teramene rivolta a Crizia (paragrafo 36).

[4] Ricoprì più di una strategia e nel 437 fu inviato a fondare la colonia di Anfipoli (Tucidide, IV 102); nel 413 fu tra i dieci magistrati eletti dopo il disastro in Sicilia (Lisia, Contro Eratostene XII 65), la cui attività, si può dire, preparò la rivoluzione dei Quattrocento.

[5] Il coturno è il calzare portato dagli attori nelle rappresentazioni tragiche per comparire più grandi sulla scena. Poteva essere infilato indifferentemente su entrambi i piedi.

[6] La carriera di Teramene presenta mutamenti e ambiguità tipici di molti personaggi dell’epoca. È soprattutto in ambiente oligarchico che sorge l’immagine del traditore, del “coturno”, della banderuola; all’interno di quel gruppo, egli non ha avuto rispetto delle regole della solidarietà (questa è la posizione di Crizia nei suoi confronti).

[7] Cfr. Senofonte, Elleniche I 7, 4.

[8] Crizia effettivamente aveva descritto sia in versi sia in prosa la costituzione spartana e secondo una tradizione storiografica “laconizzò” in maniera eccellente. L’ammirazione di Crizia si inserisce nella idealizzazione della costituzione di Sparta, che verso la fine del V secolo accompagnò lo stesso ripensamento sulla costituzione ateniese del passato. A Sparta c’è un’assoluta compattezza di comportamento all’interno del governo: quel che è approvato dalla maggioranza degli efori, è eseguito anche dalla minoranza (una regola che, ad Atene, Teramene finirà con il violare, ricorrendo a strumenti che nella democrazia erano consentiti, cioè il “criticare” e l’“opporsi”).

[9] Teramene che aveva contribuito all’instaurazione del nuovo regime, ne divenne presto una delle vittime più illustri. La sua autodifesa è tanto appassionata quanto inutile ad evitargli il destino che lo attende.

[10] I penesti, verso la metà del V secolo, durante i rivolgimenti politici e sociali connessi con l’abbattimento del potere delle grandi aristocrazie terriere, erano stati affrancati dai loro proprietari, senza peraltro ottenere una completa parificazione politica con i cittadini. Di conseguenza, le lotte che opposero le classi agiate urbane, i cavalieri, alle aristocrazie, non comportarono un’integrazione dei penesti nella comunità politica. Nelle tensioni che precedettero il conflitto si deve collocare, in base a testimonianze desumibili da altre fonti, un’insurrezione di penesti, che fu strumentalizzata dagli Aleuadi di Larissa per opporre questi ceti ai cavalieri. Gli Aleuadi avevano spesso ospitato filosofi ateniesi; i frammenti delle opere letterarie di Crizia rivelano una perfetta conoscenza della vita lussuosa dei nobili tessali, che lascerebbe presupporre un’esperienza diretta.

[11] In mancanza di una pubblica accusa istituzionale, in Atene ognuno era tenuto a denunciare al popolo chi minacciasse la sicurezza della comunità o fosse colpevole di cospirazione. Furono chiamati sicofanti coloro che ne fecero una professione, sicché tale libertà finì con il costituire l’abuso, la degenerazione del diritto. Il profilo che ne tracciano gli autori contemporanei è quello di uomini poveri, senza educazione, relativamente giovani, cittadini ateniesi, individui che calunniano gli innocenti, accusano soprattutto i ricchi, al solo scopo di ricavarne il guadagno delle ammende o delle confische. Allo stesso modo i sicofanti erano accusati di volere la guerra a tutti i costi per riempire le casse pubbliche, spogliando e vessando gli alleati. In realtà, con il regime dei Trenta, la sicofantia non scomparve, ma fu strumentalizzata, per fini personali, dagli esponenti del nuovo governo.

[12] Forse da identificare con uno degli strateghi del 407/6 (cfr. Senofonte, Elleniche I 5, 16). I motivi della sua esecuzione restano sconosciuti, ma il provvedimento ebbe vasta eco in Atene.

[13] Figlio di Nicia, lo stratego della spedizione di Sicilia con Alcibiade e Lamaco, ed esponente della democrazia moderata nella seconda metà del V secolo.

[14] Anito, ricco cittadino, eletto stratego nel 409/8, è uno dei capi della restaurazione democratica del 403/2.

[15] Secondo Aristotele (Costituzione degli Ateniesi 35, 4) e Isocrate (Areopagitico VII, 67), i cittadini furono millecinquecento. I Trenta, d’accordo con Lisandro, redigeranno perfino una lista di sospetti, destinati a morte.

[16] Teramene giustifica la propria posizione politica alla luce degli eventi del 411. Senza dubbio, egli doveva essere tra i promotori del “coup d’État” dei Quattrocento, ma fu il popolo a volerlo per imbonirsi gli Spartani.

[17] Si riferisce ai lavoro di fortificazione di Eetioneia, la punta settentrionale del Pireo (cfr. Tucidide, VIII 90, 4).

[18] Cfr. n. 5.

[19] Teramene ribatte a Crizia la propria coerenza politica, che, almeno sul piano teorico, sta nel senso dell’istaurazione e del rispetto della pátrios politeía.

[20] In sostanza, come osserva D. Musti (Storia greca, Milano 2010, p. 473), nella sua apologia, Teramene definisce in termini negativi la propria posizione come contraria agli estremismi, nei confronti dei quali si pone al centro.

[21] Intende instaurare un oplitismo costituzionalmente definito.

[22] Sono esposti qui i principi di una democrazia moderata, destinati ad incontrare successo nella rielaborazione ideologica e nel pensiero politico del IV secolo. Quanto questo discorso contenga delle reali parole pronunciate da Teramene è difficile dire, ma, ideologicamente, concorda con il programma politico che Aristotele (Costituzione degli Ateniesi 33) attribuisce al nostro. Quale sostenitore di siffatto programma politico, Teramene appare da questi discorsi in una luce positiva, in contrasto con le valutazioni negative o ambigue di Senofonte, Elleniche I 6, 35; 7, 31; II 2, 16 (cfr. Diodoro, XIV 3, 5-6).

[23] Il bouleutḗrion di Atene, sede della boulḗ, era una sala quadrata con quattro colonne agli angoli e cinque colonne in antis sulla facciata. Lo spazio tra le colonne era chiuso da barriere metalliche sigillate alle colonne e provviste di pannelli mobili attraverso i quali si accedeva alla sala. I congiurati non si trovavano all’interno dell’aula, ma presso le barriere, a scopo intimidatorio (paragrafo 55). Le barriere, prima ancora di proteggere, avevano lo scopo di delimitare lo spazio politico destinato ai buleuti, che era anche spazio sacrale, dove si trovavano gli altari delle divinità protettrici.

[24] Cioè i giovani armati di pugnale.

[25] La descrizione delle azioni di Crizia, che va da un punto all’altro dell’edificio, crea un certo senso di suspense, e quindi termina in questa sentenza finale. Si tratta naturalmente di una procedura irregolare, che contribuisce a connotare Crizia “tirannicamente”.

[26] Importanza particolare vennero a rivestire gli Undici, nel passato sorveglianti delle prigioni ed esecutori delle sentenze capitali (cfr. Senofonte, Elleniche I 7, 10), ora uno degli strumenti essenziali del potere.

[27] Satiro acquistò una triste fama di carnefice; al suo comando c’erano i cosiddetti mastigophóroi, cioè agenti armati di sferza, le guardie dei Trenta.

[28] La fine di Teramene ha molti tratti in comune con quella di Socrate, e gli procurò l’ammirazione dello storico.

Crizia, Teramene e il regime dei Trenta Tiranni

di D. Musti, Storia greca. Linee di sviluppo dall’età micenea all’età romana, Milano 2010, pp. 471 sgg.

 

Crizia, procugino di Platone, capo dei trenta costituenti, che vanno sotto il nome di Trenta Tiranni, è una figura di politico intellettuale. Come intellettuale, egli appartiene a tutti gli effetti alla storia della letteratura greca: è autore di poesie esametriche ed elegiache, di tragedie, di costituzioni (politeîai), queste ultime in versi e in prosa. È un personaggio, anche, di diversi dialoghi platonici. È ovvio che la testimonianza platonica va presa cum grano salis, perché contiene una libera rielaborazione delle situazioni. In ogni caso, le tematiche che Platone ricollega con personaggi storici che rende protagonisti, hanno caratteristiche che vanno tenute presenti in sede storica almeno nei loro termini generali. Non sarà forse tutto Crizia, ciò che Platone gli ascrive nei dialoghi, ma in qualche modo si respira il campo di interessi, lo stile, l’orientamento di Crizia. Sulla ricostruzione del personaggio grava un enigma di fondo: la famosa accusa sul tentativo che egli avrebbe compiuto di instaurare la democrazia in Tessaglia, armando i penesti[1]. Ed è l’unico tratto che sembra configurare una posizione democratica estrema del personaggio; ma i suoi inizi lo avvicinano ad Alcibiade, in una familiarità molto stretta. Ed in ogni caso va tenuta presente la realtà ateniese da cui proviene. Certamente nell’ultima fase, nel periodo dei Trenta, Crizia matura una posizione filo-laconica al cento per cento, fino ad ipotizzare una riduzione di Atene nei termini politici di Sparta. Alcuni elementi mostrano però la complessità del personaggio. La realtà ateniese era così nuova, così grande, che anche gli avversari della democrazia, per filo-spartani che fossero, ne erano fortemente condizionati. Cimone aveva forte ammirazione per Sparta, eppure rimase nella democrazia. Via via, questa ammirazione per Sparta condusse personaggi di questo stampo fino a una rottura con la tradizione: ed è il caso di Crizia.

La sua prima elegia parla, secondo un’ottica tipicamente greca, dei luoghi dove sono nate certe invenzioni; le città vengono caratterizzate dal punto di vista storico-culturale. E allora è richiamato il gioco del còttabo, siciliano; i bei sedili sono invenzioni dei Tessali; famosi i letti di Mileto e di Chio; famose le coppe dorate e i bronzi dei Tirreni; famosi i Fenici per l’invenzione dell’alfabeto, Tebe per il carro; i Cari hanno inventato le navi da carico; infine, Atene ha creato il tornio, è dunque la città della ceramica. L’elemento artigianale è perciò quello per cui si caratterizza Atene, e le parole di Crizia suonano ossequio a una civiltà di tipo artigianale-urbano; non alla democrazia, ma certo a una città in cui la forma politica democratica è maturata proprio a ridosso del grande sviluppo delle attività artigianali.

Platone. Testa, copia romana in marmo da originale del 348-347 a.C. ca. München Glyptothek
Platone. Testa, copia romana in marmo da originale del 348-347 a.C. ca. München Glyptothek.

Ci sono insomma in Crizia elementi della cultura dell’ambiente ateniese, che finiscono per condizionare anche chi, nell’esito storico finale, agisce come nemico di quella democrazia. Un’elegia è dedicata ad Alcibiade, quanto basta per indicare la familiarità dei rapporti tra i due. Forti erano dunque i nessi tra i due allievi di Socrate; e sulla condanna del filosofo pesò notoriamente il fatto che dalla sua scuola fossero usciti personaggi come Alcibiade e Crizia. Un frammento delle Costituzioni in versi riguarda Sparta e il modo di bere a Sparta: qui il simposio è contenuto in forme di gioia temperata, senza eccessi. Ma è soltanto uno dei casi in cui Crizia si trova ad elogiare Sparta. Le Costituzioni, che gli vengono attribuite, riguardano Atene e la Tessaglia, oltre che Sparta stessa. Egli elogia il comportamento severo e guardingo degli Spartani verso gli iloti[2]. Nel discorso che egli tiene alla boulḗ contro Teramene, la costituzione degli Spartani è definita come kallístē politeía, «la più bella delle costituzioni»; a Sparta c’è un’assoluta compattezza di comportamento all’interno del governo: quel che è approvato dalla maggioranza degli efori, è eseguito anche dalla minoranza (una regola che, ad Atene, Teramene finirà con il violare, ricorrendo a strumenti che nella democrazia sono consentiti, cioè il biasimare e l’opporsi)[3].

Teramene, che aveva contribuito all’instaurazione del nuovo regime prima e dopo la sconfitta, ne divenne presto vittima, non volendo avallarne tutti gli eccessi. Spogliato dei diritti politici e sottoposto a processo di fronte alla boulḗ, fece un’autodifesa tanto appassionata quanto inutile […]. Nella sua apologia, Teramene definisce in termini negativi la sua posizione come contraria agli estremismi nei confronti dei quali si colloca al centro: «Non sono mai stato con i dēmotikoí, o con i tyrannikoí, non sono mai stato contro i kaloí kaì agathoí (i galantuomini)»[4]. La rappresentazione che Aristotele dà della situazione politica ateniese al cap. 34 della Costituzione degli Ateniesi, quando parla di tre partiti, se pur non rende completa giustizia alle posizioni particolari, è perciò grande intuizione storica. Non c’è più la rigidità dei fronti, non c’è più il bipartitismo del pieno V secolo. Prima i contrasti (Plutarco, Pericle 11, 3) erano «venature del metallo», poi con Pericle erano divenuti «tagli profondissimi» all’interno di Atene; ora invece non c’è più l’opposizione frontale, il che cambia qualitativamente tutte le posizioni politiche. Teramene giustifica la sua posizione politica nelle vicende del 411, quando, come abbiamo visto, si era guadagnato il soprannome di «coturno». La costituzione dei Quattrocento Teramene l’aveva certo promossa, ma egli dice che l’aveva voluta proprio il popolo, per accattivarsi gli Spartani, meglio disposti a far pace con un governo oligarchico; e per questo Teramene non se ne fa carico. Nel 404 Teramene era stato il protagonista delle trattative di pace tra Atene e Sparta, ed anche allora con comportamenti che avevano avuto sempre qualcosa di ambiguo: raggiunti gli Spartani, restò presso di loro per tre mesi, pur senza avere la posizione di ambasciatore plenipotenziario; riuscì ad ottenerla dopo, quando trattò la pace, approvata dagli Ateniesi in un clima di paura e sfiducia. Poco dopo lo troviamo con i Trenta; impressionante il suo dibattito con Crizia, e il tentativo di rifugiarsi presso la eschára del bouleutḗrion (l’altare centrale della sede del consiglio), per sottrarsi alla condanna. Ma, nonostante il suo discorso faccia un’impressione positiva sui buleuti, nessuno muove un dito per lui, e soprattutto Crizia conta sull’effetto intimidatorio dei giovani che assistono con i pugnali sotto le ascelle; sembra una scena d’epoca repubblicana romana e dà invece solo l’idea del turbamento politico in corso ad Atene.

Diodoro (XIV 5) fa intervenire in suo aiuto Socrate, di cui – egli dice – Teramene era discepolo. Nelle genealogie culturali, non c’è limite alla fantasia degli antichi: Teramene sarebbe stato anche il maestro di Isocrate[5]. Si creerebbe così una linea genealogica Socrate-Teramene-Isocrate, interessante per ciò che ciascuno rappresenta in filosofia, politica, retorica; interessante anche per le assimilazioni che questa ideale genealogia istituisce, in primo luogo per il problema di Socrate e la posizione mediana, centrista, che a conti fatti si individua in lui. Del resto, per Isocrate e la sua scuola, democrazia e pátrios politeía finiscono con l’identificarsi. Quelle che erano le tre posizioni politiche vigenti ad Atene dal 404, secondo lo schema aristotelico, finiscono col dar luogo a una sostanziale ricomposizione; sicché, nel corso del IV secolo, si ha una convergenza di fatto delle posizioni che si riconducono all’idea di pátrios politeía, e persino certe istanze di parte oligarchica possono figurare sotto il connotato della democrazia. La pátrios politeía non riuscirà a diventare il nuovo modello politico; formalmente sarà la democrazia, infatti, a vincere, ma essa si adatterà (e qui si completa il processo di ricomposizione) ad assorbire tante istanze della pátrios politeía, e in tanto essa non sarà contrastata, in quanto sarà trasformata. Il processo, anche sul piano lessicale, è chiaro, se seguiamo con attenzione la storia della parola dēmokratía, che nel IV secolo si avvia a significare di nuovo «forma libera, repubblicana», a recuperare cioè quel significato generico di opposizione alla tirannide e alla monarchia, che però non oblitera mai in assoluto la possibilità di un significato più specifico[6].

Trasibulo, che nel 403 restaura la democrazia ad Atene, ha parecchi punti di merito verso il regime democratico: lo troviamo nel 411 a Samo, fra i protagonisti di quello scisma democratico, che ha avuto forti conseguenze, mentre Teramene regge, fino a un certo punto, il gioco dei Quattrocento. Nel 404 Trasibulo è esule; è fra i “grandi esuli”, che Teramene ricorda nel suo discorso di replica a Crizia, quando dice ai Trenta: «I veri traditori sono coloro che hanno fatto in modo che lasciassero la città personaggi come Trasibulo, Anito e Alcibiade[7]». Alcibiade viene ricordato una volta sola: la seconda volta Teramene parla soltanto di Trasibulo e di Anito; è possibile che questo significhi che, nel momento in cui Teramene fa il suo discorso, Alcibiade fosse già stato ucciso. La carriera di Teramene presenta mutamenti e ambiguità, che sono in molti personaggi dell’epoca. È soprattutto in ambienti oligarchici che insorge l’immagine del traditore, del «coturno», della banderuola; all’interno di quel gruppo, egli non ha rispettato le regole della solidarietà; ha consentito sempre e solo fino a un punto e, quando ha dissentito, lo ha fatto con cambiamenti di rotta, che hanno lasciato del tutto scoperti i suoi malaugurati compagni di viaggio. Bisogna riconoscergli, però, sul piano teorico, una fondamentale coerenza: ed è nel senso della pátrios politeía.

All’epoca corrono del resto diversi progetti di riforma del corpo civico. Uno è appunto quello di Teramene, che accetta, nel 411, il numero orientativo di 5000 cittadini, ma in realtà inclina verso una costituzione “oplitica”, cioè una costituzione in cui i pieni diritti siano nelle mani degli opliti (e cavalieri): restano esclusi i teti, quelli della cosiddetta democrazia marinara: teti nella funzione sociale, marinai nella funzione militare[8]. È una fortissima limitazione, anche se non persegue il numerus clausus come condizione; infatti, è solo un criterio orientativo. La posizione di Crizia può definirsi oplitica in senso stretto, anzi strettissimo, tanto è vero che neanche comprende tutti gli opliti; un grosso ruolo qui sembrano averlo i cavalieri, che si aggirano attorno ai 1000[9]. È una posizione estrema: 300, forse 4000, che sono meno dei 9000 che, largheggiando, costituiscono il corpo degli opliti di Teramene. Formisio è uno degli esuli rientrati dal Pireo. Anch’egli è un riformatore, in senso riduttivo, del corpo civico: la cittadinanza non spetta a tutti, bensì solo a coloro che posseggono terra in Attica[10]. Se fosse stato approvato il suo decreto, ben 5000 degli Ateniesi sarebbero stati privati dei diritti politici, forse su 30000 (alcuni studiosi sospettano dati più bassi, tenuto conto delle perdite di guerra). Il criterio di Formisio è diverso da quello di Teramene e di Crizia, è dichiaratamente economico, sembra più largo di quello puramente oplitico, e comporta un’esclusione abbastanza limitata.

Neanche questo progetto passerà. Di fatto, la democrazia restaurata di Trasibulo, da Archino, da Anito, si presenta formalmente come un ritorno alla vecchia costituzione. In realtà molte cose cambiano. Ci sono modifiche nei meccanismi legislativi di controllo, oltre che cambiamenti nella distribuzione della ricchezza, che finiscono con l’assorbire le istanze di cui si erano fatti portatori altri gruppi politici. Ma i progetti pullulano, ed è un brulichio di posizioni, da Formisio ad Anito, a Clitofonte, a Teramene, personaggi tutti di quel gruppo che viene ricordato da Aristotele come il campo dei fautori della pátrios politeía. Si vede come ciò che dice Aristotele sia vero in senso lato e non vero per quanto riguarda le differenze. È un raggruppamento politico, con molte sfumature al suo interno. Clitofonte è un personaggio poco noto, però personaggio di dialoghi platonici (ce n’è uno intitolato a lui; egli compare anche nella Repubblica in connessione con il sofista Trasimaco). Clitofonte è, nel 411, l’autore di un emendamento famoso al decreto di Pitodoro, che nel 411 istituiva una commissione di 30 probuli (completando così la vecchia commissione di 10), sopra i quarant’anni, che dovevano redigere una costituzione. Sono trenta costituenti per la salvezza della città. Veniva consentito, a chiunque lo volesse, proporre integrazioni, perché da tutto si scegliesse il “meglio” politico. Clitofonte fa un emendamento, nella forma tipica per i decreti conservati in epigrafi: «Il resto, come lo ha detto Pitodoro; poi bisogna in aggiunta cercare delle leggi patrie, che Clistene pose quando istituì la democrazia, perché sentite queste decidessero per il meglio, in quanto la costituzione di Clistene non era popolare, ma vicina a quella di Solone». Opera, in sostanza, l’idea di una cernita all’interno dei nómoi; bisognava scegliere quelli che, fra i più recenti, somigliavano maggiormente alla legislazione di Solone. La ricerca delle tradizioni ha dunque questo senso: ricercare e valorizzare le norme tradizionali che si sono conservate fino a un certo periodo (a esclusione della democrazia radicale di Efialte e di Pericle). Non si esclude tutta la vicenda della democrazia, ma solo una parte di essa, operando una cernita all’interno delle strutture costituzionali e legislative, in quanto le leggi sono concepite come un fascio che si è troppo ingrossato, e di cui solo il filo risalente alle fasi più lontane viene conservato (cfr. Aristotele, Costituzione degli Ateniesi, 29, 3).

Nell’emendamento di Clitofonte si parla di pátrioi nómoi, cioè di «leggi patrie»; nel 404 si parlerà con certezza di pátrios politeía. C’è differenza? Alla lettera una gran differenza non c’è. Finley considera alcuni momenti della storia politica anglo-sassone e americana e il senso che ha in essa il richiamo alla “costituzione degli antenati”, cioè al valore costitutivo passato; la trasformazione politica non si può proporre, se non operando su modelli[11]. Qualcosa di più e di diverso bisogna dire però sul mondo greco. Certo, pátrioi nómoi non significa «leggi specifiche», di contro a una pátrios politeía che indicherebbe le «leggi di livello costituzionale». Per questo aspetto non si può distinguere; ma è tutto il contesto delle due esposizioni che va rimeditato. Noi vediamo che i pátrioi nómoi, nell’emendamento di Clitofonte, appaiono come un correttivo, un elemento accessorio, della proposta di Pitodoro di riformare la costituzione «per la salvezza» di Atene; di fronte a un’idea generale ancora indefinita, c’è la ricerca del “meglio” politico. In concreto, per Clitofonte si tratta di recuperare le leggi poste da Clistene quando istituì la democrazia, in quanto la sua costituzione viene sentita in ambienti oligarchici come non troppo popolare, ma alquanto vicina alla costituzione di Solone. Così si pensa di garantirsi nei confronti degli affezionati alla democrazia: si tutelano quelle leggi di origine lontana, che sono state accolte, fra altre, nel fascio delle leggi della democrazia.

Nel 411, quasi ad eliminare delle degenerazioni, venivano abrogati due istituti: la graphḗ paranómōn, e i misthoí, tranne poche eccezioni. La graphḗ paranómōn è la denuncia scritta di proposte che vanno contro le leggi. I misthoí, cioè le indennità, rappresentano l’apporto della democrazia periclea[12].

Nella storia dell’idea di pátrios politeía va comunque definita la funzione di Trasimaco. Clitofonte è collegato con il sofista Trasimaco, dei cui scritti possediamo solo frammenti. Nel primo di essi – un’orazione riportata nel commendo di Dionisio a Demostene per ragioni stilistiche – Trasimaco tra l’altro afferma: «Basta per noi il tempo trascorso, e il doverci trovare in guerra, invece che in pace». Noi non sappiamo esattamente che cosa sia questa guerra. Non è del tutto chiaro che sia un pólemos esterno (in tal caso dovrebbe essere la guerra del Peloponneso, perciò il testo andrebbe datato prima del 404); poco dopo si fa riferimento a ostilità reciproche e a conflitti (tarachaí), a cui si è arrivati, invece che alla concordia (homónoia). Il frammento di Trasimaco si potrà pur collocare nel 411, con il suo riferimento a un dibattito in corso sull’idea di pátrios politeía; ma è escluso che l’espressione sia testimonianza di un dibattito in corso del 404[13]. Ma perché costituzione “patria”? Dei “padri”, nel senso della generazione precedente? O dei “padri” intesi in generale, come antenati? Se pensiamo che la linea divisoria della storia della democrazia è il 461, ebbene, nel 411, o nel 404/3, si poteva realmente usare l’espressione “costituzione patria”, per risalire al di là del periodo efialteo-pericleo, e pur tuttavia riferirsi ai propri genitori. Un uomo di cinquant’anni, nato circa il 461 o il 454, può riferirsi effettivamente ai suoi “genitori”, quando ha in mente l’epoca anteriore alla riforma di Efialte.

Nel 404 l’idea aveva la funzione di mettere un freno al popolo. Il quadro aristotelico (Costituzione degli Ateniesi, 34, 3) è più articolato, nel distinguere tra un’oligarchia estrema, rappresentata dalle eterie, una democrazia tradizionale, che è quella di Trasibulo (e che poi si affermerà), e la posizione mediana di coloro che ricercano la pátrios politeía. Questo dibattito è storicamente comprensibile, se si tiene presente che, a conti fatti, le posizioni contrapposte si scioglieranno nella democrazia del IV secolo; e la democrazia greca deve passare attraverso questa fase per diventare, nella concezione di un conservatore come Polibio, nel II secolo a.C., la forma positiva del regime popolare, a cui egli contrappone, come forma negativa, l’ochlokratía (dominio della massa)[14].

Teramene vuole un oplitismo costituzionalmente definito; e lo dice con chiarezza quando afferma: «Io non sono dell’avviso che sia una buona democrazia quella in cui non abbiano parte al potere gli schiavi e quelli che venderebbero la città per una dracma, e che non sia una buona oligarchia quella in cui la città non sia tiranneggiata da pochi. Sempre ho ritenuto come forma migliore quella basata su coloro che possono sostenere la città con i cavalli e con gli scudi: e non cambio idea»[15]


[1] Senofonte, Elleniche II 3, 36 (sull’attività di Crizia in Tessaglia nel discorso di Teramene). Forse è il personaggio che compare nel Crizia e nel Timeo di Platone (altri vi vede il nonno); è comunque evocato nel Carmide 161b.

[2] Con le altre politeîai in prosa (Sparta, Atene, Tessaglia, ecc.) gli è attribuita la paternità del Perì politeías che va sotto il nome di Erode Attico, importante per la descrizione della situazione delle città di Tessaglia al tempo di Archelao re di Macedonia (413-399 a.C.). L’autore del discorso esorta i Larissei, come sembra, all’alleanza con gli Spartani e alla resistenza alla Macedonia. Obiezioni sull’attribuzione alla fine del V sec. a.C. in [Erode Attico], Perì politeías, a c. di U. Albini, Firenze 1968.

[3] Sul valore decisivo del criterio della maggioranza nelle decisioni degli efori di Sparta, cfr. Senofonte, Elleniche II 3, 34 (dal discorso di Crizia contro Teramene).

[4] Senofonte, Elleniche II 3, 4749.

[5] Per la tradizione che fa di Teramene un maestro di Isocrate, cfr. Münscher, in RE IX 2, 1916, col. 2153.

[8] Vd. avanti, n. 15.

[9] Cfr. P. Cloché, La restauration démocratique à Athènes en 403 av. J.C., Paris 1915, pp. 7 sgg. (i cavalieri sono cittadini, compresi nei 3000), con argomenti non decisivi.

[10] Cfr. Dionisio d’Alicarnasso, De Lysia 32. Sulla cifra di 9000 a cui di fatto si arrivò, cfr. Lisia, XX 13 (Per Polistrato).

[13] Cfr. Sofisti. Testimonianze e frammenti III, a cura di M. Untersteiner, Firenze 1954, pp. 3 sgg., in part. fr. 1 (Perì politeías).

[14] Polibio, VI 4, 6; 57, 9 (a 9, 7 cheirokratía, dominio delle mani, probabilmente).

Il filosofo che volle educare il tiranno

di L. Canfora, Corriere della Sera, 29/11/12

Discendente dalla più antica e illustre nobiltà ateniese, Platone ha sentito sin dal principio l’attrazione della politica. Ha avuto la ventura di vivere una serie di esperienze straordinarie e traumatiche: i Trenta Tiranni – il cui capo era un suo congiunto – , la restaurazione democratica, la dispersione dei socratici, la grandezza e la miseria della tirannide siciliana, l’irretimento nelle beghe della corte siracusana, la delusione, il ritiro nella scuola. Ha idoleggiato una società comunistica e profondamente «interventista» nella vita di ogni singolo come unica via per la realizzazione non individualistica, ma collettiva del «sommo bene»; ma una tale società non ha saputo concepirla che come rigidamente castale e autoritaria; attratto, come già Crizia, da un modello che, per quanto gli appaia col tempo sempre più insoddisfacente, deludente e caduco, è pur sempre presente alla sua coscienza: quello della Sparta egualitaria, povera, virtuosa, delle leggi di Licurgo.

Platone (dettaglio), dalla 'Scuola di Atene' di Raffello Sanzio. Affresco, 1509-1510. Città del Vaticano, Stanza della Segnatura, Palazzi Apostolici.
Platone (dettaglio), dalla ‘Scuola di Atene’ di Raffello Sanzio. Affresco, 1509-1510. Città del Vaticano, Stanza della Segnatura, Palazzi Apostolici.

Assumendo i «tiranni» di Siracusa come interlocutori del suo esperimento di «monarchi-filosofi», Platone adotta un punto di vista che potremmo definire “hobbesiano”: quello della indistinguibilità tra monarca e tiranno (se non in ragione delle azioni compiute), e il rifiuto, per converso, della usuale loro distinzione basata sul giudizio soggettivo di sostenitori e avversari. (Non è inutile ricordare che proprio dalla considerazione della tirannide greca – e ateniese in particolare – Hobbes era per la prima volta approdato, nell’introduzione a Tucidide, 1629, a quella formulazione dell’inconsistenza del concetto di per sé negativo di «tirannide» che affiderà più tardi al De Cive).
Questo atteggiamento dovette essere comune anche ad altri socratici, e discende, forse, dall’atteggiamento radicalmente critico dello stesso Socrate – il quale non a caso restò in Atene durante il governo dei Trenta – nei confronti di tutte le forme politiche tradizionali.

John Michael Wright, Ritratto di Thomas Hobbes. London, National Portrait Gallery.
John Michael Wright, Ritratto di Thomas Hobbes. London, National Portrait Gallery.

Un socratico non trascurabile, quale Senofonte, svilupperà nello Ierone il tema della «infelicità» del tiranno. Ma Platone andrà oltre. Col suo esperimento siracusano, egli si è aperto, nella prassi, ad una empirica intesa con i tiranni. È stata una scelta di realismo politico che di solito resta in ombra, quando si parla di Platone, collocato, di norma, agli antipodi del realismo o addirittura della Realpolitik.
Non sarà forse mai del tutto esaustivo lo sforzo volto a scandagliare le molte facce di questo genere di scelte: il misto di fascinazione del potere (e della persona che eventualmente lo incarni); di illusione o ragionevole convinzione di riuscire ad incidere in dinamiche e meccanismi che, lasciati a se stessi, sarebbero, forse, di gran lunga peggiori; di certezza che una testimonianza resa fino alle estreme conseguenze può rendere frutti a distanza di tempo (a futura memoria); di fatalismo per non saper più «uscirne»; di effettiva commistione di comportamenti tra il politico e il filosofo, che si produce comunque, anche nel loro confliggere. E siamo certi che questa casistica è del tutto incompleta: non rende appieno la ricchezza di possibilità che il difficile intreccio comporta o suscita.
Il moderno fautore del Principe, che teorizzò la necessità di affidare l’educazione ad un ideal-tipico Chirone perché mezzo uomo e mezzo bestia, fu, al tempo stesso, uomo di azione che dalla diretta esperienza della politica uscì schiacciato. E tuttavia egli è riuscito a ripensare quell’esperienza con un distacco tale da finire coll’apparire ai lettori – specie a quelli non benevoli, ma non per questo impertinenti – addirittura come il «cantore» dei metodi di governo del Duca Valentino. Né risolse l’evidente aporia la gramsciana intuizione di spostare su di un soggetto collettivo, la forza, il ruolo e le prerogative del «moderno principe».
È probabilmente illusorio il proposito di conciliazione o di ricomposizione tra morale individuale e morale politica. Ed è difficile sostenere che le esperienze risolutive non siano state ancora fatte, che il ritrovato risolutivo non sia stato ancora escogitato. Al contrario, la vastità e la ripetitività delle esperienze che abbiamo alle spalle, e che la superstite Historia rerum gestarum ci documenta, è tale da indurre piuttosto a ritenere che quel ritrovato non esista. Al punto che la medesima persona, ove per avventura trapassi da intellettuale a politico – raro ma non impossibile scambio di ruoli – cambia anche morale.

Altobello Melone, Ritratto di gentiluomo, detto Cesare Borgia. Olio su tavola 1500-1524. Bergamo, Galleria dell'Accademia Carrara.
Altobello Melone, Ritratto di gentiluomo, detto Cesare Borgia. Olio su tavola 1500-1524. Bergamo, Galleria dell’Accademia Carrara.

Libero resta, invece, il tipo di fuoruscita individuale, quando si sia approdati ad una situazione che appare ormai insostenibile. Seneca ha lasciato alle età successive, oltre che l’esempio della grandezza e miseria di un esperimento fallito, anche la ricetta, tipica dell’aristocrazia stoicheggiante romana, per chiudere sul piano individuale la partita: «Chiedi quale sia la strada per la libertà? Una qualsiasi vena del tuo corpo» (De Ira, III, 15, 4).
La politica è arte troppo grande e troppo rischiosa, già per il fatto che grazie ad essa alcuni divengono arbitri del destino di tutti gli altri, per non comportare, per chi vi si cimenta da protagonista, prezzi altissimi. Come ben sapeva il Socrate platonico, è l’unica arte che non dispone di canoni «insegnabili», e che tuttavia qualcuno, necessariamente, deve praticare. Anche il tiranno è dunque vittima, e talora vittima sacrificale. A ben vedere, è talmente «ovvio» che la morale da lui praticata sia diversa da quella individuale (e non per sua libera scelta malefica), che, a distanza di tempo, sorge talora, tra i molti, pungente nostalgia di lui: consapevoli tutti, è da pensare, che egli fosse, per così dire, costretto ad una morale diversa. Donde il sorgere, ad esempio, dopo la morte di Nerone, di «falsi Neroni» ritornanti nel tempo nella fantasia collettiva, pur dopo la fine fisica di quel determinato principe che portò quel nome e che morì esecrato. Fenomeno destinato a coesistere con l’altro, complementare e indissolubile dal primo, dell’alta stima, anche da parte dei critici più acerbi, nei confronti della «via alla libertà» che Seneca, quando lo ritenne doveroso, seppe praticare.

Luciano Canfora.
Luciano Canfora.

L’oblio nella città

di N. Loraux, La città divisa, Neri Pozza Editore, Vicenza 2006, pp. 61-77

Il punto di partenza è dato da un progetto: comprendere che cosa avesse spinto gli Ateniesi nel 403 a prestare giuramento di «non rievocare i mali del passato». Un evento politico, dunque. Il punto d’arrivo, benché del tutto provvisorio, consiste in un testo tratto dalla parte finale dell’Orestea: alcuni versi di Eschilo, quindi un registro completamente diverso, un pensiero più vecchio di cinquant’anni (ma mezzo secolo conta molto nella breve storia dell’Atene classica). Lungo il cammino, le domande e le preoccupazioni di una ricerca che muoveva i primi passi.
In principio, si diceva, il progetto di comprendere un momento chiave della storia politica di Atene: dopo la sconfitta definitiva nella guerra del Peloponneso, dopo il colpo di stato oligarchico dei Trenta “tiranni” e le loro estorsioni, il ritorno vittorioso dei resistenti democratici, che si ritrovano con i propri concittadini, gli avversari del giorno prima, per giurare insieme a loro di dimenticare il passato attraverso il consenso. Gli storici moderni della Grecia dicono che si tratta del primo esempio, straordinario e familiare al tempo stesso, di un’amnistia. Per i manuali (ma già negli scritti e nei discorsi dopo il 400) è questa la svolta con cui Atene si congeda dal secolo di Pericle per entrare nella cosiddetta “crisi del IV secolo”. Perché scegliere di attenersi a un evento, per giunta proprio a questo? Forse per sfuggire agli schemi atemporali della storia lunga. Ma anche per il diletto e –speriamo – l’utile atteso dall’esercizio che consiste nello strappare un evento tanto alla storia-racconto quanto alla storiografia commemorativa, al fine di metterlo in relazione con questioni greche molto antiche. 403: un anno di notevole importanza nella storia della città modello, perché proprio allora essa “inventa” l’amnistia. E lo fa con gli strumenti concettuali di una lunga tradizione, che è indissolubilmente politica e religiosa. La città – quella degli storici – prende delle decisioni, ma anche la pόlis, figura cara agli antropologi della Grecia, si scontra con la propria divisione, nel tempo degli uomini e in quello degli dèi. In breve, tenteremo di comprendere la città a partire dalla pόlis.
Si potrà ritenere che tale modo di procedere vada da sé. Ma le cose non sono così semplici. Si immagini uno storico interessato al politico e intento a cercarlo in Grecia: una Grecia non idealizzata, beninteso, che egli pensa di trovare rivolgendosi agli antropologi. Qui cominciano le difficoltà, perché, in quanto luogo del politico, l’oggetto pόlis è, per storici e antropologi, la posta in gioco di una versione inedita della parabola delle due città. Ci sia permessa a questo punto un’incursione nel cuore delle perplessità del nostro studioso dilettante di politica.

Pittore Cleofrade. Cassandra denudata e rannicchiata ai piedi del “Palladio”; Aiace l’afferra per i capelli per portala via (dettaglio). Pittura vascolare su hydria attica a figure rosse, 480-475 a.C. ca. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Le due città

Nel diciottesimo canto dell’Iliade, sullo scudo di Achille Efesto raffigura due città umane, entrambe “belle”, come precisa il poeta: l’una indaffarata nelle attività tipiche del tempo di pace (matrimoni e giustizia), l’altra pronta a fronteggiare la guerra che tuona alle sue porte. Su quale blasone raffigureremo le due città di cui i moderni ricercatori, storici e antropologi della Grecia, fra loro in competizione e come dandosi le spalle, si dilettano a disegnare i contorni?
Prendiamo la città classica, città dei classicisti. Nettamente separata dai suoi margini e in buona misura dalle sue radici sociali – come pure, per l’essenziale, da quelle religiose – , la città è un gruppo di uomini (per essere precisi, di maschi; i Greci dicono: ándres) associati tra loro da una costituzione (politeía), che può essere democratica o oligarchica (a questo livello di generalità il tiranno non trova posto, giacché, a dire dei Greci stessi, è fuori città; al massimo si vede in lui un momento sempre superato dall’irresistibile evoluzione della storia costituzionale delle città greche). La vita della città è politica e militare, poiché gli ándres fanno la guerra e, riuniti in assemblea, prendono decisioni a maggioranza. La città ha una storia che è stata già scritta dagli storici greci, a tutto vantaggio dei loro “colleghi” moderni. Questa storia parla di costituzioni e di guerre, e non sa che cosa farsene della vita silenziosa di donne, stranieri e schiavi. La città racconta i suoi érga (le sue “gesta”, nello specifico importanti fatti militari). La città si racconta.
La città degli antropologi, invece, non agisce nel tempo dell’evento, ma in quello ripetitivo di pratiche sociali – il matrimonio, il sacrificio – , in cui fare è ancora un modo di pensare. Di pensare se stessi assegnando (tentando di assegnare) un posto all’altro, a tutti gli altri e, di conseguenza, al medesimo: ricollegando i margini al centro, e quegli ándres che sono la città ma hanno bisogno, per esempio, delle donne per costituirla veramente. Così il matrimonio fonda la città assicurandone la riproduzione. Dopodiché, una volta costituitasi la pólis in società umana, la si può situare in rapporto a un altrove. O meglio: di questo altrove, tempo degli dèi, mondo selvaggio delle bestie, la città proclama la distanza per meglio farlo proprio, mettendolo al posto opportuno. La città ha assorbito il suo fuori, e il sacrificio fonda la pólis: lontani dagli dèi, ma dotati della cultura, gli uomini sacrificano loro un animale, e questo gesto distribuisce il sistema di esclusioni e integrazioni intorno al nucleo degli ándres. Dal taglio sacrificale e dalla sua interpretazione in atto nascerebbe a ogni cerimonia il politico: ugualitario come la condivisione, isomorfo… Diremo anche neutralizzato? Il politico come circolazione immobile, o la città a riposo.
Città degli storici e città degli antropologi. Ma dal momento che a proposito della Grecia antica non vi è nulla che i Greci non abbiano pensato prima di noi, queste due città sono anzitutto greche. Quella che delibera, combatte, stipula la pace e la rompe è oggetto degli scritti detti “ellenici”: proprio ciò che noi siamo soliti chiamare “la Storia”. L’altra, che ribadisce la sua identità attraverso la ripetizione di gesti ritualizzati, costituisce, al di là della differenza tra generi letterari, una sorta di modello comune di intellegibilità: un discorso sull’umano i cui principi fondamentali, continuamente riproposti, servono a selezionare il conforme e l’estraneo, o si prestano a equivoci e distorsioni che danno da pensare.
L’esperienza irrimediabilmente perduta dell’uomo greco non prevedeva che si scegliesse tra queste due concezioni della “città”. Resta il fatto che la necessità della scelta non abbandona mai l’orizzonte del discorso greco. Ciò è attestato per esempio dall’opera di un Erodoto, dominata dal modello antropologico della pólis fintanto ch’essa si configura come viaggio nel paese dei barbari, ma nella quale si riafferma inequivocabilmente la città in movimento degli ándres non appena, con l’avanzata delle truppe persiane, la scena si sposta in Grecia. Alla fine Erodoto sceglie, e anche i moderni scelgono tra le due definizioni della città e ciò che esse sono diventate storicamente per noi. Non vi è dubbio che questa scelta si iscriva nella battaglia, sempre aperta in seno agli studi greci, tra la conformità e la pretesa eterodossia nell’università. Per fedeltà a Tucidide si adotta la storia-racconto, oppure, rifiutando la tradizione, si ricercano nel discorso greco argomenti per “raffreddare” l’oggetto denominato città greca.
Ma ogni scelta comporta un’esclusione. La “storia” esclude dal politico tutto ciò che, nella vita della città, non è evento, ma anche ogni evento di cui non si riesce a rendere conto appellandosi alla “ragione” greca. Ci si sbarazza volentieri in un capitolo, in poche pagine, persino in una frase, del tempo della religione, del lento lavorio del mito, dicendo che si trattava di dimensioni molto importanti della vita cittadina. Si procede come quando, studiando gli eventi del 404/403, capita di imbattersi nel discorso in cui il capo dei resistenti democratici dice che gli dèi combattono in tutta evidenza dalla parte delle sue truppe, per le quali fanno il buono e il cattivo tempo. Come la mettiamo con questa considerazione? C’è poco da fare, se non ritenere che essa sia malauguratamente passata attraverso il filtro imperfetto del racconto, giudicato troppo poco selettivo, di uno storico di cui comunque già si diffidava. Lo storico dell’Antichità preferirebbe non avere nulla a che fare con la familiarità tra i democratici e gli dèi, e vorrebbe poter tracciare una netta distinzione.
Dalla parte degli antropologi, al contrario, la causa del “politico-religioso” non necessita più di venire perorata: un incontestabile guadagno per chi, come il nostro dilettante di politica, non si trova a suo agio nel laicizzare fin da subito la città. Tuttavia il politico così concepito presenta forti somiglianze con il mito del politico, in quanto è posto sotto il segno del sacrificio e rinasce continuamente nei gesti rallentati del rito. La città sarebbe un ambiente omogeneo caratterizzato da un funzionamento ugualitario. O meglio, questa è l’idea della città. Nella realtà quotidiana delle vita cittadina, infatti, non vi è dubbio che la situazione più diffusa fosse quella della disuguaglianza tra i cittadini e che la questione della quantità di uguaglianza venisse continuamente a incrinare il consenso. Inutile scomodare Tucidide e Senofonte per accertarsene: è sufficiente leggere Aristotele come un “antropologo”. I pensatori del politico isomorfo hanno letto Tucidide e Senofonte, Aristotele e molti altri, e sanno che la città è attraversata da movimenti irriducibili a quello, regolare e ripetitivo, della rotazione delle cariche come redistribuzione annuale del politico in cui si concretizza la condivisione ugualitaria. Ma il problema rimane: come far sorgere in modo plausibile la violenza dall’omogeneo, se non invocando la regressione dell’uomo “inselvatichito” al di qua dei limiti dell’umano, o ricorrendo alla figura del tiranno, uomo-lupo, bestia o dio che si esclude dalla città a furia di gravare troppo su di essa?
Si consideri per esempio l’omicidio di Efialte, capo democratico e guida politica di Pericle, ucciso nel 461/460 per aver osato limitare le vastissime prerogative dell’Areopago, il consiglio aristocratico avvolto da un’aura di sacro terrore. Omicidio di stampo evidentemente politico, che a questo titolo viene ricordato dalla storia-racconto senza tanti commenti, come spetta a un evento di primaria importanza. Certo, gli studiosi del politico-religioso vorrebbero sapere qualcosa di più a proposito del rovesciamento che portò il riformatore a essere vittima di uno “scaltro omicidio” (dolophonētheís) dopo aver tolto all’antico Consiglio la facoltà di sentenziare intorno nei processi per omicidio (phónou díkai). Ma nel contesto generale del politico vi è poco da dire su questa morte – come, a quanto pare, nel discorso degli stessi Ateniesi, che su questo punto della loro storia brillano per discrezione…
Ci si trova a compiere una scelta, dunque: si possono privilegiare le mere decisioni staccate dal pensiero che fa loro da sfondo, oppure questo stesso pensiero, che se ne sta molto lontano sullo sfondo di ogni atto. Ciò significa che per studiare il politico nella Grecia antica bisogna prima decidere che cosa in esso si vuole espungere?
In base alla nostra schietta finzione il dilettante di politica intende giustamente rifiutare tale alternativa. Perciò, rivolgendosi all’idea che, da moderno, si è fatto della pólis greca come origine del politico, egli farà ritorno alla città per cercarvi quel “gesto inaugurale” del politico che è il “riconoscimento del conflitto nella società”. Per cercarvi soprattutto quel funzionamento della parola che è facile perdere di vista concentrando l’attenzione sugli antefatti o sulle conseguenze del politico: il nostro storico non accetterà né di soffermarsi, insieme all’antropologo, sul sacrificio che apre l’assemblea popolare, né di cominciare con il decreto che chiude le sedute dell’ekklēsía e introduce al discorso. Perché nello spazio tra l’inizio e la fine va situata l’invenzione greca del dibattito contraddittorio seguito da un voto.
Un voto: la vittoria di un lógos su un altro. Níkē, dicono in effetti i Greci, prendendo questa parola dal linguaggio della guerra e della competizione. Continuando a rifiutare di schierarsi nella competizione tra le due idee di città, lo storico del politico preferisce concentrarsi sulla competizione immanente alla città – un modo per non dimenticare che gli eventi della fine del V secolo ad Atene possono fornirci un valido punto di partenza.

Pittore Duride. L’assegnazione delle armi di Achille presieduta da Atena. Pittura vascolare da una kylix attica a figure rosse, 500-450 a.C. ca. da Cerveteri. Berlin, Antikensammlung.

Uno si divide in due

Inutile illudersi, anche solo per un attimo, di poter accedere immediatamente alla realtà del dibattito contraddittorio e al conflitto nelle sue modalità. Lo storico della Grecia classica sa di non disporre di alcun documento che gli permetta di assistere di persona alla seduta di un’assemblea o fornisca informazioni precise sullo svolgimento di una lotta politica. senza archivi, senza alcuna raffigurazione plausibile, in parole o immagini, di una votazione, egli è costretto ancora una volta ad attenersi al discorso. Discorso è il racconto storico-grafico che ha già sempre compiuto una cernita nella realtà: per esempio, senza la scoperta, in occasione degli scavi sull’agorà, di innumerevoli tessere per l’ostracismo con il nome di un certo Kallixenos, questo personaggio, seppur tanto importante che molti Ateniesi ne temevano l’influenza, sarebbe rimasto uno sconosciuto nella storia politica di Atene, e in effetti, in mancanza di racconti storici sul suo conto, tale è rimasto. Discorsi e discorsi a posteriori sono i decreti che, anziché rendere conto dello svolgimento effettivo di un’assemblea, costruiscono e limitano il ricordo che è opportuno conservarne.
Discorso per discorso, tanto vale fare un passo indietro e tentare di mettere in luce quello che un po’ dappertutto i Greci dicono di una vittoria in assemblea, giacché sono stati loro ad inventare il politico secondo la modalità della vittoria.
Ora, dall’Odissea alla Guerra del Peloponneso, i Greci dicono continuamente: “la tesi peggiore ha la meglio…”; “avrebbe avuto la meglio se…”; “rischia di avere la meglio…”; “ha già avuto la meglio…”. Può succedere senz’altro che si prenda una buona decisione, capace di far dimenticare la minaccia o, per un pelo, di annullare gli effetti perniciosi di una votazione precedente. Curiosamente, però, per annunciare questa buona novella spesso i testi rinunciano al lessico della vittoria. Come se il fatto stesso della vittoria fosse tendenzialmente un male. Vi sono idee indubbiamente più rassicuranti, come la legge della maggioranza che presiede a tutte le votazioni e dovrebbe essere una garanzia. Quando però la maggioranza ha la meglio “per il bene”, sembra sempre che il voto sia stato raggiunto per un pelo, e l’ideale resta quello delle decisioni prese all’unanimità, come se, nel proclamare a gran voce l’unità di quel tutto che è la pólis, fosse fatto di dimenticare che, per un momento – quello del dibattito, cioè dell’assemblea – , la città necessariamente si divide. Dimenticare la divisione, dimenticare il dibattito… La pólis greca, è stato detto, «non si conosce se non mascherata». Si aggiunga a tale constatazione un’ipotesi: che sia così perché essa maschera a se stessa, con encomiabile costanza, l’effettiva realtà del suo funzionamento.
Interessarsi alla legittimità del conflitto, dunque, significa ben presto tentare di comprendere ciò che i Greci hanno detto intorno alla sua illegittimità. Significa riflettere sullo sforzo, in certo modo costitutivo, dell’unità della concezione politica dei Greci, volto a neutralizzare l’esistenza del politico come níkē e come krátos: come vittoria e superiorità di un partito sull’altro. Alla città alle prese con la guerra, l’Iliade contrappone la città in pace, quella del matrimonio e dell’amministrazione della giustizia. Ora, in seno alla pace, ecco che la giustizia è conflitto (neíkos) – il che non dovrebbe sorprendere troppo in Grecia, dove ogni processo è una battaglia, nel caso specifico una battaglia seria, in cui ne va della vita di un uomo. Ecco che, in questa bella città, «la gente grida in favore dell’uno o dell’altro e, per sostenerlo, finisce col formare due partiti». Riconoscimento sereno della legittimità del conflitto? Si obietterà che la decisione non spetta ad alcuno dei due gruppi, ma a una procedura complessa che mette in gioco un histōr e il consiglio degli Anziani – in questa città in cui la Città non è ancora nata, si può forse immaginare una divisione del tutto provvisoria, e che non coinvolga il destino della collettività perché nulla deve sancirla? A ogni modo questa faccenda si conclude con un concorso di sentenze che, come la parola del buon re di Esiodo, sanno rovesciare una situazione «dolcemente». Pare davvero che nulla debba minacciare dall’interno la bella città omerica. In compenso il poeta dell’Iliade non esita ad assegnare un nome e un posto ben precisi al male assoluto: il nome Erís, “lotta”, o Kēr oloē, “trapasso funesto”, il cui posto non sta entro le mura, ma alle porte della città assediata dall’esercito degli assalitori. Alcuni secoli più tardi la redistribuzione di questi dati è cosa fatta e, alla fine delle Eumenidi, Eschilo oppone la guerra straniera, che conferisce fama ed è l’unica buona perché è l’unica in grado di procurare gloria alla pólis, a quel flagello che è la guerra intestina. S’intende che solo la città caratterizzata da una situazione di pace interna potrà – come è suo dovere e destino – condurre la guerra al di fuori, e a questa guerra non presiede il trapasso funesto, ma la “bella morte” dei cittadini per la patria. le due città omeriche, quella che celebra matrimoni e quella che combatte, ne formano una sola, figura della città buona, mentre la divisione, divenuta minaccia assoluta, si insedia nella città malata, lacerata dallo scontro dei cittadini fra di loro.
Vi è una bella differenza tra la divisione delle opinioni e lo scontro sanguinario. Tuttavia, nel fare questo passo, stiamo solo imitando i Greci, i quali lo fanno di continuo – questa almeno la nostra ipotesi.
La guerra civile: per un Greco l’abominio della desolazione. Invece di indugiare sul carattere “naturale” di tale condanna (quale potrà mai essere per uno storico lo statuto della natura?), bisogna interessarsi al nome che i Greci danno a questo scontro: stásis. Stásis, come ha notato lucidamente Moses I. Finley, designa etimologicamente null’altro che una posizione: che poi la posizione sia divenuta partito, che il partito sia sempre necessariamente costituito ai fini della sedizione, che una fazione ne convochi un’altra, sempre, e che quindi esploda la guerra civile, tutto ciò rinvia a un’evoluzione semantica la cui interpretazione non andrebbe cercata «nella filosofia, ma nella società greca stessa». E nella concezione greca della città, aggiungiamo noi, dove la stessa condanna viene alla luce, da Esiodo che stabilisce un’equivalenza tra agorà e neíkos – tra il luogo della parola scambiata e i conflitti, spiacevole incarnazione della Cattiva Lotta – alla città ateniese del 403, che non sa bene come classificare gli uomini che sono «insorti per la democrazia», passando per Eschilo e l’auspicio espresso da Atena nelle Eumenidi di una «vittoria che non sia cattiva» – s’intenda: che non sia vittoria di una parte della città sull’altra. Stásis, o la divisione divenuta lacerazione. Stásis: da Solone a Eschilo, una piaga profonda nel fianco della città.
Nella città degli ándres cara agli storici greci, con la stásis fa irruzione il disordine: ecco che in Tucidide, quando narra gli eventi del 427 a Corcira, nella falla così aperta si insinuano i dimenticati dal racconto: le donne e gli schiavi, gli uni e le altre che combattono a fianco del partito popolare. Ecco che la battaglia imperversa all’interno della pólis, una battaglia senza grandi imprese, senza trofei, ma non senza vittoria, una battaglia che imita e svia quella che è lecito sferrare contro il nemico esterno. Ecco che, in uno spostamento mostruoso del sacrificio, lo sgozzamento (sphagē) si abbatte sugli stessi cittadini; ecco che le donne, di solito costrette a rimanere in pianta stabile all’interno della casa, salgono sui tetti, e gli schiavi diventano compagni di battaglia.
La stásis mette in crisi i modelli e le loro certezze rassicuranti. Gli storici moderni dell’Antichità le hanno riservato un trattamento particolare. Tradotta con l’espressione “guerra civile”, essa viene concepita come un evento la cui ripetizione costituisce, per esempio in Glotz – ma già in Fustel de Coulanges – la trama della “storia della Grecia” (e tuttavia, secondo le categorie dello stesso Glotz, la guerra civile è ciò che l’invenzione del politico avrebbe dovuto scongiurare, giacché la città avrebbe instaurato il voto come “rimedio preventivo” alla divisione sanguinaria: in principio, dunque, ma anche nel mezzo e alla fine, la guerra civile, inevitabile ricorrenza di un male fondatore della città?). Quando la chiamano col suo nome greco, gli storici solitamente la riconducono alla competizione, a quello spirito agonistico in cui, da Jacob Burckhardt in poi, si ravvisa l’impulso greco alla vita in città. Va osservato inoltre – benché spesso lo si dimentichi – che, se le cose stanno così, allorché condanna la stásis, come fa regolarmente, la concezione greca della città è costretta a cancellarne a ogni costo l’origine politica, per esempio assimilandola a una malattia, nósos, caduta sinistramente dall’alto del cielo, allo scopo di preservare l’immagine consensuale del politico. Ma in occasione di questa operazione di salvataggio che assomiglia a un diniego, che cosa ne è della coscienza greca del politico?
Bisogna insistere su questa operazione di pensiero. Per comprendere la stásis e poterci accostare adeguatamente equipaggiati all’Atene del 403, città convalescente che rifiuta anche la memoria della divisione. Per tentare inoltre, forse, di assegnare uno statuto al consenso ugualitario della pólis, mettendolo in rapporto con la lacerazione effettiva a essa immanente.
È questo il nostro progetto, per il momento appena abbozzato. È questo l’obiettivo della ricerca in cui stiamo per addentrarci, con ogni probabilità per lungo tempo. Prendiamo congedo finalmente dalla finzione dello storico dilettante di politica: l’incontro con il tema stásis non è affatto sopraggiunto come risultato di un percorso teorico unitario, come quello che abbiamo tentato di ricostruire finora. Né improvviso né veramente padroneggiato, l’incontro con un tema è il prodotto delle tortuosità di una ricerca, e spesso ha luogo ben prima di rendersene conto, nel corso di un cammino, in buona parte inconsapevole, attraverso investimenti teorici che coesistono a lungo prima di incrociarsi.

Pittore di Marlay. Clitennestra uccide Cassandra di fronte all’altare di Apollo. Pittura vascolare dal tondo di una kylix attica a figure rosse, 425 a.C. ca. Ferrara, Museo Archeologico Nazionale.

Nel punto di intersezione, “stásis

Col senno di poi, una volta avvenuto l’incontro, le cose sembrano chiare. Si può ricostruire un percorso dicendo per esempio che una ricerca sulla stásis si situa nel punto di intersezione tra due ricerche già avviate indipendentemente, che verranno poi sviluppate secondo un movimento unitario. Potremmo esprimerci in questo modo. Preferiamo tuttavia resistere alla tentazione della trasparenza. In realtà si avanza a tastoni, e qualche volta capita di trovare qualcosa. Nel caso specifico, a uno studio centrato sull’idea di città ha fatto seguito un percorso nell’immaginario ateniese dell’autoctonia, per arrivare a constatare un bel giorno che, grazie a uno di quei movimenti di bilanciare che, in una ricerca, sembrano a posteriori annullare gli scarti, ci si ritrova ancora una volta dal lato dell’idea di città – questa volta, però, della città nel suo rapporto con la divisione, con la sua divisione.
Come chiunque, con approvazione o fastidio, può constatare, per una lunga tradizione della storiografia greca la città per eccellenza è Atene. Non si potrebbe, tuttavia, procedere impunemente a tale identificazione, se non fosse già stata elaborata dagli Ateniesi stessi con una certa insistenza, se Atene cioè non si fosse pensata e non fosse riuscita a imporsi come la Città. Studiando l’orazione funebre ateniese, pensavamo di potere indicare uno dei luoghi in cui tale operazione è stata effettuata. Centrale, nell’orazione funebre in onore dei cittadini ateniesi caduti in battaglia, è il modello della “bella morte”, quella del combattente che assurge a eterna gloria avendo conquistato il valor militare. Muoiono gli uomini, la città rimane, onnipotente, indivisibile come l’idea di unità; morti sono i cittadini allorché l’oratore si fa avanti per esaltare Atene attraverso gli Ateniesi: su questi morti astratti la città costituisce la propria idealità. Grazie a questo trasferimento di gloria Atene si colloca in una nobiltà senza tempo, e la democrazia, di cui gli oratori tessono a profusione l’elogio, trova il proprio fondamento nell’aretē, nella qualità eminentemente aristocratica del valore. L’aspetto essenziale sta appunto nell’impossibilità, caratteristica della democrazia greca come regime modello, di inventare una lingua democratica per dire se stessa. In verità ciò ha inizio già col termine dēmokratía, che evoca la vittoria o la superiorità (krátos) del popolo, e che perciò viene pronunciato accompagnato da numerose precauzioni retoriche. La democrazia: una vittoria che sarebbe pericolosa al punto da non potere essere assunta se non sul registro, a un tempo nobile e guerresco, dell’aretē? La paura della stásis è sempre vicina, e in effetti, lavorando sull’orazione funebre, ci eravamo già imbattuti in questa domanda; non era però ancora venuto il momento di interrogarsi sulla concezione civica della divisione: nel campo del valore tutto si riassorbe in seno all’unità della città, una come dev’esserlo il luogo geometrico dei simili. Quel che catturava l’attenzione nel discorso della democrazia sul proprio valore era il processo in virtù del quale l’orazione funziona per noi come ideologia e per gli Ateniesi come una delle voci privilegiate dell’immaginario cittadino.
Stabilire la collocazione e il ruolo svolto dal mito nel gioco mutevole di questo immaginario: tale era allora la nostra preoccupazione. L’esempio scelto, quello del mito ateniese dell’autoctonia, proveniva dall’orazione funebre, dalla quale tuttavia ci si era allontanati per tentare di contestualizzare il mito nella città, nello spessore composito dei suoi “strati”, nella cartografia dei suoi luoghi e dei suoi molteplici discorsi. Presentati come autoctoni nell’orazione funebre, in realtà gli Ateniesi lo sono per derivazione, nel cerimoniale sull’Acropoli come sulla scena tragica, in quanto eredi dell’infante Erittonio, autoctono primordiale nato dalla terra cittadina. Dalla riflessione ateniese sulla cittadinanza, che trova la propria fondazione mitica nella nascita di Erittonio, scaturiscono due questioni, appena dissimulate nei discorsi e nell’immaginario: quella della posizione delle donne – e della divisione dei sessi – e quella della parentela all’interno della città. Autoctoni sono gli ándres di contro alle donne, questi parenti acquisiti o che si vorrebbero tali. Gli ándres inoltre, in quanto autoctoni, stabiliscono tra loro, lontano dalle donne, un luogo per pensarsi, un luogo in cui la città si dà come unitaria e costituita da identici: la parentela originaria di coloro che hanno ciascuno individualmente un padre, e tutti collettivamente la stessa madre. Al tentativo di comprendere come venisse pensato ad Atene il nome di questa madre (, la Terra? oppure la vergine Atena?) ci eravamo dedicati allora e, di conseguenza, all’individuazione del posto delle donne nella concezione ateniese della cittadinanza. La parentela sarebbe venuta in seguito, con la città in preda alla stásis… Ma non andiamo troppo in fretta, e soprattutto non cediamo alla tentazione di ricostruire uno sviluppo trasparente: a posteriori, solo a posteriori, ci siamo accorti che allo studio della città unica ha fatto seguito la riflessione sulla divisione dei sessi, e che la divisione dei sessi ha portato surrettiziamente alla città come famiglia divisa.