Il teatro della guerra gallica (Cᴀᴇs. 𝐵𝐺 I 1)

Nel raccontare le vicende propriamente militari, Cesare non manca mai di fornire indicazioni – anche piuttosto dettagliate – sui suoi nemici e sui territori da loro abitati. Il De bello Gallico rappresenta pertanto una preziosa finestra sulla Gallia del I secolo a.C.; le parole di Cesare permettono infatti di ricostruire un quadro molto articolato in cui la Gallia, lungi dall’essere un’unità granitica e indistinta, costituisce, peraltro insieme ai territori al di là del fiume Reno, lo scenario composito di una guerra che vede attive numerose e differenti popolazioni. Elvezi, Germani, Veneti, Edui, Usipeti, Tencteri e altri ancora si muovono su questo scacchiere ora in modo indipendente ora alleandosi fra loro o con gli stessi Romani, a seconda delle convenienze e delle necessità.

Le notazioni geografiche ed etnografiche aprono il De bello Gallico per marcare da subito, con l’assenza del tradizionale proemio, la specificità del genere memorialistico rispetto al genere storiografico. Le informazioni geografiche sono precise e necessarie alla comprensione delle complesse operazioni di guerra che saranno raccontate e descritte nel corso dell’opera; le osservazioni etnologiche, sobrie ed essenziali, fanno già intravedere le difficoltà dell’impresa che Cesare sta per affrontare e, ponendo fin dall’inizio la bellicosità di certe popolazioni in diretto rapporto con la loro lontananza dalla civiltà greco-romana, anticipano l’atteggiamento di rispetto morale che, alcune generazioni dopo, anche Tacito, nella Germania, manifesterà verso i barbari incorrotti.

C. Giulio Cesare. Statua loricata (dettaglio del busto), marmo, II sec. d.C. (età traianea). Roma, Musei Capitolini.

[1, 1] Gallia[1] est omnis diuisa[2] in partes tres, quarum[3] unam incolunt Belgae, aliam Aquitani, tertiam qui ipsorum lingua Celtae, nostra Galli appellantur[4]. [2] Hi omnes lingua, institutis, legibus[5] inter se differunt. Gallos ab Aquitanis Garumna flumen, a Belgis Matrona et Sequana diuidit[6]. [3] Horum[7] omnium fortissimi sunt Belgae, propterea quod[8] a cultu atque humanitate prouinciae[9] longissime absunt, minimeque ad eos mercatores saepe commeant[10] atque ea quae ad effeminandos animos[11] pertinent important, proximique sunt Germanis, qui trans Rhenum incolunt[12], quibuscum continenter bellum gerunt[13]. [4] Qua de causa[14] Heluetii[15] quoque reliquos Gallos uirtute praecedunt, quod fere cotidianis proeliis[16] cum Germanis contendunt, cum[17] aut suis finibus eos prohibent, aut ipsi in eorum finibus bellum gerunt. [5] Eorum una pars, quam Gallos optinere dictum est, initium capit a flumine Rhodano, continentur Garumna flumine, Oceano, finibus Belgarum, attingit etiam ab Sequanis[18] et Heluetiis flumen Rhenum, uergit ad septentriones[19]. [6] Belgae ab extremis Galliae finibus oriuntur, pertinent ad inferiorem partem fluminis Rheni, spectant in septentrionem et orientem solem. [7] Aquitania Garumna flumen ad Pyrenaeos montes et eam partem Oceani quae est ad Hispaniam[20] pertinet; spectat inter occasum solis et septentriones.

La Gallia è, nel suo insieme, divisa in tre parti, delle quali una abitano i Belgi, un’altra gli Aquitani, la terza quelli che nella loro lingua sono chiamati Celti, nella nostra Galli. Tutti questi (popoli) differiscono fra loro per lingua, istituzioni e leggi. Il fiume Garonna separa i Galli dagli Aquitani, la Marna e la Senna dai Belgi. Di tutti questi (popoli) i più forti sono i Belgi, per il fatto che sono lontanissimi dalla cultura e dalla civiltà della (nostra) provincia, e molto di rado giungono fino a loro i mercanti e portano quei prodotti che hanno l’effetto di indebolire gli animi, e (per il fatto che) sono vicinissimi ai Germani che abitano oltre il Reno, con i quali fanno continuamente guerra. E per questo motivo anche gli Elvezi superano in valore anche tutti gli altri Galli, per il fatto che si scontrano con i Germani in combattimenti quasi quotidiani, quando li tengono lontani dai loro confini o quando portano guerra essi stessi nei loro territori. Di questi quella parte che si è detto che occupano stabilmente i Galli, ha inizio dal fiume Rodano, è delimitata dal fiume Garonna, dall’Oceano, dal territorio dei Belgi, dalla parte dei Sequani e degli Elvezi tocca anche il fiume Reno ed è orientata verso settentrione. Il paese dei Belgi dalle più lontane regioni della Gallia si estende fino al corso inferiore del fiume Reno ed è rivolto a nord-est. L’Aquitania si estende dal fiume Garonna ai monti Pirenei e a quella parte dell’Oceano che è volta verso la Spagna; guarda verso nord-ovest.

Le prime informazioni che Cesare offre riguardano il teatro in cui si sono svolte le operazioni militari oggetto dell’opera (in seguito queste sommarie indicazioni saranno sviluppate in excursus etnografici di più ampio respiro sulle varie popolazioni galliche).

Viene subito chiarita in questo modo la mappa geo-etnografica della Gallia Transalpina (a esclusione della provincia, romanizzata dal 121 a.C.) con la menzione delle popolazioni che si dividono il territorio gallico e la descrizione piuttosto dettagliata della loro collocazione.

I primi tre paragrafi si concentrano rapidamente sui tre principali raggruppamenti tribali: i Belgae, gli Aquitani e i Celti. A proposito del termine «Celti» va precisato che Cesare fa un uso estensivo di questa etichetta, con cui indica i popoli della Gallia Transalpina, della Britannia e della Gallia Cisalpina. Oggi, più che un’entità etnica unitaria con questo nome s’intende una famiglia linguistica costituita da popolazioni diverse, originariamente stanziate nell’Europa centrale e da lì poi migrate in Gallia, Britannia, Hispania, Italia e Asia Minor. Il cuore del passo, invece, è dedicato ai Germani: Cesare, in realtà, ne parla solo in modo indiretto, in quanto si trattava di una popolazione stanziata a rigore fuori dalla Gallia propriamente detta, cioè al di là del fiume Reno. Ne sottolinea la presenza minacciosa, che paradossalmente serve a temprare gli animi di Belgae ed Heluetii, costretti a una costante guerra di confine e, dunque, a tenersi lontano dall’effeminatezze della civiltà mediterranea.

Cesare prosegue la sua rassegna con gli Heluetii, un’antica popolazione celtica che abitava fin dal II secolo a.C. l’odierna Svizzera e la cui migrazione verso la Gallia occidentale fu il casus belli per scatenare l’intervento romano. Gli ultimi tre paragrafi sono dedicati a una descrizione di tipo più specificamente geografico, che mira a informare di alcuni dettagli che saranno utili al lettore nel seguito dell’opera. Il passo dà comunque l’occasione di menzionare ancora un altro popolo con cui i Romani verranno a contatto: i Sequani.

Il primo capitolo del libro I costituisce il proemio del De bello Gallico: come è evidente, però, si tratta di un incipit atipico, in quanto è assente la tradizionale forma di indirizzo al lettore o di giustificazione dell’opera. Al posto della solita struttura proemiale, dunque, si trova questa premessa informativa che, pur nella sua essenzialità, mostra una grande capacità di accumulare significati e di comunicare messaggi piuttosto precisi al lettore. Ma non si tratta semplicemente di informazioni di tipo geo-etnografico: la parte centrale del brano è infatti carica di riflessioni sulla forza delle popolazioni che Cesare sta per affrontare e, dunque, implicitamente, sul pericolo che esse, fiere e non toccate dalle mollezze della civiltà mediterranea, rappresentano per le province romane e per Roma stessa, senza un intervento preventivo. Sottolineando l’isolamento e il “protezionismo” economico dei Belgae, Cesare, da un lato, mette in luce la loro virtù incorrotta (frutto appunto di quella condizione speciale imposta dalla presenza di un metus hostilis), dall’altro, additando la mancanza di civiltà delle popolazioni galliche, legittima indirettamente la conquista romana (che voleva presentarsi anche come opera di acculturazione, di apertura ai commerci e agli scambi).

C. Giulio Cesare. 𝐷𝑒𝑛𝑎𝑟𝑖𝑢𝑠, emesso in 𝐻𝑖𝑠𝑝𝑎𝑛𝑖𝑎 46-45 a.C. 𝐴𝑅. 3,77 g. 𝑂𝑏𝑣𝑒𝑟𝑠𝑜: 𝐶𝑎𝑒𝑠𝑎𝑟; trofeo posto fra due prigionieri gallici.

È possibile ricavare anche un ulteriore messaggio dalle parole apparentemente descrittive del proemio: la fierezza e l’attitudine alla guerra, rilevata con insistenza a proposito di Belgae, Heluetii e Germani, implicitamente preannunciano al lettore anche le difficoltà di uno scontro impegnativo, che metterà a dura prova l’esercito romano. Ma in questo modo si finisce inevitabilmente anche con il sottolineare il valore di Cesare e dei suoi soldati, capaci di superare una situazione così difficile e di sconfiggere nemici tanto agguerriti.

Fin da questo primo capitolo del De bello Gallico, la campagna di Gallia è presentata al pubblico romano come una guerra preventiva. Basta una notazione etnologica sui costumi incorrotti dei Belgae, isolati dai commerci e dal benessere (Horum… important, par. 3), a orientare il lettore con un duplice messaggio: da una parte, si annuncia la minaccia che quei popoli fieri e bellicosi possono rappresentare per la res publica Romana, dall’altra si fornisce già una legittimazione all’espansionismo militare come opera di civilizzazione. Eppure, la tendenziosità della narrazione cesariana non si fa mai aperta propaganda, agisce discretamente, selezionando e ordinando i fatti in gerarchie significative, con (quasi) perfetta dissimulazione.


[1] Gallia: Cesare intende con questo toponimo la regione non ancora conquistata dai Romani, e cioè la Gallia Belgica, la Gallia Celtica e la Gallia Aquitanica. La Gallia Cisalpina (o Citerior), corrispondente all’odierna Pianura Padana e a parte della Romagna (fino al Rubicone) era infatti provincia romana dal 191 a.C., mentre la Gallia Transalpina, che abbracciava il territorio compreso tra i Pirenei e le Alpi e confinava a nord con il territorio di Tolosa, era stata provincializzata dal 121 a.C. con il nome di Gallia Narbonensis.

[2] La forma composta estdiuisa indica uno stato di fatto, e cioè che la Gallia «è divisa» in tre regioni distinte (in partes tres); l’aggettivo omnis («nel suo insieme») è aggettivo indica una totalità che al suo interno è distinta in parti, a differenza di totus che rappresenta una totalità indivisibile.

[3] quarum è genitivo partitivo.

[4] I Belgi occupavano il territorio che si estendeva nel Nord della Gallia, comprendente una parte dell’attuale Francia settentrionale, del Belgio, dell’Olanda, del Lussemburgo e della Germania, fino al basso corso del Reno; gli Aquitani erano stanziati nel territorio compreso tra i Pirenei, l’Oceano Atlantico e il fiume Loira; i Celti propriamente detti abitavano fra l’Aquitania e la Gallia Belgica in un territorio delimitato a nord dal corso della Senna e a sud da quello della Garonna. Si noti l’enumerazione unamaliamteriam; ipsorum lingua, «nella loro lingua» («chiamati localmente»), dove lingua può essere inteso come ablativo di mezzo o di limitazione; il verbo appellantur, «sono denominati», regge i complementi predicativi dei soggetti Celtae e Galli.

[5] lingua, institutis, legibus sono tre ablativi di limitazione coordinati per asindeto. Institutum indica una consolidata consuetudine di vita, mentre lex regola dal punto di vista giuridico i rapporti tra le persone con l’autorità.

[6] Il fiume Matrona (od. Marna) è affluente di destra della Sequana (od. Senna); i due corsi segnavano un confine naturale tra la Gallia Belgica e la Celtica.

[7] Horum, sottinteso populorum, si tratta di un genitivo partitivo dipendente dal superlativo assoluto fortissimi.

[8] propterea quod, «per il fatto che», la congiunzione introduce una serie di proposizioni dichiarative-causali tra loro coordinate (absunt, commeant, important, sunt).

[9] Cioè la Gallia Narbonensis.

[10] Il verbo commeare indica propriamente l’attività dell’«andare e venire» propria dei mercatores che dall’antica colonia focese di Marsilia (Massalia) penetravano nell’interno gallico.

[11] Ovvero «beni di lusso»; ad effeminandos animos è proposizione finale implicita espressa con il gerundivo.

[12] quiincolunt, proposizione relativa. I Germani occupavano un territorio assai vasti, oltre la riva orientale del Reno, compreso fra il Danubio, la Vistola, il Mare del Nord e il Mar Baltico.

[13] Il termine bellum, derivato probabilmente da una forma arcaica duellum (da cui l’italiano «duello», indica la «guerra» in senso lato. L’uso è molto frequente negli autori latini e si trova spesso, in unione con verbi, in espressioni come questa: bellum gerere cum aliquo, «far guerra contro qualcuno».

[14] Qua de causa, «E per questo motivo», equivale a Et hac causa ed è un nesso relativo.

[15] Gli Heluetii abitavano dal II secolo a.C. un territorio corrispondente all’odierna Svizzera.

[16] Il termine proelium vale «combattimento», «battaglia», nel senso di scontro fra schiere armate. Non presenta significative differenze rispetto a pugna: indica infatti la «battaglia» intesa come scontro all’interno di un conflitto.

[17] Qui cum introduce due proposizioni temporali coordinate dalla disgiuntiva aut e caratterizzate da parallelismo strutturale.

[18] I Sequani erano una popolazione della Gallia Celtica, stanziata tra l’Arar, il Rodano e la catena del Giura.

[19] septentriones, da septem triones («i sette buoi da lavoro»), indica propriamente le sette stelle che compongono la costellazione del Grande Carro (o Orsa Maggiore).

[20] L’Hispania comprendeva l’intera Penisola iberica, cioè l’attuale Spagna e il Portogallo; il fiume Ebro faceva da confine tra l’Hispania citerior e l’Hispania ulterior, denominazioni che rispettivamente volevano dire «al di qua del fiume» e «al di là del fiume».

Diodoro e i Celti

I. Bekker, L. Dindorf, F. Vogel (edd.), Diodori Bibliotheca Historica, voll. 1-2, Teubner, Leipzig 1888-90 (testo greco). Tr. it., lievemente modificata, di D.P. Orsi (in Diodoro Siculo, Biblioteca storica, libri I-V (a cura di L. Canfora), Palermo 1988, pp. 262 s.).

24. [1] […] Τῆς Κελτικῆς τοίνυν τὸ παλαιόν, ὥς φασιν, ἐδυνάστευσεν ἐπιφανὴς ἀνήρ, ᾧ θυγάτηρ ἐγένετο τῷ μεγέθει τοῦ σώματος ὑπερφυής, τῇ δ᾽εὐπρεπείᾳ πολὺ διέχουσα τῶν ἄλλων. Αὕτη δὲδιά τε τὴν τοῦ σώματος ῥώμην· καὶ τὴν θαυμαζομένην εὐπρέπειαν πεφρονηματισμένη παντὸς τοῦ μνηστεύοντος τὸν γάμον ἀπηρνεῖτο, νομίζουσα μηδένα [2] τούτων ἄξιον ἑαυτῆς εἶναι. Κατὰ δὲ τὴν Ἡρακλέους ἐπὶ Γηρυόνην στρατείαν, καταντήσαντος εἰς τὴν Κελτικὴν αὐτοῦ καὶ πόλιν Ἀλησίαν ἐν ταύτῃ κτίσαντος, θεασαμένη τὸν Ἡρακλέα καὶ θαυμάσασα τήν τε ἀρετὴν αὐτοῦ καὶ τὴν τοῦ σώματος ὑπεροχήν, προσεδέξατο τὴν ἐπιπλοκὴν μετὰ πάσης προθυμίας, [3] συγκατανευσάντων καὶ τῶν γονέων. Μιγεῖσα δὲ τῷ Ἡρακλεῖ ἐγέννησεν υἱὸν ὀνόματι Γαλάτην, πολὺ προέχοντα τῶν ὁμοεθνῶν ἀρετῇ τε ψυχῆς καὶ ῥώμῃ σώματος. Ἀνδρωθεὶς δὲ τὴν ἡλικίαν καὶ διαδεξάμενος τὴν πατρῴαν βασιλείαν, πολλὴν μὲν τῆς προσοριζούσης χώρας κατεκτήσατο, μεγάλας δὲ πράξεις πολεμικὰς συνετέλεσε. Περιβόητος δὲ γενόμενος ἐπ᾽ἀνδρείᾳ τοὺς ὑφ᾽αὑτὸν τεταγμένους ὠνόμασεν ἀφ᾽ἑαυτοῦ Γαλάτας· ἀφ᾽ὧν ἡ σύμπασα Γαλατία προσηγορεύθη.

24. [1] […] Nei tempi antichi regnava nella Celtica[1] – così si racconta – un uomo famoso che aveva una figlia di statura eccezionale e molto più bella delle altre. Ella, orgogliosa della sua forza fisica e della sua ammirata bellezza, respingeva tutti coloro che aspiravano a sposarla, ritenendo che nessuno fosse degno di lei. [2] Al tempo della sua spedizione contro Gerione, Eracle venne nella terra dei Celti dove fondò la città di Alesia; la fanciulla lo vide e ne ammirò il valore e l’eccellenza fisica, accettò con grande entusiasmo di unirsi a lui e anche i genitori furono d’accordo. [3] Dall’unione con Eracle nacque un figlio di nome Galate che superava di molto gli appartenenti alla sua stessa tribù per virtù d’animo e forza fisica. Diventato adulto e avendo ereditato il regno avito, egli conquistò molte terre confinanti e compì grandi imprese militari. Ormai famoso per il suo coraggio, Galate chiamò i suoi sudditi “Galati” con il proprio nome: da questi poi prese nome tutta la “Galatia”.

Statua di divinità guerriera. Lamina di bronzo sbalzato e occhi di pasta vitrea, I secolo a.C. da Beauvais. Musée Départmental de l’Oise.

25. [1] Ἐπεὶ δὲ περὶ τῆς τῶν Γαλατῶν προσηγορίας διήλθομεν, καὶ περὶ τῆς χώρας αὐτῶν δέον ἐστὶν εἰπεῖν. Ἡ τοίνυν Γαλατία κατοικεῖται μὲν ὑπὸ πολλῶν ἐθνῶν διαφόρων τοῖς μεγέθεσι· τὰ μέγιστα γὰρ αὐτῶν σχεδὸν εἴκοσι μυριάδας ἀνδρῶν ἔχει, τὰ δ᾽ἐλάχιστα πέντε μυριάδας, ὧν ἕν ἐστι πρὸς Ῥωμαίους ἔχον συγγένειαν παλαιὰν καὶ φιλίαν τὴν μέχρι τῶν καθ᾽ἡμᾶς χρόνων διαμένουσαν. [2] Κειμένη δὲ κατὰ τὸ πλεῖστον ὑπὸ τὰς ἄρκτους χειμέριός ἐστι καὶ ψυχρὰ διαφερόντως. Κατὰ γὰρ τὴν χειμερινὴν ὥραν ἐν ταῖς συννεφέσιν ἡμέραις ἀντὶ μὲν τῶν ὄμβρων χιόνι πολλῇ νίφεται, κατὰ δὲ τὰς αἰθρίας κρυστάλλῳ καὶ πάγοις ἐξαισίοις πλήθει, δι᾽ὧν οἱ ποταμοὶ πηγνύμενοι διὰ τῆς ἰδίας φύσεως γεφυροῦνται· οὐ μόνον γὰρ οἱ τυχόντες ὁδῖται κατ᾽ὀλίγους κατὰ τοῦ κρυστάλλου πορευόμενοι διαβαίνουσιν, ἀλλὰ καὶ στρατοπέδων μυριάδες μετὰ σκευοφόρων καὶ ἁμαξῶν γεμουσῶν ἀσφαλῶς περαιοῦνται. [3] Πολλῶν δὲ καὶ μεγάλων ποταμῶν ῥεόντωνδιὰ τῆς Γαλατίας καὶ τοῖς ῥείθροις ποικίλως τὴν πεδιάδα γῆν τεμνόντων, οἱ μὲν ἐκ λιμνῶν ἀβύσσωνῥέουσιν, οἱ δ᾽ἐκ τῶν ὀρῶν ἔχουσι τὰς πηγὰς καὶ τὰς ἐπιρροίας· τὴν δ᾽ἐκβολὴν οἱ μὲν εἰς τὸν ὠκεανὸν ποιοῦνται, οἱ δ᾽εἰς τὴν καθ᾽ἡμᾶς θάλατταν. [4] Μέγιστος δ᾽ἐστὶ τῶν εἰς τὸ καθ᾽ἡμᾶς πέλαγος ῥεόντων ὁ Ῥοδανός, τὰς μὲν πηγὰς ἔχωνἐν τοῖς Ἀλπείοις ὄρεσι, πέντε δὲ στόμασιν ἐξερευγόμενος εἰς τὴν θάλατταν. Τῶν δ᾽εἰς τὸν ὠκεανὸν ῥεόντων μέγιστοι δοκοῦσιν ὑπάρχειν ὅ τε Δανούβιος καὶ ὁ Ῥῆνος, ὃν ἐν τοῖς καθ᾽ἡμᾶς χρόνοις Καῖσαρ ὁ κληθεὶς θεὸς ἔζευξε παραδόξως, καὶ περαιώσας πεζῇ τὴν δύναμιν ἐχειρώσατο τοὺς πέραν κατοικοῦντας αὐτοῦ Γαλάτας. [5] Πολλοὶ δὲ καὶ ἄλλοι πλωτοὶ ποταμοὶ κατὰ τὴν Κελτικήν εἰσι, περὶ ὧν μακρὸν ἂν εἴη γράφειν. Πάντες δὲ σχεδὸν ὑπὸ τοῦ πάγου πηγνύμενοι γεφυροῦσι τὰ ῥεῖθρα, καὶ τοῦ κρυστάλλου διὰ τὴν φυσικὴν λειότητα ποιοῦντος τοὺς διαβαίνοντας ὀλισθάνειν, ἀχύρων ἐπιβαλλομένων ἐπ᾽αὐτοὺς ἀσφαλῆ τὴν διάβασιν ἔχουσιν.

Testa (forse di un dio). Argilla, 150 a.C. da Keltské Nálezy (Rep. Ceca).

25. [1] Dopo aver parlato del nome dei Galati, bisogna dire qualcosa anche sul loro territorio. La Galatia è abitata da molte tribù di diversa grandezza: quelle più grandi contano circa 200.000 uomini, mentre le più piccole 50.000; una di queste ultime è legata ai Romani da antica parentela e amicizia che si è conservata fino ai nostri tempi. [2] La regione, situata prevalentemente a settentrione, gode di un clima invernale ed è straordinariamente fredda; durante l’inverno, infatti, nei giorni nuvolosi, cade non pioggia bensì neve abbondante, mentre nei giorni di sereno v’è molto ghiaccio e gelo intenso, a causa del quale i fiumi, ghiacciati, si trasformano da soli in ponti: non soltanto i viandanti occasionali, in piccoli gruppi, li attraversano camminando sulla superficie gelata, ma anche interi eserciti con decine di migliaia di uomini, accompagnati da bestie da soma e da carri ricolmi, vi passano sopra indenni. [3] Attraverso la Galatia scorrono numerosi e ampi fiumi che tagliano variamente la pianura con i loro corsi; gli uni scorrono alimentati da laghi estesissimi, gli altri traggono origine e alimentazione dai monti; gli uni sboccano nell’oceano, gli altri nel nostro mare. [4] Il più grande fra quelli che scorrono fino al nostro mare è il Rodano, il quale nasce dalle Alpi e si getta in mare attraverso cinque bocche. Di quelli che scorrono verso l’oceano, i maggiori sembrano essere il Danubio e il Reno, sul quale, ai nostri tempi, Cesare, detto “il Divo”, gettò con meraviglia di tutti un ponte, vi fece passare a piedi l’esercito e assoggettò i Galati che abitavano oltre il fiume. [5] Nella terra dei Celti vi sono anche molti altri fiumi navigabili ma occorrerebbe troppo tempo per descriverli. Quasi tutti, però, solidificati dal gelo, trasformano i loro letti in ponti ma, poiché il ghiaccio, a causa della sua levigatezza, fa scivolare coloro che li attraversano, i locali vi spargono sopra della paglia e si rendono sicuro il passaggio.

26. [1] Ἴδιον δέ τι καὶ παράδοξον συμβαίνει κατὰ τὴν πλείστην τῆς Γαλατίας, περὶ οὗ παραλιπεῖν οὐκ ἄξιον ἡγούμεθα. Ἀπὸ γὰρ θερινῆς δύσεως καὶ ἄρκτου πνεῖν εἰώθασιν ἄνεμοι τηλικαύτην ἔχοντες σφοδρότητα καὶ δύναμιν, ὥστε ἀναρπάζειν ἀπὸ τῆς γῆς λίθους χειροπληθιαίους τοῖς μεγέθεσι καὶ τῶν ψηφίδων ἁδρομερῆ κονιορτόν· καθόλου δὲ καταιγίζοντες λάβρως ἁρπάζουσιν ἀπὸ μὲν τῶν ἀνδρῶν τὰ ὅπλα καὶ τὰς ἐσθῆτας, ἀπὸ δὲ τῶν ἵππων τοὺς ἀναβάτας. [2] Διὰ δὲ τὴν ὑπερβολὴν τοῦ ψύχους διαφθειρομένης τῆς κατὰ τὸν ἀέρα κράσεως οὔτ᾽οἶνον οὔτ᾽ἔλαιον φέρει· διόπερ τῶν Γαλατῶν οἱ τούτων τῶν καρπῶν στερισκόμενοι πόμα κατασκευάζουσιν ἐκ τῆς κριθῆς τὸ προσαγορευόμενον ζῦθος, καὶ τὰ κηρία πλύνοντες τῷ τούτων ἀποπλύματι χρῶνται. [3] Κάτοινοι δ᾽ὄντες καθ᾽ὑπερβολὴν τὸν εἰσαγόμενον ὑπὸ τῶν ἐμπόρων οἶνον ἄκρατον ἐμφοροῦνται, καὶ διὰ τὴν ἐπιθυμίαν λάβρῳ χρώμενοι τῷ ποτῷ καὶ μεθυσθέντες εἰς ὕπνον ἢ μανιώδεις διαθέσεις τρέπονται. Διὸ καὶ πολλοὶ τῶν Ἰταλικῶν ἐμπόρων διὰ τὴν συνήθη φιλαργυρίαν ἕρμαιον ἡγοῦνται τὴν τῶν Γαλατῶν φιλοινίαν. Οὗτοι γὰρ διὰ μὲν τῶν πλωτῶν ποταμῶν πλοίοις, διὰ δὲ τῆς πεδιάδος χώρας ἁμάξαις κομίζοντες τὸν οἶνον, ἀντιλαμβάνουσι τιμῆς πλῆθος ἄπιστον· διδόντες γὰρ οἴνου κεράμιον ἀντιλαμβάνουσι παῖδα, τοῦ πόματος διάκονον ἀμειβόμενοι.

Cernumno assiso in trono fra Apollo e Mercurio. Bassorilievo, calcare, I sec. d.C., da Reims.

 

26. [1] In gran parte della Galatia si verifica un fenomeno particolare e strano che non ci è sembrato opportuno trascurare. Dalla regione dove il sole tramonta e da settentrione, in estate, soffiano abitualmente dei venti di tale impetuosità e violenza da sollevare in alto da terra pietre grosse tanto da empire una mano e una fitta nube di pietrisco: insomma, questi venti, infuriando con veemenza, strappano agli uomini armi e vesti, strappano ai cavalli i cavalieri. Poiché il clima è vessato dal freddo eccessivo, la Galatia non produce né vino né olio. [2] Perciò, tra i Galati quanti sono sprovvisti di tali prodotti, ricavano dall’orzo una bevanda che si chiama zythos e fanno uso dell’acqua con cui lavano i favi di miele. [3] Ma, amando smodatamente il vino, bevono a sazietà e senza diluirlo quello importato dai mercanti; poiché ne fanno dunque un uso selvaggio, spinti dalla loro passione, si ubriacano e cedono al sonno o a stati di furore. Per questo molti mercanti italici, avidi come sempre, ritengono un dono di Ermes la passione dei Galati per il vino. Essi lo trasportano su barche, attraverso i fiumi navigabili, o su carri, attraverso la pianura, e ne ricevono in cambio un utile incredibilmente elevato: cedono un’anfora di vino e ricevono un ragazzino, scambiando, dunque, la bevanda con un servo.

27. [1] Kατὰ γοῦν τὴν Γαλατίαν ἄργυρος μὲν οὐ γίνεται τὸ σύνολον, χρυσὸς δὲ πολύς, ὃν τοῖς ἐγχωρίοις ἡ φύσις ἄνευ μεταλλείας καὶ κακοπαθείας ὑπουργεῖ. Ἡ γὰρ τῶν ποταμῶν ῥύσις σκολιοὺς τοὺς ἀγκῶνας ἔχουσα, καὶ τοῖς τῶν παρακειμένων ὀρῶν ὄχθοις προσαράττουσα καὶ μεγάλους ἀπορρηγνῦσα κολωνούς, πληροῖ χρυσοῦ ψήγματος. [2] Τοῦτο δ᾽οἱπερὶ τὰς ἐργασίας ἀσχολούμενοι συνάγοντες ἀλήθουσινἢ συγκόπτουσι τὰς ἐχούσας τὸ ψῆγμα βώλους, διὰ δὲ τῶν ὑδάτων τῆς φύσεως τὸ γεῶδες πλύναντες παραδιδόασιν ἐν ταῖς καμίνοις εἰς τὴν χωνείαν. [3] Τούτῳ δὲ τῷ τρόπῳ σωρεύοντες χρυσοῦ πλῆθος καταχρῶνται πρὸς κόσμον οὐ μόνον αἱ γυναῖκες, ἀλλὰ καὶ οἱ ἄνδρες. Περὶ μὲν γὰρ τοὺς καρποὺς καὶ τοὺς βραχίονας ψέλια φοροῦσι, περὶ δὲ τοὺς αὐχένας κρίκους παχεῖς ὁλοχρύσους καὶ δακτυλίους ἀξιολόγους, ἔτι δὲ χρυσοῦς θώρακας. [4] Ἴδιον δέ τι καὶ παράδοξον παρὰ τοῖς ἄνω Κελτοῖς ἐστι περὶ τὰ τεμένη τῶν θεῶν γινόμενον· ἐν γὰρ τοῖς ἱεροῖς καὶ τεμένεσιν ἐπὶ τῆς χώρας ἀνειμένοις ἔρριπται πολὺς χρυσὸς ἀνατεθειμένος τοῖς θεοῖς, καὶ τῶν ἐγχωρίων οὐδεὶς ἅπτεται τούτου διὰ τὴν δεισιδαιμονίαν, καίπερ ὄντων τῶν Κελτῶν φιλαργύρων καθ᾽ὑπερβολήν.

27. [1] In Galatia manca totalmente l’argento, ma c’è molto oro che la natura fornisce agli abitanti senza bisogno di miniere e patimenti. Infatti, la corrente dei fiumi, che attraversa anse tortuose e, urtando con violenza contro i fianchi dei monti adiacenti e strappando grossi massi, si riempie d’oro. [2] Gli addetti a tale attività lo raccolgono, frantumano le zolle che lo contengono, eliminano la terra con la forza dell’acqua e consegnano l’oro perché sia fuso nelle fornaci. [3] In questo modo accumulano una grande quantità d’oro e se ne servono come ornamento non solo le donne, ma anche gli uomini. Portano, infatti, intorno al collo, anelli di grande valore e persino corazze d’oro. [4] Presso i Celti del Nord accade un fenomeno particolare e strano riguardo ai recinti dedicati agli dèi: nei templi e nei santuari che si trovano sul territorio, giace abbandonato molto oro che è stato offerto agli dèi; nessuno degli abitanti lo tocca, impediti da timore religioso, per quanto i Celti siano persino troppo avidi di ricchezza.

Torque gallico. Bronzo e oro, 480 a.C. ca. da Vix (Francia). Historisches Museum Bern.

28. [1] Oἱ δὲ Γαλάται τοῖς μὲν σώμασίν εἰσιν εὐμήκεις, ταῖς δὲ σαρξὶ κάθυγροι καὶ λευκοί, ταῖς δὲ κόμαις οὐ μόνον ἐκ φύσεως ξανθοί, ἀλλὰ καὶ διὰ τῆς κατασκευῆςἐπιτηδεύουσιν αὔξειν τὴν φυσικὴν τῆς χρόας ἰδιότητα. [2] Τιτάνου γὰρ ἀποπλύματι σμῶντες τὰςτρίχας συνεχῶς καὶ ἀπὸ τῶν μετώπων ἐπὶ τὴν κορυφὴν καὶ τοὺς τένοντας ἀνασπῶσιν, ὥστε τὴν πρόσοψιν αὐτῶν φαίνεσθαι Σατύροις καὶ Πᾶσιν ἐοικυῖαν· παχύνονται γὰρ αἱ τρίχες ἀπὸ τῆς κατεργασίας, ὥστε μηδὲν τῆς τῶν ἵππων χαίτης διαφέρειν. [3] Τὰ δὲ γένεια τινὲς μὲν ξυρῶνται, τινὲς δὲ μετρίως ὑποτρέφουσιν· οἱ δ᾽εὐγενεῖς τὰς μὲν παρειὰς ἀπολειαίνουσι, τὰς δ᾽ὑπήνας ἀνειμένας ἐῶσιν, ὥστε τὰ στόματα αὐτῶν ἐπικαλύπτεσθαι. Διόπερ ἐσθιόντων μὲν αὐτῶν ἐμπλέκονται ταῖς τροφαῖς, πινόντων δὲ καθαπερεὶ διά τινος ἡθμοῦ φέρεται τὸ πόμα. [4] Δειπνοῦσι δὲ καθήμενοι πάντες οὐκ ἐπὶ θρόνων, ἀλλ᾽ἐπὶ τῆς γῆς, ὑποστρώμασι χρώμενοι λύκων ἢ κυνῶν δέρμασι. Διακονοῦνται δ᾽ὑπὸ τῶν νεωτάτων παίδων ἐχόντων ἡλικίαν, ἀρρένων τε καὶ θηλειῶν. Πλησίον δ᾽αὐτῶν ἐσχάραι κεῖνται γέμουσαι πυρὸς καὶ λέβητας ἔχουσαι καὶ ὀβελοὺς πλήρεις κρεῶν ὁλομερῶν. Τοὺς δ᾽ἀγαθοὺς ἄνδρας ταῖς καλλίσταις τῶν κρεῶν μοίραις γεραίρουσι, καθάπερ καὶ ὁ ποιητὴς τὸν Αἴαντα παρεισάγει τιμώμενον ὑπὸ τῶν ἀριστέων, ὅτε πρὸς Ἕκτορα μονομαχήσας ἐνίκησε, «Νώτοισιν δ᾽Αἴαντα διηνεκέεσσι γέραιρε». [5] Καλοῦσι δὲ καὶ τοὺς ξένους ἐπὶ τὰς εὐωχίας, καὶ μετὰ τὸ δεῖπνον ἐπερωτῶσι, τίνες εἰσὶ καὶ τίνων χρείαν ἔχουσιν. Εἰώθασι δὲ καὶ παρὰ τὸ δεῖπνον ἐκ τῶν τυχόντων πρὸς τὴν διὰ τῶν λόγων ἅμιλλαν καταστάντες, ἐκ προκλήσεως μονομαχεῖν πρὸς ἀλλήλους, παρ᾽οὐδὲν τιθέμενοι τὴν τοῦ βίου τελευτήν· ἐνισχύει γὰρ παρ᾽ αὐτοῖς ὁ Πυθαγόρου λόγος, [6] ὅτιτὰς ψυχὰς τῶν ἀνθρώπων ἀθανάτους εἶναι συμβέβηκε καὶ δι᾽ἐτῶν ὡρισμένων πάλιν βιοῦν, εἰς ἕτερον σῶμα τῆς ψυχῆς εἰσδυομένης. Διὸ καὶ κατὰ τὰς ταφὰς τῶν τετελευτηκότων ἐνίους ἐπιστολὰς γεγραμμένας τοῖς οἰκείοις τετελευτηκόσιν ἐμβάλλειν εἰς τὴν πυράν, ὡς τῶν τετελευτηκότων ἀναγνωσομένων ταύτας.

28. [1] I Galati sono alti di statura, muscoli flaccidi, pelle bianca, capelli naturalmente biondi ed essi, anche con artifici, sogliono accentuare la particolarità naturale del colore. [2] Lavano, infatti, frequentemente le chiome con acqua di calce e li tirano indietro dalla fronte alla sommità della testa e già fino alla nuca, così da sembrare simili nell’aspetto ai Satiri o a Pan: a seguito di questo trattamento, i capelli diventano tanto pesanti da non differire in nulla dalla criniera dei cavalli. [3] Alcuni radono la barba, altri la fanno un po’ crescere; i nobili radono le guance, lasciando crescere i baffi in modo tale da nascondere la bocca. Perciò quando mangiano, i baffi si riempiono di cibo, quando bevono, la bevanda passa come attraverso un filtro. [4] Tutti mangiano seduti non su sedili, ma per terra, adoperando come tappeti pelli di lupo o di cane. Sono serviti dai più giovani, maschi e femmine, che abbiano l’età adatta. Vicino a loro vi sono camini traboccanti di fuoco, con calderoni e spiedi pieni di pezzi di carne. Ricompensano gli uomini valorosi, donando loro i pezzi di carne migliori: e così il Poeta presenta Aiace, onorato dai capi quando riuscì vincitore nel duello con Ettore: «il filetto allungato lo donò in premio ad Aiace»[2]. [5] Invitano anche gli stranieri ai banchetti e dopo il pranzo chiedono loro chi siano e di che cosa abbiano bisogno. Anche durante il convito, venuti a diverbio per motivi occasionali, sono soliti sfidarsi e affrontarsi in duello, senza dare alcuna importanza alla morte. Presso di loro, infatti, si è imposta la dottrina pitagorica, [6] secondo la quale, le anime degli uomini sono immortali e, dopo un certo numero di anni, l’anima penetra in un altro corpo e torna a vivere. Perciò alcuni, in occasione di esequie funebri, gettano sul rogo le lettere che hanno scritto ai loro parenti morti, convinti che i defunti un giorno potranno leggerle.

Gaesate gallico. Illustrazione di Miłek Jakubiec.

 

29. [1] Ἐν δὲ ταῖς ὁδοιπορίαις καὶ ταῖς μάχαις χρῶνται συνωρίσιν, ἔχοντος τοῦ ἅρματος ἡνίοχον καὶ παραβάτην. Ἀπαντῶντες δὲ τοῖς ἐφιππεύουσιν ἐν τοῖς πολέμοις σαυνιάζουσι τοὺς ἐναντίους, καὶ καταβάντες τὴν ἀπὸ τοῦ ξίφους συνίστανται μάχην. [2] Ἔνιοι δ᾽αὐτῶν ἐπὶ τοσοῦτο τοῦ θανάτου καταφρονοῦσιν, ὥστε γυμνοὺς καὶ περιεζωσμένους καταβαίνειν εἰς τὸν κίνδυνον. Ἐπάγονται δὲ καὶ θεράποντας ἐλευθέρους ἐκ τῶν πενήτων καταλέγοντες, οἷς ἡνιόχοις καὶ παρασπισταῖς χρῶνται κατὰ τὰς μάχας. Κατὰ δὲ τὰς παρατάξεις εἰώθασι προάγειν τῆς παρατάξεως καὶ προκαλεῖσθαι τῶν ἀντιτεταγμένων τοὺς ἀρίστους εἰς μονομαχίαν, προανασείοντες τὰ ὅπλα καὶ καταπληττόμενοι τοὺς ἐναντίους. [3] Ὅταν δέ τις ὑπακούσῃ πρὸςτὴν μάχην, τάς τε τῶν προγόνων ἀνδραγαθίας ἐξυμνοῦσι καὶ τὰς ἑαυτῶν ἀρετὰς προφέρονται, καὶτὸν ἀντιταττόμενον ἐξονειδίζουσι καὶ ταπεινοῦσι καὶ τὸ σύνολον τὸ θάρσος τῆς ψυχῆς τοῖς λόγοις προαφαιροῦνται. [4] Τῶν δὲ πεσόντων πολεμίων τὰς κεφαλὰς ἀφαιροῦντες περιάπτουσι τοῖς αὐχέσι τῶν ἵππων· τὰ δὲ σκῦλα τοῖς θεράπουσι παραδόντες ᾑ μαγμένα λαφυραγωγοῦσιν, ἐπιπαιανίζοντες καὶ ᾄδοντες ὕμνον ἐπινίκιον, καὶ τὰ ἀκροθίνια ταῦτα ταῖς οἰκίαις προσηλοῦσιν ὥσπερ οἱ ἐν κυνηγίοις τισὶ κεχειρωμένοι τὰ θηρία. [5] Τῶν δ᾽ἐπιφανεστάτων πολεμίων κεδρώσαντες τὰς κεφαλὰς ἐπιμελῶς τηροῦσιν ἐν λάρνακι, καὶ τοῖς ξένοις ἐπιδεικνύουσι σεμνυνόμενοι διότι τῆσδε τῆς κεφαλῆς τῶν προγόνων τις ἢ πατὴρ ἢ καὶ αὐτὸς πολλὰ χρήματα διδόμενα οὐκ ἔλαβε. Φασὶ δέ τινας αὐτῶν καυχᾶσθαι διότι χρυσὸν ἀντίσταθμον τῆς κεφαλῆς οὐκ ἐδέξαντο, βάρβαρόν τινα μεγαλοψυχίαν ἐπιδεικνύμενοι· οὐ γὰρ τὸ μὴ πωλεῖν τὰ σύσσημα τῆς ἀρετῆς εὐγενές, ἀλλὰ τὸ πολεμεῖν τὸ ὁμόφυλον τετελευτηκὸς θηριῶδες.

29. [1] Nei viaggi e in battaglia essi si servono di cocchi a due cavalli, sui quali viaggiano un auriga e un guerriero. Quando in guerra s’imbattono in cavalieri nemici, lanciano contro di loro il giavellotto e, poi, scesi dal carro, li affrontano con la spada. [2] Alcuni di loro disprezzano a tal punto la morte da farsi incontro al pericolo nudi con addosso soltanto una fascia. Si fanno accompagnare anche da assistenti di nascita libera, scelti fra i poveri, dei quali si servono in combattimento come aurighi e scudieri. In occasione delle battaglie campali, sono soliti spingersi oltre la prima linea dello schieramento e sfidare a duello i più valorosi fra i nemici, scuotendo le armi per spaventare gli avversari. [3] Quando qualcuno accetta di combattere, celebrano con canti il coraggio degli avi e vantano il proprio valore; ingiuriano e umiliano l’avversario e, in generale, cercano di fargli perdere le staffe con insulti prima del combattimento. [4] Tagliano le teste dei nemici caduti in battaglia e le appendono ai finimenti del cavallo; consegnano ai servi le armi insanguinate e le portano via come bottino, innalzando un peana e un canto di vittoria; appendono con chiodi in casa queste prede di guerra, come quelli che hanno ucciso delle belve feroci a caccia. [5] Imbalsamano con olio di cedro le teste dei nemici più illustri e le custodiscono con cura in casse, mostrandole agli ospiti e vantandosi se qualcuno degli avi o i padri o loro stessi non vollero accettare il lauto riscatto offerto per la testa: dicono che alcuni di loro vadano orgogliosi per non aver accettato una quantità d’oro pari al peso della testa, mostrando così una certa barbarica magnitudo animi. Eppure, se è atto nobile non vendere la prova tangibile del proprio valore guerriero, è parimenti da belve continuare a far guerra a un morto che appartenga alla propria stirpe.

Illustrazione ricostruttiva di un tipico carro da guerra celta. A. McBride.

30. [1] Ἐσθῆσι δὲ χρῶνται καταπληκτικαῖς, χιτῶσι μὲν βαπτοῖς χρώμασι παντοδαποῖς διηνθισμένοις καὶ ἀναξυρίσιν, ἃς ἐκεῖνοι βράκας προσαγορεύουσιν· ἐπιπορποῦνται δὲ σάγους ῥαβδωτοὺς ἐν μὲν τοῖς χειμῶσι δασεῖς, κατὰ δὲ τὸ θέρος ψιλούς, πλινθίοις πυκνοῖς καὶ πολυανθέσι διειλημμένους. [2] Ὅπλοις δὲ χρῶνται θυρεοῖς μὲν ἀνδρομήκεσι, πεποικιλμένοις ἰδιοτρόπως· τινὲς δὲ καὶ ζῴων χαλκῶν ἐξοχὰς ἔχουσιν, οὐ μόνον πρὸς κόσμον, ἀλλὰ καὶ πρὸς ἀσφάλειαν εὖ δεδημιουργημένας. Κράνη δὲ χαλκᾶ περιτίθενται μεγάλας ἐξοχὰς ἐξ ἑαυτῶν ἔχοντα καὶ παμμεγέθη φαντασίαν ἐπιφέροντα τοῖς χρωμένοις, ὧν τοῖς μὲν πρόσκειται συμφυῆ κέρατα, τοῖς δὲ ὀρνέων ἢ τετραπόδων ζῴων ἐκτετυπωμέναι προτομαί. [3] Σάλπιγγας δ᾽ἔχουσιν ἰδιοφυεῖς καὶ βαρβαρικάς· ἐμφυσῶσι γὰρ ταύταις καὶ προβάλλουσιν ἦχον τραχὺν καὶ πολεμικῆς ταραχῆς οἰκεῖον. Θώρακας δ᾽ἔχουσιν οἱ μὲν σιδηροῦς ἁλυσιδωτούς, οἱ δὲ τοῖς ὑπὸ τῆς φύσεως δεδομένοις ἀρκοῦνται, γυμνοὶ μαχόμενοι. Ἀντὶ δὲ τοῦ ξίφους σπάθας ἔχουσι μακρὰς σιδηραῖς ἢ χαλκαῖς ἁλύσεσιν ἐξηρτημένας, παρὰ τὴνδεξιὰν λαγόνα παρατεταμένας. Τινὲς δὲ τοὺς χιτῶνας ἐπιχρύσοις ἢ καταργύροις ζωστῆρσι συνέζωνται. [4] Προβάλλονται δὲ λόγχας, ἃς ἐκεῖνοι λαγκίας καλοῦσι, πηχυαῖα τῷ μήκει τοῦ σιδήρου καὶ ἔτι μείζω τὰ ἐπιθήματα ἐχούσας, πλάτει δὲ βραχὺ λείποντα διπαλαίστων· τὰ μὲν γὰρ ξίφη τῶν παρ᾽ἑτέροις σαυνίων εἰσὶν οὐκ ἐλάττω, τὰ δὲ σαυνία τὰς ἀκμὰς ἔχει τῶν ξιφῶν μείζους. Τούτων δὲ τὰ μὲν ἐπ᾽εὐθείας κεχάλκευται, τὰ δ᾽ἑλικοειδῆ δι᾽ὅλων ἀνάκλασιν ἔχει πρὸς τὸ καὶ κατὰ τὴν πληγὴν μὴ μόνον τέμνειν, ἀλλὰ καὶ θραύειν τὰς σάρκας καὶ κατὰ τὴν ἀνακομιδὴν τοῦ δόρατος σπαράττειν τὸ τραῦμα.

30. [1] Fanno uso di vestiti terrificanti: tuniche tinte e ricamate con vari colori, pantaloni che essi chiamano brachæ; sulle spalle assicurano con fibbie dei mantelli a righe, pesanti d’inverno e leggeri d’estate, sui quali alternano fittamente quadrati di diversi colori. [2] Usano come armi scudi alti quanto un uomo, ornati in modo vario e particolare; alcuni di essi presentano figure bronzee di animali ben lavorate a sbalzo, non a scopo ornamentale, ma al fine di proteggere. Indossano sul capo elmi di bronzo, ornati con grandi figure a sbalzo, che danno un aspetto di grande imponenza a chi li usi: ad alcuni elmi sono applicate, in modo da formare un tutt’uno, delle corna, mentre su altri sono rappresentate teste d’uccello o di quadrupede. [3] Hanno trombe di tipo particolare e barbarico: soffiandovi dentro, emettono un suono aspro, adatto alla mischia di guerra. Gli uni portano corazze lavorate a maglia di ferro, altri ritengono sufficiente quanto hanno ricevuto dalla natura e vanno nudi in battaglia. Hanno spade non corte, ma lunghe, legate con catene di ferro o di bronzo e portate a destra. Alcuni hanno sulle tuniche cinture dorate o argentate. [4] Impugnano delle aste (loro le chiamano lanciæ), che hanno punte di ferro lunghe anche più di un cubito e larghe poco meno di due palmi. Le loro spade non sono più piccole dei giavellotti usati da altri popoli, i loro hanno la punta più larga di quella delle spade; alcuni giavellotti sono stati fabbricati con la punta dritta, altri presentano una ripiegatura tortuosa su tutta la punta, affinché non solo taglino per effetto del colpo, ma persino lacerino le carni e, tirando indietro l’asta, squarcino la ferita.

Spade hallstattiane. Disegno ricostruttivo di J.G. Ramsauer.

 

31. [1] Aὐτοὶ δ᾽εἰσὶ τὴν πρόσοψιν καταπληκτικοὶ καὶ ταῖς φωναῖς βαρυηχεῖς καὶ παντελῶς τραχύφωνοι, κατὰ δὲ τὰς ὁμιλίας βραχυλόγοι καὶ αἰνιγματίαικαὶ τὰ πολλὰ αἰνιττόμενοι συνεκδοχικῶς· πολλὰ δὲ λέγοντες ἐν ὑπερβολαῖς ἐπ᾽αὐξήσει μὲν ἑαυτῶν, μειώσει δὲ τῶν ἄλλων, ἀπειληταί τε καὶ ἀνατατικοὶ καὶ τετραγῳδημένοι ὑπάρχουσι, ταῖς δὲ διανοίαις ὀξεῖς καὶ πρὸς μάθησιν οὐκ ἀφυεῖς. [2] Εἰσὶ δὲ παρ᾽αὐτοῖς καὶ ποιηταὶ μελῶν, οὓς βάρδους ὀνομάζουσιν. Οὗτοι δὲ μετ᾽ὀργάνων ταῖς λύραις ὁμοίων ᾄδοντες οὓς μὲν ὑμνοῦσιν, οὓς δὲ βλασφημοῦσι. Φιλόσοφοί τέ τινές εἰσι καὶ θεολόγοι περιττῶς τιμώμενοι, οὓς δρουίδας ὀνομάζουσι. [3] Χρῶνται δὲ καὶ μάντεσιν, ἀποδοχῆς μεγάλης ἀξιοῦντες αὐτούς· οὗτοι δὲ διά τε τῆς οἰωνοσκοπίας καὶ διὰ τῆς τῶν ἱερείων θυσίας τὰ μέλλοντα προλέγουσι, καὶ πᾶν τὸ πλῆθος ἔχουσιν ὑπήκοον. Μάλιστα δ᾽ὅταν περί τινων μεγάλων ἐπισκέπτωνται, παράδοξον καὶ ἄπιστον ἔχουσι νόμιμον· ἄνθρωπον γὰρ κατασπείσαντες τύπτουσι μαχαίρᾳ κατὰ τὸν ὑπὲρ τὸ διάφραγμα τόπον, καὶ πεσόντος τοῦ πληγέντος ἐκ τῆς πτώσεως καὶ τοῦ σπαραγμοῦ τῶν μελῶν, ἔτι δὲ τῆς τοῦ αἵματος ῥύσεως τὸ μέλλον νοοῦσι, παλαιᾷ τινι καὶ πολυχρονίῳ παρατηρήσει περὶ τούτων πεπιστευκότες. [4] Ἔθος δ᾽αὐτοῖς ἐστι μηδένα θυσίαν ποιεῖν ἄνευ φιλοσόφου· διὰ γὰρ τῶν ἐμπείρων τῆς θείας φύσεως ὡσπερεί τινων ὁμοφώνων τὰ χαριστήρια τοῖς θεοῖς φασι δεῖν προσφέρειν, καὶ διὰ τούτων οἴονται δεῖν τἀγαθὰ αἰτεῖσθαι. [5] Οὐ μόνον δ᾽ἐν ταῖς εἰρηνικαῖς χρείαις, ἀλλὰ καὶ κατὰ τοὺς πολέμους τούτοις μάλιστα πείθονται καὶ τοῖς μελῳδοῦσι ποιηταῖς, οὐ μόνον οἱ φίλοι, ἀλλὰ καὶ οἱ πολέμιοι· πολλάκις δ᾽ἐν ταῖς παρατάξεσι πλησιαζόντων ἀλλήλοις τῶν στρατοπέδων καὶ τοῖς ξίφεσιν ἀνατεταμένοις καὶ ταῖς λόγχαις προβεβλημέναις, εἰς τὸ μέσον οὗτοι προελθόντες παύουσιν αὐτούς, ὥσπερ τινὰ θηρία κατεπᾴσαντες. Οὕτω καὶπαρὰ τοῖς ἀγριωτάτοις βαρβάροις ὁ θυμὸς εἴκει τῇσοφίᾳ καὶ ὁ Ἄρης αἰδεῖται τὰς Μούσας.

31. [1] Essi sono terrificanti nell’aspetto e hanno una voce sorda e molto aspra; sono di poche parole e oscuri nelle conversazioni [e alludono prevalentemente per sineddoche], chiacchieroni ed esagerati quando si tratti di aumentare i propri meriti e di sminuire quelli degli altri; sono spavaldi, minacciosi e teatrali, acuti nel pensare, disposti naturalmente ad apprendere. [2] Presso di loro vi sono anche poeti lirici, che chiamano “bardi”. Costoro, cantando con strumenti simili alle lire, celebrano alcuni personaggi e vituperano altri. Vi sono poi filosofi e teologi che godono di straordinario onore e si chiamano “druidi”. [3] Si servono anche d’indovini che ritengono degni di grande rispetto: questi predicono il futuro osservando il volo degli uccelli e sacrificando vittime; tutto il popolo è loro soggetto. Osservano un’usanza strana e terrificante, soprattutto quando devono indagare su qualche importante decisione: offrono in sacrificio un uomo e lo colpiscono con un coltello poco sopra il diaframma; l’uomo, colpito, cade a terra: osservando come cade, come le membra si contraggono, come scorra il sangue, gli indovini comprendono il futuro, mantenendosi fedeli in ciò a un modo di indagare antico e da molto tempo praticato. [4] È invalso l’uso presso di loro di non offrire sacrifici in assenza di un filosofo: a loro avviso, infatti, bisogna offrire primizie in ringraziamento agli dèi per mezzo di persone esperte della natura divina e che parlano – per così dire – la stessa lingua degli dèi; ritengono pure che occorra chiedere i favori con l’aiuto di tali esperti. [5] Non solo in pace, ma anche in tempo di guerra obbediscono ciecamente ai filosofi e ai poeti lirici, e obbediscono non solo agli amici ma anche ai nemici. Spesso, in occasione di battaglie campali, quando le armate si stanno avvicinando con le spade sguainate e le lance protese, essi avanzano nel mezzo e li fermano, come se stessero incantando delle belve. Così, anche fra i barbari più selvaggi, il furore cede alla sapienza e Ares ha rispetto delle Muse.

Carnyx. Bronzo, II-I sec. a.C. dal santuario di Tintignac (Francia).

32. [1] Χρήσιμον δ᾽ἐστὶ διορίσαι τὸ παρὰ πολλοῖς ἀγνοούμενον. Τοὺς γὰρ ὑπὲρ Μασσαλίας κατοικοῦντας ἐν τῷ μεσογείῳ καὶ τοὺς παρὰ τὰς Ἄλπεις, ἔτι δὲ τοὺς ἐπὶ τάδε τῶν Πυρηναίων ὀρῶν Κελτοὺς ὀνομάζουσι, τοὺς δ᾽ὑπὲρ ταύτης τῆς Κελτικῆς εἰς τὰ πρὸς ἄρκτον νεύοντα μέρη παρά τε τὸν ὠκεανὸν καὶ τὸ Ἑρκύνιον ὄρος καθιδρυμένους καὶ πάντας τοὺς ἑξῆς μέχρι τῆς Σκυθίας Γαλάτας προσαγορεύουσιν· οἱ δὲ Ῥωμαῖοι πάλιν πάντα ταῦτα τὰἔθνη συλλήβδην μιᾷ προσηγορίᾳ περιλαμβάνουσιν, ὀνομάζοντες Γαλάτας ἅπαντας. [2] Αἱ δὲ γυναῖκες τῶνΓαλατῶν οὐ μόνον τοῖς μεγέθεσι παραπλήσιοι τοῖς ἀνδράσιν εἰσίν, ἀλλὰ καὶ ταῖς ἀλκαῖς ἐνάμιλλοι. Τὰ δὲ παιδία παρ᾽αὐτοῖς ἐκ γενετῆς ὑπάρχει πολιὰκατὰ τὸ πλεῖστον· προβαίνοντα δὲ ταῖς ἡλικίαις εἰς τὸ τῶν πατέρων χρῶμα ταῖς χρόαις μετασχηματίζεται. [3] Ἀγριωτάτων δ᾽ὄντων τῶν ὑπὸ τὰς ἄρκτους κατοικούντων καὶ τῶν τῇ Σκυθίᾳ πλησιοχώρων, φασί τινας ἀνθρώπους ἐσθίειν, ὥσπερ καὶ τῶν Πρεττανῶν τοὺς κατοικοῦντας τὴν ὀνομαζομένην Ἴριν. [4] Διαβεβοημένης δὲ τῆς τούτων ἀλκῆς καὶ ἀγριότητος, φασί τινες ἐν τοῖς παλαιοῖς χρόνοις τοὺς τὴν Ἀσίαν ἅπασαν καταδραμόντας, ὀνομαζομένους δὲ Κιμμερίους, τούτους εἶναι, βραχὺ τοῦ χρόνου τὴν λέξιν φθείραντος ἐν τῇ τῶν καλουμένων Κίμβρων προσηγορίᾳ. Ζηλοῦσι γὰρ ἐκ παλαιοῦ λῃστεύειν ἐπὶ τὰς ἀλλοτρίας χώρας ἐπερχόμενοι καὶ καταφρονεῖν ἁπάντων. [5] Οὗτοι γάρ εἰσιν οἱ τὴν μὲν Ῥώμην ἑλόντες, τὸ δὲ ἱερὸν τὸ ἐν Δελφοῖς συλήσαντες, καὶ πολλὴν μὲν τῆς Εὐρώπης, οὐκ ὀλίγην δὲ καὶ τῆς Ἀσίας φορολογήσαντες, καὶ τῶν καταπολεμηθέντων τὴν χώραν κατοικήσαντες, οἱ διὰ τὴν πρὸς τοὺς Ἕλληνας ἐπιπλοκὴν Ἑλληνογαλάται κληθέντες, τὸ δὲ τελευταῖον πολλὰ καὶ μεγάλα στρατόπεδα Ῥωμαίων συντρίψαντες. [6] Ἀκολούθως δὲ τῇ κατ᾽αὐτοὺς ἀγριότητι καὶ περὶ τὰς θυσίας ἐκτόπως ἀσεβοῦσι· τοὺς γὰρ κακούργους κατὰ πενταετηρίδα φυλάξαντες ἀνασκολοπίζουσι τοῖς θεοῖς καὶ μετ᾽ἄλλων πολλῶν ἀπαρχῶν καθαγίζουσι, πυρὰς παμμεγέθεις κατασκευάζοντες. Χρῶνται δὲ καὶ τοῖς αἰχμαλώτοις ὡς ἱερείοις πρὸς τὰς τῶν θεῶν τιμάς. Τινὲς δ᾽αὐτῶν καὶ τὰ κατὰ πόλεμον ληφθέντα ζῷα μετὰ τῶν ἀνθρώπων ἀποκτείνουσιν ἢ κατακάουσιν ἤ τισιν ἄλλαις τιμωρίαις ἀφανίζουσι. [7] Γυναῖκας δ᾽ἔχοντες εὐειδεῖς ἥκιστα ταύταις προσέχουσιν, ἀλλὰ πρὸς τὰς τῶν ἀρρένων ἐπιπλοκὰς ἐκτόπως λυττῶσιν. Εἰώθασι δ᾽ἐπὶ δοραῖς θηρίων χαμαὶ καθεύδοντες ἐξ ἀμφοτέρων τῶν μερῶν παρακοίτοις συγκυλίεσθαι. Τὸ δὲ πάντων παραδοξότατον, τῆς ἰδίας εὐσχημοσύνης ἀφροντιστοῦντες τὴν τοῦ σώματος ὥραν ἑτέροις εὐκόλως προΐενται, καὶ τοῦτο αἰσχρὸν οὐχ ἡγοῦνται, ἀλλὰ μᾶλλον ὅταν τις αὐτῶν χαριζομένων μὴ προσδέξηται τὴν διδομένην χάριν, ἄτιμον ἡγοῦνται.

32. [1] È utile fare una distinzione ignorata da molti. Si chiamano Celti quelli che abitano nella regione interna a nord di Marsiglia, lungo le Alpi e sopra i Pirenei; si chiamano invece Galatai, quelli che sono stanziati al di sopra della «zona celtica», verso le terre settentrionali, sia lungo l’Oceano, sia lungo il monte Ercinio, e tutti gli altri di seguito fino alla Scizia. I Romani, invece, comprendono insieme sotto un’unica denominazione tutti questi gruppi etnici e li chiamano complessivamente Galli. [2] Le donne dei Galati non solo sono simili agli uomini nell’imponenza fisica ma possono competere con loro anche in coraggio. I loro bambini, quando nascono, sono per lo più di carnagione chiara; con il passare degli anni mutano colore fino ad assumere quello dei padri. [3] Essendo particolarmente selvaggi quelli di loro che abitano nel Nord e quelli che confinano con la Scizia, che alcuni di loro – si dice – mangino uomini, come i Britanni che popolano l’isola chiamata Iris[3]. [4] Ovunque sono rinomati il loro coraggio e la loro ferocia e, infatti, secondo alcuni, i popoli chiamati «Cimmeri», che in tempi antichi scorrazzarono per l’Asia intera, erano proprio i Galati, poiché la denominazione «Cimmeri» si corruppe presto in quella di «Cimbri», nome con il quale sono chiamati ancor oggi. Fin da tempi remoti essi amano assalire, depredare i territori altrui e disprezzare tutti. [5] Sono proprio loro, infatti, che presero Roma, saccheggiarono il santuario di Delfi, imposero tributi a gran parte dell’Europa e, persino, a non piccola parte dell’Asia, che si stanziarono sul territorio degli sconfitti e furono chiamati «Ellenogalli», per i loro stretti rapporti con i Greci, che infine distrussero molti e grandi eserciti dei Romani. [6] Proprio perché così selvaggi, essi si macchiano di rara empietà anche quando compiono sacrifici: dopo aver tenuto in prigionia i delinquenti per cinque anni, infatti, li impalano in onore degli dèi; alcuni di costoro vengono uccisi insieme con gli animali catturati in guerra, oppure li bruciano, o li sopprimono con qualche altro supplizio. [7] Pur avendo donne di gradevole aspetto, non se ne curano per niente ma vanno pazzi – oltre ogni dire – per le relazioni omosessuali. Hanno l’abitudine di dormire per terra o su pelli di animali e di voltolarsi con due compagni, uno per parte. La cosa più strana di tutte è la seguente: incuranti del decoro, concedono facilmente ad altri il proprio corpo nel fiore dell’età né ritengono turpe un simile atto, considerando piuttosto disonorevole che qualcuno non accetti il favore concesso quando essi siano disposti a compiacerlo.

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Note:

[1] Κελτική sta per Γαλατία; con questo termine l’autore si riferisce alla regione chiamata Gallia dai Romani. I Γαλάται sono dunque i Galli.

[2] (Il., VII 321).

[3] Ἶρις, cioè l’Irlanda (lat. Hibernia).

Brixia. Storia della città romana

di A. VALVO, Santa Giulia, Museo della città. L’età romana. La città – le iscrizioni, Milano 1998, pp. 11-14.

 

Tito Livio menziona Brescia e Verona come i principali insediamenti della popolazione dei Cenomàni, di origine celtica; Plinio il Vecchio aggiunge alle prime due anche Cremona; per il geografo Tolomeo il dominio dei Cenomàni si estendeva fino a Bergamo, Mantova e Trento. Il nome di Brescia (lat. Brixia) deriva da *brig-(e)s-ia (dalla radice, probabilmente ligure, bric-, «montagna tagliata a picco»). Altri nomi di centri della Gallia Cisalpina hanno la stessa etimologia: ad esempio, Brixellum (Brescello). Brescia è nota alle fonti letterarie, a partire dal I secolo a.C., come caput Cenomanorum («capitale dei Cenomàni»), sorta nelle vicinanze del fiume Mella; per Catullo essa è la «città madre» di Verona. È molto probabile che l’insediamento cenomàno fosse situato in posizione elevata (sul colle Cidneo) ma non si può escludere che si estendesse anche nel piano, come lasciano immaginare materiali di scavo di età preromana rinvenuti nell’area del foro, allora forse adibita a mercato. Prima che i Bresciani ricevessero, nell’89 a.C., il diritto latino e lo statuto di colonia, venendo così assimilati alle popolazioni latine e instaurando rapporti privilegiati con Roma (come si dirà più avanti), la storia di Brescia coincide sostanzialmente con la storia dei Cenomàni. Successivamente, la rapida e intensa romanizzazione della Cisalpina favorì la completa integrazione delle popolazioni di origine celtica e dei tanti immigrati di origine romana e italica che si erano insediati sul territorio padano. L’appartenenza originaria alla stirpe celtica rimase ancora evidente nell’onomastica degli indigeni e nei culti religiosi, sebbene le divinità celtiche subissero anch’esse un processo di romanizzazione attraverso l’attribuzione di caratteristiche proprie di divinità romane (la cosiddetta interpretatio romana).

Vittoria Alata. Statua, bronzo, I sec. d.C. da un’intercapedine del Capitolium. Brescia, Museo di S. Giulia.

 

I primi rapporti fra Romani e Cenomàni.

Lo storico Polibio racconta che nel 225 a.C. Veneti e Cenomàni accolsero di buon grado l’alleanza che veniva offerta loro dai Romani, prossimi a impegnarsi nella guerra contro le popolazioni galliche dell’Italia settentrionale. Questa alleanza, conclusa da parte romana per motivi strategici e dai Cenomàni nella speranza di estendere il loro dominio fino all’Adda a danno degli Insubri, stanziati più a occidente, costituisce il più antico rapporto di collaborazione fra Celti e Romani di cui si abbia notizia sicura. La successiva vittoria romana consentì ai Cenomàni di conseguire i vantaggi sperati: l’ampliamento del loro territorio e l’accrescimento del loro prestigio presso le popolazioni della Cisalpina e delle valli alpine. Per consolidare la conquista territoriale nel territorio gallico i Romani dedussero, nel 218 a.C., le colonie di Piacenza e di Cremona, una al di qua l’altra al di là del Po, entrambe di diritto latino (i coloni che ne facevano parte assumevano tutti lo status giuridico dei Latini). Questa decisione di stanziare dei coloni – sostanzialmente dei soldati, secondo la concezione che avevano i Romani di colonia – provocò reazioni negative presso le popolazioni della Cisalpina e anche presso i Cenomàni, nonostante i buoni rapporti che intercorrevano con Roma.

Alimentarono il malcontento delle popolazioni della Cisalpina emissari del cartaginese Annibale, che si preparava a portare la guerra in Italia e che sperava di ottenerne l’appoggio. I Cenomàni inizialmente rimasero fedeli a Roma, poi si staccarono da essa, senza tuttavia ribellarsi apertamente.

Statere cenomane. Ar. 7,40 gr., fine II sec. a.C. Recto: testa laureata maschile voltata a destra.

L’alleanza con Roma.

Fu alla fine della guerra annibalica, nel 201 a.C., che i Cenomàni, unite le loro forze a quelle degli altri popoli della Cisalpina, assalirono Piacenza, che fu conquistata, e Cremona, che invece resistette. Le operazioni militari condotte dai Romani in Cisalpina si conclusero con la vittoria definitiva su Insubri e Cenomàni nel 197. Questa data segna l’inizio di una stretta e leale collaborazione dei Cenomàni (e degli Insubri) con Roma, avviata e facilitata dalle miti condizioni di pace applicate dai vincitori. I Romani, contrariamente al loro costume, lasciavano integro il territorio delle popolazioni vinte, ne rispettavano la costituzione interna di carattere tribale e territoriale, consentivano di avere proprie forze armate e non imponevano alcun tributo. A cambiare in maniera definitiva le prospettive dei rapporti fra Roma e i Cenomàni fu, però, il formale trattato di alleanza (foedus) che i Romani conclusero con loro dopo il 194, facendoli passare allo stato di alleati (socii foederati). Si trattava degli alleati più settentrionali di Roma, ai quali era delegato il compito, assai delicato e strategicamente della massima importanza, di controllare ed eventualmente di affrontare le popolazioni settentrionali, sia quelle delle valli alpine, ancora primitive e dedite alla rapina, sia quelle che avrebbero potuto attraversare i valichi alpini e penetrare in Italia. Stava qui, probabilmente, la ragione di tanta benevolenza romana nei loro confronti.

 

La romanizzazione del territorio e la concessione del diritto latino (89 a.C.).

Ricostruire le vicende storiche dei Galli della Cisalpina (quindi dei Cenomàni e di Brescia, in particolare) è reso molto difficile dal completo silenzio delle fonti, soprattutto letterarie, intorno agli avvenimenti di quasi un secolo: fra il 187 e l’89 a.C. Il processo di romanizzazione, al quale le popolazioni della Cisalpina aderirono senza resistenze, maturò nel corso del II secolo a.C., favorito da scambi commerciali sempre più intensi, resi più facili dalle vie di comunicazione fluviali e lacuali e dalla costruzione di strade che univano Roma al settentrione della penisola (via Aemilia) e il mar Tirreno con l’Adriatico (via Postumia). Lungo queste vie di comunicazione transitavano eserciti in marcia ma anche mercanti di provenienza per lo più romana e italica; la vivacità dell’artigianato locale, la fertilità della terra e la bellezza naturale del territorio attiravano nuove presenze, soprattutto dall’Italia centrale e meridionale, e incoraggiavano l’impiego di capitali in attività agricole e commerciali. In questo modo, non appena si fu consolidata la presenza romana sul territorio, singoli o piccole comunità vi si stabilirono in forma definitiva. Il processo di romanizzazione ricevette ulteriore impulso nell’89 a.C. con la concessione del diritto latino (ius Latii) alle comunità italiche alleate – quindi anche ai Cenomàni – rimaste fedeli a Roma durante la guerra sociale (91-89 a.C.). Il diritto latino avvicinava alla cittadinanza romana e comportava dei vantaggi, consistenti soprattutto in alcuni diritti, come quello di trasferirsi a Roma e di diventarne cittadini col permesso dei censori.

Brixia ricevette anche lo statuto di colonia latina, sebbene non venisse effettuata alcuna deduzione di coloni: si trattava, nella realtà, di una finzione giuridica che conseguiva lo scopo di rendere capillare la romanizzazione del territorio italico. Allo statuto di colonia latina dovette seguire la centuriazione del territorio, cioè la suddivisione in lotti. Essi erano delimitati da linee ortogonali tra loro e seguivano un orientamento predeterminato (aderente all’orografia e all’idrografia del territorio). La suddivisione del terreno che risultava, dal caratteristico aspetto a reticolo, era regolare e veniva registrata in un catasto (forma). La centuriazione comportava opere di bonifica e diboscamento e conferiva al paesaggio un aspetto nuovo e ordinato che, per il territorio degli Insubri e dei Cenomàni (e, in generale, per la Gallia Cisalpina), è sostanzialmente quello attuale (nonostante le profonde alterazioni subite, soprattutto negli ultimi cinquant’anni). Essa portava con sé un incremento della produzione agricola e perciò del benessere economico.

Sul territorio bresciano vennero operate ben tre centuriazioni, in tempi successivi: l’ultima quando Brixia divenne colonia civica Augusta (prima dell’8 a.C.). Risale certamente al tempo dell’acquisizione del diritto latino l’organizzazione del diritto latino l’organizzazione urbana della città secondo un impianto costruttivo tipicamente romano, riconoscibile ancor oggi. Anche il santuario tardorepubblicano, del quale rimangono importanti resti sotto il capitolium di età flavia che domina l’area del foro, risale alla prima metà del I secolo a.C. (ma scavi recentissimi hanno accertato l’esistenza di un precedente edificio santuariale risalente al II secolo a.C.) ed è probabile che al I secolo a.C. risalga anche la prima cinta muraria edificata a difesa della città.

Ricostruzione assiometrica dell’area del foro romano, a Brescia.

 

Dal diritto latino al conseguimento della cittadinanza romana (49 a.C.).

Al tempo della guerra civile tra Mario e Silla (88-82 a.C.) anche alla Gallia Cisalpina non furono risparmiati saccheggi e rovine. Dall’82-81, quando divenne provincia (Gallia Cisalpina), e fino al 42 a.C., quando il governo provinciale venne abolito da Ottaviano ed essa entrò a far parte del territorio italico, la Cisalpina fu governata militarmente da un magistrato romano, con grave limitazione dell’autonomia amministrativa della quale aveva goduto ampiamente fino a quel momento.

Nel 49 a.C., per la lex Roscia, tutti i Traspadani erano diventati cittadini romani. Promotore della concessione della cittadinanza fu Gaio Giulio Cesare. Egli aveva stabilito un rapporto di stretta collaborazione e di piena intesa con le élites della Transpadana, dalle quali aveva ottenuto l’appoggio necessario per continuare con successo la conquista gallica. Il legame con Cesare, nipote di Gaio Mario, e la presenza nella Transpadana di esuli mariani provenienti dall’Italia centrale, soprattutto dall’Etruria, alimentarono i sentimenti filo-cesariani, divenuti filo-ottavianei al tempo della guerra civile seguita all’uccisione di Cesare. È significativo che, ricevuta la cittadinanza, i Bresciani fossero ascritti alla tribus Fabia, a quanto pare la stessa del dittatore. Ai centri urbani della Transpadana, ora abituati da cittadini romani, venne dato lo statuto municipale (i cittadini erano detti municipes, perché si accollavano i munera, cioè i doveri propri dei cittadini). Le comunità locali conservavano la loro autonomia amministrativa ma si assumevano gli oneri dei cittadini romani (tra i quali il servizio legionario). Il governo municipale era tenuto da due quattuorviri iure dicundo (massime autorità locali, con potestà di amministrare la giustizia civile) coadiuvati da due quattuorviri aedilicia potestate (che curavano l’ordine pubblico, il mercato, la condizione delle strade eccetera). Quanto l’Italia settentrionale si fosse ormai integrata culturalmente nell’Italia romana lo testimoniano a sufficienza i personaggi di primo piano, protagonisti della vita letteraria (poesia, storia, biografia, eloquenza, filosofia) del I secolo a.C. provenienti dall’Italia settentrionale: Emilio Macro, Gaio Cassio Parmense, Gaio Cornelio Gallo, Marco Furio Bibaculo, Gaio Elvio Cinna, Publio Quintilio Varo, Gaio Valerio Catullo, Publio Virgilio Marone, Cornelio Nepote, Tito Livio e numerosi altri. Tra il 27 (anno in cui ricevette il titolo di “Augusto”) e l’anno 8 a.C. (termine cronologico fissato in base all’epigrafia) l’imperatore Augusto conferì a Brescia lo statuto ordinario di colonia civica Augusta cioè «colonia di cittadini (romani) fondata da Augusto».

Pietra tombale di Pantagato, servo di C. Terenzio Basso Mefanate Etrusco (Inscr. It. X V 468). Cippo, pietra locale, I sec. d.C. Brescia, Museo di S. Giulia.

 

Brescia, colonia civica Augusta.

Nell’età augustea Brescia colse nuove opportunità di crescita economica e culturale, come è attestato in maniera esauriente dal ricco materiale archeologico ed epigrafico, tra i più vasti ed interessanti dell’Italia settentrionale; quello epigrafico esteso cronologicamente soprattutto tra I e III secolo. Brescia, come si è detto, aveva assunto un importante ruolo strategico sia dal punto di vista economico e commerciale (vie di comunicazione, artigianato ed economia agricola) che politico e militare (avamposto verso le popolazioni e i valichi alpini, amministrazione delle comunità limitrofe e periferiche). La definitiva strutturazione urbana di Brescia risale all’età augustea e sarà ultimata al tempo di Tiberio (14-37 d.C.). Essa, oltre a dare la definitiva impronta di città romana, quale ancor oggi è dato di vedere, fornì alla popolazione bresciana i servizi indispensabili, data l’importanza assunta dalla sua vita associata e il suo sviluppo, organizzandone gli spazi urbani. Testimonianze epigrafiche e archeologiche attestano che il rifornimento idrico necessario era assicurato da un acquedotto che collegava Brescia alla val Trompia; l’acqua rappresentava, naturalmente, la prima esigenza per una città; l’abbondanza di essa consentiva di costruire fontane pubbliche e terme, oltre a garantire una migliore igiene. Forse è da attribuire ad Augusto anche la costruzione della definitiva cinta muraria della colonia, che si sarebbe resa indispensabile per difenderla dalle azioni di brigantaggio e dalle razzie compiute dalle popolazioni delle valli alpine prima di venire sottomesse. Le mura tornarono d’attualità al tempo della successione imperiale dell’anno 69. Plinio il Vecchio attesta esplicitamente l’inserimento di Brixia e del suo territorio (ager Brixianus) nella regio X augustea, allorché Augusto ripartì amministrativamente tutto il territorio dell’Italia in undici regiones.

Ricostruzione della battaglia di Bedriacum (Calvatone), 69 d.C., fra Flaviani e Vitelliani. Illustrazione di S. Ó’Brógáin.

 

Brescia e la società bresciana in età imperiale.

Le lotte sanguinose per la successione imperiale seguite alla morte di Nerone coinvolsero soprattutto la città di Cremona, che «per tre giorni bastò a tutto», racconta Tacito, ma anche Brescia subì di riflesso la sua parte di danni. Dopo la vittoria, Vespasiano incoraggiò la ricostruzione di tutti i centri dell’Italia settentrionale che avevano subito danni e perciò anche Brescia. Le circostanze favorirono una nuova sistemazione urbanistica del foro e degli edifici adiacenti e soprattutto l’edificazione del capitolium, simbolo della grandezza di Roma, dedicato nel 73, sotto il regno di Vespasiano, come ricorda la dedica monumentale, frammentaria. Accanto alle provvidenze imperiali svolse un ruolo importante per la ricostruzione monumentale della città la munificenza dei cittadini bresciani. In età flavia, o poco tempo dopo, ai Camunni venne riconosciuto uno statuto autonomo: essi, infatti, dopo aver costituito la civitas Camunnorum sotto Tiberio ebbero una res publica loro e propri magistrati, e vennero ascritti a una tribù diversa da quella dei Bresciani (la Quirina invece della Fabia).

Fra il II e il V secolo la città e il territorio vennero coinvolti in vicende belliche, ora legate alla successione imperiale ora alle incursioni di popoli barbari: i Marcomanni, ricacciati a fatica da Marco Aurelio e Lucio Vero dopo che ebbero devastato l’Italia settentrionale (166-168); gli Alamanni, sconfitti da Gallieno, Claudio II il Gotico e Aureliano verso la fine del III secolo; gli Unni, che occuparono una dopo l’altra Aquileia, Vicenza, Verona, Brescia, Bergamo, Milano e Pavia, nel 452. Nei primi secoli dell’Impero (I-III) i Bresciani consolidarono il prestigio che si erano costruiti sia in Italia sia all’estero. Le attività commerciali dei suoi cittadini, il formarsi di una nobiltà municipale attiva e competente, la fama di onestà e di probità che circondava i suoi abitanti, come attesta Plinio il Giovane, misero Brescia in particolare evidenza fra le città dell’Impero. Prova di questo è l’ascesa alle più alte cariche dello Stato, attraverso la carriera senatoria, e alle più elevate responsabilità nell’amministrazione dell’impero, attraverso la carriera equestre – soprattutto fra II e III secolo – di esponenti di potenti famiglie bresciane.

L’ampia documentazione epigrafica in nostro possesso ci consente di conoscere la presenza e l’attività dei numerosi collegia attivi a Brixia (sodalizi di spiccato carattere religioso, che offrivano un ambito di amicizia fraterna e provvedevano al funerale degli aderenti). Tra questi, le attestazioni più numerose riguardano il collegium dei fabrii (per lo più tignuarii, cioè «carpentieri»), che provvedevano allo spegnimento degli incendi; compito analogo avevano i dendrophori, il cui carattere religioso (culto di Attis e Cibele) risulta particolarmente accentuato; c’erano poi i centonarii («cenciaioli»), i pharmacopolae publici («farmacisti e speziali»), gli iumentarii («conduttori di bestie da soma»), i praecones («araldi e banditori»). Il culto dell’imperatore era affidato ai seviri Augustales: si trattava, per lo più, di liberti (ex servi) che, disponendo di un discreto patrimonio, si assumevano il compito sentito come il più onorevole. Numerosi anche i culti religiosi praticati nella colonia. Accanto alle divinità tradizionali romane erano venerate divinità di origine celtica già in parte romanizzate, come le Matronae e le Iunones, e altre che conservavano il loro carattere originario, come Bergimus.

Le «Matres de Vertault». Gruppo scultoreo, terracotta, I-II secolo d.C. Vertault, Musée de la civilisation celtique.

 

Gli inizi del Cristianesimo.

L’affermazione del Cristianesimo a Brescia fu sicuramente precoce se la Chiesa era già organizzata tra la fine del II e l’inizio del III secolo, ma il primo vescovo storicamente certo fu Clateo, che risale agli inizi del IV. A quest’epoca risalgono anche le prime testimonianze epigrafiche cristiane della città. La penetrazione del Cristianesimo nel territorio bresciano avvenne invece più tardi, al principio del V secolo, in concomitanza con le invasioni barbariche e con il cedimento dell’organizzazione amministrativa romana (come nel resto della Lombardia e, in generale, dell’Italia settentrionale). Questo favorì la maggiore attrazione esercitata dalla città di Brescia sul territorio circostante, anche sul piano religioso. La Chiesa bresciana venera i martiri Faustino e Giovita fin dal tempo antico (al più tardi dall’VIII secolo) e sopra l’area occupata dalla chiesa di San Faustino ad sanguinem venne costruita la chiesa di Sant’Afra; il luogo è ricordato anche da San Gregorio Magno ma il culto dei due martiri potrebbero risalire al tempo del vescovo Gaudenzio (397-400 circa). Tra la fine del V e l’inizio del VI secolo vennero costruite le chiese di Santa Maria Maggiore, sull’attuale occupata dal Duomo Vecchio, e San Pietro de Dom, affiancata alla prima, che occupava l’area  dove oggi sorge la nuova cattedrale.

Taranis, dio del tuono

Cesare afferma che i Galli conferiscono a Iuppiter (Giove) l’imperium caelestium, cioè il “comando supremo sui cieli”; secondo alcuni studiosi (quali Vittore Pisani, glottologo e studioso di religione celtica), questo nume è solitamente identificato con il dio celtico Taranis o Taranus, il dio del tuono. Egli è uno dei tre dèi che si ritrova menzionato in un passo di Lucano in Pharsalia, I.446, dove il poeta lo nomina insieme ad altri due numi, Teutates ed Esus, i quali, a suo parere, costituiscono una sorta di “triade” suprema. Due commentari tardo-antichi alla Pharsalia – i Commenta Bernensia e le Adnotationes super Lucanum – identificano entrambi Taranis celtico con “Giove” romano. A lui venivano offerti sacrifici umani.

Taranis, con fulmine e ruota celeste. Statuetta, bronzo, I secolo d.C. ca. da Le Châtelet de Gourzon (Bayard-sur-Marne). Musée d’archéologie nationale di Saint-Germain-en-Laye.

In qualità di Dio del Tuono, il suo nome è connesso all’anglosassone Þunor (cfr. norr. Þórr /Thor, a.a.ted. Donar, protogerm. *þunraz/*þonar-oz, irl. Tuireann, itt. Tarhun, trac. Zbel-thurdos, sami Horagalles). Propriamente il nome stesso di “Taranis” non è stato ancora scoperto dalle iscrizioni galliche, ma ne sono state trovate varianti simili (Taranucno-, Taranuo-, e Taraino-). Il lessico ricostruito del linguaggio Proto-celtico circa questo teonimo è *Toranos, cioè “tuono” (cfr. engl. thunder). Nell’odierno Galles, infatti, taranu significa “tuonare” e taran è il sostantivo corrispondente (cfr. le rispettive traduzioni in bret. taraniñ e taran; e irl. Tarann, “tuono”). Esso, secondo alcuni, è connesso lontanamente al greco antico ouranós (“ouranos”, cioè “cielo”), o più propriamente a toû ouranoû (“del cielo” o “dal cielo”), forse per indicare appunto l’origine del “tuono”.

Il simbolo della ruota – sicuramente una ruota da carro, a sei o otto raggi – è un attributo assai importante per il culto celtico antico, probabilmente associato ad un dio specifico, noto come Dio della ruota, da identificare con un nume celeste o solare, quale fu sicuramente Taranis. Numerose monete provenienti dalla Gallia identificano il dio con la ruota. Si ritiene che questo simbolo corrisponda ad un antico culto europeo praticato nell’Età del Bronzo, in onore del sole.