Clistene e la fondazione della democrazia

Un mutamento di regime verso forme che non somigliassero a quelle dell’aristocrazia vigente ad Atene prima di Pisistrato e dominante nel mondo ellenico, un cambiamento insomma verso regimi politici radicalmente nuovi, non fu certo gradito a Sparta. Ma gli Alcmeonidi, rientrati grazie all’aiuto lacedemone, posero presto mano a una radicale e grandiosa riforma delle istituzioni cittadine. Le notizie principali su Clistene, figlio di Megacle, rampollo dell’illustre γένος, e sulla sua opera provengono in massima parte da Erodoto e dalla Costituzione degli Ateniesi (Ἀθηναίων πολιτεία) di Aristotele. Dopo la cacciata del Pisistratide Ippia, in Atene presero a contrastarsi gruppi guidati da Clistene e Isagora, dei quali quest’ultimo fu designato arconte per l’anno 508/7. Clistene reagì all’elezione del rivale appoggiandosi al δῆμος, il «popolo», che la politica pisistratide aveva fortemente valorizzato come forza sociale: secondo Erodoto (V 66), l’Alcmeonide τὸν δῆμον προσεταιρίζεται («associò il popolo alla propria eteria»), cioè ne fece uno dei protagonisti del confronto politico, fino ad allora dominato dai membri delle casate aristocratiche, e poté così ottenere la base di consenso necessaria per dar corso ai propri progetti, che sarebbero stati all’origine della democrazia ateniese.

L’aspetto fondamentale dell’opera riformatrice di Clistene consistette in una nuova geografia e geometria dei rapporti politici, ripartendo la popolazione attica su base territoriale, secondo una rigorosa impostazione decimale. Al posto delle quattro tribù (φυλαί) genetiche ioniche, egli ne introdusse dieci con un forte legame sul territorio, che presero il nome da eroi locali – indicati, secondo la tradizione – nientemeno che dall’oracolo di Delfi: Acamantide, Eantide, Antiochide, Cecropide, Eretteide, Egeide, Ippotontide, Leontide, Eneide, Pandionide. L’appartenenza alla tribù non dipendeva più dal rapporto personale o gentilizio tra i suoi membri, ma dalla loro residenza. In Attica, infatti, era disperso un gran numero di centri diversi, detti δῆμοι, ovvero piccole comunità di villaggio (cfr. Strab. IX C. 396, che ne contò 174): una delle novità della riforma clistenica fu quella di aver trasformato queste realtà preesistenti in cellule vitali della struttura politica ateniese.

Anna Christoforidis, Clistene, statista greco e padre della democrazia. Busto, marmo, 2004. Columbus, Ohio Statehouse.

Della precedente ripartizione filetica tuttavia permase l’articolazione in tre sezioni: ogni tribù (φυλή) comprendeva tre trittìe (τριττύες). I processi di astrazione e di livellamento, espressi da questa operazione politica, cozzavano naturalmente contro le antiche strutture, basate su rapporti familiari e interessi di consorterie locali. Così, dei vecchi gruppi politici rimase una traccia, ma non più come basi di distinti gruppi di pressione con interessi economici definiti: la nuova ripartizione divenne, con lieve modifica, il quadro geografico per la costruzione del territorio di ciascuna tribù, su un totale di trenta circoscrizioni territoriali ancora tratte, rispettivamente, una dalla zona costiera (παραλία), una dall’entroterra (μεσόγαια) e una dalla città (ἄστυ). Al vecchio frazionamento politico-territoriale, dunque, si sostituì una rappresentazione del territorio secondo fasce che, in astratto, possono essere considerate concentriche, estendendosi dal centro urbano all’interno e alla costa. Ovviamente, com’era sempre nel mondo greco, la costruzione, pur sì carica di valori di astrazione, non era mai totalmente astratta, ma conosceva adattamenti alle reali condizioni del territorio e delle sue singole parti. Il principio era quello di immettere nella nuova base della struttura comunitaria, fondendole nella medesima tribù, frazioni che un tempo avevano fatto blocco con altre località confinanti, spesso in lotta per il potere, il che di fatto equivaleva alla contrapposizione fra consorterie locali capeggiate dalle grandi famiglie (γένη). Ora, invece, con Clistene, ogni tribù conteneva di tutto: la residenza in un determinato demo definiva il cittadino insieme alla sua paternità, al punto che l’onomastica ateniese prevedeva l’indicazione del nome personale, del patronimico e del demotico (i.e. «Temistocle, figlio di Neocle, del demo Frearrio»).

Il nuovo assetto costituzionale impresso da Clistene previde accanto al centro urbano, sempre più sviluppantesi, con funzioni politiche, sociali ed economiche nel corso del V secolo, un’altra componente essenziale: la campagna, il territorio con la sua autonomia locale; oltre ai demi (ciascuno guidato dal suo demarco), il legislatore mantenne le antiche fratrie (φρατρίαι), con funzioni di stato civile, e le vecchie naucrarie (ναυκραρίαι), con funzioni modificate e ridotte.

L’Attica e la Beozia [Funke 2001, 16].

Una delle parole d’ordine della riforma clistenica fu «mescolare», rendere impossibile o inutile la ricerca delle origini familiari, classificare ciascuno secondo il demo, che, attraverso lo strumento intermedio della tribù, costituiva il quadro organizzativo fondamentale della πόλις: perciò, gli organi di governo e le varie istituzioni dovevano rispettare proporzionalmente, e secondo una rotazione, tale organizzazione (Aristot. Athen. Pol. 20-21). Così, ogni tribù doveva fornire un congruo reggimento di opliti (τάξις), guidato dal tassiarco (ταξίαρχος), e uno stratego (στρατηγός); la data di introduzione del collegio dei dieci strateghi è incerta, ma è noto che essi erano in origine eletti uno per tribù e che solo in seguito furono designati tra tutti i cittadini, senza rispettare la divisione clistenica. Fu istituito un consiglio (βουλή) dei Cinquecento, i cui membri erano sorteggiati in numero di cinquanta per ciascuna tribù: questo organo consultivo, costituito da cittadini di età superiore ai trent’anni, sedeva in permanenza, diviso in gruppi di cinquanta, detti πρυτάνεις (antico titolo per «principe»), nelle dieci parti (πρυτανεῖαι, «turni») in cui era suddiviso l’anno amministrativo attico: questo, che andava dal 1° Ecatombeone al 30 Sciforione, cominciava con il primo novilunio dopo il solstizio d’estate; ogni πρυτανεῖα di ciascuna tribù durava 35 o 36 giorni nell’anno di dodici mesi, oppure 38 o 39 giorni nell’anno con un mese intercalare. Ogni giorno un membro diverso del gruppo dei cinquanta assumeva la presidenza del turno con la carica di ἐπιστάτης: tutti costoro, comunque, erano puntualmente sorteggiati per assicurare la necessaria rotazione e il rispetto istituzionale delle regole; perciò, non era possibile essere stati buleuti più di due volte nella vita. La funzione principale della βουλή era quella «probuleumatica», che consisteva nel preparare e introdurre i lavori, ovvero l’ordine del giorno (πρόγραμμα), dell’assemblea: quest’ultima, detta ἐκκλησία, era aperta a tutti i cittadini di età superiore ai vent’anni e, a quest’epoca, si svolgeva in via ordinaria una volta per pritania, tre in via straordinaria (Aristot. Athen. Pol. 43, 3-6).

Anche il collegio degli arconti fu riformato: da questo momento essi furono eletti uno per tribù, mentre la decima forniva il segretario (γραμματεύς) del collegio.

Pittore Brygos. Scena di votazione con ψῆφοι (gettoni) presieduta da Atena. Pittura vascolare su una κύλιξ attica a figure rosse, c. 490 a.C. Malibu, J. Paul Getty Museum.

Non furono abolite nella costituzione clistenica le distinzioni censitarie presenti nella precedente riforma di Solone e in parte anche prima. L’opera di unificazione, redistribuzione e astrazione compiuta da Clistene era diretta contro le spinte corporative di interessi locali, espressi o difesi dall’aristocrazia regionale, non contro il principio dell’efficacia politica della condizione economica e del censo, come parametri generali. Permase, dunque, la distinzione in pentacosiomedimmi, cavalieri, zeugiti e teti; e come le massime cariche, come l’arcontato, erano ancora eleggibili e non sorteggiabili (almeno fino al 487 a.C.), il peso del censo si fece sentire nelle scelte operate dai cittadini.

La riforma di Clistene rivela la preoccupazione di realizzare la piena integrazione della cittadinanza ateniese in un sistema nuovo rispetto a quello tradizionale, in grado di realizzare la «mescolanza» di vari elementi (Aristot. Athen. Pol. 21, 2), spezzando i vincoli clientelari che costituivano la base del potere delle grandi famiglie aristocratiche. Se si riflette sul passo aristotelico che ricorda la divisione dell’Attica, all’epoca dell’ascesa di Pisistrato, in aree geografiche abitate da una popolazione accomunata da interessi economici e strettamente legata a rapporti clientelari, si comprende bene come le nuove tribù clisteniche, create artificialmente, potessero contribuire a ridurre il peso politico dei grandi casati. Certo, gli aristocrati conservarono una serie di privilegi: un ruolo politico significativo fu assicurato loro dalla permanenza del consiglio dell’Areopago, dalla limitazione all’accesso alle magistrature per le prime due classi di censo e dal mantenimento del loro carattere elettivo, nonché l’accesso riservato ad alcuni sacerdozi. Alle più antiche strutture di tipo genetico, quali le fratrie, fu lasciato un ruolo di controllo della parentela legale e quindi sulla legittimità di nascita, presupposto della cittadinanza (πολιτεία), che spettava a quest’epoca a chi era figlio di padre cittadino. Si noti, comunque, che era il demo, non la fratria, a certificare la condizione di cittadinanza davanti alla comunità tutta (Aristot. Athen. Pol. 42).

Il defunto e la sua famiglia. Rilievo su stele funeraria, marmo bianco, c. 375-350 a.C. New York, Metropolitan Museum of Art.

La democrazia clistenica si iscriveva fondamentalmente in una nozione dicotomica del campo delle possibilità politiche, benché, per le strutture che proponeva, costituisse la strada verso sviluppi futuri: il nemico da debellare rimaneva la tirannide, ovvero l’emersione di un uomo forte dall’interno stesso dell’aristocrazia e della carriera oplitica, capace di instaurare forme di potere personale, centralizzato e autoritario. Combattendo la tirannide, la nuova costituzione arginava al tempo stesso le ambizioni e i tentativi di prevaricazione dei gruppi nobiliari. Secondo Aristotele (Athen. Pol. 22, 1), dunque, fu Clistene a escogitare e a istituire un sistema preventivo contro il pericolo della tirannide, l’ostracismo. Questa procedura, molto semplice e democratica, consisteva nel designare, con un voto espresso a maggioranza da almeno 6.000 persone, un individuo ritenuto pericoloso e sovversivo; il voto era espresso, se l’assemblea lo riteneva opportuno, una volta all’anno, durante l’ottava pritania, scrivendo il nome del sospettato su un coccio (ὄστρακον). Il personaggio indiziato, che riceveva il maggior numero di denunce, veniva allontanato dalla città per dieci anni, durante i quali subiva una diminuzione di diritti (ἀτιμία) di carattere parziale: perdeva cioè i diritti politici, mantenendo invece quelli civili (matrimonio, patria potestà, proprietà).

L’agorà di Atene ha restituito un gran numero di ὄστρακα, recanti i nomi di diversi personaggi accusati di ostracismo (una trentina circa), talora con le motivazioni del voto (l’accusa di essere amici dei tiranni o, in seguito, dei Persiani). L’istituzione di questa procedura intendeva, allontanando uomini politici che si rendevano sospetti al popolo, evitare l’instaurazione di una nuova tirannide e favorire l’allentamento delle tensioni politiche: applicata per la prima volta nel 487 circa contro Ipparco di Carmo, parente dei Pisistratidi, e poi per tutto il V secolo, fu molto imitata anche in altre realtà del mondo greco (ad Argo, Megara, Mileto e a Siracusa, dov’era detta “petalismo”). È probabile che l’utilizzo regolare dell’ostracismo abbia contribuito ad assicurare ad Atene una certa stabilità, evitandole fratture civili (στάσεις), che caratterizzarono invece altre città, anche democratiche. Tale stabilità, inoltre, va collegata anche con il fatto che in Atene la democrazia non nacque da una rivoluzione violenta e dalla sopraffazione di una parte sull’altra, ma da una riforma accettata da tutte le parti in causa.

Θεμιστοκλής Νεοκλέους (“Temistocle, figlio di Neocle”). Ostrakon, c. 482 a.C. Atene, Museo dell’Antica Agorà.

A partire da Erodoto (VI 131, 1), Clistene entrò nella tradizione storica come «colui che istituì la democrazia per gli Ateniesi» (τὴν δημοκρατίην Ἀθηναίοισι καταστήσας); così per Aristotele (Athen. Pol. 20, 1) egli fu «colui che consegnò la cittadinanza al popolo» (ἀποδιδοὺς τῷ πλήθει τὴν πολιτείαν). Questo giudizio trova sicuro riscontro nel fatto che, a livello formale, la riforma clistenica assicurò a tutti i cittadini ateniesi il godimento dell’ἰσονομία, l’uguaglianza dei diritti, e l’ἰσηγορία, l’uguaglianza di parola, garantendo a tutti, senza discriminazioni di nascita e di censo, la possibilità di prendere parte agli organi di carattere deliberativo (βουλή ed ἐκκλησία) e giudiziario (il tribunale popolare, ἡλιαία).

Alla luce di quanto si è detto, appare comprensibile che la nascita della democrazia trovasse subito degli oppositori, e che essa presenti una gestazione assai laboriosa, di cui non è facile definire tutti gli aspetti cronologici, soprattutto quando ci si allontani dalle fonti. Clistene doveva aver già elaborato gran parte della sua riforma costituzionale, quando gli si oppose la fazione aristocratica più conservatrice, guidata da Isagora, che trovava inaccettabile il progetto di inserimento del δῆμος nella vita politica. Gli oppositori del legislatore, spalleggiati da re Cleomene I di Sparta, cercarono di abbattere la neonata democrazia: il primo scontro fu vinto da Isagora grazie alla potenza delle armi lacedemoni, che nel 508/7 gli assicurarono l’arcontato; allora, settecento case di partigiani della democrazia furono bandite, compresa quella degli Alcmeonidi. Ma il tentativo di sciogliere d’autorità la βουλή dei Cinquecento nel 507/6 fu respinto dagli Ateniesi, che costrinsero Isagora e Cleomene, assediati insieme ai loro sull’Acropoli, a desistere e richiamarono Clistene e gli altri fuoriusciti. Fu allora che il legislatore, assunto l’arcontato, poté completare e rendere definitiva l’opera di rinnovamento (Hdt. V 66, 1; 70-76; Aristot. Athen. Pol. 20, 1; Marmor Parium, FGrHist 239 A 46; Schol. in Aristoph. Lysis. 273).

Iscrizione della «Legge contro la tirannide». Personificazione di Democrazia che incorona Demos (bassorilievo). Rilievo, marmo, c. 337-376 a.C. da Atene. Museo Archeologico Nazionale di Atene.

Dal 506 gravi minacce si addensarono sul capo della neonata democrazia ateniese. Un nuovo attacco di Cleomene, che intendeva insediare Isagora come tiranno, finì con una ritirata dovuta ai dissensi tra il Lacedemone e l’altro re, Demarato, e alla defezione dei Corinzi; la contemporanea offensiva di Beoti e Calcidesi con l’invasione dell’Attica fu respinta con successo, in seguito al quale Atene insediò sul territorio di Calcide una cleruchia (κληρουχία), una colonia militare di 4.000 cittadini, mantenuti con le rendite fondiarie degli aristocratici locali (i cosiddetti Ippoboti). Più tardi, nel 500, Cleomene tentò nuovamente, in accordo con i Tessali, di abbattere la democrazia ateniese, restaurando il regime di Ippia, ma il piano fallì nuovamente a causa dell’opposizione dei Corinzi. Erodoto (V 78) collegò la crescita della potenza ateniese, messa in evidenza da questi successi, con l’istituzione della democrazia: l’ἰσηγορία, affermava, è un bene prezioso, per difendere il quale l’uomo libero si mobilità con un entusiasmo inedito a chi si trova in stato di servitù (cfr. IG I² 394; Diod. X 24; Paus. I 28, 2; Anth. Pal. VI 343).

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Πρῶτοι εὑρεταί: dèi, eroi, uomini

trad. it. a cura di F. Cerato di L. Zhmud, The Origin of the History of Science in Classical Antiquity, Berlin-New York 2006, 23-29.

In linea teorica, uno studio sulle origini della Scienza nel mondo antico dovrebbe partire dal momento in cui Storia e Scienza si sono incontrate per la prima volta, ovvero da una rassegna delle scoperte scientifiche avvenute nel passato. Il punto, tuttavia, è che tali resoconti erano ignoti prima della seconda metà del IV secolo a.C., mentre gli sporadici accenni che gli storici (primo tra tutti Erodoto) fecero delle acquisizioni scientifiche non appartenevano tanto alla storiografia quanto all’eurematografia. Ma questo non è l’unico motivo per considerare l’eurematografia – genere assolutamente non scientifico e che ben poco ha da offrire alla ricerca storica – come uno dei prototipi della divulgazione scientifica. Ciononostante, essa ha sollevato la questione di come si originano e si trasmettono le conoscenze e le capacità pratiche molto prima della comparsa della storia della scienza, e le varie soluzioni risalgono ai suoi albori. Ecco perché le origini dell’interesse verso i πρῶτοι εὑρεταί, comune ad entrambi i generi, possono essere ricondotte a questo materiale “primitivo”.

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L’interesse per il passato è un elemento insito, in varia misura, in tutte le società umane, comprese quelle pre-letterate. Le sue manifestazioni nell’antichità sono state assai varie, ma nel complesso si sono inserite dagli interpreti nella tipologia, ormai da tempo elaborata, del folklore e dei primissimi generi letterari. Tra quelli folcloristici vanno citati innanzitutto i miti cosmogonici ed eziologici, e quindi l’epica eroica, che in molte culture, anche se non in tutte, divenne il primo genere letterario. Un altro filone, assai precoce e significativo, è quello della cronaca storica, caratteristico, per esempio, della civiltà cinese e, in misura minore, di quella giudaica. Naturalmente l’elenco dei generi non esaurirebbe la varietà di interrogativi che gli antichi si posero sul loro passato, ma semplicemente ridurrebbe la presente analisi a una serie di temi definiti che hanno suscitato un interesse costante e hanno portato alla formazione di generi specifici. Perciò, un mito cosmogonico rispondeva alla domanda sull’origine dell’universo, un mito eziologico spiegava l’origine di particolari aspetti di una civiltà, ovvero un mestiere o un prodotto importante in una determinata cultura, come la birra a Sumer o il vino in Grecia. L’epica eroica e, più tardi, la cronaca, raccontavano cose ancora più rilevanti: le imprese gloriose degli antenati.

Pittore Antifonte. Un artigiano decora un elmo (particolare). Pittura vascolare su cratere attico a figure rosse, c. 480 a.C.

L’antica Grecia, la cui storia letteraria e culturale inizia con l’epica omerica ed esiodea, manifesta le medesime tendenze. L’Iliade racconta le gesta eroiche degli Achei e dei Troiani, la Teogonia, con il suo peculiare approccio “genealogico”, descrive l’origine del mondo abitato dagli dèi e dagli uomini. Ma l’interesse verso il passato che caratterizza l’epica arcaica non è identico a quello storiografico strictu sensu: il primo si accontenta delle leggende sugli dèi e sugli eroi; il secondo, orientato principalmente agli uomini e alle loro imprese, cerca di spiegare il presente collegandolo al passato. Nonostante l’unicità delle epopee omeriche ed esiodee, esse hanno ben poco che faccia pensare che i loro autori avessero un interesse propriamente storico. È naturale, quindi, non trovare né in Omero né in Esiodo alcuna traccia di una tradizione sui πρῶτοι εὑρεταί e le relative invenzioni (Erren 1981; Schneider 1989).

La prima testimonianza superstite sui πρῶτοι εὑρεταί si trova in un frammento della Foronide, un poema epico del VII secolo dedicato alle gesta di Foroneo e ad altre leggende dell’Argolide arcaica (Schol. Apoll. Rhod. I, 1129-1131b). Tra l’altro, in esso si parla anche dei Dattili Idei (Δάκτυλοι Ἰδαῖοι), creature mitiche che prendevano il nome dalla catena montuosa dell’Ida in Troade (Hemberg 1952).

Pittore della fonderia. Un fabbro e il suo servo alla fornace. Pittura vascolare a una κύλιξ attica a figure rosse, c. 490-480 a.C. da Vulci. Berlin, Antikensammlung.

In origine, questi Dattili erano rappresentati come fabbri-nani, ma nella Foronide assunsero una forma del tutto diversa. Innanzitutto, l’aedo li considerava dei maghi frigi (γόητες Ἰδαῖοι, / Φρύγες ἄνδρες), i primi ad aver inventato il mestiere di fabbro (οἳ πρῶτοι τέχνηις πολυμήτιος Ἡφαίστοιο / εὗρον). Sebbene la questione del πρῶτος εὑρετής sia di per sé nuova ([Hes.] F 282 M-W, Rzach 1912, Schwartz 1960), essa viene applicata al materiale tradizionale, pur in qualche modo rimaneggiato: dagli antichissimi fabbri-nani, dunque, i Dattili dell’Ida si trasformarono stregoni, scopritori dell’arte patrocinata da Efesto. In seguito, tale funzione sarebbe stata attribuita al medesimo dio, considerato egli stesso il “primo inventore” (secondo uno schema abbastanza consolidato). Ma l’autore della Foronide, pur ritenendo che la metallurgia costituisse «l’arte dell’astuto Efesto», ne riferì la scoperta a degli “esperti stranieri” (frigi, appunto), dotati comunque di qualità soprannaturali. La tecnologia del metallo fu così trasferita dalla sfera divina all’ambito umano, per quanto curiosa e insolita fosse la comunità in questione, e assegnata a una civiltà limitrofa a quella greca (Hemberg 1950, Dasen 1993).

Interpretando questa testimonianza secondo il metodo della razionalizzazione evemeristica del mito, vi si potrebbe ravvisare una reminiscenza della storia reale, ossia di come la metallurgia del ferro, scoperta dagli Ittiti, si sia diffusa dall’Asia Minore alla Grecia. Sarebbe comunque infondato supporre che l’autore della Foronide, attivo ad Argo all’inizio del VII secolo, abbia sentito parlare di questa storia o si sia interessato ad essa. Le prime ricerche dei πρῶτοι εὑρεταί si concentravano, notoriamente, non tanto sulla loro identità e sul loro retroterra storico, quanto sui risultati tecnici e culturali in quanto tali (Thraede 1962; Thraede 1962a): «X scoprì Y» è una formula tipica dell’eurematografia, che riporta semplicemente il nome dell’inventore e, in rarissimi casi, la sua provenienza. Il momento della scoperta non è quasi mai registrato, né tanto meno le circostanze, mentre lo scopritore stesso risulta ben lungi dall’essere una figura concreta. Nella tradizione eurematografica, pervenuta attraverso i cataloghi delle scoperte di epoca imperiale, gli dèi-artefici (Atena, Apollo, Demetra, Efesto) e gli eroi culturali (Trittolemo, Palamede, Dedalo, ecc.) sono stati pressoché accostati agli altri due grandi categorie: i personaggi realmente esistiti (Fidone, Stesicoro, Talete, ecc.) e le città greche e le nazioni barbariche.

Pittore Antimene. Incontro fra Dioniso ed Efesto sulla strada per l’Olimpo. Pittura vascolare su anfora attica a figure nere, c. 520 a.C. Baltimore, Walters Art Museum.

Che il passaggio dell’eurematografia dalla mitografia alla narrazione di eventi reali sia avvenuto gradualmente, ma sia rimasto essenzialmente incompiuto, non sorprende. La storiografia greca, rappresentata da Ecateo di Mileto, Erodoto di Alicarnasso ed Ellanico di Lesbo, seguì lo stesso percorso. In assenza di testimonianze scritte e di metodi adeguati all’analisi delle fonti, l’eurematografia (così come la storiografia) avrebbe potuto diventare “storica” unicamente rivolgendosi agli avvenimenti recenti o contemporanei. Quando si cercava di “ricostruire” il passato remoto così come era stato registrato, all’occorrenza, dalla tradizione orale, si ricorreva alle combinazioni più fantasiose: «Quanto più arbitraria era la prima supposizione, tanto maggiori erano le possibilità che venisse accolta come vera» (Thraede 1962a).

Di conseguenza, il significato delle testimonianze sui Dattili Idei non sta nell’indicare i reali inventori della lavorazione dei metalli; anzi, oltre a marcare il terminus ante quem del periodo in cui si manifestò l’interesse per i πρῶτοι εὑρεταί, il racconto contiene in nuce due importanti tendenze che si sarebbero sviluppate in seguito: innanzitutto, la graduale e incompleta sostituzione degli dèi con figure semi-divine o eroiche e poi con persone; in secondo luogo, la propensione dei Greci ad attribuire le invenzioni, comprese le proprie, ai vicini orientali. Non si trattò di un fenomeno uniforme; talvolta le grandi innovazioni furono attribuite a personaggi alterni. A seconda della mentalità del pubblico, delle peculiarità di ogni singola opera, degli scopi e delle attitudini dell’autore e, non da ultimo, del carattere dell’invenzione stessa, di volta in volta figure diverse erano poste in primo piano (cfr. Hec. FGrHist 1 F 20, Andron. FGrHist 10 F 9, Scam. FGrHist 476 F 3). Un personaggio di una tradizione più antica, che era finito in secondo piano, poteva riapparire accanto agli inventori più recenti. Se l’eurematografia registra, nel complesso, poche scoperte “umane” rispetto a quelle associate a divinità ed eroi, ciò è dovuto alla naturale inclinazione a riferire gli inizi della civiltà all’aiuto divino e all’oscurità e all’anonimato dei veri inventori del passato. Bisogna anche tener conto della propensione, propria della letteratura epidittica, a onorare gli artefici divini, attribuendo loro il maggior numero possibile di acquisizioni; nei tardi cataloghi delle scoperte, tale tendenza portava ad attribuire la stessa invenzione a diversi dèi ed eroi, di solito senza mettere in atto alcun tentativo di far combaciare le versioni che si escludevano a vicenda (Thraede 1962, Cole 1966).

Diego Velázquez, La fucina di Vulcano. Olio su tela, 1630. Madrid, Museo del Prado.

Dalla fine del V secolo in poi, la letteratura tecnica che si occupava prima della storia della poesia e della musica e poi di quella della filosofia, della scienza e della medicina ridimensionò al minimo la componente divina ed eroica delle scoperte. Mentre la storia della musica, in particolare quella delle sue prime fasi, proponeva ancora i nomi di Orfeo, Museo o Marsia, le storie della filosofia, dell’astronomia e della geometria includevano solo personaggi storici realmente esistiti. Da questo punto di vista, in effetti, la storiografia peripatetica si rivela ancor più rigorosa di molte opere simili del XVII e persino del XVIII secolo, con resoconti sull’astronomia inizianti con Atlante, Urano e altre figure mitologiche. Certo, nell’antichità la storicità della trattazione dipendeva non tanto dal momento in cui una determinata opera era stata composta, quanto dal suo genere. L’autore di un encomio, di un inno, di una tragedia o di un trattato Sulle scoperte (Περὶ εὑρημάτων) raramente si sarebbe preoccupato dell’attendibilità delle informazioni riportate. In ambiti come la dossografia o la storia della scienza, di solito gli autori evitavano di riprodurre storie palesemente inventate, sebbene riprendessero trovate altrui.

C’è un’altra ragione per cui la sequenza “dei : eroi : uomini” non era rigorosamente lineare. In Omero ed Esiodo e, naturalmente, prima di loro, gli dèi greci erano rappresentati non come i primi scopritori, ma come «donatori di beni», patroni di mestieri che avevano insegnato agli uomini (cfr. Od. VI 232-234, ἀνὴρ / ἴδρις, ὃν Ἥφαιστος δέδαεν καὶ Παλλὰς Ἀθήνη / τέχνην παντοίην, «… un artefice esperto, che Pallade Atena ed Efesto iniziarono ai segreti dell’arte»; cfr. Od. XX 72): essi divennero πρῶτοι εὑρεταί solo dopo che la fama degli inventori umani si era ormai diffusa in tutto il mondo ellenico. La curiosità nei confronti dei primi scopritori in senso assoluto, cioè di coloro che avevano inventato la metallurgia, l’agricoltura, la scrittura o la musica, si risvegliò man mano, stimolata dalla crescente attenzione per le innovazioni in quanto tali e per la questione della priorità nella loro realizzazione. Sebbene il rapido sviluppo sociale e culturale della Grecia tra IX e VII secolo a.C. abbia portato a molte scoperte in tutte gli ambiti della vita, occorse un certo lasso di tempo perché l’interesse specifico nei loro confronti sorgesse e si affermasse. A giudicare dalle testimonianze pervenute, i veri creatori di innovazioni tecniche e culturali – inventori, poeti, musicisti, pittori, scultori – si imposero all’attenzione pubblica soltanto all’inizio del VII secolo.

Pittore Nicone. Un poeta con barbiton. Pittura vascolare da un λήκυθος attico a figure rosse, c. 460-450 a.C. New York, Metropolitan Museum of Art.

A tal proposito, è significativo un frammento di uno dei primi lirici, Alcmane, in cui egli professa la propria ammirazione per coloro che l’hanno preceduto, che «insegnarono agli uomini suoni meravigliosi, dolci e nuovi» (Alcm. F 4. I, 4-6 Page, σαυ]μαστὰ δ᾿ ἀνθ[ρώποισ(ι)]… / γαρύματα μαλσακὰ̣ … / νεόχμ᾿ ἔδειξαν). Il lessico di questo frammento, e in particolare l’espressione ἀνθ[ρώποισ(ι)]… / ἔδειξαν, è molto vicino a quello utilizzato nella tradizione sui πρῶτοι εὑρεταί (Davies 1986), benché il motivo del primo scopritore sia qui solo implicito. Sebbene i poeti antichi avessero proposto sonorità inedite, Alcmane doveva avere in mente la loro originalità relativa piuttosto che quella assoluta: i concetti di πρῶτοι e εὗρον, però, mancavano ancora. In un altro frammento, invece, compare l’espressione ϝέπη τάδε καὶ μέλος Ἀλκμὰν εὗρε (Alcm. F 39 Page), con la quale il poeta sembra rivendicare per sé lo status di “primo scopritore”. L’Inno omerico a Ermes (Hom. Hymn. IV 24-61) attribuisce al dio l’invenzione della lira a sette corde, sebbene, al tempo in cui fu composto, esistesse una leggenda che conferiva il merito della scoperta a Terpandro (Schmid, Stählin 1974, Janko 1982) e il dio non fosse comunemente associato alla musica (Pind. F 125 Snell).

La graduale trasformazione degli dèi in primi scopritori è confermata dall’Inno omerico ad Afrodite (Hom. Hymn. V 12-15): qui Atena è indicata come colei che per prima insegnò (πρώτη… ἐδίδαξε) agli artigiani l’arte di fabbricare carri e carrozze e alle ancelle quella dei lavori domestici (probabilmente la tessitura); benché πρώτη, il merito della dea non era tanto l’invenzione dei mestieri, quanto la loro divulgazione agli uomini (Hom. Hymn. XX 2-3, Solon. F 13, 49, Pind. Ol. VIII 50-51, Orph. H. F 178-179 Kern). Se, in seguito, le città greche rinomate per le loro attività artigianali furono accreditate dell’invenzione di cose precedentemente considerate sotto il patrocinio divino (DK 88 B 1, 10, 12, Pind. Ol. XIII 18, cfr. Hdt. I 23), ciò non significa affatto che in origine il πρῶτος εὑρετής fosse stato elaborato sul materiale mitologico e applicato solo agli dèi (Schol. in Oppian. halieutica I 78).

Noël Coypel, Apollo e Mercurio. Olio su tela, 1688. Château de Versailles.

Dal momento che la letteratura greca prima del VI secolo è costituita solo da generi poetici, naturalmente sono meglio note le vicende degli innovatori della musica e della poesia. Quando Glauco di Reggio (fine del V secolo) tentò nel suo Περὶ τῶν ἀρχαίων ποιητῶν τε καὶ μουσικῶν (Sugli antichi poeti e musicisti, cfr. [Plut.] De musica IV 1132e; VII 1133f) una delle prime sistemazioni dell’arte greca, raccontò soprattutto chi aveva inventato cosa, chi aveva preso in prestito cosa da chi, ecc. Eppure, la tradizione orale ed epigrafica conservatasi fino a tempi successivi dimostra che si registravano pure le invenzioni in altri settori. Per esempio, il tiranno argivo Fidone (prima metà del VII secolo), ritenuto l’inventore di un avanzato sistema di pesi e misure, i cosiddetti Φειδών[ε]ια μέτρα (Hdt. VI 127, Her. Pont. F 152, Aristot. Pol. 1310b, 19-20, Ephor. FGrHist 70 F 115, 176), superò in fama l’eroe Palamede (cfr. Senof. 21 B 4, Hdt. I 94); così Aminocle di Corinto, inventore della trireme, fu invitato a costruire navi a Samo intorno alla metà del VII secolo, o forse anche prima (cfr. Thuc. I 13, 3). Dagli inizi del VII secolo, vasai, ceramografi e scultori cominciarono a firmare le loro opere (Jeffery 1990, Philipp 1968, Walter-Karydi 1999), al punto da essere ritenuti i πρῶτοι εὑρεταί nella propria arte (Thraede 1962a). Per esempio, Butade di Sicione (VII secolo), il leggendario inventore della ceroplastica, le cui opere, firmate e dedicate al tempio, si conservarono a Corinto fino all’epoca ellenistica (Robert 1897, Fuchs, Floren 1987); Glauco di Chio (inizi VI secolo), un rinomato artigiano, che Erodoto identificò come l’inventore della saldatura del ferro (σιδήρου κόλλησις), realizzò e firmò un cratere d’argento, che più tardi il re lidio Aliatte dedicò a Delfi (Hdt. I 25, cfr. Paus. X 2-3); Mandrocle di Samo, l’architetto che progettò il ponte sul Bosforo per la spedizione di Dario contro gli Sciti (513 a.C.), ritornato in patria, investì parte della sua generosa ricompensa per commissionare un quadro del ponte, che dedicò al tempio di Hera e lo corredò con un epigramma menzionante il suo nome (Hdt. IV 87-89).

Queste testimonianze, seppur parziali, di età arcaica attestano che la ricerca dei πρῶτοι εὑρεταί rifletteva una controversia sulla loro precedenza temporale – questione tipica della cultura greca. Allo stesso modo, le vicende dei primi scopritori riflettono il problema della priorità di ogni genere di innovazione sociale, culturale e tecnica – un aspetto molto più ampio affrontato sia dall’eurematografia sia dalla storiografia scientifica.

Carpentiere all’opera (dettaglio). Affresco, ante 79, dalla casa dei Vettii, Pompei.

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Riferimenti bibliografici:

Cole 1966 = T. Cole, Democritus and the Sources of Greek Anthropology, Ann Arbor 1966.

Dasen 1993 = V. Dasen, Dwarfs in Ancient Egypt and Greece, Oxford 1993.

Davies 1986 = M. Davies, The Motif of the πρῶτος εὑρετής in Alcman, ZPE 65 (1986), 25-27.

Erren 1981 = M. Erren, Die Geschichte der Technik bei Hesiod, in. W. Marg, G. Kurz, D. Müller, W. Nicolai (eds.), Gnomosyne. Menschliches Denken und Handeln in der frühgriechischen Literatur. Festschrift für Walter Marg zum 70. Geburtstag, München 1981, 155-166.

Fuchs, Floren 1987 = W. Fuchs, J. Floren, Die griechische Plastik, 1. Die geometrische und archaische Plastik, München 1987.

Hemberg 1950 = B. Hemberg, Die Kabiren, Uppsala 1950.

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Janko 1982 = R. Janko, Homer, Hesiod and the Hymns: Diachronic Development in Epic Diction, Cambridge 1982.

Janko 1986 = R. Janko, The Shield of Heracles and the Legend of Cycnus, CQ 36 (1986), 38-59.

Jeffery 1990 = L.H. Jeffery, The Local Scripts of Archaic Greece: A Study of the Origin of the Greek Alphabet and Its Development from the Eighth to the Fifth Centuries B.C., Oxford 1990².

Merkelbach, West (1967) = R. Merkelbach, M.L. West (eds.), Fragmenta Hesiodea, Oxford 1967.

Philipp 1968 = H. Philipp, Tektonon Daidala, Berlin 1968.

Robert 1897 = C. Robert, s.v. Butades, RE 3 (1897), 1079.

Rzach 1912 = A. Rzach, s.v. Hesiod, RE 8 (1912), 1167-1240.

Schmid, Stählin 1974 = W. Schmid, O. Stählin, Geschichte der griechischen Literatur, I, München 1974.

Schneider 1989 = H. Schneider, Das griechische Technikverständnis, Darmstadt 1989.

Schwartz 1960 = J. Schwartz, Pseudo-Hesiodea : Recherches sur la composition, la diffusion et la disparition ancienne d’œvres attribuées à Hésiode, Leiden 1960.

Thraede 1962 = K. Thraede, Das Lob des Erfinders. Bemerkungen zur Analyse der Heuremata – Kataloge, RhM 105 (1962), 158-186.

Thraede 1962a = K. Thraede, s.v. Erfinder II, RLAC 5 (1962), 1191-1278.

Walter-Karydi 1999 = E. Walter-Karydi, Die Entstehung des beschrifteten Bildwerks, Gymnasium 106 (1999), 289-317.

Zaicev 1993 = A. Zaicev, Das griechische Wunder: Die Entstehung der griechischen Zivilisation, Konstanz 1993.

Zhmud 2001 = L. Zhmud, Πρῶτοι εὑρεταί – Götter oder Menschen?, ANR 11 (2001), 9-21.

Stesicoro

Per i colonizzatori dell’Italia meridionale il mito non rappresentava soltanto un veicolo per la sopravvivenza dei legami con la madrepatria, ma anche un modo per interpretare e giustificare l’impulso migratorio, collegando le storie di Eracle, degli Argonauti, di Diomede e degli altri reduci dalla guerra troiana alla scelta dei siti in cui le nuove colonie sarebbero sorte. In quest’ottica, l’eroe protettore della nuova comunità si configurava spesso come una sorta di proiezione del capo aristocratico (οἰκιστής) che aveva guidato la spedizione e che, con il tempo, avrebbe potuto diventare egli stesso oggetto di culto eroico. In più, il mito, con le tensioni implicite delle multiformi vicende degli eroi, permetteva di alludere attraverso figure e atteggiamenti esemplari ai problemi che agitavano l’attualità coloniale e in special modo a quei contrasti sociali forieri di στάσεις, che ben presto emersero all’interno delle nuove πολεῖς, dopo un iniziale momento egalitario della lotta per l’insediamento e dell’organizzazione del nuovo spazio territoriale.

Pittore anonimo. Un poeta (dettaglio). Pittura vascolare su un λήκυθος attico a figure rosse, c. 480 a.C. da Atene. Los Angeles-Malibu, Villa Getty Museum.

Massimo interprete della tradizione mitica all’interno del mondo magno-greco nelle forme, verosimilmente, della lirica citarodica fu Stesicoro (Στησίχορος), figlio di Eufemo (o di Euclide?). Gli antichi, in genere, associavano questo poeta alla siciliana Imera, dove si era presumibilmente trasferito dall’originaria Matauro (colonia locrese nell’Italia meridionale). Stesicoro avrebbe soggiornato anche in altre località magno-greche e siceliote (PMGF TA 8-13).

Le testimonianze antiche sulla sua cronologia sono alquanto incerte, forse perché lo si confuse con omonimi più tardi oppure perché fu considerato l’«inventore» (πρῶτος εὑρετής) della lirica corale: secondo la testimonianza del lessico Sud. σ 1095 (IV 433. 16-20 Adler = Stes. TA 10, 1-5 Ercoles1), il nome stesso Stesicoro sarebbe stato un epiteto derivato dal fatto che egli «per primo, istituì un coro con la citarodia, mentre il suo vero nome era Tisia» (πρῶτος κιθαρῳδίᾳ χορὸν ἔστησεν· ἐπεί τοι πρότερον Τισίας ἐκαλεῖτο).

Comunque stessero le cose, mentre è sicuramente da escludere la data registrata dal Marmor Parium (FGrHist. 239, 50 = PMGF TA 6, che riferisce di un suo arrivo nella Grecia continentale nel 485/4 a.C., in sincronia con la prima vittoria di Eschilo nei concorsi tragici e con la nascita di Euripide), sembra probabile una sua collocazione tra la fine del VII e la prima metà del VI secolo a.C.: nell’ultimo periodo, in particolare, Stesicoro doveva essere ancora in vita, se Aristotele (Rhet. 1393b) lo connetté con il tiranno di Agrigento Falaride (570-554 a.C.), da cui il poeta avrebbe invano cercato di mettere in guardia gli abitanti di Imera, quando essi gli si assoggettarono. Non lontana dal vero appare dunque la datazione già suggerita da Sud. σ 1095, che collocava la sua vita fra la XXXVII e la LVI Olimpiade, cioè fra il 632/629 e il 556/553, anche se andrebbe posticipata di poco la data di morte, se si presta fede alle testimonianze che collegano Stesicoro alla battaglia del fiume Sagra, combattuta fra Locresi e Crotoniati verso il 550 a.C. (cfr. [Luc.]Macr. 26, I 81 Macleod = PMGF TA 7, che riferisce che il poeta visse fino a 85 anni).

Più incerta è la notizia secondo cui il poeta avrebbe soggiornato per un certo tempo a Pallantio, in Arcadia, donde sarebbe tornato in Sicilia, a Catania. E a Catania (oppure a Imera) sarebbe morto.

Pittore di Dana. Scena musicale (dettaglio): due donne in atto di ascoltare una terza mentre canta e suona la lira. Pittura vascolare da un cratere a campana attico a figure rosse, c. 460 a.C. New York, Metropolitan Museum of Art.

I componimenti di Stesicoro furono raccolti dai filologi alessandrini in 26 libri. Di questa produzione, di cui ora si sa con certezza che era davvero enorme e che aveva incontrato nel mondo antico una vasta diffusione, era nota fino al secolo scorso solo una cinquantina di versi (frammenti desunti da citazioni, per lo più assai brevi), mentre già si conosceva un buon numero di titoli (probabilmente stabiliti dai grammatici alessandrini), che per la maggior parte si riferiscono a fatti e personaggi della leggenda: Giochi per Pelia, Gerioneide, Elena, Palinodie per Elena, Distruzione di Ilio, Cerbero, Cicno, Ritorni, Orestea, Scilla, Cacciatori del cinghiale. Si confermava, comunque, la sentenza di Quintiliano (X 1, 62), secondo cui Stesicoro epici carminis onera lyra sustinentem («sostenne con la cetra il peso dell’epos»).

Parecchi studiosi contemporanei attribuiscono non a Stesicoro, ma a un omonimo imerese vissuto nel IV secolo a.C. altri carmi che, a giudicare dai titoli, trattavano storie d’amore a triste fine: Calica, Radina, Dafni (la storia del pastore che muore d’amore, nota dall’Idillio I di Teocrito). Stesicoro avrebbe infine composto, secondo la dubbia testimonianza di Ateneo (XIII 601a), anche carmi omoerotici.

Se nel 1936 il filologo inglese Cecil M. Bowra poteva parlare di Stesicoro come dell’«ombra indistinta di un grande nome agli inizi della poesia greca», oggi quest’ombra è certamente assai meno vaga, perché un considerevole incremento alla conoscenza dell’opera stesicorea è venuto da una serie di scoperte papiracee, che hanno restituito brani più o meno estesi inseribili nella Gerioneide (F S7-S87), nella Distruzione di Ilio (F S88-S147), nei Ritorni (PMGF 209) e nella Tebaide (PMGF 222b).

Pittore Nicone. Un poeta con barbiton. Pittura vascolare da un λήκυθος attico a figure rosse, c. 460-450 a.C. New York, Metropolitan Museum of Art.

I nuovi frammenti papiracei hanno permesso di accertare le dimensioni davvero cospicue dei testi: un’indicazione sticometrica contenuta in P. Oxy. 2617, che conserva frammenti della Gerioneide, documenta che questo carme superava i 1.300 versi! In particolare, è ora possibile chiarire il rapporto di innovazione/continuazione, se non di concorrenzialità, che legava i carmi stesicorei con l’epica non solo a livello lessicale e stilistico, ma anche nella costruzione di ampi intrecci e di estese sezioni narrative, intercalate da scambi dialogici.

Discusse sono le modalità di esecuzione di queste composizioni, la cui struttura strofica, detta “triadica” (PMGF TA 19), era caratterizzata dalla ripetizione ad libitum di segmenti composti da una strofe, un’antistrofe (metricamente equivalente) e un epodo (metricamente autonomo, ma ritmicamente connesso alle precedenti) e dall’innovativo impiego dei metri dattilo-epitriti. Questa articolazione “triadica” è documentata al di là di ogni dubbio dalla testimonianza dei papiri e gli antichi ne assegnavano l’invenzione allo stesso Stesicoro.

Oggi l’opinione dei più è che l’esecuzione dei carmi non fosse (o almeno non sempre) realizzata da un coro, come si riteneva in passato, ma da un solista (di solito, il poeta in persona), che si accompagnava con la cetra alla maniera della citarodia lirica pre-omerica (della quale Stesicoro sarebbe stato un continuatore).

È pur vero che la stessa articolazione triadica rende probabile, insieme con le testimonianze antiche, la presenza di un coro, che doveva pertanto limitarsi a eseguire mute evoluzioni di danza destinate a porsi in un rapporto mimetico nei confronti dello sviluppo del tema mitico di volta in volta affrontato.

Quale luogo privilegiato delle esecuzioni dei carmi stesicorei Luigi Enrico Rossi (1983) individuò l’ambito di quelle gare citarodiche che si svolgevano all’interno delle riunioni festive diffuse in tutto il mondo greco arcaico: in tale contesto Stesicoro avrebbe cantato le sue composizioni di epica lirica “alternativa” fianco a fianco con rapsodi che recitavano brani di Omero o nuovi brani di epica esametrica. E con la necessità di soddisfare le richieste di un pubblico di cui dipendeva la vittoria agonale si spiegherebbe anche la frequente rifunzionalizzazione “regionale” del mito.

Pittore di Londra E. Apollo musico. Pittura vascolare dal tondo di una κύλιξ attica a figure rosse, c. 480-470 a.C. da Chiusi. London British Museum.

La proposta di Giocasta(PMGF 222b)

È la colonna meglio conservata (A II) di una serie di frustoli papiracei (P. Lille 76A II + 73 I) recuperati dal cartonnage di una mummia e pubblicati nel 1977 da G. Archer e C. Meillier nel Cahier de Recherches de l’Istitut de Papyrologie et d’Egyptologie de Lille 4, 287 ss. Contengono brani di un carme in triadi strofiche e nell’impasto linguistico tipico della lirica corale – attribuibile con quasi assoluta certezza a Stesicoro – sulla divisione dell’eredità paterna tra i figli di Edipo, Eteocle e Polinice: un soggetto trattato già nella Tebaide epica e poi ripreso ripetutamente dalla tragedia attica (Sette contro Tebe di Eschilo; Fenicie di Euripide, Edipo a Colono di Sofocle – sulla trattazione stesicorea della leggenda, cfr. A. Carlini, QUCC 25 [1977], 61-67, e Bremer 1987).

Il brano qui riprodotto inizia nel mezzo di una risposta della madre Giocasta all’indovino Tiresia, perché non voglia aggiungere nuovi mali a quelli esistenti. La soluzione prospettata dalla regina consiste nel proporre un sorteggio in base al quale uno dei fratelli otterrà il regno, mentre l’altro se ne andrà in esilio portando con sé i tesori paterni.

La colonna successiva (73 II + 76C I + 111C) a quella riportata qui doveva appunto contenere, come possiamo arguire dai miseri monconi superstiti, una rapida descrizione del sorteggio e della raccolta dei beni paterni da parte di Polinice, a cui la sorte assegnava l’esilio, seguita da uno scambio dialogico (cfr. v. 253 μῦθον ἔειπε), di cui non possiamo identificare gli interlocutori. Poi, nella colonna ancora seguente (76C II + B), l’indovino prediceva le nozze che Polinice avrebbe contratto in Argo con la figlia di Adrasto (vv. 274 ss.) e annunciava i mali che avrebbero colpito Tebe, se l’accordo fosse stato infranto. Dagli ultimi residui di testo (vv. 291 ss.) si deduce che, appena terminato l’ultimo intervento di Tiresia, Polinice partiva in direzione di Argo, giungendo all’Istmo di Corinto.

Scena tebana con Eteocle, Polinice, Giocasta, Antigone e Creonte. Rilievo, marmo, II sec. da un sarcofago in stile attico. Roma, Villa Doria Pamphilj.

(P. Lille 76 A II + 73 I Bremer 1987a)

‹Ἰοκάστη› (?)

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

ἐπ’ ἄλγεσι μὴ χαλεπὰς ποίει μερίμνας

μηδέ μοι ἐξοπίσω

πρόφαινε ἐλπίδας βαρείας.

οὔτε γὰρ αἰὲν ὁμῶς

θεοὶ θέσαν ἀθάνατοι κατ’ αἶαν ἱρὰν

νεῖκος ἔμπεδον βροτοῖσιν

οὐδέ γα μὰν φιλότατ’, ἐπὶ δ’ ἁμέρα‹ι ἐ›ν νόον ἀνδρῶν

θεοὶ τιθεῖσι.

μαντοσύνας δὲ τεὰς ἄναξ ἑκάεργος Ἀπόλλων

μὴ πάσας τελέσσαι[1].

αἰ δέ με παίδας ἰδέσθαι ὑπ’ ἀλλάλοισι δαμέντας

μόρσιμόν ἐστιν, ἐπεκλώσαν δὲ Μοίρα[ι,

αὐτίκα μοι θανάτου τέλος{ο}στυγερο[ῖο] γέν[οιτο,

πρίν ποκα ταῦτ’ ἐσιδεῖν

ἄλγεσ‹σ›ι πολύστονα δακρυόεντa ἀ[γεῖσαν

παίδας ἐνὶ μεγάροις

θανόντας ἢ πόλιν ἁλοίσαν.

ἀλλ’ ἄγε παίδες ἐμοῖς μύθοις φίλα[ τέκνα, πίθεσθε,

τᾶιδε γὰρ ὑμὶν ἐγὼν τέλος προφα[ίνω,

τὸν μὲν ἔχοντα δόμους ναίειν πό[λιν εὐκλέα Κάδμου,

τὸν δ’ ἀπίμεν κτεάνη

καὶ χρυσὸν ἔχοντα φίλου σύμπαντα [πατρός,

κλαροπαληδὸν ὃς ἄν

πρᾶτος λάχῃ ἕκατι Μοιρᾶν[2].

τοῦτο γὰρ ἂν δοκέω

λυτήριον ὔμμι κακοῦ γένοιτο πότμο[υ,

μάντιος φραδαῖσι θείου,

εἴ γε νέον Κρονίδας γένος τε καὶ ἄστυ [σαώσει

Κάδμου ἄνακτος

ἀμβάλλων κακότατα πολὺν χρόνον[, ἃ περὶ Θήβα]ς

πέπρωται γενέ[σ]θαι.

ὣς φάτ[ο] δῖα γυνά, μύθοις ἀγ[α]νοῖς ἐνέποισα,

νείκεος ἐμ μεγάροις π[αύο]ισα παίδας,

σὺν δ’ ἅμα Τειρ[ε]σίας τ[ερασπό]λος, οἱ δὲ πίθο[ντο[3].

Giovanni Silvagni, Il duello tra Eteocle e Polinice. Olio su tela, 1820. Roma, Galleria dell’Accademia di San Luca.

[1] vv. 201-210. La colonna A II inizia col terzultimo colon di un’antistrofe, nel corso della replica di Giocasta all’indovino Tiresia: «… “Non creare ansie opprimenti (χαλεπὰς… μερίμνας costituisce un nesso formulare arcaico estraneo a Omero, attestato in Hes. Erga 178 χαλεπὰς δὲ θεοὶ δώσουσι μερίμνας; Mimn. 1, 7 ἀμφὶ κακαὶ τείρουσι μέριμναι; Sapph. 1, 25 χαλέπαν …/ἐκ μερίμναν) in aggiunta ai dolori (presenti: forse si allude al lutto per la morte di Edipo, o più in generale alla sequela di sciagure che hanno colpito la regina tebana a partire dalla morte del marito Laio) e a me non predire (πρόφαινε: il verbo ha spesso questa accezione in relazione a oracoli e indovini: cfr. Soph. Trach. 849, Hdt. VII 37, 2; cfr. R. Tosi, MCr 13-14 [1978/1979], 125-142 [126] Bremer, 137) d’ora in poi (ἐξοπίσω) gravi attese (ἐλπίς ha generalmente connotazione positiva, “speranza”, ma di per sé è una vox media, “attesa”, e può essere associata ad aggettivi con qualificazione negativa, cfr. Soph. Ajax 606 κακὰν ἐλπίδ’ ἔχων). Né, infatti, sempre (αἰὲν = ἀεί) allo stesso modo (ὁμῶς) gli dèi immortali provocano (θέσαν = ἔθεσαν, aoristo gnomico: il nesso paretimologico θεοὶ θέσαν, che tende a prospettare gli dèi come coloro che, per definizione, dispongono degli eventi e degli uomini, è tradizionale) ai mortali sulla sacra (ἱρὰν = ἱεράν: l’aggettivo è spesso riferito nell’epica a singole località, non alla terra intera) terra discordia incessante, e neppure (οὐδέ γα μὰν = οὐδέ γε μὴν) concordia (la presenza della polarità νεῖκος/φιλότης, centrale nella cosmologia di Empedocle 31 B 17,7-20; 26,5-6; 33,3-13 D.-K., induceva J. Bollack a datare il nostro brano al V secolo a.C., negando l’attribuzione a Stesicoro; ma si è opportunamente osservato che già Esiodo include Φιλότης ed Ἔρις nel catalogo delle forze cosmiche in Th. 211 ss.), ma gli dèi dispongono la mente (τιθεῖσι di v. 208 riprende θέσαν 205) degli uomini secondo gli eventi del giorno (ἁμέριον = ἡμέριον, in contrasto con αἰὲν di v. 204). Ma il sire Apollo lungisaettante (ἄναξ ἑκάεργος Ἀπόλλων è clausola formulare, cfr. Il. XV 253; XXI 461, ecc.) non porti a compimento (τελέσσαι = τελέσαι, ottativo deprecativo, non infinito) tutte le tue (τεὰς = σὰς) profezie (μαντοσύνας, cfr. Emped. 31 B 112, 10 D.-K.)».

[2] vv. 211-224. «Ma se (αἰ = εἰ) è destino, e le Moire (le dee del destino, figlie di Zeus e di Themis: Cloto, Lachesi e Atropo, secondo Hes. Th. 904-906 Μοίρας θ’, ᾗς πλείστην τιμὴν πόρε μητίετα Ζεύς,/Κλωθώ τε Λάχεσίν τε καὶ Ἄτροπον, αἵ τε διδοῦσι/θνητοῖς ἀνθρώποισιν ἔχειν ἀγαθόν τε κακόν τε) hanno filato (l’immagine è ridondante dopo μόρσιμόν, ma tradizionale), che io veda i figli uccisi l’uno dall’altro, subito a me venga il termine (il modulo del “potessi morire prima di…” compare più volte in Omero) dell’odiosa morte (θανάτου…στυγεροῖο/-ροῦ rappresenta lo smembramento di una formula omerica, cfr. Od. XII 341 στυγεροὶ θάνατοι; XXIV 414 στυγερὸν θάνατον), prima di veder mai (ποκα = ποτε) queste molto lamentevoli (e) lacrimevoli (giustapposizione asindetica con effetto patetico) cose per i dolori (ἄλγεσ‹σ›ι = ἄλγεσι), i figli morti nel (ἐνὶ = ἐν) palazzo o (con riferimento alla profezia resa da Apollo a Laio, il dilemma stirpe/città ricomparirà in Aesch. Theb. 745-749 …Ἀπόλλωνος εὖτε Λάιος/βίᾳ, τρὶς εἰπόντος ἐν/μεσομφάλοις Πυθικοῖς/χρηστηρίοις θνῄσκοντα γέν-/νας ἄτερ σῴζειν πόλιν) la città conquistata (ἁλοίσαν = ἁλοῦσαν < ἁλίσκομαι). Suvvia, figli (παίδες = παῖδες), alle mie parole date ascolto, figli (τέκνα) diletti, io a voi (ὑμὶν = ὑμῖν) propongo (προφαίνω, con intenzionale antitesi, ma con diversa valenza semantica, rispetto al πρόφαινε di v. 203) questa (τᾶιδε = τῇδε, prolettico) soluzione: l’uno abiti ‹la celebre città di Cadmo› (πό[λιν εὐκλέα Κάδμου), tenendo (ἔχοντα) la reggia, l’altro se ne vada (ἀπίμεν = ἀπιέναι) tenendo (ἔχοντα, con ricercata simmetria dell’ἔχοντα di v. 220) il bestiame (κτεάνη) e tutto quanto l’oro di suo padre, colui che per primo (πρᾶτος = πρῶτος) per volere (ἕκατι = ἕκητι) delle Moire ottenga il verdetto col getto delle sorti (κλαροπαληδὸν, avverbio non attestato altrove, formato su *κλαροπαλέω; l’aggettivo κληροπαλής è presentein H. Herm. 129)». La relativaὃς…Μοιρᾶν è agganciata al secondo corno del dilemma essendo stato prefissato che colui la cui sorte fosse stata estratta per prima avrebbe preso la parte maggiore.

[3] vv. 225-234. «E ciò io credo (con δοκέω parentetico) che sarebbe per voi (ὔμμι = ὑμῖν) un riscatto (λυτήριον: è la prima attestazione del termine; cfr. Soph. Elect. 1489-1490 κακῶν/…λυτήριον) dal maligno destino, secondo i suggerimenti del vate divino, se il Cronide ‹proteggerà› (σαώσει) la nuova progenie (Eteocle e Polinice, opposti a Laio e a Edipo; cfr. Pind. Paean. IX, 20; Soph. OT 1) e la città di Cadmo sovrano, allontanando (ἀμβάλλων = ἀναβάλλων) per molto tempo la sventura, che è destinata (πέπρωται, forma di perfetto dalla radice * πορ-, donde l’aor. πορεῖν) ad abbattersi su Tebe”. Così disse (ὣς φάτο = ἔφατο, modulo frequentissimo nell’epica per chiudere la “cornice” di un discorso diretto) la donna divina (δῖα γυνά) parlando (ἐνέποισα = ἐνέπουσα) con miti parole, ricomponendo (π[αύο]ισα = παύουσα) la lite dei figli nel palazzo, e insieme (ἅμα) con Tiresia interprete di prodigi (τ[ερασπό]λος, integrazione su analogia con τερασκόπος, “profeta”, e ὀνειροπόλος, “interprete di sogni”), e quelli obbedirono».


Sette contro Tebe. Rilievo, marmo pario, II sec. da un sarcofago romano. Corinto, Museo Archeologico.

Il passo presenta un ritratto tutt’altro che convenzionale di una donna impegnata a prendere una decisione cruciale sotto la pressione di un forte e improvviso impatto emotivo prodotto in lei da una dolorosa profezia: Tiresia ha profetizzato che la contesa fra Eteocle e Polinice potrà risolversi solo con la mutua uccisione dei fratelli o con la distruzione di Tebe (cfr. vv. 214-217: alternativa – marcata dalla disgiuntiva ἢ – fra morte dei figli e città distrutta). Di fronte a questo dilemma soffocante la regina non si abbandona a uno sfogo patetico (anche il modulo, impiegato ai vv. 213 ss., del «potessi morire prima di…[se non…]» – cfr. p. es. Il. XXIV 244-246; Od. XVI 106-111; Mimn. F 1, 2 ss.; Theogn. 342-343 – non esprime una reale volontà di suicidio), bensì elabora una personale risposta intesa ad affrontare il problema sia sul piano ideologico che su quello operativo.

Quanto al primo, ella nega che esista alcunché di immutabile, tanto meno odio e amore, «sulla sacra terra»: tutto cambia e gli dèi adattano la mente degli uomini agli accadimenti che di giorno in giorno si verificano (il motivo compare già in Od. XVIII 136-137: «perché così è la mente degli uomini sopra la terra, /come l’ispira di giorno in giorno il padre dei numi e degli uomini»; e in Archil. F 131-132 West2: «Glauco, figlio di Leptine, l’indole degli uomini/ha la patina dei giorni che via via ci porta Zeus,/e all’azione che li impegna uniformano l’idea»). È una considerazione di sapore esistenziale che tuttavia – come ha opportunamente osservato A. Burnett, CA 7 (1988), 107-154 (114) – veniva ad assumere un’importante valenza politica in quanto rispondeva alle esigenze di una ristretta comunità oligarchica: significativa a questo proposito la possibilità di un confronto sia con una delle norme che si tramandano codificate da uno dei grandi “legislatori” arcaici, Zaleuco di Locri, secondo cui (cfr. Diod. XII 20, 3) «non bisogna avere nessuno dei concittadini come nemico inconciliabile, ma considerare l’inimicizia come se in futuro potrà di nuovo volgersi in riconciliazione e amicizia», sia con un passo dell’Aiace di Sofocle (vv. 678-683), dove il protagonista dichiara, sia pure con ironia, di aver preso consapevolezza del fatto che «i nemici odiati/ci potranno anche amare, più tardi,/e gli amici a cui farò del bene, non saranno amici per sempre; l’amicizia non è un porto sicuro per gli uomini».

Era un messaggio che, trasposto nella relazione fra Stesicoro e il pubblico delle città magnogreche presso il quale i suoi canti venivano eseguiti, poteva cooperare al tentativo, a cui anche le feste religiose e gli agoni poetici contribuivano, di frenare i contrasti tra le fazioni in lotta, secondo un ruolo del poeta e più in generale del “saggio” che le fonti antiche dichiarano esercitato proprio da Stesicoro a proposito di tensioni interne alla comunità di Locri Epizefiri.

Non meno significativa è la dimensione operativa della risposta elaborata dalla regina. Rispetto ai due schemi di sorteggio tradizionalmente usati nella Grecia arcaica – sorteggio attraverso cui si opera la divisione in lotti o porzioni uguali, ad esempio in occasione di un’eredità (cfr. Od. XIV 209-210) o della fondazione di una colonia, e sorteggio in cui si sceglie qualcuno all’interno di un gruppo – Giocasta cerca infatti di contaminare i due procedimenti, mirando simultaneamente a dividere i beni parteni fra beni immobili e beni mobili (oro e armenti) e a scegliere chi fra i due dovrà tenere i primi insieme con il regno e chi invece dovrà prendersi i secondi andando in esilio.

Si tratta di un’ingegnosa soluzione di compromesso, fondato su una personale «opinione» (δοκέω v. 225) che cerca di sfruttare le pieghe dei responsi, ma che sembra tuttavia condannata al fallimento. La simultanea salvezza della stirpe e della città può infatti realizzarsi solo temporaneamente: la stessa regina invoca da Zeus non l’eliminazione ma solo un «rinvio» (ἀμβάλλων v. 230) della rovina incombente. E nel contempo una tale spartizione non avrebbe fatto che esacerbare il figlio esiliato e insieme indebolire il regno di colui che restava (Eteocle): «regnare», nel mondo della monarchia eroica, comportava non solo autorità su uomini e cose, ma anche il disporre di armenti e di quel metallo che «voleva dire strumenti e armi», nonché disponibilità di κειμήλια (“tesori”), in quanto simboli di ricchezza e di prestigio (cfr. Finley, 70 s.).

Sul piano espressivo, dunque, è possibile cogliere nell’arte di Stesicoro una puntigliosa aderenza a moduli già noti dall’epica, ma non è possibile accertare in che misura essi derivino direttamente da quella tradizione o da una ancora più antica. D’altra parte, una tale impressione è verificabile solo nell’ambito del discorso diretto di Giocasta, mentre le sezioni narrative (come, p. es., quella della partenza e del viaggio di Polinice e dei suoi compagni alla volta di Argo) dovevano procedere con un ritmo molto veloce e una selezione estremamente sintetica dei dettagli. Si può, ancora, osservare, anche all’interno della replica di «Giocasta», che la dizione tradizionale, con un procedimento che si potrebbe definire “manieristico”, viene caricata e appesantita dalle Stesichori… graves Camenae di oraziana memoria. Si riscontra, infatti, la costante ricerca di un’enfasi espressiva che va spesso al di là della misura epica, determinata da fenomeni peculiari, come la ripetizione di nozioni già espresse, l’accumulo di sinonimi, la contrapposizione polare di concetti antitetici.

La lettura del testo evidenzia, insomma, uno stile che rende ora meglio comprensibile il giudizio di Quintiliano (X 1, 62), che se elogiava in Stesicoro la capacità di attribuire ai suoi personaggi l’appropriato rilievo sia nell’agire sia nel parlare (reddit enim personis in agendo simul loquendoque debitam dignitatem) ne sottolineava, d’altra parte, l’effusa ridondanza (sed redundat atque effunditur).

La Gerioneide (F S11; S13, 2-6; S15, col. II)

Non meno interessanti del brano della Tebaide appaiono i frammenti provenienti dalla Gerioneide, che presenta la rievocazione di una di quelle saghe legate all’esplorazione e alla colonizzazione di nuove terre occidentali. Generalmente, Gerione è rappresentato come un mostro gigante dotato di tre teste e tre busti (ma due gambe), che possedeva una mandria di buoi, custodita dal pastore Eurizione e dal cane a due teste Ortro. Nei suoi versi Stesicoro narrava della cattura da parte di Eracle, come una delle sue proverbiali fatiche, delle vacche di Gerione nell’isola di Erizia, situata nell’estremo Occidente presso Cadice, di fronte alla foce del fiume Tartesso, oggi Guadalquivir (cfr. Strab. III 2, 11).

Sia pure a costo di qualche lacuna, oggi, grazie a un fortunato ritrovamento papiraceo, possiamo leggere almeno tre parti: il dialogo fra qualcuno (probabilmente un guardiano delle mandrie, in genere chiamato Eurizione nella tradizione mitografica) che cerca di dissuadere il gigante dal battersi con Eracle e Gerione stesso che, sul punto di affrontare lo scontro, ne prevede l’esito mortale ma rifiuta di dar prova di viltà (F S11); la supplica della madre Calliroe a Gerione perché rinunci allo scontro (F S13, 2-6); infine la rappresentazione della morte patita dallo sventurato mandriano (F S15, col. II).

Pittori del Gruppo di Priceton. Il gigante Gerione. Pittura vascolare su anfora a collo con figure nere, 540-530 a.C. ca. dall’Attica. New York, Metropolitan Museum of Art.

S11

χηρσὶν δ[     τὸν

     δ᾽ ἀπαμ[ειβόμενος

ποτέφα̣ [κρατερὸς Χρυσάορος ἀ-

     θανάτοιο̣ [γόνος καὶ Καλλιρόας[1]·

«μή μοι θά[νατον προφέρων κρυόεν-

     τα, δεδίσκ[ε’ ἀγάνορα θυμόν,

μηδεμελ[

     Αἰ μὲν γὰ[ρ γένος ἀθάνατος πέλο-

μαι καὶ ἀγή̣[ραος ὥστε βίου πεδέχειν

     ἐν Ὀλύμπ[ῳ,

κρέσσον[ ἐ-

     λέγχεα δ̣[

καὶ τ[

κεραϊ[ζομένας ἐπιδῆν βόας ἁ-

     μετέρω[ν ἀπόνοσφιν ἐπαύλων

Αἰ δ᾽ ὦ φί̣[λε χρὴ στυγερόν μ᾽ ἐπὶ γῆ-

     ρας [ἱκ]έ̣σ̣θαι̣,

ζώ[ει]ν τ᾽ ἐν̣ ἐ̣[φαμερίοις ἀπάνευ-

     θε θ̣[ε]ῶ̣ν μακάρω[ν,

νῦν μοι πο̣λ̣ὺ̣ κ̣ά̣[λλιόν ἐστι παθῆν

     ὅ τι μόρσιμ[ον

καὶ ὀνείδε[     α

καὶ παντὶ γέ[νει                                     ἐξ-

     ὀπίσω Χρυς[άο]ρ̣ο[ς υ]ἱ̣ό̣ν̣·

μ]ὴ τοῦτο φ[ί]λ̣ον μακά̣[ρε]σσι θε[ο]ῖ-

     σι γ]ένοιτο

….].[.].κ̣ε[..].[.] περὶ βουσὶν ἐμαῖς

     ……………]

     ]κ̣λεος̣.[[2]

S13

     ……] ἐ̣γ̣ὼν̣ [μελέ]α καὶ ἀλασ-

     τοτόκος κ]αὶ ἄλ̣[ας]τ̣α̣ π̣α̣θοῖσα

…… Γ]αρυόνα γωνάζομα[ι,

     αἴ ποκ᾽ ἐμ]όν τιν μαζ[ὸν] ἐ̣[πέσχον[3]

S15

                   ]ων̣ στυγε[ρ]οῦ

     θανάτοι]ο ..[ ]

κ]ε̣φ[αλ]ᾷ πέρι̣ [ ] ἔ̣χων, πεφορυ-

     γ]μένος αἵματ[ι …..]..[..]ι̣ τε χολᾷ,

ὀλεσάνορος αἰολοδε[ίρ]ου

ὀδύναισιν Ὕδρας· σιγᾷ δ᾽ ὅ γ᾽ ἐπι-

     κλοπάδαν [ἐ]νέρεισε μετώπῳ·

διὰ δ᾽ ἔσχισε σάρκα [καὶ] ὀ̣[στ]έ̣α δαί-

     μονος αἴσᾳ·

διὰ δ᾽ ἀντικρὺ σχέθεν οἰ[σ]τ̣ὸς ἐπ᾽ ἀ-

     κροτάταν κορυφάν,

ἐμίαινε δ᾽ ἄρ᾽ αἵματι πο̣ρ̣φ̣[υρέῳ

     θώρακά τε καὶ βροτό̣ε̣ντ̣[α μέλεα·

ἀπέκλινε δ᾽ ἄρ᾽ αὐχένα Γ̣α̣ρ̣[υόνας

     ἐπικάρσιον, ὡς ὅκα μ[ά]κ̣ω̣[ν

ἅτε καταισχύνοισ᾽ ἁπ̣α̣λ̣ὸ̣ν̣ [δέμας     

αἶψ’ ἀπὸ φύλλα βαλοῖσα̣ ν̣[[4]

Pittore delle Iscrizioni. Eracle combatte contro Gerione e gli ruba il bestiame. Pittura vascolare da un’anfora calcidica a figure nere, c. 540 a.C. dall’Italia meridionale. Paris, Cabinet des Médailles.


[1] vv. 1-4. «… con le mani ‹…A lui› rispondendo diceva (ποτέφα = προσέφη: calco dell’omerico τὸν δ᾽ ἀπαμειβόμενος προσέφη) ‹il forte figlio di Crisaore› immortale ‹e di Calliroe› (la genealogia è quella già fissata da Hes. Th. 287 ss.; 979-983;Crisaore, “Spada d’oro” era balzato fuori dal capo di Medusa insieme con il cavallo Pegaso, quando Perseo le aveva mozzato latesta)».

[2] vv. 6-29: «“No, ‹preannunciando› a me una morte ‹agghiacciante› (κρυόεν-]|-τα), non cercare di terrorizzarmi ‹l’animo fiero›, né… Se (αἰ = εἰ), infatti, ‹fossi immune da morte› e da vecchiezza ‹così da vivere› sull’Olimpo, ‹sarebbe› meglio ‹…› e i biasimi… ‹osservare (ἐπιδῆν = ἐπιδεῖν) le mie vacche› razziate ‹via› dalle nostre ‹stalle›. Ma se, o mio caro, ‹mi tocca› arrivare alla vecchiezza e vivere tra ‹gli effimeri› (l’uso di ἐφήμεροι / ἐφημέριοι per indicare gli uomini – in quanto sottoposti agli influssi della sorte e dei loro stessi volubili pensieri e tali quindi da mutare condizione ogni giorno – non è omerico ma è attestato fra i lirici in Semon. F 1, 3 W2; Pind. Pyth. VIII 95; F 157, 1; 182, 1) lungi dagli dèi beati, ora per me è molto più nobile ‹patire› (παθῆν = παθεῖν) ciò che è mio destino patire e che il figlio di Crisaore ‹non attacchi› le infamie ‹ai suoi nati› e a tutta la stirpe futura (ἐξοπίσω, cfr. Sol. F 13, 32 W2): questo non sia caro agli dèi beati, che ‹…› per le mie vacche ‹…› la fama… (l’accento batte sul fatto che il κλέος è qualcosa di strettamente legato alla condizione mortale, che non conosce altra risorsa per affermare il proprio valore)».

[3] vv. 2-5. «… io, ‹misera› e che ho generato un figlio sventurato e sventure indimenticabili ho sofferto (παθοῖσα = παθοῦσα),… supplico (γωνάζομαι = γουνάζομαι, propriamente “stringo le tue ginocchia”, cfr. Od. XI 66 νῦν δέ σε τῶν ὄπιθεν γουνάζομαι) ‹te›, o Gerione, ‹se mai› (αἴ ποκ’ = εἰ ποτ’) ti (τιν = σοι) ‹porsi› il mio seno».

[4] vv. 1-17. «… ‹la freccia› che aveva intorno alla punta ‹il termine› della morte odiosa, intrisa del sangue e della bile ‹…› dell’Idra (l’Idra di Lerna, nell’Argolide, nata da Tifone e da Echidna, un serpente mostruoso dalle molte teste che ricrescevano ogni volta che fossero state mozzate: Eracle la uccise nel corso della seconda delle sue “fatiche” con l’aiuto del nipote Iolao, che diede fuoco a una vicina foresta, procurando all’eroe rami infuocati con cui l’eroe cicatrizzava la pelle dell’Idra, là dove ne aveva appena tagliato una testa) omicida dal collo screziato (altrove in età arcaica e classica αἰολοδείρος compare solo in Ibyc. PMGF 317a, 2, in relazione a delle anatre; l’accostamento con ὀλεσάνορος = ὀλεσήνορος crea un effetto di violento chiaroscuro) ‹…› per gli spasimi di dolore. In silenzio, furtivamente (ἐπικλοπάδαν, sonante avverbio formato su ἐπίκλοπος), essa si conficcò nella fronte e lacerò la carne ‹e› le ossa per volere di un nume (cfr. Od. XI 61 δαίμονος αἶσα κακὴ). Da parte a parte la freccia raggiunse (σχέθεν = ἔσχεν) l’apice del capo e macchiava di sangue purpureo (cfr. da un lato Il. IV 146 μιάνθην αἵματι μηροὶ; XVI 795796 μιάνθησαν δὲ ἔθειραι / αἵματι; dall’altro Il. XVII 360-361 αἵματι δὲ χθὼν / δεύετο πορφυρέῳ: Stesicoro fonde i due nessi omericicreando un’espressione più enfatica) la corazza e ‹le membra› (già) insanguinate (Stesicoro trasferisce alle membra un aggettivo che Omero riferiva alle “spoglie”, le armi tolte al nemico ucciso), e Gerione piegò il collo di lato,  come quando (ὅκα = ὅτε) un papavero, sfigurando (καταισχύνοισα = καταισχύνουσα: ἅτε conferisce al participio un tenue valore causale) la delicata ‹figura›, d’un tratto lasciando cadere (ἀπὸ …βαλοῖσα = ἀποβαλοῦσα) i petali…».


Ercole e Gerione. Rilievo, marmo, III sec. d.C. ca. Toulouse, Musée Saint-Raymond.

Soprattutto nel primo brano si trovano, come nella Tebaide, scansioni elaborate e simmetriche: il discorso diretto viene introdotto, omericamente, con l’espressione di dire e il nesso nome/epiteto del parlante; l’invito iniziale («non indurmi a temere la morte») viene allargato con una motivazione sviluppata attraverso due ipotesi in contrasto avviate rispettivamente da αἰ μὲν (v. 8) e αἰ δ’ (v. 16) in principio di colon metrico; infine balza agli occhi il parallelismo fra ἐλέγχεα (vv. 11-12) e ὀνείδε[α (v. 22) e tra κρέσσον (v. 11) e κά[λλιον (v. 20).

Di qui una “liricizzazione” che espande in calme geometrie un modello epico più energico ed essenziale che si può ravvisare nel discorso rivolto da Sarpedonte a Glauco in Il. XII 322-328: «Amico mio, se sfuggendo a questa battaglia potessimo vivere eterni senza vecchiaia né morte, certo non mi batterei in prima fila né spingerei te alla lotta gloriosa; ma poiché a migliaia incombono i destini di morte, e nessun uomo mortale può sfuggirli o evitarli, andiamo, dunque, daremo gloria ad altri o altri a noi la daranno» (tr. M. G. Ciani).

Anche nel secondo brano, relativo al dialogo fra madre e figlio, è riconoscibile la memoria di un modello epico illustre, ossia la supplica di Ecuba al figlio Ettore perché non affronti Achille in campo aperto (Il. XXII 82-85): «Ettore, figlio mio, rispetta questo seno; e abbi pietà di me che te lo offrivo un tempo per calmare il tuo pianto; ricordalo, figlio mio, e respingi il nemico restando dentro le mura, al riparo, non affrontarlo in campo» (tr. M. G. Ciani); d’altra parte, è presente anche la propensione stesicorea a variare l’epos con l’epos: il raffinato composto ἀλαστοτόκος («che ha generato ἄλαστα, cose indimenticabili», da ἀ- privativo e tema verbale di λανθάνω) non compare nella supplica di Ecuba a Ettore ma ha dietro di sé un diverso aggettivo epico, δυσαριστοτόκεια «che ha generato in modo sventurato [δυσ-] un figlio eccelso»), usato anch’esso per l’apostrofe di una madre a un figlio sventurato (Teti ad Achille in Il. XVIII 54).

Nel terzo brano, infine, il gesto di reclinare il collo e il paragone con il papavero richiamano la descrizione omerica della morte di Gorgizione figlio di Priamo, colpito per errore da una freccia scagliata da Teucro in Il. VIII 306-308 – «Come un papavero, in un orto, piega la corolla di lato sotto il peso dei semi e delle piogge primaverili, così si piegò la testa dell’eroe, sotto il peso dell’elmo» (tr. M. G. Ciani) –, e più genericamente tradizionale si più considerare l’osservazione analitica del percorso compiuto dal dardo, mentre nuovo sembra il tentativo di suggerire preliminarmente l’atmosfera della scena attraverso la giustapposizione iniziale degli avverbi σιγᾷ («in silenzio», v.6) e ἐπικλοπάδαν («furtivamente», vv. 6-7). Più in generale, appare innovativo nella Gerioneide soprattutto il dato per cui Stesicoro attribuisce a Gerione, un essere deforme che la tradizione letteraria e iconografica dipinge in genere come dotato di tre teste e tre busti (ma due gambe), lo statuto di eroe valoroso provvisto di un’acuta sensibilità umana, e dunque rifiuta implicitamente la concezione tradizionale per cui la bellezza fisica era componente essenziale dell’eroismo.

Pittore Eutimide. Elena rapita da Teseo (particolare). Anfora attica a figure rosse, V sec. a.C. ca., da Vulci. München, Staatliche Antikensammlung.

Le παλινῳδὶαι per Elena

L’atteggiamento assai libero di Stesicoro nei confronti della mitologia e la sua disponibilità a conformare le singole versioni di una storia al gusto dei diversi contesti di pubblico a cui erano destinati i suoi carmi sono eloquentemente documentati dai suoi interventi sulla figura di Elena (PMGF 192-193). Dell’eroina il poeta doveva aver narrato una prima volta la vicenda nella forma tradizionale (omerica), che presentava la donna come un’adultera e traditrice della patria Sparta. In un secondo momento, però, sullo stesso mito Stesicoro avrebbe composto due παλινῳδὶαι («ritrattazioni»), probabilmente perché sollecitato da un uditorio magno-greco insoddisfatto della memoria dell’eroina dorica. Secondo una tradizione aneddotica, il poeta avrebbe cercato per questa via di recuperare la vista perduta, dopo che l’eroina divinizzata, incollerita con lui, lo aveva reso cieco. È plausibile che questa leggenda si sia sviluppata a partire da qualche dichiarazione di Stesicoro stesso che, per giustificare il mutamento della versione e ammettere che «non era vero» il suo racconto precedente, aveva forse affermato di essere stato metaforicamente «accecato», perché non aveva saputo «vedere» la verità (così Cameleonte e Conone, FGrHist. 26 F 1, 18; e Ireneo, Haer. I 23, 2).

La prima delle due palinodie – ammesso che non si trattasse di una sola, articolata in due fasi –, che iniziava con δεῦρ’ αὖτε θεὰ φιλόμολπε («Orsù, di nuovo, o dea amica del canto», PMGF 193), rigettò la precedente presentazione della storia, condotta sulla falsariga di Omero, proponendo la versione per cui Elena partì da Sparta con Paride, ma non sarebbe mai andata a Troia: durante una sosta in Egitto, ella sarebbe stata sostituita da un εἴδωλον, un «fantasma» della bellissima donna, creato da Hera, che, desiderosa di scatenare la guerra fra Achei e Troiani, voleva anche vendicarsi di Paride, impedendogli di godere del premio promessogli da Afrodite. Perciò, il conflitto si sarebbe risolto per questa falsa immagine della regina spartana; questa, infatti, sarebbe stata ritrovata da Menelao al ritorno dalla guerra: si tratta di una versione del mito attestata per la prima volta in Esiodo, F 358 Merkelbach-West, e che si ritrova in seguito anche nell’Elena di Euripide.

La seconda palinodia, che iniziava con χρυσόπτερε παρθένε («O vergine dalle ali dorate», PMGF 193), doveva proporre un’ulteriore versione ancora più assolutoria, secondo la quale Elena non avrebbe mai messo piede sulla nave di Paride: non solo l’eroina non sarebbe mai giunta a Troia, ma non avrebbe neppure abbandonato Sparta. A questa seconda palinodia appartiene il tristico, costituito da due enopli (vv. 1 e 3) e da una pentapodia trocaica catalettica (v. 2), il cui principale testimone è Platone (Plat. Phaedr. 243a-b = PMGF 192):

οὐκ ἔστ’ ἔτυμος λόγος οὗτος,

οὐδ’ ἔβας ἐν νηυσὶν ἐυσσέλμοις

οὐδ’ ἵκεο πέργαμα Τροίας.

Non è veritiera questa storia:

tu non salisti sulla nave dai bei banchi,

né giungesti alla rocca di Troia.

Oltre al prologo dell’Elena e al finale dell’Ecuba euripidee, la retractatio stesicorea influenzò l’Encomio di Elena di Gorgia e quello di Isocrate, e a Roma le composizioni di Orazio (Hor. Carm. I 16, 34; Epod. 17, 37-45) e di Tibullo (Tib. I 5, 1-18).

Pittore di Amasis. Ricongiungimento fra Elena e Menelao. Pittura vascolare su anfora attica (lato B) a figure nere, 550 a.C. ca. München, Staatliche Antikensammlungen.

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Il Preludio del cerilo (PMGF 26)

A giudicare dal metro – l’esametro dattilico – questo frammento, che è forse il più noto di Alcmane, doveva provenire da un προοίμιον citarodico, ovvero da un assolo eseguito dal χοροδιδάσκαλος, che fungeva da introduzione al partenio. Rivolgendosi al coro delle fanciulle, l’esecutore maschile (il poeta stesso?) lamenta la debolezza fisica che gli impedisce di unirsi alle fanciulle in danza, rimpiangendo di non possedere più lo stesso vigore di un tempo e vagheggia di trasformarsi nel «sacro uccello colore di mare», il cerilo, che volteggia sul fiore dell’onda insieme con le femmine, le alcioni. Questa la lettura più credibile del testo di Alcmane, sulla cui interpretazione ha gravato la fantasiosa notizia del paradossografo e teratologo ellenistico Antigono di Caristo (Libro delle meraviglie, 23 ss.), il testimone principale, che cita questi versi per suffragare una tradizione secondo la quale il cerilo, l’alcione maschio, quando per la vecchiaia perde le forze e non riesce più a volare, viene preso sulle ali e trasportato a volo dalle femmine. Interpretazione piuttosto bislacca, in quanto qui il cerilo è visto in atto di volare, non di essere trasportato (D. Page annota giustamente: «ἅμ᾽ ἀλκυόνεσσι ποτῆται, non φορεῖται hic cerylus»). Non si tratta quindi, da parte del poeta, del desiderio di essere trasportato alla danza dalle ragazze del coro (apostrofate al v. 1), quanto piuttosto dello struggimento per la propria menomazione fisica e del rimpianto per la giovinezza perduta.

Οὔ μ᾽ ἔτι, παρσενικαὶ μελιγάρυες ἱαρόφωνοι,

γυῖα φέρην δύναται· βάλε δὴ βάλε κηρύλος εἴην,

ὅς τ᾽ ἐπὶ κύματος ἄνθος ἅμ᾽ ἀλκυόνεσσι ποτήται

νηδεὲς ἦτορ ἔχων, ἁλιπόρφυρος ἱαρὸς ὄρνις[1].


[1] vv. 1-4 «Non più (con οὐ in rilievo in principio di verso e forte stacco rispetto a φέρην δύναται del v. 2), vergini (παρσενικαὶ = παρθένοι) dal canto soave (μελιγάρυες = μελιγήρυες, propriamente “dalla voce di miele”; cfr. Od. XII 187, dove l’aggettivo è riferito al canto delle Sirene) e dal canto sacro (ἱαρόφωνοι = ἱερόφωνοι), le membra hanno forza di portarmi (φέρην = φέρειν; cfr. Sapph. F 58, 15 V γόνα δ’ ο]ὐ φέροισι); fossi, oh fossi (βάλε = lat. utinam, è una forma di imperativo, forse di βάλλω, cristallizzatasi in congiunzione desiderativa) un cerilo (κηρύλος, maschio dell’alcione secondo Antigono, mentre due scoli a Teocrito sostengono che l’alcione prende il nome di “cerilo” nella vecchiaia: cfr. Calame, 473-475), che (ὅς τε: τε è il cosiddetto “τε epico” e ha valore generalizzante, indicando una condizione o attività abituale) sul fior dell’onda (metafora che indica la schiuma delle onde, cfr. Callim. F 260, 57 Pf.) vola (ποτήται = ποτᾶται, πέτεται) insieme con le alcioni con cuore intrepido (νηδεὲς dal prefisso negativo νή + δέος, hapax; cfr. Aristoph. Av. 1376; è correzione di J.F. Boissonade per νηλεές, “spietato”; cfr. Il. XIX 229; IX 497 –, accolto da alcuni editori tra cui Calame, o ἀδεές, tramandati rispettivamente da Antigono e da Fozio), sacro (ἱαρὸς = ἱερὸς, cfr. Riano F 73, 3 P probabilmente in relazione alla leggenda – attestata a partire da Simonid. F 508 – delle “giornate alcionidi”, cioè della quiete marina che si avrebbe al tempo del solstizio d’inverno per consentire all’alcione di nidificare; peraltro, ἱαρὸς è correzione di A. Hecker, mentre la tradizione – Antigono, Fozio, Ateneo – riporta concordemente εἴαρος, e questa lezione ha trovato consensi anche col richiamo a Sapph. F 136 V) uccello dal cangiante colore del mare (ἁλιπόρφυρος, < ἅλς + πορφύρω; cfr. Od. VI 53; XIII 108; Anacr. PMG 447)».


Elihu Vedder, Le Pleiadi. Olio su tela, 1885. New York, Metropolitan Museum of Art.

Ricordava Gennaro Perrotta che «quando un Greco diceva “vorrei essere un uccello”, la frase aveva un senso ben diverso da quello che ha per noi: voleva dire che era al colmo dell’infelicità e voleva divenire un essere irragionevole, per non soffrire»: si tratta in effetti di un tópos che ricorre in Anacreonte (PMG 378) e in vari luoghi di Euripide (Hipp. 732 ss.; 1292-1293; Med. 1297; HF 1157-1158; vd. Di Benedetto 1971, 263), ma in Alcmane il riferimento al cerilo mostra un’evidente connotazione positiva, come figura di un desiderio sia pure irrealizzabile, e sembra piuttosto comparabile – per quanto riguarda il nesso fra l’assimilazione a un animale alato e la liberazione dalla vecchiaia – con l’aspirazione, espressa da Callimaco, nel prologo degli Aitia (F 1, 31-36 Pfeiffer), a essere come una cicala:

θηρὶ μὲν οὐατόεντι πανείκελον ὀγκήσαιτο

ἄλλος, ἐγ]ὼ δ’ εἴην οὑλ[α]χύς, ὁ πτερόεις,

ἆ πάντως, ἵνα γῆρας ἵνα δρόσον ἣν μὲν ἀείδω

πρώκιον ἐκ δίης ἠέρος εἶδαρ ἔδων,

αὖθι τ δ ’ ἐκδύοιμι, τό μοι βάρος

ὅσσον ἔπεστι τριγλώχιν ὀλοῷ νῆσος ἐπ’ Ἐγκελάδῳ.

Nomos, Metaponto c. 500 a.C. AR 8,05 g. Recto: META(ΠOΝΤΙΟΝ), una spiga di grano con cavalletta/cicala.

Altri ragli simile in tutto alla bestia orecchiuta, ma io

sia il minuscolo alato animaletto – ah, sì! Davvero! –

perché la vecchiaia, perché la rugiada – cibandomi di

questo cibo distillato dall’etere divino io canti ma per

contro mi spogli di quella che addosso mi pesa

quanto l’isola a tre punte pesava su Encelado sciagurato.

Dibattuta l’identificazione dell’io: il disegno metrico (esametri dattilici) e la testimonianza di Antigono («[Alcmane] dice così essendo debole a causa della vecchiaia e non potendo partecipare ai cori né alla danza delle fanciulle») ha indotto a più riprese a ricondurre il brano a un προοίμιον, a un preludio citarodico per un partenio (destinato a essere eseguito subito dopo), e forse non è un caso che troviamo un’allocuzione a un coro di giovani coreute da parte del poeta alla fine (vv. 156 ss.) della sezione delia dell’inno omerico Ad Apollo (che in realtà era propriamente un προοίμιον, non diversamente da tutti i più antichi e più estesi inni detti “omerici”). Assai meno verosimile, in quanto priva di riscontri, parrebbe invece l’ipotesi secondo cui l’apostrofe era diretta alle coreute da un corego o da un χοροδιδάσκαλος diverso dal poeta (è semmai il coro a potersi eventualmente rivolgere al suo corego). «Alcmane guida i virginei cori: / “Voglio con voi, fanciulle, volare, volare a la danza, / come il cèrilo vola tratto da le alcioni: / vola con le alcioni tra l’onde schiumanti in tempesta, / cèrilo purpureo nunzio di primavera”»: traduzione “bella e fedele”, il Cèrilo (vv. 12-16), tratto dalle carducciane Odi barbare, costituisce la più famosa tra le riprese di questi celebri versi. Eppure, anche nell’antichità questo brano alcmaniano doveva essere famoso, come mostrano tra gli altri i riecheggiamenti in Saffo (F 58, 11-16 Voigt), negli Uccelli di Aristofane (vv. 250-251) e in Apollonio Rodio (IV 363).

Herbert James Draper, Halcyone. Olio su tela, 1915

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Un’ἀρετή a misura d’uomo (Simon. F 542 PMG)

Se è difficile diventare compiutamente «valenti» dal momento che la realtà esterna può costringere un individuo ad agire contro il suo volere, un criterio di giudizio a “misura d’uomo” potrà pur sempre far riferimento ai realistici margini d’azione dell’individuo, e il poeta – come si dice nell’encomio a Scopas (F 542 PMG) – cesserà di farsi cantore della virtù assoluta (perfetta valentia dell’uomo «quadrato», cioè simmetricamente costruito come i κοῦροι delle statue coeve) e loderà invece chi non commetta volontariamente azioni riprovevoli. Questo componimento è riportato da Platone nel Protagora (339a-347a), in un passo in cui si consuma una disputa fra l’omonimo filosofo che dà il nome al dialogo e Socrate a proposito della virtù. I due interlocutori, nella finzione letteraria, sottopongono il carme simonideo a un lungo e lucido esame. La testimonianza platonica è importante e interessante per due ragioni: innanzitutto, perché illumina del livello raggiunto dall’esegesi letteraria nell’ambito dell’Accademia; in seconda analisi, per il fatto che rappresenti, proprio dal punto di vista critico, l’archetipo delle animose dispute fra gli studiosi cui è stato esposto il brano fino a oggi.

Policleto, Diadumenos. Statua, Copia in marmo di età romana dall’originale in bronzo del V secolo a.C. Atene, Museo Archeologico Nazionale

ἄνδρ’ ἀγαθὸν μὲν ἀλαθέως γενέσθαι

χαλεπὸν χερσίν τε καὶ ποσὶ καὶ νόωι

τετράγωνον ἄνευ ψόγου τετυγμένον·

[

[

[

[

[

[

[

οὐδέ μοι ἐμμελέως τὸ Πιττάκειον

νέμεται, καίτοι σοφοῦ παρὰ φωτὸς εἰ-

ρημένον· χαλεπὸν φάτ’ ἐσθλὸν ἔμμεναι.

θεὸς ἂν μόνος τοῦτ’ ἔχοι γέρας, ἄνδρα δ’ οὐκ

ἔστι μὴ οὐ κακὸν ἔμμεναι,

ὃν ἀμήχανος συμφορὰ καθέληι·

πράξας γὰρ εὖ πᾶς ἀνὴρ ἀγαθός,

κακὸς δ’ εἰ κακῶς [

[ἐπὶ πλεῖστον δὲ καὶ ἄριστοί εἰσιν

[οὓς ἂν οἱ θεοὶ φιλῶσιν.]

τοὔνεκεν οὔ ποτ’ ἐγὼ τὸ μὴ γενέσθαι

δυνατὸν διζήμενος κενεὰν ἐς ἄ-

πρακτον ἐλπίδα μοῖραν αἰῶνος βαλέω,

πανάμωμον ἄνθρωπον, εὐρυεδέος ὅσοι

καρπὸν αἰνύμεθα χθονός·

ἐπὶ δ᾽ὑμὶν εὑρὼν ἀπαγγελέω.

πάντας δ’ ἐπαίνημι καὶ φιλέω,

ἑκὼν ὅστις ἔρδηι

μηδὲν αἰσχρόν· ἀνάγκαι

δ’ οὐδὲ θεοὶ μάχονται.

[

[

[οὐκ εἰμὶ φιλόψογος, ἐπεὶ ἔμοιγε ἐξαρκεῖ

ὃς ἂν μὴ κακὸς ἦι] μηδ’ ἄγαν ἀπάλαμνος εἰ-

δώς γ’ ὀνησίπολιν δίκαν,

ὑγιὴς ἀνήρ· οὐ μὴν† ἐγὼ

μωμήσομαι· τῶν γὰρ ἠλιθίων

ἀπείρων γενέθλα.

πάντα τοι καλά, τοῖσίν τ’ αἰσχρὰ μὴ μέμεικται.

È veramente difficile diventare un uomo

valente nelle mani, nei piedi e nella mente,

quadrato, plasmato senza macchia.

[

[

[

[

[

[

[

E nemmeno, a mio avviso, risulta intonato quel

detto di Pittaco, benché si stato pronunciato da

uomo saggio: “È difficile – diceva – essere valente!”.

Soltanto un dio potrebbe avere questo privilegio,

non è possibile che non sia ignobile un uomo

che disgrazie irreparabili abbiano colto:

se ha successo, infatti, ogni uomo è buono,

ma se è inetto, le cose gli vanno male [

[del resto, i migliori per lungo tempo sono

[coloro che gli dèi prediligono].

E dunque, proprio io non butterò via una parte

della mia esistenza a cercare ciò che è impossibile

in una vuota e inconcludente speranza,

cioè, un uomo senza difetti, fra quanti

ci nutriamo del frutto dell’ampia terra;

ma se lo scoverò, ve lo farò sapere!

Io elogio e ammiro tutti coloro che,

di propria volontà, non commettono

alcunché di turpe: contro la necessità

nemmeno gli dèi combattono.

[

[

[Io non sono uno incline alla polemica, dacché mi

basta che uno non sia] malvagio né troppo inetto e

che conosca la giustizia che giova alla città,

un uomo moralmente sano; io non lo

biasimerò: infatti, è infinita

la generazione degli stolti.

Bello è tutto ciò a cui il male non si mescola.

Policleto, Doriforo. Statua, Copia in marmo di età romana dall’originale in bronzo del V secolo a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

L’argomento su cui è imperniato l’intero componimento consiste nella difficoltà (o forse meglio, nell’impossibilità!) per un essere umano di essere o diventare ἀγαθός («valente»). Vi sottende una problematica che è forse meglio evidente grazie a un confronto con il F 16 Voigt di Saffo, il cui tema centrale risponde alla domanda: «Che cos’è la cosa più bella?» (τί τὸ καλόν;); domanda per la quale, in età arcaica, esisteva un interesse particolare verso una sorta di gerarchia di valori. Quanto a Simonide, nello specifico, si è tentato di dire che su questo punto egli sia andato oltre Saffo: con il poeta di Ceo, infatti, si giunge alla critica di quei valori, uscendo da una considerazione personale (quale quella della poetessa di Lesbo) nella quale si indica un valore che supera tutti gli altri, per arrivare alla negazione di qualsiasi soluzione rigidamente gerarchica e definitiva. Simonide fu poeta portato a considerare la relatività dei valori. All’etica dell’assoluto (nobiltà, salute, ricchezza, ecc.), egli contrapponeva una “relatività” di principi, forse meno eroici ma più umani, che da un punto di vista estetico-agonale discendevano a quello più vasto dell’impegno civico e sociale dell’individuo nella πόλις.

Il carme è introdotto da tre versi retti dall’espressione γενέσθαι / χαλεπὸν (sott. ἔστι); γενέσθαι, aor. inf. di γίγνομαι, vuol dire letteralmente “entrare in un nuovo stato dell’essere”, quindi “divenire”. In τετράγωνος qualcuno ha ravvisato tracce della dottrina pitagorica, secondo la quale il numero 4 e il quadrato rappresenterebbero la perfezione, la massima compiutezza. Non si esclude, tuttavia, che Simonide alluda piuttosto al canone delle quattro virtù – che ha numerose attestazioni – la più celebre delle quali si ha in Platone: saggezza, temperanza, coraggio e giustizia (cfr. Pind. N II); τετυγμένον, part. perf. di τεύχω, “creare, plasmare”. Quanto a Pittaco di Mitilene, com’è noto, egli era annoverato fra i Sette Sapienti: la citazione di una sua massima da parte del poeta rivela, per la prima volta nella letteratura greca, la volontà di precisare la paternità del materiale utilizzato da un autore. Il tiranno di Lesbo è definito σοφοῦ… φωτὸς (v. 12): l’aggettivo, qui attestato per la prima volta nei riguardi del personaggio, lo include decisamente nel canone dei grandi saggi; il sostantivo, invece, è un omerismo per dire “uomo” (anche se nell’accezione epica andrebbe inteso come “uomo dalle qualità eccezionali”).

Il poeta muove una polemica personale al motto del tiranno, uomo arcaico: contrappone infatti al suo ἔμμεναι (inf. eol. di εἰμί, “essere”) il proprio γενέσθαι (“divenire”); “essere” al presente infinito indica una condizione costante, statica e continua, propria di una persona o di una cosa. Nella concezione arcaica, dunque, un individuo nasceva già “valente” e sarebbe rimasto tale in tutto l’arco della sua esistenza. Diversamente, “diventare” presuppone una realtà completamente opposta, nella quale la persona, come ogni altra cosa, è soggetta al divenire, al mutevole, all’influsso variabile delle circostanze contingenti.

Scultore anonimo. Auriga di Delfi. Statua, bronzo, c. 475 a.C. dal Santuario di Apollo Pizio. Delfi, Museo Archeologico.

Simonide, insomma, della società del suo tempo sottolinea la difficoltà a raggiungere lo stato di eccellenza e di perfezione proprio degli uomini di una volta, cui quelli di oggi devono comunque aspirare e protendersi, malgrado le difficoltà e i condizionamenti della vita. Solo alla divinità, infatti, è concesso il privilegio di “essere”: gli dèi, una volta venuti alla luce, sono immutabili, eternamente giovani ed eternamente belli. Quest’idea è rimarcata anche da Pindaro (Pyth. X 21-22), che afferma: «Non un uomo, ma un dio sarebbe chi avesse il cuore scevro d’affanni». Ma mentre per Pindaro è possibile che una persona, oltre a mille difficoltà e tribolazioni, raggiunga una stabile felicità (anche in virtù dello status sociale e del favore divino di cui possa godere), per Simonide, invece, la vicenda umana è sempre e costantemente soggetta al mutare delle cose: perciò, la valentia di ciascuno è determinata dalla condizione in cui egli si trova. Di conseguenza, le contingenze diventano per Simonide gli unici criteri che consentano di giudicare la condizione mortale.

A ben vedere, inoltre, questa idea del divenire e del continuo mutare troverà un ulteriore sviluppo nella seconda metà del V secolo, realizzandosi pienamente con il fiorire della tragedia. A tal proposito, basti ricordare che nell’Edipo re di Sofocle si dice: «Non dire felice un uomo mortale prima che abbia varcato il termine della vita senza aver patito dolore». Si tratta di un concetto altresì presente in Erodoto (III 40, 3): «Nessun uomo io conosco che, felice in ogni cosa, non sia poi finito male, sconvolto dalle radici».

La novità del componimento simonideo sta soprattutto nel fatto che il brano non si limita alla polemica fine a sé stessa, ma propone una nuova visione delle cose: siccome non è possibile trovare un uomo perfetto, il poeta dichiara di non aver alcuna intenzione di sprecare il proprio tempo a cercarlo. La nuova società del V secolo rifiuta ormai l’ideale tradizionale dell’ἀρετή, che basava la condizione sociale del singolo in base alla sua stirpe (γένος); il poeta constata che la natura (φύσις) dell’uomo è fragile, momentanea e istantanea. Simonide, dunque, offre un nuovo modello valoriale, relativo all’individuo che dev’essere eticamente “sano” e “integro”, esercitando ed esprimendo la propria volontà senza commettere turpitudini. Questi, del resto, saranno i temi chiave dell’ideologia democratica.