La Neosofistica (o Seconda Sofistica)

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Nascita e consolidamento del movimento

L’insegnamento della retorica, insieme a quello della filosofia, costituiva la base della formazione culturale dei giovani che intendevano dedicarsi alla carriera politica. Tuttavia, non tutti quelli che seguivano questi studi divenivano magistrati o funzionari pubblici; molti di loro, e spesso i più brillanti, dopo aver raggiunto un alto livello di preparazione, facevano dell’eloquenza una fonte di celebrità e di guadagno, spostandosi in varie città per esibirsi in declamazioni pubbliche nelle piazze, nei teatri, alle terme (soprattutto a Roma) o in auditoria, affittai per l’occasione e frequentati da un pubblico eterogeneo, in cui, peraltro, non mancava una componente di buon livello culturale, capace di giudizi solidamente fondati. Gli oratori pronunciavano di solito discorsi preparati in precedenza, ma improvvisavano anche su argomenti proposti dal pubblico. I temi erano, in genere, quelli tradizionali dell’oratoria epidittica e occasionale (encomi, λόγοι ἐπιτάφιοι, genetliaci di personaggi illustri); ma a essi si affiancavano anche argomenti meno consueti, talora addirittura insoliti o stravaganti (παίγνια, «scherzi»), adatti a far risaltare la bravura del retore e a suscitare la meraviglia del pubblico, con esempi di consumata tecnica oratoria, sostenuta da finezze stilistiche e “concettismi” da fare invidia a qualunque autore barocco.

La definizione di “neosofistica” è dovuta al retore Filostrato, nato fra il 160 e il 170, autore di un opuscolo intitolato Vite dei sofisti, che aveva suddiviso l’eloquenza greca in tre periodi: l’antica Sofistica ateniese, i dieci oratori attici del canone alessandrino, la neosofistica. Egli considerò antesignano del movimento il retore Niceta di Smirne, vissuto al tempo di Nerone, che, con il suo discepolo Scopeliano di Clazomene, aveva rinnovato nei suoi discorsi il fasto formale dell’eloquenza di Gorgia. Va detto, infatti, che questo genere di oratoria, che fiorì soprattutto sotto Adriano (117-138), si propose, in teoria, di riprendere sia gli accorgimenti tecnici e stilistici sia l’impostazione didattica dell’antica Sofistica; ma, in pratica, non operò nessuna innovazione o rivoluzione concettuale, limitandosi a coltivare l’aspetto più esteriore dell’eloquenza. Da questo punto di vista, tuttavia, la neosofistica ebbe una sua utilità, in quanto, da un lato, sviluppò e perfezionò gli aspetti tecnici dell’ars dicendi, anche se spesso a fine di esibizione o di lucro; dall’altro, rivolgendosi a un pubblico socialmente e culturalmente assai vario, ebbe il merito di abbandonare l’ambiente della scuola, affrontando esperienze più concrete e colmando almeno in parte il vuoto lasciato dalla scomparsa del teatro. Inoltre, i personaggi più in vista del movimento ebbero frequentemente una certa importanza nella politica del tempo, poiché la notorietà aprì loro le porte della corte imperiale.

A causa del suo esasperato formalismo, la neosofistica non poté rimanere estranea alla polemica fra asiani e atticisti, alla quale, però, non apportò alcun contributo significativo; infatti, mentre la sua stessa natura e i suoi fini la portarono a orientarsi piuttosto verso le tendenze stilistiche dell’Asianesimo, al tempo stesso, il desiderio di emulare i grandi oratori ateniesi del IV secolo a.C. fecero sì che anche l’Atticismo assumesse una notevole importanza all’interno del movimento.

Scena di scuola. Rilievo, marmo, inizi III sec. d.C. ca. da Neumagen. Trier, Rheinisches Landesmuseum.

I principali esponenti della neosofistica

Seguace e discepolo di Scopeliano fu Polemone di Laodicea, il primo neosofista di cui sia pervenuto qualcosa. Vissuto fra l’88 e il 145, restano di lui due declamazioni in stile asiano, in cui i padri di due caduti a Maratona si disputano l’onore di tenere il discorso celebrativo per gli eroi caduti.

Antonio Polemone di Laodicea. Busto, marmo pentelico, 140 d.C. ca. dall’Olympeion di Atene. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

Il vero iniziatore della neosofistica deve però essere considerato il retore Dione, divulgatore della filosofia cinica e stoica. Nato a Prusa, in Bitinia, nel 40 da una ricca famiglia, costui si dedicò fin da giovane agli studi retorici e filosofici, sotto la guida di C. Musonio Rufo, maestro stoico assai rinomato sotto il principato di Nerone, e poi esiliato dallo stesso Cesare con l’accusa di aver preso parte a una congiura. Sotto i Flavii Dione raggiunse una certa notorietà per le sue declamazioni, ma all’inizio del regime di Domiziano fu coinvolto in un processo politico (forse a causa della sua amicizia con Flavio Sabino, caduto in disgrazia presso l’imperatore), e mandato in esilio. Iniziò così per Dione un periodo di vita raminga e disagiata, che lo portò dai Balcani all’Asia Minore e fino alle lande a nord del Ponto Eusino. Tuttavia, la convinta adesione alla dottrina cinica lo aiutò a sopportare questo difficile momento della sua esistenza, nella quale non gli venne mai meno l’interesse per la cultura – tanto che approfittò dell’esilio per raccogliere materiale geografico ed etnografico per comporre una monografia sul popolo dei Geti (purtroppo andata perduta). Quando M. Cocceio Nerva ascese al trono imperiale, Dione poté far rientro a Roma; e, grazie alla simpatia del princeps, gli fu conferita la civitas Romana e il diritto di fregiarsi del cognomen di Cocceiano. Il favore imperiale lo accompagnò anche sotto Traiano, al quale Dione dedico alcune delle sue più famose orazioni. A un certo momento, però – non se ne conoscono i motivi –, Dione decise di tornare nella sua Prusa per aprirvi un scuola di retorica. A quanto pare, ciò gli suscitò le invidie di alcuni concittadini, che nel 111-112 lo accusarono di fronte al legato imperiale C. Plinio Cecilio Secondo (Plinio il Giovane). Da quel momento in poi non si hanno più tracce di Dione; probabilmente morì poco dopo, fra il 115 e il 120.

A testimonianza della duplice attività filosofica e retorica di Dione di Prusa rimane un corpus di ottanta orazioni (due sono certamente del suo allievo Favorino di Arelate): si tratta in gran parte di declamazioni fittizie, di παίγνια (come l’elogio del pappagallo o quello della mosca), di diatribe, di esercitazioni letterarie o filosofiche in forma dialogica; una stretta minoranza sono discorsi epidittici, pronunciati in diverse occasioni. Di particolare interesse per la critica moderna, l’orazione In Atene sull’esilio, di carattere fortemente autobiografico; tuttavia, le notizie in essa contenute vanno prese con una certa cautela, perché occorre tenere presente che il tema dell’esilio costituiva un tópos della filosofia stoica e si prestava benissimo a rielaborazioni letterarie e a spunti consolatori (come accadde già in Seneca), spesso assai lontani dalla realtà dei fatti.

Dione Crisostomo, Orazione ΠΕΡῚ ΒΑΣΙΛΕΙΑΣ Α (p. 43), edizione critica di Johann Jacob Reiske (1784).

Lo stile dioneo dimostra una valida conoscenza della migliore prosa attica (Platone, Senofonte, Demostene), che si traduce nella capacità di delineare con vivacità scene e caratteri, soprattutto quando si tratta delle popolazioni barbariche da lui visitate nel suo esilio o nell’osservazione della natura e degli animali. La lingua utilizzata è quella della koiné, caratterizzata però da una singolare limpidezza, dovuta allo sforzo di accostarsi ai modelli attici.

Di origine celtiche, nato ad Arelate in Gallia Narbonensis (od. Arles) nell’85, Favorino è un rappresentante di quella classe di intellettuali che, pur essendo estranei per nascita al mondo greco, ne appresero ben presto la lingua e ne ammirarono la cultura. Amico dello storico Plutarco, da ragazzo Favorino si trasferì a Roma, dove seguì le lezioni di Dione. Divenuto un abile e brillante oratore, si diede alla carriera di conferenziere itinerante, conquistandosi grande fama e ricchezza. Tuttavia, al tempo dell’imperatore Adriano, per motivi rimasti ignoti, fu esiliato nell’isola di Chio, dove rimase fino a quando Antonino Pio non gli revocò la condanna e gli permise di rientrare nell’Urbe, nel 136.

Favorino, dunque, aprì una propria scuola, che fu frequentata anche da personaggi destinati a diventare celebri, come Aulo Gellio ed Erode Attico. Scomparve verso la metà del II secolo, in una data che non si è in grado di precisare.

La vasta mole delle opere di Favorino è andata quasi completamente perduta: il poco che resta, comunque, rivela una cultura multiforme e varia, che spazia dalla filosofia alla retorica, dalla storia alla pura erudizione. Fra gli scritti filosofici si possono annoverare i Memorabili, cinque libri dedicati alle biografie dei filosofi più illustri, che denotano uno spiccato gusto per l’aneddotica, e i Discorsi pirroniani, in dieci libri. Carattere paradossale e spiccatamente sofistico avevano le declamazioni Sulla febbre quartana e In difesa di Tersite. Anche Favorino, come il suo maestro, del resto, ha lasciato scritto un discorso Sull’esilio, di impostazione cinico-stoica, che è però poco più che un elenco di luoghi comuni sull’argomento.

Uomo togato. Statua, marmo, 100-250 d.C. ca. da Roma.

Il più brillante esponente della neosofistica nel II secolo fu Tiberio Claudio Attico Erode, discepolo di Favorino. Nato a Maratona nel 101, si trasferì ad Atene, dove ricoprì importanti incarichi politici. Inoltre, le sue notevoli disponibilità finanziarie gli permisero di distinguersi per generosità nei confronti di varie città greche che abbellì di monumenti ed edifici pubblici, come l’Odeon che fece costruire ad Atene. Giunto a Roma, vi ebbe una fortunata carriera politica che culminò nell’elezione al consolato nel 143, e che fu accompagnata da una grandissima fama come maestro di retorica. La sua scuola fu frequentata da Marco Aurelio e da Lucio Vero, che gli furono affidati dell’imperatore Antonino Pio. Della vasta opera di Erode Attico, scomparso ad Atene nel 177, è pervenuta una sola orazione, Sullo Stato, un vero esempio della perfezione stilistica a cui egli era giunto nell’imitazione dei modelli classici. Erode, infatti, aveva composto quel discorso rifacendosi allo stile del sofista Trasimaco di Calcedone, attivo intorno al 430-400 a.C., raggiungendo risultati tali da indurre alcuni studiosi ad attribuirne la paternità proprio a Trasimaco.

Contemporaneo di Erode Attico fu Elio Aristide, nato ad Hadriani ad Olympum, in Bitinia negli anni fra il 117 e il 129. Dopo aver acquisito una solida formazione retorica, nella quale egli rivolse la propria preferenza soprattutto verso Isocrate, Elio Aristide intraprese una fortunata carriera di conferenziere, nel corso della quale viaggiò molto, in varie parti dell’Oriente romano. Nel 156 egli giunse anche nell’Urbe, dove, tuttavia, mostrò i primi sintomi di una malattia nervosa che lo avrebbe poi accompagnato per il resto della vita e sulla quale ebbe modo di soffermarsi a lungo nella sua autobiografia. Poiché le cure mediche del tempo non furono in grado di arrecargli alcun giovamento, Elio Aristide decise di affidarsi alla potenza taumaturgica di Asclepio e, perciò, si trattenne per diverso tempo a Pergamo, presso il santuario del dio: suo malgrado, però, non riuscì a ottenere la guarigione sperata. Il retore soggiornò a lungo anche a Smirne; anzi, poiché durante gli studi presso la scuola di Erode Attico aveva avuto per compagno lo stesso Marco Aurelio, con il quale aveva instaurato un profondo legame di amicizia e di stima, gli fu possibile perorare presso il princeps la ricostruzione della città, distrutta da un terremoto nel 178. Elio Aristide morì una decina di anni dopo, sotto Commodo, nel 188.

Elio Aristide. Statua, marmo, 200 d.C. ca. Roma, Musei Vaticani.

Della sua produzione rimangono cinquantacinque orazioni di vario argomento: alcune sono declamazioni fittizie, encomi, elogi di divinità; altre vertono su temi filosofici. Fra queste, in particolare, la più cospicua è intitolata Sulla retorica, nella quale l’autore abbraccia la tesi di Isocrate contro quella di Platone, sostenendo il primato dell’eloquenza rispetto alla filosofia e classificandola come τέχνη. Di carattere encomiastico è invece l’orazione In difesa dei quattro, in cui l’autore prende le parti di Milziade, Temistocle, Cimone e Pericle contro il giudizio negativo di Platone. In omaggio all’antica gloria di Atene, vincitrice sui Persiani, fu scritto il Pantatenaico, che rivela nel titolo una certa simpatia dell’autore verso Isocrate. Il ruolo di Roma come città pacificatrice del mondo e patria comune di tutte le genti cha abitano l’Impero è l’argomento dell’Elogio di Roma, che evidenzia anche il rapporto fra gli intellettuali e i Caesares. Più interessanti a livello autobiografico sono i Discorsi sacri, di argomento religioso, che Elio Aristide compose nella maturità, forse anche sotto l’effetto della malattia che lo aveva colpito. In questi testi egli descrive con incisiva precisione l’ambiente del tempio di Asclepio, popolato, oltre cha da ammalati, da gente di ogni risma, da curiosi, da turisti, da imbroglioni; l’autore mette a nudo anche la propria anima, sostenuta da una fede fanatica, che si affida con cieca credulità a sogni, a presagi, a tutte le manifestazioni sacre o ritenute tali. Di conseguenza, appare estremamente difficile per il lettore moderno discernere la religiosità dalla superstizione, visto il clima di esaltazione misticheggiante dell’opera, alla quale non è alieno, però, un certo compiaciuto sfoggio di bravura compositiva: infatti, da un punto di vista formale, per l’ampiezza dell’erudizione e per la ricchezza e la frequenza delle citazioni letterarie, Elio Aristide può essere considerato uno degli esponenti più validi della neosofistica, anche se non è sostenuto da pari originalità di pensiero.

I neosofisti minori

Sotto l’impero di Commodo soggiornò a Roma Massimo di Tiro, un retore itinerante vissuto nella metà del II secolo, del quale restano quarantuno diatribe composte per la scuola, su argomenti di filosofia popolare. I temi proposti (Se si debba preferire la vita del Cinico, Se Socrate abbia fatto bene a non difendersi) permettono all’autore di far valere i propri mezzi dialettici, sostenuti da un pensiero filosofico non molto profondo, di impronta eclettica, in cui Platone occupa un posto di rilievo, mentre Epicuro ne è escluso del tutto. Ciò è dovuto prevalentemente al fatto che l’autore possiede una visione trascendente della divinità e crede che essa sia circondata da un’infinità di entità soprannaturali, che agiscono da intermediarie con il mondo degli uomini – teoria, questa, assolutamente inconciliabile con la concezione epicurea del cosmo.

Completamente estraneo all’attività di retore vagante fu invece Claudio Eliano, che non lasciò mai la città di Praeneste, in cui era nato intorno al 175, se non per recarsi a Roma, dove sarebbe morto nel 235 circa. Anche lui, come già Favorino, apprese la lingua e la cultura greche a scuola, dove ebbe come maestro il sofista Pausania. Concentrò di preferenza la propria attenzione all’osservazione della natura e del mondo animale, sul quale compose un’opera di diciassette libri. Tuttavia, Eliano non fu sostenuto da intenti scientifici né da personali osservazioni autoptiche, ma piuttosto da curiosità per quanto altri naturalisti avevano scritto prima di lui; così l’opera si presenta come una specie di antologia di altri testi (di Aristotele, di Teofrasto, di Nicandro e altri), letti e compilati con uno spiccato gusto per l’esotico e l’inconsueto. La stessa tendenza alla compilazione diligente, ma con scarsi apporti personali, si nota in un’altra opera, di cui sono pervenuti ampi frammenti, la Storia varia, suddivisa in quattordici libri: in essa l’autore raccolse una vasta serie di aneddoti su personaggi famosi, usando come fonti gli scritti di Ctesia, Teofrasto, Teopompo e Timeo.

Tib. Claudio Erode Attico. Busto, marmo, 161 d.C. ca. da Probalinthos (Attica). Paris, Musée du Louvre.

L’interesse per il mondo naturale, assai vivo nella cultura del II secolo, è ben documentato anche da un’altra antologia, redatta ad Alessandria e pervenuta anonima in varie redazioni e traduzioni medievali (greche, etiopiche, siriache, armene e numerose latine), con il titolo di Physiologus (lo «studioso della natura»): questo testo attraverso gli esempi tratti dal regno animale illustra e divulga in forma allegorica le dottrine dogmatiche e morali del Cristianesimo; il suo autore, inoltre, si mostra più esperto di testi sacri che di scienza naturale. Per lungo tempo il libro fu utilizzato dalla patristica (Epifanio, Basilio, Crisostomo, ecc.), e nel VI secolo fu perfino attribuito ad Ambrogio. L’opera costituì l’antecedente dei tanti bestiarii prodotti nei secoli medievali.

Fra i neosofisti minori si può anche annoverare il già menzionato Filostrato, detto “il Maggiore”, per distinguerlo da altri tre scrittori omonimi menzionati nel lessico Suda e che, rispettivamente, furono suo padre – delle cui opere non è rimasto nulla – e suo nipote. Filostrato nacque fra il 160 e il 170, studiò con i retori Damiano di Efeso e Antipatro di Hierapolis e si trasferì a Roma al tempo di Settimio Severo, assumendo il nome di Flavio Filostrato. Molto apprezzato nella cerchia della famiglia imperiale e soprattutto dall’Augusta Giulia Domna, egli fu costretto a lasciare l’Urbe dopo la tragica fine dell’imperatrice e di suo figlio Caracalla, che era stato suo amico e protettore. Filostrato si recò allora ad Atene, dove morì probabilmente intorno al 249, sotto il principato di Filippo l’Arabo, comandante del pretorio salito al trono dopo l’assassinio di Gordiano.

Ingegno vario e versatile, Filostrato applicò la sua cultura di retore soprattutto alla composizione di opere narrative di contenuto storico, nelle quali, però, non esitò a mescolare ad avvenimenti e a personaggi ben documentabili anche elementi favolosi. Ciò si nota con chiarezza nella sua opera già menzionata, le Vite dei sofisti, che comprende le biografie dei sofisti greci da Gorgia ai propri contemporanei. La raccolta, in due libri, composta fra il 229 e il 238, fu dedicata al proconsole Antonio Gordiano. Oltre a interessanti notizie biografiche, essa presenta anche una serie di citazioni letterarie di numerosi passi delle opere degli autori menzionati, offrendo una piacevole e varia lettura. Per desiderio dell’imperatrice Giulia Domna, Filostrato compose anche la Vita di Apollonio di Tyana, in otto libri, biografia del filosofo pitagorico vissuto nel I secolo e divenuto celebre per la sua fama di mago, profeta e taumaturgo. Nonostante la discutibile attendibilità dell’opera, che può essere considerata più che altro un romanzo biografico, essa propone una gradevole lettura per la ricca serie di notizie sulle civiltà orientali e per la scioltezza e la vivacità del racconto.

Achille alla corte di Licomede. Bassorilievo, marmo attico, 240 d.C. ca. da un sarcofago (dettaglio), Roma. Paris, Musée du Louvre.

Quasi nello stesso periodo, Filostrato redasse L’eroico, un lungo dialogo di impronta platonica, i cui protagonisti sono un vignaiolo greco e un marinaio fenicio, che, per caso, si incontrano su una spiaggia nel Chersoneso tracico: il Greco di ritorno da una visita al tempio dell’eroe Protesilao, il Fenicio in attesa di venti più favorevoli alla navigazione. Il Fenicio, curioso delle usanze elleniche, rivolge numerose domande al suo occasionale interlocutore, il quale risponde con piacere, affabilità e competenza, illustrando i miti di Protesilao, Palamede, Ettore, Achille e altri eroi, attingendo le sue informazioni ai poemi omerici e ciclici, ma modificandole secondo la cultura religiosa del tempo. Questo aspetto costituisce, in effetti, l’elemento di maggiore interesse dell’opera, perché consente di conoscere quali cambiamenti avevano subito nel tempo le leggende eroiche (una è quella degli Eneadi) e come erano state adattate agli usi e alle cerimonie locali.

Interessante è anche il Ginnastico, che fornisce notizie sulle competizioni e sulle specialità sportive del II-III secolo. Di argomento più erudito e vario sono i due libri delle Immagini, una raccolta in prosa che contiene le descrizioni di sessantacinque quadri conservati in una pinacoteca di Napoli. Questo genere letterario, detto “ecfrastico” (da ἔκφρασις, «descrizione»), ha i suoi precedenti nella poesia di Callimaco, di Teocrito, di Eroda e degli epigrammatisti; inoltre, alcuni decenni prima di Filostrato, i retore Nicostrato il Macedone aveva composto, usando per la prima volta la prosa, una raccolta di brevi descrizioni di opere d’arte. Gli studiosi sono stati a lungo incerti sulla reale esistenza dell’antologia di Filostrato, perché nelle scuole di retorica la descrizione fittizia di capolavori dell’arte era un esercizio piuttosto comune; tuttavia, sembra probabile che qui lo scrittore faccia riferimento a quadri realmente esistiti e veduti da lui stesso.

Di Filostrato “il Minore”, figlio di Nerviano e di una figlia del “Maggiore”, si può ricordare una raccolta di diciassette Immagini, assai analoga a quella del nonno, ma molto più ridotta nell’estensione delle singole descrizioni e meno brillante nell’esposizione. Dell’opera di un altro Filostrato, nato intorno al 190, non è rimasto nulla.

Tib. Claudio Erode Attico (forse). Testa, marmo pario, 177-180 d.C. ca.

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