di F.Chiesa – G.M. Facchetti, s.v. Caere, in Guida insolita ai luoghi, ai monumenti e alle curiosità degli Etruschi, Bergamo 2011, pp. 81-90.
Il geografo greco Strabone (5.2.2–3; 8) attribuiva la nascita di Cere ai mitici Pelasgi, i quali avrebbero fondato altre città su suolo italico proprio lungo la fascia costiera etrusca e nell’immediato entroterra tirrenico. Il nome etrusco originario della città era Kaiseri- (neoetr. Caisri-, Ceisri-), trascritto anche sulla lamina aurea in punico di Pyrgi come K(a)jš(e)rj; in latino avvenne il passaggio Kaiseri>*Cairere>Caere (indeclinabile), da cui l’attuale denominazione di Cere o Cerveteri (Caere Vetus). Le fonti greche (già Erodoto) designavano Cere col nome di Àgylla, che ritenevano la denominazione primitiva, “pelasgica”.
Strabone (5.2.3) esplicita: «Prima, infatti, Cere era chiamata “Agylla” e si dice fosse fondazione dei Pelasgi venuti dalla Tessaglia; quando i Lidi, che poi furono chiamati “Tirreni”, attaccarono gli Agillei, si dice che un tale, giunto alle mura, chiedesse il nome della città. Una delle sentinelle tessale, invece di rispondere alla domanda lo salutò dicendo “chaìre!” e, avendo accolto ciò come presagio, i Tirreni cambiarono così il nome della città conquistata». Questa breve leggenda cercava ingenuamente di dar conto dal latino Caere. Esiste anche un gentilizio etrusco, Che(i)ritna, che sembra formato sull’etnico latino Caerit– «abitante di Caere»; in questo caso l’etrusco Che(i)ri– riprodurrebbe la forma latina con una ch– (χ-) aspirata iniziale, derivante forse dalla grecizzazione del nome sulla base della leggendaria associazione con il gr. χαῖρε.
È da reputare molto verosimilmente che il cognomen “Caesar” sia stato tratto dal nome etrusco di Cere. La città sorgeva su un pianoro tufaceo di natura erosiva a circa sei chilometri dal litorale marino, laddove confluiscono i corsi d’acqua del Manganello e della Mola. Nei periodi di apogeo, la città crebbe a tal punto in floridezza culturale e potenza che il suo territorio stesso era notevolmente esteso, considerando che gravitava su Cere una serie di centri minori distribuiti lungo la fascia costiera, la quale oltrepassava il confine settentrionale di Civitavecchia: esso difatti si estendeva dalla foce del Mignone (l’antico Minio) sino a quella dell’Arrone, lambendo verso l’interno da un lato la valle tiberina, sul versante meridionale, dall’altro il lago di Bracciano su quello settentrionale, ivi compresi i Monti della Tolfa con i ricchi giacimenti metalliferi. Fu l’unica città etrusca a possedere un thesaurós («piccolo sacello») nel santuario greco a Delfi dedicato ad Apollo, a ratificare la sua potenza e lo stretto legame con il mondo ellenico che la città istituì, abbondantemente testimoniato dalle numerosissime importazioni greche di materiali e suppellettili ceramiche.
Virgilio fornisce velati riferimenti al periodo regio di Cere, proiettando la figura di un feroce re Mezenzio addirittura fino ai tempi del presunto arrivo di Enea (inizio del XII secolo a.C.). In effetti, le notizie semi-leggendarie dell’Eneide sulla rivolta dei Ceriti contro il crudele Mezenzio, che fu deposto e costretto all’esilio, potrebbero celare un nucleo di verità (anche se la cronologia degli avvenimenti andrebbe drasticamente abbassata, forse al VII secolo a.C.), dato che recentemente su un vaso ceretano del 700-650 a.C. si è riusciti a leggere l’epigrafe mi Laucies Mezenties («io di Laucie Mezenties»).

Ciò dimostra, come minimo, l’esistenza di un’importante gens Mezenties (lat. Mezentius) a Cere in pieno VII secolo a.C. Dalle lamine di Pyrgi sappiamo che verso il 500 a.C. Cere era retta da Thefarie Velianas, che, nonostante sia titolato «re di Cere» nella traduzione fenicia, doveva probabilmente ricoprire una magistratura suprema più simile a una dittatura, che a una monarchia.
Lo stesso riferimento nel testo etrusco, zilac– seleita-, è per varie ragioni plausibilmente avvicinabile al praetor maximus romano dei primi decenni della Repubblica. A Roma il rapporto tra praetor maximus e praetor minor (in seguito la praetura maxima fu raddoppiata e i titolari furono chiamati consules, mentre il praetor minor fu detto semplicemente praetor) era direttamente proporzionale a quello intercorrente tra le cariche militari del dictator e del magister equitum. Dunque sembra che il magistrato supremo municipale di Cere dell’età romana (i dati ci provengono dall’epigrafia), nella sua unicità e nella sua titolatura (dictator, appunto), possa aver in qualche misura riprodotto l’antico ordinamento istituzionale repubblicano etrusco. D’altronde sappiamo che il periodo repubblicano a Cere fu interrotto almeno dal “regno” di Orgolnius Velthurne[nsis], che fu cacciato dall’intervento di Aulo Spurinna, zilath di Tarquinia e probabile comandante dell’esercito tarquiniese durante la guerra con Roma del 358-351 a.C. Si può arguire che dal re Orgolino (etr. *Urχlnie– o simili) di Cere sia discesa la nobile famiglia etrusca cui appartenne quell’Urgulania, che Tacito ricorda come legata da strettissima amicizia con Livia Augusta. Plautia Urgulanilla, una nipote di Urgulania, fu terza moglie dell’imperatore “etruscologo” Claudio.
La grandezza di Cere trova peraltro ampio riscontro negli scritti degli antichi storici, dal momento che essa viene più volte nominata in merito alle vicende che fra il periodo arcaico e la romanizzazione interessarono lo scenario storico, politico e culturale del Mediterraneo. Si può a tal proposito ricordare che nel 540 a.C. gli Etruschi di Cere alleati dei Cartaginesi sconfissero i Greci di Focea nella battaglia di Alalia (Aleria, Corsica), a essi sostituendosi nell’occupazione commerciale dell’isola. Le fonti non mancano di accennare alla metropoli tirrenica anche nella più tarda fase della conquista romana, quando Cere, a differenza delle altre città etrusche, sembrò a tratta palesare un atteggiamento più consenziente nei confronti della nuova potenza.

Neppure la guerra fra Roma e Veio, conclusasi nel 396 a.C. con la sconfitta di quest’ultima, non parve nell’immediato guastare i rapporti amichevoli che intercorrevano tra Cere e Roma, tanto che, quando nel 390 a.C. irruppero i Galli, i Romani scelsero di riparare le loro sacre reliquie proprio nella metropoli etrusca. In quell’occasione le fu conferita la civitas sine suffragio, ossia la cittadinanza romana senza diritto di voto. Ma un nuovo episodio era in procinto di minacciare la potenza cerite: nel 384 a.C. Dionigi di Siracusa guidò un’incursione devastante ai danni dei porti della città, perpetrando il saccheggio del santuario di Pyrgi. Nel 352 a.C., tuttavia, i rapporti con Roma subirono un’incrinatura, in seguito al favore accordato dai Ceriti a Tarquiniesi e Falisci nella guerra contro Roma. In nome delle antiche alleanze lo scontro fu scongiurato e la potenza egemone accettò di garantire una tregua di cent’anni, secondo quanto raccontato dagli storici Tito Livio e Cassio Dione, forse in cambio di una porzione cospicua del suo vasto territorio. Nel 273, infatti, Roma si arrogò il diritto di fondare a scopo strategico una serie di colonie sul litorale ceretano (Pyrgi dopo il 264 a.C., Castrum Novum, nel 264 a.C. e Alsium nel 247 a.C.). Assorbita nell’orbita romana, con la creazione della colonia nel 264 a.C. Cere perse ogni velleità di autonomia. Cere possedeva tre porti sul mar Tirreno: Pyrgi (Santa Severa), Alsium (Palo: poche tombe etrusche ne indiziano il minor portato insediamentale rispetto a Pyrgi) e Punicum (Santa Marinella).
All’abitato antico, che copriva un’area di circa centocinquanta ettari, si è parzialmente sovrapposta la città moderna. Le ricerche condotte negli ultimi decenni a Vigna Parrocchiale hanno permesso di meglio delineare le fasi di occupazione dell’abitato, per le quali i materiali raccolti sul pianoro sembrerebbero indicare la prima Età del Ferro. Sarà tuttavia nel pieno arcaismo (VI secolo a.C.) che la zona conoscerà una vera monumentalizzazione, con una serie di edifici decorati gravitanti intorno a uno spazio triangolare, nel quale è forse da riconoscere un quartiere residenziale riservato a rappresentanti di un’alta classe sociale. Sul finire del VI secolo a.C. o al principio del successivo, l’intera zona appare rasa al suolo e i materiali relativi agli alzati degli edifici scaricati entro una cavità. In luogo delle strutture arcaiche fu costruito un tempio tripartito, arricchito di un sistema di copertura con terrecotte architettoniche, destinato a godere di un lungo periodo di vita. Un’area sacra sorgeva anche in località Sant’Antonio e comprendeva due templi a pianta rettangolare di tipo “tuscanico”, racchiusi da un recinto (témenos) e affacciati su una sorta di terrazza, alla base della quale si sviluppava una via cava che conduceva in città. Il santuario, che fu frequentato soprattutto in epoca arcaica, doveva essere titolato a Hercle (Eracle) e forse a una divinità femminile (Menerva/Minerva). Esso insisteva su un’area che, al pari di Vigna Parrocchiale, fu frequenta sin dalla prima Età del Ferro, come documentano i resti di capanne ovali individuate nel piazzale antistante ai templi stessi. In precedenza erano già stati rinvenuti i resti di almeno otto edifici templari con relativa decorazione in terracotta, ivi compresa un’importante stipe votiva del tempio del Manganello, ubicato nell’area meridionale della città.

Le necropoli, distribuite ad anello tutt’intorno al centro antico, coprono un arco cronologico assai vasto: le più antiche, con tombe a incinerazione in pozzetto e inumazioni in fossa, si trovano in località Cava della Pozzolana e al Sorbo, a sud-ovest della città, tra i fossi della Mola e del Manganello, e appartengono alla prima Età del Ferro (IX-VIII secolo a.C.). L’area cimiteriale del Sorbo consta soprattutto di tombe a tumulo riferibili alla piena epoca Orientalizzante (VII secolo a.C.), fra le quali si annovera la celebre Tomba Regolini-Galassi, che ha restituito un sontuoso corredo di vasellame e suppellettili, conservato al Museo Gregoriano Etrusco in Vaticano. Particolarmente suggestiva appare anche la necropoli nord-occidentale della Banditaccia, costituita da numerose e grandi tombe a tumulo con basamento a tamburo tufaceo talora di cospicue dimensioni, come pure quelle di Monte Abatone, con un minor numero di tombe visibili ma egualmente importanti, e della Bufolareccia. In tempi recenti due tombe a tumulo orientalizzanti (intorno alla metà del VII secolo a.C.), simili per struttura alla Regolini-Galassi e ricche di ceramiche d’importazione greca, sono venute in luce lungo la via di percorrenza che collegava la città di Cere al suo porto di Alsium. I corredi delle necropoli ceretane, al pari delle decorazioni fittili e delle terrecotte dipinte dai templi, sono per la maggior parte conservate al Museo di Villa Giulia, mentre singoli nuclei di materiali si trovano al Museo Gregoriano Etrusco in Vaticano, al Museo dei Conservatori, al Louvre e al British Museum. E a Cerveteri presso il Palazzo Ruspoli, dove nel 1967 è stata allestita un’altra raccolta archeologica.

Le più antiche tombe a tumulo dai caratteri monumentali (con diametro pari ad almeno trenta metri) risalgono alla prima fase del periodo Orientalizzante (inizi del VII secolo a.C.) e si trovano nella necropoli della Banditaccia. Si tratta del Tumulo del Colonnello (tomba 1) e della cosiddetta Tomba della Capanna, nel Tumulo II. La riproduzione dell’architettura domestica interessa soprattutto l’andamento interno delle pareti della camera, che aggettano direttamente da terra o dai bassissimi muri laterali, come falde di un tetto che si congiungono alla sommità. Lungo le pareti, in corrispondenza della porzione di pavimento che in epoca successiva sarà destinata a essere occupata dalle banchine in pietra sulle quali venivano adagiati i defunti, corre a ferro di cavallo una striscia di ciottoli di fiume. Le camere sono preferibilmente situate a nord-ovest, che nella mappa celeste degli Etruschi era la zona riservata agli dèi Inferi.
L’apparizione improvvisa di queste grandi espressioni dell’architettura funeraria nella prima metà del VII secolo a.C. dopo il periodo villanoviano è da intendersi come legata a un fenomeno storico di più complessa e articolata portata: soluzione architettonica ignota al suolo italico e greco, essa trova convincenti paralleli in una precisa area dell’Asia Minore (Lidia), con il suo retroterra assiro e ittita, cui rimandano le modanature del tamburo, e nella vicina ed eclettica Cipro, in quest’epoca sottoposta a particolari legami con quella regione.
La componente orientale microasiatica, del resto, appartiene già all’immagine dell’origine degli Etruschi, che lo storico greco Erodoto (I, 94) tramandava fossero giunti da una regione dell’Asia Minore guidati dal loro re Tirreno, figlio di Ati, sovrano della Lidia.
La cura rivolta dagli architetti ceretani all’allestimento interno di queste dimore funebri escavate nel tufo, che riproducono l’ambiente domestico e le sue partizioni, si avverte in una serie di tumuli assai caratteristici specialmente per il rilievo conferito alla carpenteria del tetto: gli esempi più notevoli e particolari sono per quest’epoca rappresentati dalla camera laterale sinistra della Tomba della Nave e della Tomba dei Leoni Dipinti, il cui soffitto termina nella falda anteriore con una sorta di ventaglio, ossia in una raggiera dei travetti (cantherii, templa) che si dipartono dalla terminazione a disco della trave portante del tetto (columen).

In questi monumenti il legame con le abitazioni protostoriche, che conosciamo anche attraverso il modello delle urne cinerarie a capanna, è ancora piuttosto evidente. In altre tombe compaiono invece soluzioni più semplici, salvo i casi, come nella Tomba delle Cinque Sedie, nei quali il significato dello spazio funebre è affidato anche agli arredi interni: fra questi spiccano i cinque seggi collocati all’ingresso del sepolcro su cui erano in origine adagiate cinque statuine di terracotta, sia maschili sia femminili, che molto probabilmente rappresentavano gli antenati dei proprietari del sepolcro, cui era dovuto una sorta di culto domestico in qualità di capostipiti della famiglia. Con la fase più recente del periodo Orientalizzante (ultimo trentennio del VII secolo a.C.- inizi del VI) le tombe assumono una pianta più articolata rispetto ai decenni precedenti: nasce il tipo cosiddetto “a vestibolo”, ovvero un ambiente che si distende in larghezza rispetto all’entrata e sulla cui parete di fondo sono state ricavate tre porte che immettono in altrettanti piccoli ambiti tra loro allineati e talora provvisti di finestre.
A Cere splendidi esempi sono costituiti dalle Tombe dei Capitelli, della Cornice e Giuseppe Moretti, con possenti colonne divisorie, mentre la solida influenza emanata dalla metropoli costiera sul versante delle originali innovazioni architettoniche trova ampia ricezione, seppur con ritardo, anche nell’entroterra viterbese in varie località, fra le quali San Giuliano, Castel d’Asso e Tuscania. Nella seconda metà del VII secolo a.C. Cerveteri esperisce inoltre la megalografia tombale, attraverso le pur poche tombe con ornati pittorici: nella necropoli della Banditaccia spiccano la Tomba degli Animali Dipinti, con bestie in movimento o colte in scene di lotta, la già ricordata Tomba dei Leoni Dipinti, con un personaggio maschile tra leoni bianchi e rossi, entrambe influenzate dai bestiari della ceramica greca di Corinto esportata in Etruria; e la Tomba della Nave, a cinque camere, con insolita scena di naviglio e anch’essa con sarcofago come quella degli Animali Dipinti. In questo periodo il colore viene ancora steso direttamente sulle pareti rocciose.

Tuttavia nella prima metà del VI secolo a.C. la secolare tradizione che aveva visto il tumulo protagonista del paesaggio ceretano, specie nelle necropoli del Sorbo e della Banditaccia, si viene progressivamente rompendo: la necessità di regimentare gli spazi all’interno delle aree cimiteriali richiede una pianificazione degli stessi secondo regole simili a quelle dell’urbanistica vera e propria, contro di cui cozzano l’inconfondibile sagoma tondeggiante e il corridoio d’accesso esterno (dromos). Dalla metà del secolo le necropoli della Banditaccia e del Sorbo sono solcate da vie sepolcrali sulle quali affacciano i nuovi dadi costruiti, con porte corniciate a contrasto cromatico facendo ricorso alla pietra locale (peperino o macco).
La pianta interna che in precedenza vedeva la suddivisione spaziale in due corpi (uno anteriore e uno posteriore ripartito in tre celle) sembra ora semplificarsi, come pure i letti funebri scolpiti e decorati della fase precedente vengono sostituiti da analoghi ma più disadorni giacigli che preludono alle semplici banchine. In alcuni casi le pareti potevano essere ornate da lastre di terracotta dipinte, anche con soggetto figurato, giustapposte a formare un fregio continuo (le cosiddette «lastre Boccanera» e «lastre Campana», con sfingi affrontate, soggetti mitologici, processione di personaggi e scene di sacrificio ecc.

Il nome deriva rispettivamente dai fratelli Boccanera, i quali nel 1873 circa intrapresero ricerche alla Banditaccia e dal marchese Campana, che intorno al 1845 fu autore d’importanti scoperte nella stessa necropoli). Analoghi esemplari sono stati rinvenuti anche nell’area urbana. Appartiene a quest’epoca il celeberrimo Sarcofago degli Sposi, in terracotta, che riproduce la coppia di coniugi a banchetto sdraiati sulla klinḗ secondo il costume etrusco. Con l’epoca tardo-arcaica si preferisce scavare una sola camera, via via più grande, talora con pilastro centrale: rientra in questa categoria la Tomba delle Colonne Doriche, con una coppia di colonne a fusto scanalato e capitello riportato (verso il 500 a.C.). In questo periodo subisce invece una brusca contrazione il numero di camere funerarie dipinte: un raro caso è rappresentato dalla Tomba dell’Argilla, nella necropoli della Banditaccia, con danzatori, musici, cavalli e centauri. In epoca ellenistico-romana (IV-III secolo a.C.), infine, l’evoluzione sembra indirizzata a maggiorare le dimensioni degli ambienti funerari, forniti di banchina continua o comunque sui tre lati ove adagiare i defunti, come mostrano le cosiddette tombe del Comune alla Banditaccia: a ciò si vanno aggiungendo nel tempo i loculi ricavati nelle pareti. Ancora in epoca tarda a Cerveteri, benché in misura decisamente minore rispetto a Tarquinia, non si è perduto l’uso di affrescare le camere funerarie, anche solo con apporti pittorici che ne sottolineano le componenti architettoniche: proprio nella zona delle Tombe del Comune sorge la Tomba delle Iscrizioni, detta anche Tomba dei Tarquini, dal nome dei titolari del grandioso ipogeo, la famiglia Tarchnas, rami della quale sono documentati in altre importanti zone dell’Etruria meridionale e centrale. Nella stessa area era anche la Tomba del Triclinio, della fine del IV secolo, caratteristica per il ciclo pittorico con banchettanti, che ricorda altri celebri ipogei di Tarquinia (Tomba degli Scudi) e Orvieto (Tomba Golini).

Tuttavia l’esempio più originale e maestoso, nel quale pittura e bassorilievo si fondono mirabilmente, è però costituito dalla celebre Tomba dei Rilievi, che apparteneva alla gens dei Matunas. Sul fondo è stata ricavata l’alcova con letto dai piedi sagomati e doppi cuscini (klinḗ) fra colonne eoliche. La straordinaria unicità dell’ambiente deriva soprattutto dalla gran copia di oggetti disposti a bassorilievo sui muri e lungo il fusto stesso delle colonne, come fossero appesi, in origine valorizzati dal colore. L’alto tenore sociale dei proprietari di questi ipogei ellenistici è confermato anche dalla vicina Tomba dei Sarcofagi, della famiglia Apucus, ornata da un fregio di animali in lotta d’ispirazione magno-greca (in particolare tarentina) e così detta per la presenza di sarcofagi in calcare. Anche un altro complesso funerario scoperto in tempi relativamente recenti in località Greppe Sant’Angelo accoglie nella peculiare struttura architettonica echi dalla Grecia ellenistica: su una corte si affaccia in posizione dominante un doppio monumento tombale, il cui prospetto era in origine decorato con sculture (Charun/Caronte). La soluzione prescelta per il soffitto della tomba di sinistra – la volta a botte – destinata a fecondi sviluppi nell’Etruria centro-settentrionale, è facilmente riconducibile ai modelli allora in voga in Macedonia, patria di Filippo e di Alessandro il Grande e sede della dinastia regale.

Il 1836 fu un anno particolarmente fecondo per la ricerca archeologica in Etruria poiché, nella necropoli del Sorbo, venne in luce uno dei complessi più fastosi del periodo Orientalizzante, peculiare dal punto di vista dell’architettura e opulentissimo per quel che concerne qualità e assortimento del corredo funebre, recuperato ancora intatto. Il tumulo, esplorato congiuntamente dall’arciprete Regolini e dal generale Galassi, nascondeva una curiosa tomba in parte scavata e in parte dispendiosamente costruita in grossi blocchi di tufo, composta di uno stretto corridoio a volta ogivale ai lati del quale si aprivano due piccole celle di sagoma grossomodo ovale, l’una di fronte all’altra, in origine destinate ad accogliere ciascuna una sepoltura. La struttura interna con camera e corridoio è simile a quella di un altro celebre tumulo, quello che sorge a Montetosto, sulla via che da Cere conduceva al porto di Pyrgi. La descrizione tracciata al momento della scoperta fu di grande aiuto quando si trattò di ricostruire l’esatta posizione dei ricchi materiali di accompagnamento, soprattutto in relazione agli occupanti della camera. Oltre a una cremazione deposta in una delle due nicchie, la tomba accoglieva, infatti, due inumati eccellenti, un uomo e una donna, cui sono da connettersi in massima parte gli arredi rinvenuti. La sepoltura femminile era sistemata nell’ambiente al fondo del corridoio, mentre l’individuo di sesso maschile, probabilmente l’ultimo in ordine di tempo a esservi stato collocato, aveva trovato posto nel tratto verso l’ingresso. Alla donna, raffinatamente abbigliata con vesti sulle quali erano appuntate lamine, pettorali e collane d’oro, era stato affiancato pregevole vasellame da tavola in metallo prezioso, oltre a una coppia di calderoni di bronzo, nonché un vasetto con iscrizione di dono, dove anche la scrittura che in questi complessi appare precocemente s’inserisce tra i segni di distinzione sociale. Alcuni oggetti del corredo della donna recano iscrizioni marcanti l’appartenenza (larθia, «di Larth», e mi larθia, «io di Larth»); in passato si è creduto erroneamente che nelle epigrafi fosse riscontrabile un prenome femminile Larthia, ma, data l’epoca (VII secolo a.C.), non c’è il minimo dubbio che larθ-ia rappresenti il genitivo arcaico del diffuso prenome maschile Larth. La possibilità di un riferimento a doni nuziali è solo una delle diverse ipotesi formulabili. L’uomo, per contro, era stato adagiato su di un letto funebre pure in bronzo e alla dimora tombale era giunto trasportato da un carro di bronzo e legno; accanto, sulle pareti, erano stati appesi alcuni scudi bronzei, per caratterizzare enfaticamente lo status sociale dell’inumato.

La Regolini-Galassi resta uno dei capisaldi per lo studio del fenomeno culturale dell’Orientalizzazione in Etruria, qui esemplificato nella sua fase matura (secondo venticinquennio del VII secolo a.C.): essa s’inserisce a pieno diritto nel novero delle cosiddette «tombe principesche», nelle quali confluirono gli esiti più alti, preziosi ed esclusivi, talora addirittura proto-tipici, dell’ormai avviata circolazione di materie prime, materiali, modelli e ideologie che aveva posto in risalto il legame tra le due sponde del Mediterraneo, quella occidentale tirrenica e quella che dall’isola di Cipro volgeva verso gli antichi regni della prospiciente fascia costiera e dell’entroterra che alle sue spalle si distendeva. Lo indicano forma e stile delle suppellettili dei due aristocratici: le brocchette del servizio da vino in argento e in oro, che rimandano alla zona settentrionale della Siria, le coppe auree istoriate suggestivamente con motivi egizi o tratti dal

repertorio fenicio e assiro (nella seconda metà dell’VIII secolo a.C. il re assiro Sargon II aveva assoggettato Siria e Fenicia), le quali si sposano con tipi della tradizione più propriamente etrusca, cui sono senz’altro da riferire le oreficerie sbalzate a figure animali o cariche di minuti granuli aurei fittamente accostati a formare disegni finissimi (granulazione). Questi straordinari corredi sono attualmente conservati presso il Museo Gregoriano Etrusco, istituzione annessa ai Musei Vaticani e fondata nel 1937, durante il pontificato di Gregorio XVI, mentre la tomba è stata purtroppo coperta da un edificio moderno.
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