Genserico, i Vandali e il nuovo sacco di Roma

Nella lingua italiana il termine “vandalo” è da sempre sinonimo di distruttore selvaggio, che, senza alcuna motivazione ma solo come manifestazione di violenza, per gusto perverso o per ignoranza, devasta e rovina beni e oggetti di valore, e soprattutto monumenti, opere d’arte. Con questa accezione, nel suo Rapport sur les destructions opérées par le vandalisme, et sur les moyens de le réprimer del 1794, l’abate Henri Grégoire, vescovo costituzionale di Blois, coniò il concetto di “vandalismo”. La pessima nomea, che dall’antichità al Rinascimento, fino all’età moderna, accompagnò il popolo dei Vandali deriva dalle sanguinarie imprese compiute durante la conquista della dioecesis Africae nel V secolo (Possid. Vita August. 31, 1, Romaniae eversores). I Vandali erano una stirpe germanica del gruppo etnico orientale, suddivisi nei due rami degli Asdingi e dei Silingi. A causa della pressioni unniche e della carestia, intorno al 400, sotto re Godigiselo (PLRE 2, 515-516), gli Asdingi lasciarono le proprie sedi in Pannonia e si portarono in Raetia. Nel 401/2 furono sconfitti in battaglia dal “generalissimo” Flavio Stilicone, che, indottoli a concludere un foedus, consentì loro di insediarsi tra il Noricum e la Vindelicia. Nel 405 Godigiselo ruppe l’accordo con l’Impero romano e, unitosi all’orda barbarica di Radagaiso, invase l’Italia, dove, nei pressi di Florentia, fu battuto ancora una volta dalle forze di Stilicone. Nel 406, alleato con Alani e Suebi, Godigiselo portò i suoi nella valle del Meno, riunì sotto di sé tutte le tribù vandaliche e mosse in armi contro i Franchi, foederati dei Romani, che difendevano la frontiera renana nei pressi di Augusta Treverorum: mentre infuriava la zuffa, però, il re dei Vandali cadde ucciso (Greg. Tur. Hist. Franc. II 9; Theoph. HE 5931; 6026; cfr. Procop. Bell. III 3, 1-2). Gli successe il figlio Gunderico (PLRE 2, 522), che, unite le sue forze a quelle degli Alani di re Respendiale, sconfisse i Franchi e alla fine del 406 attraversò il Reno. Senza incontrare alcuna resistenza, i barbari invasero e saccheggiarono le Galliae con grande ferocia (Oros. VII 3, 4; Chron. min. I 299; 465 Mommsen; Zos. VI 3), poi, nel 409, varcarono i Pirenei (Chron. min. II 17 Mommsen; Soz. IX 12; Greg. Tur. Hist. Franc. II 2). Le distruzioni causate da questi razziatori sia in Gallia sia in Hispania dovettero essere state notevoli. Pur dando per scontata una certa esagerazione delle fonti letterarie, come la nota immagine, prospettata dal vescovo Orienzio nel suo Commonitorium, dell’intera Gallia invasa dal fumo di un’unica pira funeraria (Orien. Comm. II 184, uno fumavit Gallia tota rogo), occorre considerare che per due anni l’intero settore subì l’assalto degli invasori e la stessa sorte toccò alla Penisola iberica nei due anni successivi.

Cavaliere vandalico. Illustrazione di J. Shumate.

Tra l’altro, siccome la dioecesis Hispaniarum non era una regione di frontiera, le truppe imperiali di stanza sul posto erano poco numerose e, quindi, incapaci di proteggere la popolazione da una simile minaccia: nel suo De gubernatione Dei il moralista Salviano di Marsiglia ricorda quanto facilmente i Vandali poterono spazzare via le forze romane in battaglia (Salv. Gub. VII 12, 52, Quid in Hispania, ubi etiam exercitus nostros bellando contriverant?). Inoltre, non erano soltanto i barbari a causare distruzioni, debacchantibus per Hispanias: il vescovo Idazio, un cronista del tempo (Chron. min. II 17 Mommsen), parla anche di gravi pestilentiae, della perdita di ricchezza da parte dei centri urbani a causa del tyrannicus exactor e di terribili carestie tali da indurre perfino le madri a cuocere e cibarsi dei loro stessi pargoli (matres quoque necatis vel coctis per se natorum sint pastae corporibus); simili notizie si ritrovano anche nell’Historia Wandalorum compilata da Isidoro, vescovo di Hispalis (Chron. min. II 295 Mommsen). Sembra che la situazione cominciò a migliorare nel 411 allorché i barbari delle Hispaniae decisero di concludere la pace con le autorità romane e di trovare un accomodamento, secondo i dettami della foederatio e dell’hospitalitas (cfr. C.Th. VII 8, 5): i Vandali Asdingi di Gunderico presero una parte della Gallaecia, mentre i Suebi occuparono la parte restante, che si affacciava sull’Oceano; gli Alani ebbero la Lusitania e la Carthaginensis, mentre i Vandali Silingi la Baetica (Oros. VII 40, 10). Secondo Idazio, gli Hispani delle città e dei castelli sopravvissuti alle catastrofi (residui a plagis) si arresero a diventare servi dei nuovi arrivati, che detenevano il potere in tutte le province. Sembra che la migrazione e l’insediamento dei Vandali nella Penisola iberica siano stati provocati dalle pressione dei Visigoti.

Nel 416 il re goto Wallia dei Balti (PLRE 2, 1147), infatti, concluse un foedus con l’Impero d’Occidente. Poco tempo dopo, onorando l’accordo, Romani nominis causa Wallia mosse guerra ai barbari delle Hispaniae e ne fece strage: stando a Idazio (Chron. min. II 19 Mommsen), tutti i Silingi della Baetica furono spazzati via, il loro re Fredebaldo fu catturato e tenuto come ostaggio a Ravenna, mentre gli Alani subirono perdite tali che i pochi sopravvissuti, ormai privi della loro guida, re Attace, si posero sotto il comando di Gunderico, che da allora si fregiò del titolo di rex Vandalorum et Alanorum (Oros. VII 43, 10-15; Olympiod. F Blockley).

Mappa della Penisola iberica nel V secolo relativa all’insediamento delle popolazioni barbariche.

Comunque, l’avvenimento più importante della storia dei Vandali fu la loro partenza dalle Hispaniae a seguito dell’intrepida decisione di Genserico. Le fonti antiche offrono di questo sovrano un ritratto a dir poco negativo: variamente noto come Gaisericus, Geisiricus, Ginziricus o Γιζέριχος, il re dei Vandali appare come il vero prototipo del barbaro efferato, crudele e astuto, abituato a vivere con poco, ma, al contempo, avido di ricchezze altrui, facile all’ira e incline all’intrigo, completamente privo di quell’umanità e di quel rispetto delle leggi che altri condottieri germanici avevano appreso e assorbito al contatto con i Romani (Iord. Get. 33, 168). Il suo fanatismo religioso lo spinse a instillare nei suoi la convinzione che la conquista della dioecesis Africae fosse una vera e propria “guerra santa” contro le gerarchie ecclesiastiche niceno-calcedoniane, colpevoli della persecuzione degli ariani. La descrizione di Genserico e dei suoi è talmente convenzionale da aver fatto sorgere il dubbio, fra gli interpreti moderni, che si tratti, se non di una mistificazione, almeno di un’esagerazione della propaganda cattolica: più terribili erano le efferatezze attribuite a Genserico, più luminosa ed eroica sarebbe apparsa l’opposizione del clero e dei fedeli ortodossi (Possid. Vita August. 28, 4; Socr. HE VII 9-10; Soz. HE IX 6; Procop. Bell. III 5, 25; Salv. Gub. VII 12, 54).

Chi era, allora, questo rex superbissimus, impius fautore dell’Arriana perfidia? Un uomo crudele e selvaggio, così come viene dipinto dagli scrittori contemporanei, oppure un sovrano capace e lungimirante, un capo carismatico e un guerriero eccellente, abile creatore e amministratore di regni? È noto che Genserico era figlio illegittimo di Godigiselo e, sebbene fosse nato da una concubina, ancora giovane, nel 428 successe come re al fratellastro Gunderico – questi, secondo Idazio, sarebbe morto dopo essere stato reso pazzo da un demone a seguito della conquista di Hispalis (Sidon. Carm. III 358-380; V 97; Procop. Vand. I 3, 23; Chron. min. II 22 Mommsen). Dal momento che l’accessione al trono di Genserico avvenne senza opposizioni, è probabile che, a quel tempo, presso i Vandali la semplice appartenenza di uno dei due genitori alla famiglia reale asdinga garantisse ai figli il diritto di essere considerati membri della dinastia e consentisse loro di aspirare al regno. Onde evitare il rischio che tali diritti fossero messi in discussione, Genserico tolse di mezzo la cognata e il nipote. Sin da subito egli si mostrò un uomo forte e autoritario, dotato di un’ottima esperienza in guerra e di un’intelligenza non comune, capace di trascinare il suo popolo in un’impresa piena di incognite (cfr. Procop. Bell. III 3, 24).

Un guerriero vandalo e la sua famiglia. Illustrazione di P. Glodek.

Nel maggio del 429 Genserico raccolse tutta la sua gente – i Vandali e gli Alani, con mogli, figli e tutte le persone a loro carico – nel porto di Iulia Traducta in Baetica, presso le Colonne d’Ercole, e ne organizzò l’emigrazione. Appena prima di compiere la traversata, Genserico respinse un’offensiva scatenata dagli Svevi alla provincia romana, ne inseguì le truppe in fuga fino in Lusitania e inflisse una dura disfatta al loro re, Eremigario, nei pressi di Augusta Emerita (Chron. min. II 21 Mommsen). Si disse che in Tingitana fossero sbarcati 80.000 Vandali. Come spesso accade, quello delle cifre è un problema cruciale ed è stato molto dibattuto in relazione ad altre migrazioni barbariche. Il vescovo Vittore di Vita, autore dell’Historia persecutionis Africanae provinciae, scrisse, come lui stesso riferisce, a circa sessant’anni dall’evento. Afferma che in tanti oltrepassarono il mare e Genserico, nella sua astuzia (calliditate), volendo fare della fama del suo popolo (crudelis ac saevus) una fonte di terrore, ordinò che l’intero assembramento venisse contato, compresi i neonati venuti alla luce quello stesso giorno. Insomma, inclusi vecchi, ragazzi e bambini, servi e padroni, si scoprì che formavano un totale di 80.000 persone. La notizia venne diffusa ad arte ovunque e ancora ai suoi tempi, continua Vittore, gli ignoranti in materia credevano che questo fosse il numero degli armati (Vict. Vit. HP I 1, 1-2). Inoltre, secondo Possidio (Vita August. 28), l’orda di Genserico era composta non solo da Vandali e Alani, ma anche un consistente gruppo di Goti (… immanium hostium Vandalorum et Alanorum commixtam secum habens Gothorum gentem…).

È bene notare che il sovrano vandalico, con tutta probabilità, volle diffondere cifre che avrebbero fatto colpo e creato preoccupazione dovunque. La notizia trova conferma nel racconto di Procopio di Cesarea, per il quale si tratto di uno stratagemma cui Genserico ricorse per far credere ai Romani di disporre di un numero maggiore di soldati di quanto non fossero in realtà – ovvero, verosimilmente, meno di 10.000 (Procop. Bell. III 5, 18).

Lo sbarco di Genserico in Nordafrica. Illustrazione di A. McBride.

A ogni modo, attrattovi dalla situazione di caos venutasi a creare per la rivolta dei Mauri, che le autorità imperiali non riuscivano a controllare, e forse chiamato dal comes Africae Bonifacio, in rotta di collisione con l’imperatore, Genserico portò a termine la traversata e raggiunse la Mauritania (Chron. min. I 472; II 21 Mommsen; Procop. Bell. III 3, 23-26; Iord. Get. 23, 167-169). Da lì, distrutta Altava, i Vandali investirono le città di Tassacora, Portus Magnus, Cartenna, Caesarea, Icosium, Autia e Sitifis, e, muovendo per 2.000 km verso est, lungo gli assi viari della costa, raggiunsero le tre popolose province di Numidia, Proconsularis e Byzacena. Anche lì i barbari saccheggiarono diversi centri abitati, quali Cirta, Calama, Thagaste, Sicca e Thuburbo Maior: migliaia di persone vennero trucidate e un numero ancor maggiore fu ridotto in schiavitù. Dopo aver sbaragliato a più riprese le forze romane, nell’estate del 430 i Vandali raggiunsero la città di Hippo Regius: durante l’assedio, il 28 agosto, si spense l’uomo che ne era stato vescovo per trentacinque anni, Aurelio Agostino forse il più grande teologo nella storia della Chiesa (Possid. Vita August. 28-30; Chron. min. I 473; II 22 Mommsen). Dopo quattordici mesi di blocco, nel 431 la città cadde in mano agli assalitori (Procop. Bell. III 3, 31-34).

Genserico sapeva bene che ogni conquista andava consolidata e, siccome la guerra cominciava a pesare anche per la sua gente, avendo preso il controllo di una sola città, ebbe l’accortezza di intavolare trattative con l’imperatore Valentiniano III (PLRE 2, 1138-1139): così l’11 febbraio 435 si addivenne a un trattato di pace, in forza del quale i Vandali furono individuati come foederati al servizio dell’Impero per la Numidia Cirtana (Chron. min. I 474 Mommsen). Ciononostante, ben presto, Genserico iniziò a comportarsi come un sovrano autonomo, esercitando sulla regione un potere assoluto: tutte le terre, sia pubbliche sia di proprietà privata, furono confiscate e annesse al demanio regio, quindi suddivise in lotti e distribuite ai più fedeli soldati del re (sortes Vandalorum). Quanto alle popolazioni locali, scampate alla morte o alla servitù, le comunità africane furono costrette al pagamento di tributi assai onerosi, nonostante la formale conservazione della legislazione imperiale (cfr. Procop. Bell. III 5, 16). Le fonti documentali, confluite nel corpus di Vittore di Vita, come la già nominata Historia persecutionis Africanae provinciae, la Notitia provinciarum et civitatum Africae e la Passio beatissimorum martyrum, tramandano una delle pagine più terribili della storia della repressione ariana contro l’ortodossia nicena: sono innumerevoli gli episodi di torture inflitte agli ecclesiastici e ai fedeli, che, durantes in catholica fide, preferirono subire il martirio piuttosto che abiurare. Si narra come gli sfortunati fossero costretti a bere aceto o liquidi corporali, o a trascinare enormi pesi; coloro che rifiutavano di abbracciare l’Arriana impietas erano messi all’ergastolo, condannati all’esilio o, preferibilmente, uccisi. Si racconta di prelati arsi sul rogo, dilaniati dalle belve nel circo o legati a cavalli e trascinati su terreni accidentati. Tutti gli eventi narrati, comunque, vengono tendenzialmente ridotti a uno scontro fra omousiani e ariani, nel quale i primi vengono rappresentati come pii sottoposti alle più atroci torture, descritte finanche con eccessiva dovizia di particolari, mentre i secondi risultano sempre essere spietati carnefici, protagonisti negativi di una concatenazione di piccole rappresentazioni agiografiche (cfr. Vict. Vit. HP I 3-4; I 6; I 8; I 10; I 12; Nov. Val. II 12, 13, 6; Ferrand. Vita Fulg. I 4). Chiaramente negli episodi dello scontro vengono meno le considerazioni politiche, economiche e militari dei soggetti agenti.

Città del Vaticano. Ms. Vat. gr. 1613 (c. 1000). Menologio di Basilio II, f. 172r. Il martirio di Oreste di Cappadocia.

Instaurato il proprio regno nel Nordafrica, Genserico divenne ben presto una figura importantissima negli equilibri mediterranei e influì di molto sulle vicissitudini dell’Impero d’Occidente: difatti, fra i sovrani barbarici insediati entro i confini di Roma, Genserico fu sotto molti riguardi quello che ottenne i maggiori successi. Quanto alla gestione del regno, a quanto pare, egli operò una serie di riforme: il sovrano doveva essere coadiuvato da ministri e burocrati, in massima parte di stirpe vandalica, ma anche di origini romane. Nella persona del re erano concentrati tutti i poteri, come il comando degli eserciti e l’esercizio della giustizia. Inoltre, solo a lui era consentito elargire donativa, in moneta sonante o in beni immobili, ai propri sudditi.

Regno dei Vandali. Genserico. Siliqua, Cartagine c. 455-476. AV 4,25 g. Recto: busto diademato, imperlato, drappeggiato e corazzato dell’imperatore (Onorio), voltato a destra.

L’ambizione di Genserico non sembrava conoscere limiti. Stando alle cronache, nel 439 l’Asdingo mosse fuori dai suoi confini e, rotti i patti con Roma, attaccò Cartagine, per importanza la seconda città della pars Occidentis e porto di fondamentale rilevanza per gli approvvigionamenti annonari necessari al mantenimento dell’Urbe: il 19 ottobre Cartagine fu espugnata magna fraude (Vict. Vit. HP I 12-14; Chron. min. I 477; II 23; 80; 296 Mommsen). Nel suo sermone De tempore barbarico (2, 5), il vescovo Quodvultdeus, scampato al pericolo delle persecuzioni trascorrendo l’esilio a Napoli, compianse gli orrori che i Cartaginesi dovettero patire e lamentava come l’empio dominio dei Vandali avesse provocato un sovvertimento sociale, rendendo persino i padroni di molti servi asserviti ai nuovi arrivati. La presa della metropoli, che di lì a poco divenne la capitale del regno, completò la conquista vandalica della dioecesis Africae, costituendo una robusta base di potere nel Mediterraneo occidentale. Il successo e la longevità del dominato degli Asdingi in Nordafrica dipesero in gran parte dal nuovo foedus siglato nel 442 tra Genserico e Valentiniano III: con questo accordo l’imperatore riconobbe formalmente il regno vandalico e il sovrano barbaro «alleato e amico» dell’Impero, ma i Vandali avrebbero dovuto corrispondere al governo di Roma un tributo in moneta e in natura (Vict. Vit. HP II 39; III 4; Procop. Bell. III 5, 12-13); per garantire la tenuta del patto, il principe Unnerico (PLRE 2, 572-573) fu inviato a Roma come ostaggio e promesso alla figlia dell’imperatore, Eudocia, che all’epoca aveva solo sette anni (PLRE 2, 407-408; Procop. III 4, 13-14; Merob. Pan. I 7-8; 17-18; II 29; Chron. min. I 479 Mommsen). Mai, prima di allora, la linea politica ufficiale aveva contemplato una simile alleanza tra i barbari e la famiglia imperiale; senza contare che avrebbe avuto ripercussioni di lunghissima durata. Genserico, infatti, diede prova di essere un sovrano energico e lungimirante, stratega eccellente e capace di condurre i suoi di vittoria in vittoria e fu uno dei grandi sopravvissuti del V secolo: sfuggì a una grave congiura, probabilmente finanziata o voluta dal governo imperiale (Iord. Get. 34, 169), scampò al massiccio attacco navale condotto contro di lui nel 460 dall’imperatore d’Occidente riuscendo a catturare gran parte della flotta romana; sopravvisse alla disastrosa spedizione inviata da Costantinopoli nel 468; e fu persino in grado di sopravvivere all’istituzione imperiale in Occidente, morendo nel 477.

L’estensione del regno vandalico tra il 435 e il 442 [Modéran 1998].

Indubbiamente, la figura di Genserico è legata al secondo grande saccheggio di Roma. Il 17 marzo 455, subito dopo l’assassinio di Valentiniano III, il senatore Petronio Massimo (PLRE 2, 749-751), ispiratore della congiura, venne proclamato imperatore, ma il suo regno ebbe vita assai breve, durato soltanto undici settimane. La morte di Valentiniano III, infatti, ebbe come immediata conseguenza la rottura del delicato complesso di equilibri sul quale si fondavano i rapporti tra l’Impero e i Vandali, cosicché il conflitto divenne inevitabile (Chron. min. I 483-484; II 86 Mommsen; Iord. Rom. 334).

Re Genserico si mosse con una straordinaria rapidità e un eccezionale tempismo: alla fine di maggio, la flotta vandalica, con un minaccioso carico di armati, aveva già raggiunto la foce del Tevere. Le cause delle ostilità aperte da Genserico, nel giugno 455, con l’assedio di Roma sono esposte nei dettagli dallo storico Giovanni di Antiochia (FHG IV 201, 6 Müller). Lo scrittore riferisce che il re dei Vandali, quando Massimo fu eletto imperatore, ritenne che fosse venuto finalmente il momento giusto per assalire l’Italia, in quanto la morte degli animatori e dei firmatari del trattato di pace del 442 rendeva legittimo il suo atto. Altre fonti (οἱ δέ φασι), invece, riferiscono che il motivo per cui Genserico decise di violare la pace per dare l’avvio alla «quarta guerra punica» (come la definì Sidonio Apollinare, Carm. VII 550-556; 588), fu la richiesta d’intervento espressagli esplicitamente dall’imperatrice, l’Augusta Licinia Eudossia (PLRE 2, 410-412), decisa a vendicare l’uccisione del marito e l’onta delle odiate nozze a cui Massimo l’aveva costretta (cfr. Procop. Bell. III 4, 37-39; Malal. Chronogr. 14, 26, 365; CP 592, 2-7). Anche nel Panegyricus dictus Avito Augusto di Sidonio Apollinare (Carm. VII 441), recitato il 1° gennaio 456, si allude alle «armi furtive del Vandalo» (furtivis Vandalus armis), che ebbe ragione di Roma nn con una guerra giusta e leale, ma per il tradimento dell’imperatrice. In realtà, la strategia usata da Genserico rende probabile l’ipotesi che già da tempo il re avesse deciso di violare i trattati di pace del 442 e di prepararsi a entrare in guerra. La rapida e fortunata incursione sulle coste laziali fu resa possibile da una grande spedizione marittima, a cui presero parte anche soldati libici reclutati sulle coste africane. Quindi, difficilmente si sarebbe potuta improvvisare una simile spedizione in tempi brevi. Genserico si ritenne svincolato dai patti che lo legavano all’Impero romano oltre che dalla morte di coloro che li avevano stipulati, in particolare Valentiniano (la cui scomparsa fornì il pretesto per iniziare la guerra), anche dall’ascesa sul trono d’Occidente di un sovrano che non era investito di un’autorità legittima. Massimo era un usurpatore, e pertanto bisognava rispondere all’invito di Eudossia.

La flotta di Genserico in viaggio verso Roma. Illustrazione di S. Ó’Brógáin.

Quali che furono le cause, Genserico si lanciò all’attacco di Roma. La sua efficiente marina poteva contare su un valido corpo di soldati, anche se il re non aveva certamente con sé tutti gli uomini (Vandali e Alani) abili alle armi, la cui presenza era troppo necessaria in Africa per gestire l’immenso territorio controllato. Si valse però del contributo e della preparazione militare di guerrieri mauri e libici (Paul. Diac. Rom. XIV 16). Per trasportare il corpo di spedizione (si calcola che il suo esercito dovesse essere composto da almeno 14.000 uomini), sembra che Genserico non disponesse di grandi navi, bensì, in prevalenza, di piccoli e veloci legni. Roma non era affatto preparata a fronteggiare un attacco di tale entità: i generali dell’Impero, tra i quali all’epoca si distinguevano Maggiorano e Ricimero, erano ancora impegnati, con le poche forze disponibili, nell’Italia settentrionale. Tutto sommato, la città era considerata sicura per la famiglia imperiale, trasferitavisi al tempo delle incursioni di Attila, e il suo perimetro era quasi indifeso. L’imperatore Massimo, dal canto suo, avvertiva uno spiacevole presentimento, se, come riferisce Sidonio Apollinare (Ep. II 13, 5), considerava felice Damocle per il fatto che, almeno solo per la durata di un banchetto, aveva dimenticato la minaccia della spada che stava sospesa sulla sua testa (felicem te, Damocles, qui non uno longius prandio regni necessitatem toleravisti). L’imperatore sapeva probabilmente che Genserico lo considerava un usurpatore, e non rimase poi molto stupito quando il suo presagio divenne realtà.

Dopo una felice e tranquilla navigazione, la flotta vandalica giunse alle foci del Tevere. Gli storici non precisano dove avvenne lo sbarco dei Vandali, né l’itinerario seguito da Genserico per arrivare in Italia. Procopio (Bell. III 5, 1) dice semplicemente che «salpò per l’Italia con una potente flotta» (στόλῳ πολλῷ ἐς Ἰταλίαν κατέπλευσεν): probabilmente i Vandali sbarcarono a Ostia e, subito dopo, s’impadronirono di Porto, che certamente divenne la base per le operazioni successive e da cui, seguendo la via Portuense, si incamminarono verso Roma. Genserico, condottiero troppo prudente ed esperto per spingersi subito sotto le mura della città, al sesto miglio della vecchia porta claudiana fermò le sue truppe. Questo particolare si deduce dal frammento già citato dell’Antiocheno (FHG IV 201, 6 Müller), secondo il quale i Vandali si sarebbero accampati «in Azesto» (ἐν τῷ Ἀζέστῳ). Dal momento che non esiste nella campagna romana una località con questo nome, sembra evidente che si tratti di una corruzione dell’espressione a sexto (miliario): dunque, l’accampamento dei Vandali doveva trovarsi sulle colline, nei pressi dell’attuale Magliana. Se a Roma qualcuno avesse organizzato una valida difesa, probabilmente sarebbe stato difficile per gli invasori superare la cinta muraria che l’imperatore Aureliano aveva fatto costruire a protezione della città. Invece gli avvenimenti precipitarono. Giovanni di Antiochia (ad l.c.) riferisce che Massimo, venuto a conoscenza dell’imminente arrivo di Genserico, pensò soltanto ad abbandonare la città. Dato il segnale del “si salvi chi può”, si avviò a cavallo verso una porta, «ma i suoi più fidi servi e gli uomini della guardia imperiale, nel vederlo fuggire, lo insultarono e lo vituperarono per la viltà. Quando già era quasi in salvo, un tale lo colpì con una pietra alla tempia, uccidendolo. La folla, poi, gli fu addosso, lo fece a pezzi e ne portò in giro le membra sulle picche» (αὐτῶν τῶν βασιλικῶν δορυφόρων καὶ τῶν ἀμφ’ αὐτὸν ἐλευθέρων οἷς μάλιστα ἐκεῖνος ἐπίστευεν, ἀπολιπόντων, οἳ ὁρῶντες ἐξελαύνοντα ἐλοιδόρουν τε καὶ δειλίαν ὠνείδιζον· τῆς δὲ πόλεως ἐξιέναι μέλλοντα βαλών τις λίθῳ κατὰ τοῦ κροτάφου ἀνεῖλε· καὶ τὸ πλῆθος ἐπελ θὸν τόν τε νεκρὸν διέσπασε, καὶ τὰ μέλη ἐπὶ κόντῳ φέρων ἐπαιωνίζετο; cfr. Procop. Bell. III 5, 2). Alcune fonti riportano il nome dell’uccisore: Giordane (Get. 45, 235) dice che fu un soldato romano di nome Urso, mentre, secondo Sidonio (Carm. VII 442), fu un milite burgundo della guardia del corpo, che era quasi tutta composta da barbari. Due giorni dopo, Genserico, avendo saputo che Roma era senza governo e senza difesa, l’assediò per quattordici giorni: vinta facilmente la resistenza degli abitanti, il Vandalo decise di espugnarla, ma accadde allora qualcosa che non aveva calcolato. Ad attenderlo, trovò papa Leone I: si ripeteva quanto era già accaduto tre anni prima con Attila. Ancora una volta, all’avvicinarsi di un nemico tanto temibile e preceduto da una fama terribile, il papa ritenne opportuno intervenire in prima persona, sperando di limitare i danni (Chron. min. I 484 Mommsen; Paul. Diac. Rom. XIV 16).

The Hague, Koninklijke Bibliotheek. MMW 10 A 11 (XV secolo), Saint Augustin, La Cité de Dieu, traduite en français par R. de Presles, f. 15r. Papa Leone il Grande convince Genserico ad astenersi dal saccheggio di Roma.

L’impresa riuscì anche questa volta, anche perché i Vandali non erano più l’orda scalmanata che aveva attraversato il Noricum e la Gallia. Genserico li teneva in pugno e, con un solo cenno, poteva incitarli alla distruzione, ma anche obbligarli a rispettare determinati vincoli. Quando Leone I e il sovrano barbaro si trovarono di fronte, quest’ultimo provò rispetto per il pontefice e forse subì, come già Alarico e poi Attila, il fascino della città Eterna. Qualcosa scosse l’animo di Genserico, che diede l’ordine di non appiccare incendi e di non abbandonarsi a inutili spargimenti di sangue. In quell’occasione, a quanto sembra, la foga distruttiva e priva di senso che ancora oggi è chiamata “vandalismo” non si manifestò. Un condottiero non poteva privare comunque i suoi soldati dalla preda bellica – oro, argento, oggetti preziosi –, come imponevano le dure leggi della guerra, e il papa non poté quindi impedire il sistematico saccheggio di Roma. I Vandali portarono via con loro anche uno stuolo di prigionieri: in particolare prelevarono quelli che, per età o per prestanza fisica, potevano essere impiegati utilmente in Africa e coloro che, per condizione sociale, potevano essere oggetto di un buon riscatto. Del gruppo facevano parte anche l’imperatrice Eudossia con le due figlie, Placidia ed Eudocia, e Gaudenzio, figlio del generale Ezio, più diversi senatori, che non erano fuggiti (Iord. Rom. 334; Procop. Bell. III 5, 3-5; Malal. Chronogr. 14, 26, 366; Chron. min. II 86 Mommsen). Così, finita la ragione della sua “permanenza” a Roma, Genserico prese la via del ritorno e, senza altri atti di guerra, tornò in Africa per celebrare al più presto il matrimonio tra suo figlio Unnerico e la principessa Eudocia (Procop. Bell. III 5, 6).

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Riferimenti bibliografici:

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Decio, l’imperatore che morì in battaglia

Nel 249, dopo soli cinque anni e mezzo di principato, a un esponente del Pretorio e dell’esercito, Marco Giulio Filippo Arabo (c. 204-249), succedette un membro dell’ordine senatorio, Gaio Messio Quinto Decio (c. 201-251). Costui, come i suoi predecessori, perseguì una politica profondamente legata all’ideale della Romanitas (cfr. AE 1973, 235, restitutor sacrorum). Uno dei suoi primi atti fu infatti quell’editto passato alla storia come una delle più feroci persecuzioni contro i cristiani.

Decio. Busto, marmo lunense, 249-251 d.C. Roma, Musei Capitolini.

Eppure, a ben vedere e seguendo in parte le testimonianze coeve, l’obiettivo era quello di instaurare un buon governo, ripristinare la pax deorum e riportare l’ordine nell’Impero, soprattutto nelle province danubiane. Per far ciò, Decio volle verificare la fedeltà e la lealtà dei cittadini verso quei valori che avevano reso grande Roma. In base al provvedimento, il principe pretese che chiunque sacrificasse agli dèi e al Genius Augusti (compisse cioè una supplicatio) davanti a una commissione istruita ad hoc: performato il rito, secondo le prescrizioni religiose, i controllori avrebbero rilasciato una certificazione comprovante il profondo legame tra il cittadino e le istituzioni.

L’editto, insomma, non fu propriamente un atto contro la Chiesa di Roma, bensì contro tutti coloro che non intendevano più seguire gli ordinamenti tradizionali. Diversi dati archeologici confermano questa tesi, come il fatto che in nessuno dei certificati (libelli) pervenuti si menzioni espressamente la religione cristiana, anche perché l’atto di idolatria era richiesto a tutti. Persino le fonti patristiche, specialmente Eusebio e Lattanzio (Euseb. HE VI 41, 9-10; Lactant. De mort. pers. 4, 2), testimoniano che, nella maggior parte dei casi, la pena prevedeva il carcere temporaneo, mentre in altri si veniva addirittura assolti. È probabile che il positivo riscontro di massa verso i culti tradizionali – ancora molto forte all’epoca – fosse sufficiente a Decio per ottenere la risposta che desiderava.

P. Oxy. 4 658. Certificazione di avvenuto sacrificio in onore degli dèi (libellus Decianus), in data 14 giugno 250, da Ossirinco (od. Bahnasa, Egitto). New Haven, Beinecke Library.

Ciononostante, è pur vero che, sotto il suo brevissimo principato, andarono incontro al martirio figure come Apollonia, Agata e Fabiano, vescovo di Roma. Si è ipotizzato che eliminazione di quest’ultimo, in particolare, si inserisse in problematiche di natura patrimoniale, dal momento che si volle anche intervenire sulle sempre più crescenti e cospicue proprietà ecclesiastiche. D’altronde, Cipriano di Cartagine (Ep. LV 9, 1) riferisce che Decio (tyrannus infestus) sperava che il vescovo romano non avesse successori, ammettendo di preferire lottare contro un qualunque rivale nell’Impero piuttosto che con quel prelato.

Quanto alla Chiesa romana, l’editto deciano provocò un vero e proprio scisma interno: molti furono bollati come lapsi, cioè coloro che, temendo ritorsioni e rappresaglie, avevano fatto atto di adorazione verso gli antichi dèi, e altrettanti furono citati come libellatici, ovvero coloro che, tramite carte false, erano riusciti a certificare l’avvenuto sacrificio alle divinità. Una volta conclusa la “persecuzione”, la notizia di questi comportamenti determinò il problema se fosse o meno lecito riammettere nella comunità cristiana gli autori di quei gesti. Nel 251 il presbitero Novaziano si autoproclamò vescovo di Roma e si oppose fortemente alle posizioni moderate di Cipriano e Cornelio; quando anche quest’ultimo fu eletto vescovo nello stesso anno, fu necessario convocare un Concilio per dirimere la questione, che volse a favore dei moderati.

C. Messio Quinto Traiano Decio. Antoninianus, Roma c. 249-251. AR 3,87 g. Dritto: Imp(erator) C(aesar) M(essius) Q(uintus) Traianus Decius Aug(ustus). Busto radiato, corazzato e voltato a destra.

Appena asceso alla porpora, Decio assunse il cognomen di Traianus, elevò alla dignità di Caesares i figli Erennio Etrusco e Ostiliano, associandoseli al trono, e assegnò alla moglie Erennia Cupressenia Etruscilla il titolo di Augusta. Stando alle fonti, la permanenza dell’imperatore a Roma fu brevissima: è noto che ebbe modo di intervenire sulla manutenzione della viabilità e dotò l’Urbe di nuove opere architettoniche, in particolare un impianto termale (thermae Decianae) che sorse sull’Aventino (Eutrop. IX 4; Zon. XII 20).

Ai confini dell’Impero, nell’area balcanica, si stagliava di nuovo la minaccia di un attacco degli Sciti. Purtroppo, il termine Scita, impiegato genericamente dalle fonti latine, non consente di conoscere il vero nome della stirpe in questione, benché ci sia il sospetto che si trattasse dei Goti, o meglio di una federazione di popoli in armi tra i quali gli stessi Goti, i Borani, i temuti Carpi e gli Urugundi. Chiunque essi fossero, gli Sciti si erano da poco riorganizzati sotto la guida di un comandante abile e deciso, Cniva, e agli inizi del 250 avevano irrotto nel territorio romano attraverso la frontiera.

Incursione dei Goti guidati da Kniva in Thracia (c. 249-251) [creazione di Cristiano64].

Sotto il suo secondo consolato, nella seconda parte dello stesso anno, Decio alla testa dell’esercito giunse in Illyricum: in quei mesi si susseguirono diversi fatti militari, atti di sabotaggio, tradimenti e altri tentativi ostili nei confronti dell’imperatore proprio da parte dei suoi stessi collaboratori, tra i quali anche Treboniano Gallo. Dopo aver sbaragliato le armate di Kniva a Nicopolis, in Moesia inferior (CIL II 4949, Dacicus maximus; AE 1942/3, 55, Germanicus maximus), Decio subì un rovescio nei pressi di Beroea, in Thracia, ma riuscì a salvarsi e a riorganizzare le proprie forze. In quel frangente, il governatore della provincia, Tito Giulio Prisco, tradì il principe e, accordatosi segretamente con il nemico, tentò di farsi imperatore (Dexipp. FGrHist. 100 F 26; Iord. Get. 18, 103; AE 1932, 28), mentre Giulio Valente Liciniano assunse il potere a Roma ([Aur. Vict.] Caes. 29, 3; Epit. Caes. 29, 5): entrambi gli usurpatori furono affrontati ed eliminati. Nella primavera del 251, Decio e suo figlio Erennio (anch’egli Augustus), che in quell’anno condividevano il consolato, accorsero in difesa di Philippopolis, che era stata attaccata dai barbari; l’imperatore, tuttavia, non riuscendo a impedire la distruzione della città, tentò di bloccare la ritirata dei Goti oltre il Danubio. L’astuto Kniva seppe però tendere una trappola all’esercito romano così da affrontarlo su un terreno a lui più favorevole: Giordane narra che «appena iniziato lo scontro, uccisero di una morte crudele il figlio di Decio, trafitto da una freccia. Il padre, visto l’accaduto, per rianimare i suoi soldati, avrebbe detto: “Nessuno si affligga. La perdita di un solo soldato non indebolisce lo Stato!”. Tuttavia, non sostenendo il suo dolore paterno, si gettò tra i nemici, cercando la morte o la vendetta del figlio» (Iord. Get. 18, 103, Venientesque ad conflictum ilico Decii filium sagitta saucium crudeli funere confodiunt. Quod pater animadvertens licet ad confortandos animos militum fertur dixisse: “Nemo tristetur: perditio unius militis non est rei publicae deminutio”, tamen, paterno affectu non ferens, hostes invadit, aut mortem aut ultionem fili exposcens…). Dopo aver eliminato l’erede all’Impero, in estate i Goti riuscirono ad aver ragione anche del principe, attirandolo negli acquitrini nei pressi di Abrittus. Zosimo (I 23, 2-3) riporta le ultime, concitate, fasi della battaglia in cui – a quanto pare – giocò un ruolo decisivo il tradimento di Treboniano Gallo, dux Moesiae: «Insediato Gallo sulle rive del Tanai, egli stesso marciò contro i superstiti; e, siccome le cose procedevano secondo i suoi piani, Gallo, deciso a ribellarsi, inviò messaggeri presso i barbari, invitandoli a partecipare al complotto contro Decio. Accolta con molto piacere la proposta, mentre Gallo era di guardia, i barbari si divisero in tre schiere e disposero il primo contingente di forze in un luogo dinanzi al quale si estendeva una palude. Dopo che Decio ebbe ucciso molti di loro, subentrò la seconda schiera e, quando anche questa fu volta in rotta, comparvero presso gli acquitrini alcuni armati del terzo contingente. Gallo allora fece segno a Decio di attraversare la palude e di lanciarsi contro di loro, e l’imperatore, che non conosceva quei luoghi, si spinse all’attacco sconsideratamente: bloccato dal fango con tutto l’esercito e bersagliato da ogni parte dalle frecce dei barbari, fu ucciso insieme ai suoi, non avendo via di scampo. Questa fu la fine di Decio, dopo aver governato in modo eccellente» (Γάλλον δὴ ἐπιστήσας τῇ τοῦ Τανάϊδος ὄχθῃ μετὰ δυνάμεως ἀρκούσης αὐτὸς τοῖς λειπομένοις ἐπῄει. χωρούντων δὲ τῶν πραγμάτων αὐτῷ κατὰ νοῦν, εἰς τὸ νεωτερίζειν ὁ Γάλλος τραπεὶς ἐπικηρυκεύεται πρὸς τοὺς βαρβάρους, κοινωνῆσαι τῆς ἐπιβουλῆς τῆς κατὰ Δεκίου παρακαλῶν. ἀσμενέστατα δὲ τὸ προταθὲν δεξαμένων, ὁ Γάλλος μὲν τῆς ἐπὶ τῇ τοῦ Τανάϊδος ὄχθῃ φυλακῆς εἴχετο, οἱ δὲ βάρβαροι διελόντες αὑτοὺς τριχῇ διέταξαν ἔν τινι τόπῳ τὴν πρώτην μοῖραν, οὗ προβέβλητο τέλμα. τοῦ Δεκίου δὲ τοὺς πολλοὺς αὐτῶν διαφθείραντος, τὸ δεύτερον ἐπεγένετο τάγμα· τραπέντος δὲ καὶ τούτου, ἐκ τοῦ τρίτου τάγματος ὀλίγοι πλησίον τοῦ τέλματος ἐπεφάνησαν. τοῦ δὲ Γάλλου διὰ τοῦ τέλματος ἐπ̓ αὐτοὺς ὁρμῆσαι τῷ Δεκίῳ σημήναντος, ἀγνοίᾳ τῶν τόπων ἀπερισκέπτως ἐπελθών, ἐμπαγείς τε ἅμα τῇ σὺν αὐτῷ δυνάμει τῷ πηλῷ καὶ πανταχόθεν ὑπὸ τῶν βαρβάρων ἀκοντιζόμενος μετὰ τῶν συνόντων αὐτῷ διεφθάρη, διαφυγεῖν οὐδενὸς δυνηθέντος· Δεκίῳ μὲν οὖν ἄριστα βεβασιλευκότι τέλος τοιόνδε συνέβη). Decio fu il primo imperatore a cadere in battaglia contro le popolazioni esterne. Fu allora che Cipriano scrisse che era ormai imminente la fine del mondo (Ad Demetr. 3).

Battaglia tra Romani e Germani. Bassorilievo, marmo proconnesio, c. 251-252, dal sarcofago detto «Grande Ludovisi». Roma, Museo di P.zzo Altemps.

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Arbogaste e l’usurpazione di Eugenio (392-394)

Dopo la misteriosa morte dell’imperatore Valentiniano II (15 maggio 392), il magister militum Flavio Arbogaste si trattenne sulla frontiera renana (cfr. CIL XIII 8262; PLRE¹ 95-97): i pericoli e le minacce provenienti dalle popolazioni stanziate al di là del fiume esigevano unità di comando, energia e rapidità. D’altra parte, sospettato di aver eliminato il sovrano e in ragione delle sue origini franche, Arbogaste non aveva alcuna intenzione di sostituirsi al defunto Valentiniano, assumendo il titolo di Augustus. Al contrario, il magister chiese ufficialmente di mantenere la propria posizione di difensore del limes renano, giurando fedeltà agli Augusti Teodosio e Arcadio. Ma Teodosio rifiutò l’offerta di Arbogaste, rispettando le ultime volontà di Valentiniano II che lo aveva destituito (Ioh. Antioch. F 187 Müller). Anzi, come prima misura colpì l’aristocrazia pagana di Roma, togliendo a Virio Nicomaco Flaviano l’incarico di praefectus praetorio per Italiam (PLRE¹ 348): a Teodosio e al suo entourage era ben evidente la manovra di avvicinamento tra diversi gruppi di potere che stava avvenendo in Occidente, al punto che, con il favore della comune fede negli antichi dèi, la nobiltà italica aveva avviato ottime relazioni con il condottiero franco. Nei mesi successivi, quindi, Arbogaste ideò una strategia diversa, alternativa a ogni possibile intesa con Teodosio: rotto ogni indugio, il 22 agosto 392 il magister proclamò Augusto il magister scrinii Flavio Eugenio, in precedenza docente di grammatica e retorica (Socr. HE. V 25, 1; Soz. HE. VII 22, 4; Zos. IV 54; Oros. VII 35, 11; PLRE¹ 293). Si trattava di un personaggio di medio rango che tuttavia, nelle intenzioni di Arbogaste, poteva diventare il mediatore tra il suo potere militare sul Reno e l’aristocrazia tradizionale, che al nuovo imperatore doveva fornire i vertici dell’amministrazione. Eugenio, facendo sua la politica del suo generale, cercò dapprima un accordo con Teodosio e, senza muoversi dalla capitale Treviri, inviò ambascerie chiedendo il riconoscimento del proprio potere (Zos. IV 56, 3; Ambr. Epist. 57). Ricevuta una netta condanna dall’imperatore, nel 393 Eugenio decise di invadere l’Italia (Soz. HE. VII 22; Oros. VII 35, 13). A questo punto l’intesa tra Arbogaste, Eugenio, e l’élite imperiale si rivelò chiaramente: una strana alleanza tra militari romano-germanici e senatori romani tradizionalisti, destinata a ripetersi nel corso del secolo successivo. Il caso aveva riposto nelle mani di un comandante di origine barbarica la difesa del mos maiorum e della tradizione religiosa di Roma antica (cfr. Philost. HE. XI 1-2). Trasferitosi a Milano, tra la primavera del 393 e la tarda estate del 394, Eugenio restaurò il culto pagano e ordinò il ricollocamento dell’altare della Vittoria nella Curia a Roma (Paul. Mil. VAmbr. 26); Flaviano riebbe il suo posto di prefetto d’Italia e suo figlio fu elevato a praefectus Urbi (CIL VI 1782). Soprattutto, per la singolare alleanza con il franco Arbogaste, il Senato di Roma recuperò parte del proprio prestigio politico: fu l’ultimo tentativo di uscire da un’umiliante marginalità politica e religiosa, l’ultima chance per rimediare ai colpi inferti al venerando consesso dal regime imperiale fin dal III secolo.

Flavio Eugenio. Tremissis, Treveri, 392-394. AV 1,48 g. Dritto: D(ominus) N(oster) Eugeni-us P(ius) F(elix) Aug(ustus). Busto perlato-diademato, drappeggiato e corazzato, voltato a destra.

La notizia dell’usurpazione e dell’occupazione dell’Italia colse Teodosio a Costantinopoli. L’imperatore aveva fatto ritorno in Oriente accompagnato da un seguito di nobili gallici. Dal 391 al 394, in virtù della sua politica di unità ed ecumenicità dell’Impero, Teodosio si fece promotore di importanti avvicendamenti nelle più alte cariche civili e militari della pars Orientis, nonostante le resistenze del prefetto del pretorio locale, Flavio Eutolmio Taziano, e delle aristocrazie municipali (Zos. IV 52; Eunap. F 59 Blockley; Claud. in Ruf. 1, 244 ss.; PLRE¹ 746-747; CTh. XI 1, 23; XII 1, 131; XIV 17, 12). Alla notizia della rivolta di Arbogaste e dell’alleanza con l’élite pagana, Teodosio ribadì il proprio disconoscimento nei confronti della politica di tolleranza adottata dagli usurpatori, proibendo qualsiasi manifestazione dei culti tradizionali e criminalizzando perfino le forme simboliche e domestiche dei rituali (CTh. XVI 10, 12). Negò a Eugenio la dignità consolare, carica che spettava di diritto agli imperatori, riservandone un posto a sé e uno a un suo generale. Infine, decise di elevare alla porpora anche il proprio secondogenito, Onorio, che si trovava così a essere, virtualmente, l’erede della pars Occidentis.

Si era ormai alla resa dei conti. Mentre Eugenio, tramite Arbogaste, stipulava un foedus con i Franchi e gli Alamanni (Greg. Tur. HF II 9; Paul. Mil. VAmbr. 30), Teodosio si stava preoccupando di allestire un’armata, al cui comando supremo intendeva porre Ricomere, lo zio dell’artefice del “colpo di Stato”. Ma l’improvvisa morte del prestigioso comandante obbligò l’imperatore a rivedere i suoi piani (Zos. IV 55, 3). Soltanto nell’estate del 394, radunato un forte esercito e lasciato Arcadio (Augustus dal 383) al governo dell’Oriente, Teodosio riuscì a partire da Costantinopoli alla volta dell’Italia per ristabilire la legittimità della porzione d’Impero che intendeva lasciare a Onorio (Zos. IV 57, 4). La sua politica dell’hospitalitas nei riguardi dei Goti, accolti in Tracia dal 382, consentì all’imperatore di arruolarne circa 20.000 agli ordini di Gainas, condottiero che insieme all’alano Saulo condivideva il comando sui βάρβαρα τάγματα (i foederati); tra questi si trovava anche il giovane Alarico, forse scontento di dovere, lui che era di nobile lignaggio, dipendere da un Goto di rango inferiore. Altro comandante dell’esercito imperiale era l’iberico Bacurio, un fervente cristiano di origine caucasica, scampato alla disastrosa disfatta di Adrianopoli (378), «onesto e addestrato alla guerra» (ἔξω δὲ πάσης κακοηθείας ἀνὴρ μετὰ τοῦ καὶ τὰ πολεμικὰ πεπαιδεῦσθαι). Magister utriusque militiae fu nominato Flavio Timasio (PLRE¹ 914-915) e suo luogotenente fu il vandalo Flavio Stilicone (PLRE¹ 853-858). «Questa – conclude Zosimo – fu la selezione dei comandanti» (IV 57, 2-4, ἡ μὲν οὖν ἀρχαιρεσία τοῦτον αὐτῷ διετέθη τὸν τρόπον).

Teodosio guida il suo esercito verso l’Italia (Chaillet 2002).

L’imperatore d’Oriente, preso con sé il secondogenito, marciò lungo la Sava, valendosi della strada imperiale che collegava Sirmium all’Italia nordorientale, come aveva già fatto nel 388 per sconfiggere ad Aquileia l’usurpatore Magno Massimo; in quell’occasione Arbogaste era stato uno dei suoi più alti ufficiali, e anche allora nell’armata spiccavano cospicui contingenti barbarici. Memore di quell’esperienza, dal canto suo, il Franco aveva rinunciato a disperdere le proprie forze in avamposti lungo la via del settore illirico e, non disponendo di ingenti risorse militari, aveva preferito sbarrare il passo al nemico a ridosso delle Alpi Giulie. La scelta del percorso dovette consentire alle truppe imperiali di aggirare le montagne o di valicarle laddove i passi erano meno impervi, come l’altopiano boscoso Ad Pirum (Selva di Piro), nei pressi dell’odierna Gorizia. Subito a ovest dell’altura, si apriva una ridente pianura attraversata dal fiume Frigidus (Vipacco), affluente dell’Isonzo, delimitata a nord dallo scosceso crinale della Selva di Tarnova (Trnovski gozd), a sud da morbide colline e a sud-est dall’estrema propaggine delle Alpi, il monte Nanos.

Le difese approntate da Flaviano, che aveva provveduto a proteggere i valichi con statue di Giove, che tenevano in mano saette dorate, furono facilmente sbaragliate da Teodosio, che si batteva per l’affermazione del Cristianesimo. Tutto questo, nonostante l’ex prefetto urbano, rivestito il ruolo di augure, avesse predetto una sicura vittoria per la sua fazione, proponendosi di arruolare tutti i clerici e di tramutare in stalla la basilica della comunità di Milano (Paul. Mil. VAmbr. 31, 2). Ad Arbogaste non rimasero che i contingenti barbarici e alcuni reparti di Romani, sovrastati da labari recanti l’immagine di Ercole Vittorioso (August. De civ. D. 5, 26).

È difficile per i moderni stabilire dove le due compagini armate si fossero scontrate, il 5 e il 6 settembre 394: senz’altro sul fiume, ma a quale altezza non si può dire (Socr. HE. V 25). L’esercito teodosiano doveva essersi appostato su un’altura a nord-est del Frigidus e, nel primo pomeriggio della prima giornata, l’imperatore aveva scagliato all’assalto i 20.000 Goti, condotti da Bacurio, i quali piombarono sull’accampamento nemico, situato a valle. L’asperità del terreno mise fuori uso i carri che accompagnavano i foederati, e ben 10.000 di loro rimasero sul campo con lo stesso comandante, dimostrando la propria incrollabile fedeltà all’imperatore; il resto dell’esercito, fallito l’attacco, si ritirò in buon ordine (Zos. IV 58, 3; Rufin. HE. II 33; cfr. Oros. VII 35, 19).

Battaglia del Frigido (Amelianus 2012).

Dopo questo scacco Teodosio, consigliato dai suoi, fu tentato di battere in ritirata e di rinviare la guerra alla primavera successiva, ma infine decise di provare una nuova riscossa la mattina seguente. Durante la notte, Arbogaste aveva ordinato ad Arbizio di guidare i suoi guerrieri in una manovra che gli aveva consentito di portarsi alle spalle dei teodosiani; al campo di Eugenio, invece, il resto dell’armata dell’usurpatore, certa del successo della giornata e della vittoria ormai in pugno, aveva trascorso il tempo in una festosa gozzoviglia nel corso della quale furono distribuiti lauti donativi (Zos. IV 58, 4). Escluso da ciò, probabilmente il condottiero in avanscoperta pensò bene di defezionare e mettersi al servizio dell’imperatore. All’alba, poco dopo che Teodosio ebbe dato il segnale convenuto – il segno della croce –, una violentissima bora (magnus… et ineffabilis turbo ventorum) sollevò un’immensa nube di polvere tale da accecare i soldati di Arbogaste, impedendo loro di reggere addirittura lo scudo e di scagliare dardi senza che tornassero indietro (Oros. VII 35, 17-18). Un’altra versione vuole che si fosse verificata un’eclissi solare di tale entità che per molto tempo si pensò che fosse calata la notte (Zos. IV 58, 3). La libellistica teodosiana, naturalmente, imprime all’eccezionalità del fenomeno un significato religioso: l’Augustus aveva trascorso la notte in raccoglimento (Oros. VII 35, 14-16).

I soldati superstiti di Eugenio, una volta arresisi, consegnarono il proprio imperatore, che fu subito giustiziato, e la sua testa, «conficcata su una lunghissima asta», fu portata «in giro per tutto il campo, mostrando a quelli che gli erano ancora favorevoli che a essi conveniva – in quanto Romani – riappacificarsi con l’imperatore, essendo stato definitivamente eliminato l’usurpatore» (Zos. IV 58, 5, ἀφελόμενοι κοντῷ… μακροτάτῳ πᾶν περιέφερον τὸ στρατόπεδον, δεικνύντες τοῖς ἔτι τἀκείνου φρονοῦσιν ὡς προσήκει Ῥωμαίους ὄντας ὡς τὸν βασιλέα ταῖς γνώμαις ἐπανελθεῖν, ἐκποδὼν μάλιστα τοῦ τυράννου γεγενημένου).

Dal canto suo, Arbogaste, non ritenendo opportuno cercare la clemenza del vincitore, si diede alla macchia fra le montagne; accortosi di essere braccato, due giorni dopo la battaglia, si diede la morte gettandosi sulla spada (cfr. Claud. III cons. Hon. 102 ss.).

La rivolta era stata stroncata, la guerra civile era stata risolta. La battaglia del Frigidus assunse un potente valore simbolico nel confronto tra pagani e cristiani nell’ultimo scorcio del IV secolo. Da tutti, anche dai tradizionalisti, quello scontro fu avvertito come una sorta di ordalia, un giudizio divino che si era espresso al di sopra della volontà degli uomini. Le fonti, come si è detto, concordano sul verificarsi di eventi prodigiosi, che consentirono l’irresistibile vittoria di Teodosio: il “miracolo” decise il trionfo dei Cristiani sui culti antichi.

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24 agosto 410. Il sacco di Roma

L’episodio più famoso del complesso fenomeno delle migrazioni di popoli (Völkerwanderungen) fu il sacco di Roma a opera dei Visigoti nel 410 (Prosp. epit. Chron. 1240 a. 410, Roma a Gothis Alarico duce capta [VIIII kl. Septemb.]; Cassiod. Chron. 1185 a. 410, Roma a Gothis Halarico duce capta est, ubi clementer usi victoria sunt; Exc. Sangal. 541, Roma fracta est a Gothis Alarici VIIII kl. Septembres). Era la prima volta in ottocento anni che la città cadeva in mano ai barbari, ma, in concreto, l’avvenimento non ebbe molta importanza dal punto di vista strategico. Il saccheggio dell’Urbe suscitò ovunque scoramento, terrore e scandalo, e inferse una ferita insanabile alla psicologia dei sudditi dell’Impero: il valore simbolico dell’evento fu superiore alla sua portata effettiva al punto da risultare più traumatico della deposizione dell’ultimo Augustus d’Occidente (476).

Joseph-Noël Sylvestre, Il Sacco di Roma dei Visigoti. Olio su tela, 1890.

Il sacco di Roma del 410 fu il risultato del secondo tentativo da parte del comandante visigoto Alarico di strappare all’imperatore Onorio l’autorizzazione a insediare i suoi nei territori danubiani. L’eliminazione, il 22 agosto 408, del potentissimo Stilicone aveva creato un vuoto politico e militare, di cui il Goto aveva saputo approfittato, trovandosi spianata la strada per Roma. Tra l’altro, nello stesso anno, l’armata alariciana era stata ingrossata dagli uomini dei reparti ausiliari germanici – circa 30.000 soldati, secondo Zosimo di Panopoli (V 35, 5-6) – che avevano prestato servizio sotto il defunto Stilicone, furibondi per il massacro di donne e bambini perpetrato dalle truppe imperiali a seguito dell’assassinio del “generalissimo”. Per parte sua, Alarico, che non aveva certo ambizioni di conquista in Italia, «ricordando dei patti stipulati a suo tempo con Stilicone» e la promessa di 4.000 libbre d’oro, mirava a ottenere che l’imperatore onorasse tali accordi. Così, aveva tentato di negoziare, mandando un’ambasceria a Ravenna per chiedere la pace in cambio di una modesta somma di denaro per i suoi uomini e uno scambio di ostaggi, ma Onorio aveva respinto le sue richieste (Zos. V 36, 1; cfr. Iord. Get. 30, 152). Continuando a gravare sulla Penisola la minaccia alariciana, l’imperatore, consigliato dal magister officiorum Olimpio, si era limitato a porre a capo dell’esercito uomini inetti e «adatti solo a suscitare il disprezzo dei nemici» (καταφρόνησιν ἐμποιῆσαι τοῖς πολεμίοις ἀρκοῦντας): Turpilione, Varane e Vigilanzio.

Flavio Onorio. Solidus, Ravenna post 408. AV 4,47 g. Recto: D(ominus) N(oster) Honori-us P(ius) F(elix) Aug(ustus). Busto elmato, perlato-diademato, drappeggiato e corazzato dell’imperatore, voltato a destra.

Alarico, invece, «poiché aveva intenzione di intraprendere un’impresa tanto importante in condizioni di netta superiorità e non di semplice parità» (ἐπεὶ δὲ μεγίστοις οὕτως πράγμασιν οὐκ ἐκ τοῦ ἴσου μόνον ἀλλὰ καὶ ἐκ μείζονος ὑπεροχῆς ἐγχειρῆσαι διενοεῖτο), aveva richiamato dalla Pannonia superior suo cognato Ataulfo perché gli portasse dei rincalzi gotici e unni e quello, durante la marcia verso Roma, aveva devastato la Penisola senza incontrare resistenza (Zos. V 37, 1-3).

L’Urbe, stretta d’assedio, fu flagellata dalla carestia, poiché il blocco dell’accesso al Tevere impediva la fornitura dei viveri attraverso il porto, e dalle epidemie, perché i cadaveri non potevano essere seppelliti fuori dalle mura a causa delle truppe di Alarico che stazionavano presso le porte. Gli abitanti della città decisero di resistere nella speranza che da Ravenna giungessero aiuti (Zos. V 39, 2-3). Alla fine, i Romani decisero di mandare al nemico un’ambasceria composta dall’ex praefectus urbi Basilio e da Giovanni, già primicerius notariorum, per dichiarare che sarebbero stati disposti a combattere all’ultimo sangue. Quando Alarico, ricevuti i delegati, ascoltò le loro parole, si mise a ridere per quell’atteggiamento un po’ fanfarone – vista la situazione; allora, parlando di pace, il condottiero «diceva che non avrebbe desistito dall’assedio, se non avesse ottenuto tutto l’oro e l’argento della città e, inoltre, tutte le suppellettili che trovasse e i servi di origine barbara» (ἔλεγε γὰρ οὐκ ἄλλως ἀποστήσεσθαι τῆς πολιορκίας, εἰ μὴ τὸν χρυσὸν ἅπαντα, ὅσον ἡ πόλις ἔχει, καὶ τὸν ἄργυρον λάβοι, καὶ πρὸς τούτοις ὅσα ἐν ἐπίπλοις εὕροι κατὰ τὴν πόλιν καὶ ἔτι τοὺς βαρβάρους οἰκέτας). A uno degli ambasciatori che gli chiedeva che cosa sarebbe rimasto alla città, se mai avesse ottenuto tutto ciò, Alarico avrebbe risposto: «Le vite umane» (Zos. V 40). La popolazione di Roma, in preda alla disperazione, si rivolse allora alle divinità antiche e il prefetto della città Pompeiano, consultati alcuni Etruschi, raccomandò al vescovo Innocenzo I di non tenere conto delle cerimonie pagane fintanto che fossero celebrate in forma privata. Ma se ciò tranquillizzò in parte quei Romani che provavano ancora nostalgia verso la tradizione antica, la mossa successiva ebbe l’effetto opposto: infatti, per poter pagare quanto Alarico chiedeva, le statue d’oro e d’argento delle divinità vennero portate via dai templi. Secondo il pagano Zosimo, questo episodio rappresentò l’inizio della fine di Roma: «I Romani persero il coraggio e il valore: così allora avevano profetizzato coloro che si occupavano di cose divine e di riti tradizionali» (ὅσα τῆς ἀνδρείας ἦν καὶ ἀρετῆς παρὰ Ῥωμαίοις ἀπέσβη, τοῦτο τῶν περὶ τὰ θεῖα καὶ τὰς πατρίους ἁγιστείας ἐσχολακότων ἐξ ἐκείνου τοῦ χρόνου προφητευσάντων, Zos. V 41, 7). Ad Alarico furono promesse «5.000 libbre d’oro, 30.000 libbre d’argento, 4.000 tuniche di seta, 3.000 pelli scarlatte e 3.000 libbre di pepe» (πεντακισχιλίας μὲν χρυσοῦ λίτρας, τρισμυρίας τε πρὸς ταύταις ἀργύρου, σηρικοὺς δὲ τετρακισχιλίους χιτῶνας, ἔτι δὲ κοκκοβαφῆ τρισχίλια δέρματα καὶ πέπερι σταθμὸν ἕλκον τρισχιλίων λιτρῶν, Zos. V 41, 4); dopo aver ricevuto un parte di quanto gli era dovuto, il comandante goto fece aprire le porte della città per consentire agli abitanti di rifornirsi di viveri, concedendo loro tre giorni di mercato: questa fu l’occasione per i suoi soldati di vendere alimenti a prezzi altissimi (Zos. V 42).

Alarico allora si ritirò da Roma e pose l’accampamento in Etruria, continuando comunque a inviare richieste a Ravenna: chiese tributi annuali in denaro e grano e alloggi per la sua gente in entrambe le Venetiae, in Noricum e in Dalmatia (Zos. V 48, 3). Giovio, praefectus praetorio, mandato come ambasciatore da Onorio presso Alarico per i negoziati, riferì all’imperatore che il Visigoto si sarebbe con tutta probabilità accontentato anche di meno si gli fosse stato concesso il titolo di magister utriusque militiae, già appartenuto a Stilicone, ma Onorio acconsentì ai versamenti di denaro e grano, rifiutando di concedere quella dignità. Il divieto dell’imperatore di conferire ai Goti cariche o comandi romani, sentito come un affronto, mandò Alarico su tutte le furie: egli prontamente diede ordine alla sua armata di dirigersi nuovamente su Roma (Zos. V 49). Secondo Zosimo, pur continuando a negoziare, il condottiero goto mandò «i vescovi di ciascuna città come ambasciatori, perché esortassero nel contempo l’imperatore a non permettere che la città, che regnava su gran parte della Terra da più di mille anni, fosse abbandonata alla devastazione dei barbari, e che edifici di notevole grandezza venissero distrutti dal fuoco nemico; accettasse piuttosto di concludere le trattative a condizioni molto moderate» (τοὺς κατὰ πόλιν ἐπισκόπους ἐξέπεμπε πρεσβευσομένους ἅμα καὶ παραινοῦντας τῷ βασιλεῖ μὴ περιιδεῖν τὴν ἀπὸ πλειόνων ἢ χιλίων ἐνιαυτῶν τοῦ πολλοῦ τῆς γῆς βασιλεύουσαν μέρους ἐκδεδομένην βαρβάροις εἰς πόρθησιν, μηδὲ οἰκοδομημάτων μεγέθη τηλικαῦτα διαφθειρόμενα πολεμίῳ πυρί, θέσθαι δὲ τὴν εἰρήνην ἐπὶ μετρίαις σφόδρα συνθήκαις, Zos. V 50, 2). Alarico, dunque, rinunciava alla sua richiesta delle regioni adriatiche in cui insediare la sua gente, accontentandosi delle due province danubiane del Noricum, territorio che – come veniva fatto notare all’imperatore – non rappresentava una grave perdita poiché era «devastato da continue incursioni e dava un modesto contributo alle casse dello Stato» (συνεχεῖς τε ὑφισταμένους ἐφόδους καὶ εὐτελῆ φόρον τῷ δημοσίῳ εἰσφέροντας, Zos. V 50, 3).

Flavio Valente o Flavio Onorio. Busto, marmo, fine IV secolo-inizi V secolo. Roma, Musei Capitolini

Quanto accadde in seguito dimostra, comunque, che Alarico continuò a manovrare politicamente anziché guidare l’esercito a Roma: minacciando di prendere la città con la forza, il condottiero goto impose ai Romani di passare dalla sua parte contro Onorio e pretese che il Senato dichiarasse il Teodoside decaduto e insediasse Prisco Attalo. Per parte sua, costui, eminente membro del venerando consiglio e già comes sacrarum largitionum, si dimostrò disponibile a collaborare con i Visigoti, convertendosi all’Arianesimo e facendosi battezzare dal vescovo Sigesaro (Zos. VI 6-7; Sozom. HE. IX 9). Tuttavia, le trattative diplomatiche si conclusero con un nulla di fatto: Onorio, alla fine, temendo di perdere la porpora, offrì di condividere con Attalo la carica imperiale, ma Attalo non accettò; allora, l’Augustus rispose dando ordine a Eracliano, comes Africae, di bloccare le forniture di grano all’Italia; quando poi l’usurpatore, sollecitato da Alarico a inviare contingenti in Africa, oppose il proprio rifiuto, i Goti lo deposero (Zos. VI 11-12). Alarico tentò ancora di negoziare con Onorio ma, attaccato dalle truppe imperiali, decise infine di tornare indietro e di completare il sacco di Roma. Lo storico Zosimo, che era pagano, attribuisce a Onorio e ai suoi consiglieri tutte le colpe di quanto accadde in seguito: «A tal punto era cieca la mente di coloro che amministravano lo Stato, privati della provvidenza divina» (τοσοῦτον ἐτύφλωττεν ὁ νοῦς τῶν τότε τὴν πολιτείαν οἰκονομούντων, θεοῦ προνοίας ἐστερημένων, Zos. V 51, 2).

Prisco Attalo. Siliqua, Roma, 409-410. AR 2,32 g. Recto: Priscus Attalus P(ius) F(elix) Aug(ustus). Busto perlato-diademato, drappeggiato e corazzato, voltato a destra

Il 24 agosto 410, dopo una pressione esercitata per almeno un paio d’anni, ebbe inizio il vero e proprio sacco di Roma, che si protrasse per tre giorni. Secondo alcuni storici, Alarico sarebbe riuscito a entrare a Roma con l’aiuto di certi servi goti che si trovavano in città (cfr. Procop. Vand. I 2, 13-23). L’eco delle devastazioni e delle atrocità commesse in quella circostanza dai soldati alariciani si diffuse immediatamente per ogni dove, trasmessa e amplificata nei toni più drammatici da quanti, superstiti e in fuga, avevano assistito allo scempio. Un secolo più tardi Procopio di Cesarea raccontò che quando Onorio, al sicuro nel suo palazzo, fu informato della morte di Roma sarebbe scoppiato in lacrime e lamenti, ma si sarebbe tranquillizzato allorché gli fu spiegato che si trattava della città di Roma e non di Roma, il suo gallo prediletto:

«Si narra che, a Ravenna, fu un eunuco – a quanto pare un guardiano del pollaio – ad annunciare all’imperatore Onorio che Roma era perita, e che egli esclamò, mettendosi a gridare: “Ma se soltanto adesso ha mangiato dalle mie mani!”. Possedeva infatti un gallo gigantesco, che aveva nome Roma. L’eunuco, capito l’equivoco, precisò che era stata la città di Roma a cedere per opera di Alarico, e allora l’imperatore, con sollievo, rispose tranquillamente: “Oh, mio caro! E io temevo che fosse morto il mio gallo!”. Tanta, si dice, era la stoltezza che offuscava la mente di questo imperatore».

τότε λέγουσιν ἐν Ῥαβέννῃ Ὁνωρίῳ τῷ βασιλεῖ τῶν τινα εὐνούχων δηλονότι ὀρνιθοκόμον ἀγγεῖλαι ὅτι δὴ Ῥώμη ἀπόλωλε. καὶ τὸν ἀναβοήσαντα φάναι “Καίτοι ἔναγχος ἐδήδοκεν ἐκ χειρῶν τῶν ἐμῶν”. εἶναι γάρ οἱ ἀλεκτρυόνα ὑπερμεγέθη, Ῥώμην ὄνομα, καὶ τὸν μὲν εὐνοῦχον ξυνέντα τοῦ λόγου εἰπεῖν Ῥώμην τὴν πόλιν πρὸς Ἀλαρίχου ἀπολωλέναι, ἀνενεγκόντα δὲ τὸν βασιλέα ὑπολαβεῖν “Ἀλλ’ ἔγωγε, ὦ ἑταῖρε, Ῥώμην μοι ἀπολωλέναι τὴν ὄρνιν ᾠήθην”. τοσαύτῃ ἀμαθίᾳ τὸν βασιλέα τοῦτον ἔχεσθαι λέγουσι.

(Procop. Vand. I 2, 25-26)

John William Waterhouse, I favoriti dell’imperatore Onorio. Olio su tela, 1883. Adelaide, Art Gallery of South Australia.

Una reazione più normale ebbe invece Sofronio Eusebio Girolamo, il quale si trovava a Betlemme, quando, nella lettera alla sua discepola Principia (Hier. Ep. VI 127, 12), le riferì di una terribile notizia giunta da Occidente. Si venne a sapere che Roma era assediata e che i suoi abitanti stavano comprando la propria salvezza con l’oro:

«Mentre così vanno le cose a Gerusalemme, dall’Occidente ci giunge la terribile notizia che Roma viene assediata, che si compra a peso d’oro la incolumità dei cittadini, ma che dopo queste estorsioni riprende l’assedio: a quelli che già sono stati privati dei beni si vuol togliere anche la vita. Mi viene a mancare la voce, il pianto mi impedisce di dettare. “La città che ha conquistato tutto il mondo è conquistata”: anzi, cade per fame prima ancora che per l’impeto delle armi, tanto che a stento vi si trova qualcuno da prendere prigioniero. La disperata bramosia fa sì che ci si getti su cibi nefandi: gli affamati si sbranano l’uno con l’altro, perfino la madre non risparmia il figlio lattante e inghiotte nel suo ventre ciò che ha appena partorito. “Moab fu presa, di notte sono state devastate le sue mura”. “O Dio, sono penetrati i pagani nella tua eredità, hanno profanato il tuo santo tempio; hanno ridotto Gerusalemme in rovine. Hanno dato i cadaveri dei tuoi servi in pasto agli uccelli del cielo, i corpi dei tuoi fedeli alle bestie selvatiche. Hanno versato il loro sangue come acqua intorno a Gerusalemme, e non c’è chi seppellisca”.

“Come ridire la strage, i lutti di quella notte? / Chi può la rovina adeguare col pianto? / Cadeva la città vetusta, sovrana nel tempo: / un gran numero di cadaveri erano sparsi / per le strade e anche nelle case. /Era l’immagine moltiplicata della morte”».

Dum haec aguntur in Iebus, terribilis de Occidente rumor adfertur, obsideri Romam, et auro salutem ciuium redimi, spoliatosque rursum circumdari, ut post substantiam, uitam quoque amitterent. haeret uox, et singultus intercipiunt uerba dictantis. capitur Urbs, quae totum cepit orbem; immo fame perit antequam gladio, et uix pauci qui caperentur, inventi sunt. ad nefandos cibos erupit esurientium rabies, et sua inuicem membra laniarunt, dum mater non parcit lactanti infantiae, et recipit utero, quem paulo ante effuderat. nocte Moab capta est, nocte cecidit murus eius [Is. 15, 1]. Deus, uenerunt gentes in hereditatem tuam, polluerunt templum sanctum tuum. posuerunt Hierusalem in pomorum custodiam; posuerunt cadauera seruorum tuorum escas uolatilibus caeli, carnes sanctorum tuorum bestiis terrae; effuderunt sanguinem ipsorum sicut aquam in circuitu Hierusalem, et non erat qui sepeliret [Psalm. 79, 1-3].

Quis cladem illius noctis, quis funera fando / explicet, aut possit lacrimis aequare dolorem? / Urbs antiqua ruit, multos dominata per annos; / plurima, perque uias sparguntur inertia passim / corpora, perque domos, et plurima mortis imago” [Verg. Aen. II 361-365].

Il fatto che Roma, in quel frangente, fosse stata violata e fosse rimasta inerme alla mercé di un’orda barbarica per più giorni scatenò una violenta polemica tra i cristiani e i pagani: questi ultimi non mancarono di far notare come la Roma della tradizione, protetta dagli dèi, avesse saputo non solo preservarsi per secoli dalla violenza delle externae gentes, ma anche espandersi fino a creare un impero di straordinarie dimensioni e vigore, mentre ora i sepolcri degli apostoli di Cristo non avevano saputo tutelarla dalle spade di Alarico e dei suoi.

Evariste-Vital Luminais, Il sacco di Roma.

Il De civitate Dei, che Aurelio Agostino, vescovo di Ippona, iniziò nel 413, fu un’altra risposta diretta tanto a quell’evento traumatico quanto alla polemica degli intellettuali: egli doveva dimostrare ai pagani che la devastazione della città non era una conseguenza dell’abbandono degli dèi, ma allo stesso tempo doveva anche rassicurare i cristiani incapaci di comprendere perché le sofferenze ricadessero pure su di loro. L’opera del prelato africano è pressoché contemporanea agli eventi narrati e non minimizza le violenze perpetrate: le donne furono violentate; così tanta gente fu ammazzata che i cadaveri giacevano dappertutto senza sepoltura; moltissimi furono fatti prigionieri (August. De civ. D. I 12, 1; 16). In Agostino, come in altri pensatori cristiani, il commento dei fatti del 410 trascendeva però i termini della polemica spicciola con i pagani circa l’«efficacia difensiva» delle rispettive divinità, per aprirsi a una riflessione più ampia sulla Storia e sulla ragione stessa dell’Impero cristiano. La sua grande opera era tesa a ricondurre tutto entro una visione provvidenzialistica della Storia, diretta all’avvento della «città di Dio», estranea a quella terrena; in questa chiave ogni accadimento storico, compreso il saccheggio alariciano, trovava una giustificazione negli imperscrutabili disegni celesti.

Raffaello Sanzio, Incendio di Borgo. Dettaglio con il quadriportico con dietro la facciata dell’antica basilica di San Pietro. Affresco, 1514. Città del Vaticano, Stanze Vaticane.

Gli scrittori cristiani posteriori sentirono l’esigenza di ridimensionare la barbarie dei Visigoti, e ne sottolinearono invece la pietas: sebbene fossero ariani, essi avevano dimostrato maggiore rispetto verso Dio e i luoghi consacrati di quanto non avessero fatto gli stessi Romani, sia cattolici sia pagani (cfr. Iord. Get. 30, 156). Anzi, negli Historiarum adversus paganos libri VII di Paolo Orosio Alarico diventava un mero strumento dell’indignazione divina per castigare i Romani dei loro comportamenti superbi, lascivi e blasfemi. Il condottiero barbaro, per esempio, avrebbe dato ordine ai suoi uomini di non violare i sacrari delle basiliche di San Pietro e di San Paolo, dove molti cittadini avevano cercato rifugio (Oros. VII 39, 1); una donna aveva lottato contro un guerriero che la voleva stuprare e lo aveva provocato fino quasi al punto di farsi uccidere, ma il violentatore avrebbe ceduto alla compassione e l’avrebbe accompagnata al sicuro nella basilica di San Pietro (Sozom. HE. IX 10); un altro soldato sarebbe entrato nella casa di pie donne esigendo oro e argento, gli sarebbero stati mostrati dei vasi liturgici appartenenti a San Pietro ed egli li avrebbe consegnati ad Alarico; questi, poi, li avrebbe fatti rispettosamente riportare nella basilica (Oros. VII 39, 3-7). Se si deve credere a Orosio, infine, Alarico avrebbe addirittura organizzato una stupenda cerimonia per simboleggiare l’unione dei popoli in Cristo: la pia processione si sarebbe svolta tra due file di spade sguainate e gli abitanti della città e gli invasori, insieme, avrebbero elevato un inno a Dio (Oros. VII 39, 8-9). L’interpretazione del presbitero spagnolo si preoccupava non tanto di ridimensionare l’accaduto, quanto di inserirlo in una visione complessiva, capace di spiegare gli eventi storici attribuendoli comunque alla volontà divina, ricomponendo il trauma e superando quindi l’immediato sconforto.

Alarico. Illustrazione di P. Kruklidis.

Questa visione del sacco di Roma è probabilmente frutto più della retorica sul nobile barbaro che della realtà storica. Un esempio analogo di retorica lo ritroviamo nel V secolo, negli scritti di Salviano di Marsiglia (Salvian. De gubern. D. VII). In base alle tante prove conservate possiamo affermare che i tre giorni di saccheggio non ebbero un impatto meramente psicologico. Anche Orosio ammette che nel 417 a Roma si potevano ancora vedere edifici distrutti dall’incendio, sebbene si affretti ad aggiungere che i fulmini (segno evidente della disapprovazione divina) avevano appiccato più incendi di quanto non avessero fatto i Goti. La casa dello storico Sallustio era ancora mezza distrutta alla metà del VI secolo, stando a quanto ci riferisce Procopio (Procop. Vand. I 2, 24). Fra il 430 e il 440 l’imperatore Valentiniano III finanziò il ripristino di un fastigium d’argento (una struttura a forma di baldacchino a coronamento di un altare) – che si dice pesasse 1.610 libbre –, che i barbari avevano sottratto dalla basilica costantiniana del Laterano (Lib. pont. 46, fecit autem Valentinianus Augustus ex rogatu Xysti episcopi fastidium argenteum in basilica Constantiniana, quod a barbaris sublatum fuerat, qui habet pens. libras ĪDCX).

Non ci furono soltanto danni materiali, ma anche forti ripercussioni sociali. Molti vennero fatti prigionieri dai Goti, inclusi uomini di Chiesa e la stessa Galla Placidia, sorellastra di Onorio. In tanti abbandonarono le loro proprietà e fuggirono da Roma e, quando i Goti si spostarono a sud dell’Urbe, lasciarono addirittura l’Italia. Lo studioso biblico Tirannio Rufino di Aquileia, con l’egocentrismo e la monomaniacalità tipica del vero erudito, nel Prologus alle Omelie sui Numeri di Origene, protestò seccato: «E infatti alla nostra vista, come infatti tu stesso puoi vedere, il barbaro, che appiccava fiamme alla città di Reggio, era tenuto lontano da noi dal solo brevissimo stretto, dove il suolo d’Italia si divide da quello di Sicilia. Ebbene, in queste condizioni, come posso trovare la tranquillità di mente necessaria per scrivere e soprattutto per tradurre?» (In conspectu etenim, ut videbas etiam ipse, nostro Barbarus, qui Regino oppido miscebat incendia, angustissimo a nobis freto, ubi Italiae solum Siculo dirimitur, arcebatur. In his ergo posito, quae esse ad scribendum securitas potuit, et praecipue ad interpretandum, ubi non ita proprios expedire sensus, ut alienos aptare proponitur?, Ruf. prol. ad Orig. in num. Homil., PG XII, pp. 583-586).

Leonardo da Vinci, San Girolamo penitente. Olio su pannello, 1480. Città del Vaticano, Pinacoteca Vaticana.

Sull’altra sponda del Mediterraneo, Gerolamo, acerrimo nemico di Rufino, dovette interrompere i suoi monumentali Commentarii in Ezechielem prophetam, distratto dall’arrivo della notizia del sacco di Roma. Il biblista non riusciva a nascondere il proprio incredulo sgomento di fronte al quadro sconsolante al quale gli toccava di assistere. Proprio nella prefazione al III libro dei Commentarii egli si chiedeva con angoscia: «Chi potrebbe credere che sarebbe crollata Roma, costruita per i conquistatori del mondo intero, che essa stessa sarebbe diventata per i suoi popoli madre e sepolcro, che un tempo fu signora di tutti quanti i lidi d’Oriente, d’Egitto e d’Africa, li avrebbe riempiti di una massa di servi e di serve, che la santa Betlemme avrebbe accolto ogni giorno mendicanti, che, un tempo nobili di entrambi i sessi e assai ricchi, giungono a fiumi?» (Quis crederet ut totius orbis exstructa victoriis Roma corrueret, ut ipsa suis populis et mater fieret et sepulcrum, ut tota Orientis, Aegypti, Africae littora olim dominatricis urbis, servorum et ancillarum numero complerentur, ut quotidie sancta Bethleem, nobiles quondam utriusque sexus, atque omnibus divitiis affluentes, susciperet mendicantes?, Hier. in Ezechiel. III praef. 2).

Agostino di Ippona. Affresco, c. VI secolo. Roma, Basilica di S. Giovanni in Laterano.

Agostino non si dimostrò altrettanto comprensivo quando i profughi giunsero a Cartagine, e rimarcò che, nonostante tutto il mondo fosse in lutto per il loro tragico destino, non facevano altro che andarsene a teatro e divertirsi: «Questa pestilenza accecò le anime dei miseri in modo tanto tenebroso, le macchiò in modo tanto infame, che, una volta distrutta Roma – e forse sarà incredibile per i posteri! –, quelli che ne erano posseduti e riuscirono con la fuga a raggiungere Cartagine, impazzivano a gara ogni giorno, nei teatri, dietro gli istrioni. O menti dementi! È tanto grande questo errore – o piuttosto questo furore – che, mentre i popoli d’Oriente piangono la vostra fine e le città più grandi e lontane manifestano lutto e afflizione, voi cercate, frequentate, riempite i teatri e fate pazzie maggiori di prima?» (quae [pestilentia] animos miserorum tantis obcaecavit tenebris, tanta deformitate foedavit, ut etiam modo – quod incredibile forsitan erit, si a nostris posteris audietur – Romana Urbe vastata, quos pestilentia ista possedit atque inde fugientes Carthaginem pervenire potuerunt, in theatris cotidie certatim pro histrionibus insanirent. O mentes amentes! quis est hic tantus non error, sed furor, ut exitium vestrum, sicut audivimus, plangentibus orientalibus populis et maximis civitatibus in remotissimis terris publicum luctum maeroremque ducentibus vos theatra quaereretis intraretis impleretis et multo insaniora quam fuerant antea faceretis?, August. De civ. D. I 32-33).

Per Procopio, che scriveva nel VI secolo, le gravi conseguenze del sacco perpetrato dai Goti non si fecero sentire soltanto sulla città di Roma, ma su gran parte dell’Italia: «Distrussero così radicalmente le città espugnate, che nulla è rimasto ai nostri giorni in ricordo di esse, specialmente delle città a sud del Golfo Ionico, eccetto qualche torrione o l’arco di una porta o qualcosa del genere, rimasto in piedi per caso. Uccisero tutte le persone che incontrarono sul loro cammino, sia vecchi sia giovani, senza risparmiare né le donne né i bambini. Di conseguenza, anche oggi l’Italia si trova a essere scarsamente popolata». (πόλεις τε γάρ, ὅσας εἷλον, οὕτω κατειργάσαντο ὥστε οὐδὲν εἰς ἐμὲ αὐταῖς ἀπολέλειπται γνώρισμα, ἄλλως τε καὶ ἐντὸς τοῦ Ἰονίου κόλπου, πλήν γε δὴ ὅτι πύργον ἕνα ἢ πύλην μίαν ἤ τι τοιοῦτο αὐταῖς περιεῖναι ξυνέβη· τούς τε ἀνθρώπους ἅπαντας ἔκτεινον, ὅσοι ἐγένοντο ἐν ποσίν, ὁμοίως μὲν πρεσβύτας, ὁμοίως δὲ νέους, οὔτε γυναικῶν οὔτε παίδων φειδόμενοι. ὅθεν εἰς ἔτι καὶ νῦν ὀλιγάνθρωπον τὴν Ἰταλίαν ξυμβαίνει εἶναι, Procop. Vand. I 2, 11-12).

Ricostruzione di un guerriero visigoto. Illustrazione di A. Gagelmann.

Ciò sembra essere confermato da quanto Rutilio Namaziano scrive nel poema che narra il viaggio da lui intrapreso nel 416 per tornare da Roma a casa sua in Gallia. Egli fu costretto a prendere il mare in quanto il viaggio via terra, lungo l’Aurelia, non era più sicuro perché i ponti erano stati distrutti dai Goti, le stazioni di posta (cursus publicus) non erano più garantite, e lungo la strada si poteva incappare in bande di predoni e mercenari allo sbando: «Si sceglie il mare, perché le vie di terra, fradice in piano per i fiumi, sulle alture sono aspre di rocce: dopo che i campi di Tuscia, dopo che la via Aurelia, sofferte a ferro e fuoco le orde dei Goti, non domano più le selve con locande, né i fiumi con ponti: è meglio affidare le vele al mare, benché incerto» (Electum pelagus, quoniam terrena viarum / plana madent fluviis, cautibus alta rigent. / Postquam Tuscus ager postquamque Aurelius agger / perpessus Geticas ense vel igne manus / non silvas domibus, non flumina ponte cohercet, / incerto satius credere vela mari, Rutil. Namat. 37-42).

Hubert Robert, Acquedotto in rovina.

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Il 𝐶ℎ𝑟𝑜𝑛𝑖𝑐𝑜𝑛 di Marcellino Comes

Nel 519 a Costantinopoli, alla morte dell’imperatore Anastasio, un certo Marcellino completò la prima redazione della sua cronaca. L’opera si prefiggeva di continuare la narrazione dei fatti storici, riprendendo dal punto in cui si erano interrotti gli analoghi lavori di Eusebio di Cesarea e di Girolamo; il suo racconto, però, in questa prima versione, era condotto attraverso un’ottica pro-illirica, schierata a favore dell’ortodossia e fortemente polemica verso l’imperatore appena scomparso. Ma chi era Marcellino, noto come Marcellinus Comes o Μαρκελλίνος ό Κόμης? Ora, ben pochi sono stati gli studiosi a esercitarsi sulla figura e sull’opera di questo autore vissuto a cavallo tra V e VI secolo e altrettanto scarse sono le informazioni sulla sua biografia: i dati disponibili sono ricavabili dai riferimenti sparsi nel suo Chronicon (soprattutto nella prefazione) e dalla testimonianza delle Institutiones di Cassiodoro. Lo si dice Illyricianus: si è supposto che Marcellino fosse originario della regione compresa tra la Dacia ripensis e la Moesia superior, un’area corrispondente all’od. Macedonia. È probabile che abbia iniziato la sua carriera come militare verso la fine del V secolo, magari nelle campagne di Anastasio contro Unni e Bulgari. E, benché la sua scrittura tradisca l’influsso delle contemporanee scuole di retorica, non è chiaro se abbia ricevuto un’educazione classica e teologica. A ogni modo, dopo il 519 egli sarebbe entrato al servizio del patricius Giustiniano in qualità di segretario personale (cancellarius) fino al 527, quando quello divenne imperatore. A tal proposito, nel suo capitolo dedicato agli storici cristiani, Cassiodoro (Inst. I 17, 2) spiega: Chronica vero, quae sunt imagines historiarum brevissimaeque temporum commemorationes, scripsit Graece Eusebius, quem transtulit Hieronymus in Latinum, et usque ad tempora sua deduxit eximie. hunc subsecutus est suprascriptus Marcellinus Illyricianus, qui adhuc patricii Iustiniani fertur egisse cancellos, sed meliore conditione devotus a tempore Theodosii principis usque ad fores imperii triumphalis Augusti Iustiniani opus suum Domino iuvante perduxit, ut qui ante fuit in obsequio suscepto gratus, postea ipsius imperio copiose amantissimus appareret («Eusebio ha scritto in greco cronache che sono immagini di storia e brevissime memorie dei tempi; le ha tradotte in latino Girolamo, il quale le ha continuate fino ai suoi giorni in maniera eccellente. L’ha seguito il suddetto Marcellino l’Illirico, che si dice essere stato in precedenza segretario del patrizio Giustiniano: con l’aiuto del Signore, dopo il miglioramento civile del suo padrone, egli ha proseguito l’opera dal tempo dell’imperatore Teodosio fino all’inizio del governo dell’Augusto Giustiniano, affinché colui che era stato prima gradito nel servizio del suo padrone si mostrasse poi fervidissimo durante l’impero di questi»; tr. it. Donnini 2001). La cronografia di Marcellino, dunque, vanta il primato di essere la prima continuazione delle narrazioni di Eusebio e di Girolamo, compilata a Costantinopoli e scritta dal punto di vista dell’Oriente romano, e di registrare avvenimenti fondamentali ben oltre il V secolo: ciò, oltre alla prestigiosa raccomandazione cassiodorea (ibid. 1), spiega il discreto successo dell’opera. È noto poi che se ne ebbe una seconda redazione entro il 534, nella quale l’esposizione dei fatti si colloca in un orizzonte politico del tutto nuovo: vi è posta al centro la figura di Giustiniano, di cui si lodano le imprese e gli atti di governo; l’atteggiamento dello scrittore è di gratitudine e celebrazione panegiristica; il testo è in gran parte assorbito dalla propaganda imperiale e culmina nel trionfo per la riconquista dell’Africa.

Oxford, Bodleian Library. Codex Oxoniensis Bodleianus Lat. auct. T II 26 (c. VII secolo), Marcellini v.c. comitis Chronicon, tab. I [Mommsen 1894, ].

Uno dei passi meglio noti della cronaca riguarda l’anno 476 (Chron. Marcell. 11, 91): Odoacer rex Gothorum Romam optinuit. Orestem Odoacer ilico trucidavit. Augustulum filium Orestis Odoacer in Lucullano Campaniae castello eum poena damnavit. Hesperium Romanae gentis imperium, quod septmgentesimo nono urbis conditae anno primus Augustorum Octavianus Augustus tenere coepit, Qum hoc Augustulo periit, anno decessorum regni imperatorum quingentesimo vigesimo secundo, Gothorum debiue regibus Romam tenentibus («Odoacre, re dei Goti, si impadronì di Roma ed assassinò subito Oreste. Il figlio di questi, Augustolo, fu esiliato nel Castel Lucullano in Campania. L’impero romano d’Occidente, che il primo Augusto, Ottaviano, aveva assunto nell’anno 709 della fondazione di Roma, perì con questo Augustolo cinquecentoventidue anni dopo che i suoi predecessori avevano iniziato a regnare, e da allora i re Goti furono padroni di Roma»; tr. it. Gasparri-Di Salvo-Simoni 1992 []). Marcellino è il primo autore conosciuto ad affermare che la deposizione di Romolo Augustolo da parte di Odoacre sancì la fine dell’Impero romano d’Occidente: come si vede, l’esposizione è asciutta e si limita alla nuda sequenza dei fatti senza aggiungere alcun commento.

Flavio Romolo Augusto. Solidus, Roma 31 ottobre 475-4 settembre 476. AV 4,41 g. Recto: D(ominus) N(oster) Romulus Augustus P(ius) F(elix) Aug(ustus). Busto affrontato, elmato, diademato di perle e corazzato dell’imperatore, con lancia e scudo.

Oltre all’aggiornamento del Chronicon, dopo il 527 non è chiaro che cosa Marcellino abbia fatto. Sono state avanzate delle ipotesi: è possibile che egli sia stato ammesso nel Senato di Costantinopoli, come confermerebbero i titoli di cui si fregia nella prefazione (ego vero vir clarissimus Marcellinus comes); oppure è probabile che, seguendo la parabole di molti funzionari del tempo, nei suoi ultimi anni egli abbia abbracciato la vita monastica. Della sua scomparsa non si hanno notizie precise, dato che se ne perdono le tracce dopo il 534.

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