Arbogaste e l’usurpazione di Eugenio (392-394)

Dopo la misteriosa morte dell’imperatore Valentiniano II (15 maggio 392), il magister militum Flavio Arbogaste si trattenne sulla frontiera renana (cfr. CIL XIII 8262; PLRE¹ 95-97): i pericoli e le minacce provenienti dalle popolazioni stanziate al di là del fiume esigevano unità di comando, energia e rapidità. D’altra parte, sospettato di aver eliminato il sovrano e in ragione delle sue origini franche, Arbogaste non aveva alcuna intenzione di sostituirsi al defunto Valentiniano, assumendo il titolo di Augustus. Al contrario, il magister chiese ufficialmente di mantenere la propria posizione di difensore del limes renano, giurando fedeltà agli Augusti Teodosio e Arcadio. Ma Teodosio rifiutò l’offerta di Arbogaste, rispettando le ultime volontà di Valentiniano II che lo aveva destituito (Ioh. Antioch. F 187 Müller). Anzi, come prima misura colpì l’aristocrazia pagana di Roma, togliendo a Virio Nicomaco Flaviano l’incarico di praefectus praetorio per Italiam (PLRE¹ 348): a Teodosio e al suo entourage era ben evidente la manovra di avvicinamento tra diversi gruppi di potere che stava avvenendo in Occidente, al punto che, con il favore della comune fede negli antichi dèi, la nobiltà italica aveva avviato ottime relazioni con il condottiero franco. Nei mesi successivi, quindi, Arbogaste ideò una strategia diversa, alternativa a ogni possibile intesa con Teodosio: rotto ogni indugio, il 22 agosto 392 il magister proclamò Augusto il magister scrinii Flavio Eugenio, in precedenza docente di grammatica e retorica (Socr. HE. V 25, 1; Soz. HE. VII 22, 4; Zos. IV 54; Oros. VII 35, 11; PLRE¹ 293). Si trattava di un personaggio di medio rango che tuttavia, nelle intenzioni di Arbogaste, poteva diventare il mediatore tra il suo potere militare sul Reno e l’aristocrazia tradizionale, che al nuovo imperatore doveva fornire i vertici dell’amministrazione. Eugenio, facendo sua la politica del suo generale, cercò dapprima un accordo con Teodosio e, senza muoversi dalla capitale Treviri, inviò ambascerie chiedendo il riconoscimento del proprio potere (Zos. IV 56, 3; Ambr. Epist. 57). Ricevuta una netta condanna dall’imperatore, nel 393 Eugenio decise di invadere l’Italia (Soz. HE. VII 22; Oros. VII 35, 13). A questo punto l’intesa tra Arbogaste, Eugenio, e l’élite imperiale si rivelò chiaramente: una strana alleanza tra militari romano-germanici e senatori romani tradizionalisti, destinata a ripetersi nel corso del secolo successivo. Il caso aveva riposto nelle mani di un comandante di origine barbarica la difesa del mos maiorum e della tradizione religiosa di Roma antica (cfr. Philost. HE. XI 1-2). Trasferitosi a Milano, tra la primavera del 393 e la tarda estate del 394, Eugenio restaurò il culto pagano e ordinò il ricollocamento dell’altare della Vittoria nella Curia a Roma (Paul. Mil. VAmbr. 26); Flaviano riebbe il suo posto di prefetto d’Italia e suo figlio fu elevato a praefectus Urbi (CIL VI 1782). Soprattutto, per la singolare alleanza con il franco Arbogaste, il Senato di Roma recuperò parte del proprio prestigio politico: fu l’ultimo tentativo di uscire da un’umiliante marginalità politica e religiosa, l’ultima chance per rimediare ai colpi inferti al venerando consesso dal regime imperiale fin dal III secolo.

Flavio Eugenio. Tremissis, Treveri, 392-394. AV 1,48 g. Dritto: D(ominus) N(oster) Eugeni-us P(ius) F(elix) Aug(ustus). Busto perlato-diademato, drappeggiato e corazzato, voltato a destra.

La notizia dell’usurpazione e dell’occupazione dell’Italia colse Teodosio a Costantinopoli. L’imperatore aveva fatto ritorno in Oriente accompagnato da un seguito di nobili gallici. Dal 391 al 394, in virtù della sua politica di unità ed ecumenicità dell’Impero, Teodosio si fece promotore di importanti avvicendamenti nelle più alte cariche civili e militari della pars Orientis, nonostante le resistenze del prefetto del pretorio locale, Flavio Eutolmio Taziano, e delle aristocrazie municipali (Zos. IV 52; Eunap. F 59 Blockley; Claud. in Ruf. 1, 244 ss.; PLRE¹ 746-747; CTh. XI 1, 23; XII 1, 131; XIV 17, 12). Alla notizia della rivolta di Arbogaste e dell’alleanza con l’élite pagana, Teodosio ribadì il proprio disconoscimento nei confronti della politica di tolleranza adottata dagli usurpatori, proibendo qualsiasi manifestazione dei culti tradizionali e criminalizzando perfino le forme simboliche e domestiche dei rituali (CTh. XVI 10, 12). Negò a Eugenio la dignità consolare, carica che spettava di diritto agli imperatori, riservandone un posto a sé e uno a un suo generale. Infine, decise di elevare alla porpora anche il proprio secondogenito, Onorio, che si trovava così a essere, virtualmente, l’erede della pars Occidentis.

Si era ormai alla resa dei conti. Mentre Eugenio, tramite Arbogaste, stipulava un foedus con i Franchi e gli Alamanni (Greg. Tur. HF II 9; Paul. Mil. VAmbr. 30), Teodosio si stava preoccupando di allestire un’armata, al cui comando supremo intendeva porre Ricomere, lo zio dell’artefice del “colpo di Stato”. Ma l’improvvisa morte del prestigioso comandante obbligò l’imperatore a rivedere i suoi piani (Zos. IV 55, 3). Soltanto nell’estate del 394, radunato un forte esercito e lasciato Arcadio (Augustus dal 383) al governo dell’Oriente, Teodosio riuscì a partire da Costantinopoli alla volta dell’Italia per ristabilire la legittimità della porzione d’Impero che intendeva lasciare a Onorio (Zos. IV 57, 4). La sua politica dell’hospitalitas nei riguardi dei Goti, accolti in Tracia dal 382, consentì all’imperatore di arruolarne circa 20.000 agli ordini di Gainas, condottiero che insieme all’alano Saulo condivideva il comando sui βάρβαρα τάγματα (i foederati); tra questi si trovava anche il giovane Alarico, forse scontento di dovere, lui che era di nobile lignaggio, dipendere da un Goto di rango inferiore. Altro comandante dell’esercito imperiale era l’iberico Bacurio, un fervente cristiano di origine caucasica, scampato alla disastrosa disfatta di Adrianopoli (378), «onesto e addestrato alla guerra» (ἔξω δὲ πάσης κακοηθείας ἀνὴρ μετὰ τοῦ καὶ τὰ πολεμικὰ πεπαιδεῦσθαι). Magister utriusque militiae fu nominato Flavio Timasio (PLRE¹ 914-915) e suo luogotenente fu il vandalo Flavio Stilicone (PLRE¹ 853-858). «Questa – conclude Zosimo – fu la selezione dei comandanti» (IV 57, 2-4, ἡ μὲν οὖν ἀρχαιρεσία τοῦτον αὐτῷ διετέθη τὸν τρόπον).

Teodosio guida il suo esercito verso l’Italia (Chaillet 2002).

L’imperatore d’Oriente, preso con sé il secondogenito, marciò lungo la Sava, valendosi della strada imperiale che collegava Sirmium all’Italia nordorientale, come aveva già fatto nel 388 per sconfiggere ad Aquileia l’usurpatore Magno Massimo; in quell’occasione Arbogaste era stato uno dei suoi più alti ufficiali, e anche allora nell’armata spiccavano cospicui contingenti barbarici. Memore di quell’esperienza, dal canto suo, il Franco aveva rinunciato a disperdere le proprie forze in avamposti lungo la via del settore illirico e, non disponendo di ingenti risorse militari, aveva preferito sbarrare il passo al nemico a ridosso delle Alpi Giulie. La scelta del percorso dovette consentire alle truppe imperiali di aggirare le montagne o di valicarle laddove i passi erano meno impervi, come l’altopiano boscoso Ad Pirum (Selva di Piro), nei pressi dell’odierna Gorizia. Subito a ovest dell’altura, si apriva una ridente pianura attraversata dal fiume Frigidus (Vipacco), affluente dell’Isonzo, delimitata a nord dallo scosceso crinale della Selva di Tarnova (Trnovski gozd), a sud da morbide colline e a sud-est dall’estrema propaggine delle Alpi, il monte Nanos.

Le difese approntate da Flaviano, che aveva provveduto a proteggere i valichi con statue di Giove, che tenevano in mano saette dorate, furono facilmente sbaragliate da Teodosio, che si batteva per l’affermazione del Cristianesimo. Tutto questo, nonostante l’ex prefetto urbano, rivestito il ruolo di augure, avesse predetto una sicura vittoria per la sua fazione, proponendosi di arruolare tutti i clerici e di tramutare in stalla la basilica della comunità di Milano (Paul. Mil. VAmbr. 31, 2). Ad Arbogaste non rimasero che i contingenti barbarici e alcuni reparti di Romani, sovrastati da labari recanti l’immagine di Ercole Vittorioso (August. De civ. D. 5, 26).

È difficile per i moderni stabilire dove le due compagini armate si fossero scontrate, il 5 e il 6 settembre 394: senz’altro sul fiume, ma a quale altezza non si può dire (Socr. HE. V 25). L’esercito teodosiano doveva essersi appostato su un’altura a nord-est del Frigidus e, nel primo pomeriggio della prima giornata, l’imperatore aveva scagliato all’assalto i 20.000 Goti, condotti da Bacurio, i quali piombarono sull’accampamento nemico, situato a valle. L’asperità del terreno mise fuori uso i carri che accompagnavano i foederati, e ben 10.000 di loro rimasero sul campo con lo stesso comandante, dimostrando la propria incrollabile fedeltà all’imperatore; il resto dell’esercito, fallito l’attacco, si ritirò in buon ordine (Zos. IV 58, 3; Rufin. HE. II 33; cfr. Oros. VII 35, 19).

Battaglia del Frigido (Amelianus 2012).

Dopo questo scacco Teodosio, consigliato dai suoi, fu tentato di battere in ritirata e di rinviare la guerra alla primavera successiva, ma infine decise di provare una nuova riscossa la mattina seguente. Durante la notte, Arbogaste aveva ordinato ad Arbizio di guidare i suoi guerrieri in una manovra che gli aveva consentito di portarsi alle spalle dei teodosiani; al campo di Eugenio, invece, il resto dell’armata dell’usurpatore, certa del successo della giornata e della vittoria ormai in pugno, aveva trascorso il tempo in una festosa gozzoviglia nel corso della quale furono distribuiti lauti donativi (Zos. IV 58, 4). Escluso da ciò, probabilmente il condottiero in avanscoperta pensò bene di defezionare e mettersi al servizio dell’imperatore. All’alba, poco dopo che Teodosio ebbe dato il segnale convenuto – il segno della croce –, una violentissima bora (magnus… et ineffabilis turbo ventorum) sollevò un’immensa nube di polvere tale da accecare i soldati di Arbogaste, impedendo loro di reggere addirittura lo scudo e di scagliare dardi senza che tornassero indietro (Oros. VII 35, 17-18). Un’altra versione vuole che si fosse verificata un’eclissi solare di tale entità che per molto tempo si pensò che fosse calata la notte (Zos. IV 58, 3). La libellistica teodosiana, naturalmente, imprime all’eccezionalità del fenomeno un significato religioso: l’Augustus aveva trascorso la notte in raccoglimento (Oros. VII 35, 14-16).

I soldati superstiti di Eugenio, una volta arresisi, consegnarono il proprio imperatore, che fu subito giustiziato, e la sua testa, «conficcata su una lunghissima asta», fu portata «in giro per tutto il campo, mostrando a quelli che gli erano ancora favorevoli che a essi conveniva – in quanto Romani – riappacificarsi con l’imperatore, essendo stato definitivamente eliminato l’usurpatore» (Zos. IV 58, 5, ἀφελόμενοι κοντῷ… μακροτάτῳ πᾶν περιέφερον τὸ στρατόπεδον, δεικνύντες τοῖς ἔτι τἀκείνου φρονοῦσιν ὡς προσήκει Ῥωμαίους ὄντας ὡς τὸν βασιλέα ταῖς γνώμαις ἐπανελθεῖν, ἐκποδὼν μάλιστα τοῦ τυράννου γεγενημένου).

Dal canto suo, Arbogaste, non ritenendo opportuno cercare la clemenza del vincitore, si diede alla macchia fra le montagne; accortosi di essere braccato, due giorni dopo la battaglia, si diede la morte gettandosi sulla spada (cfr. Claud. III cons. Hon. 102 ss.).

La rivolta era stata stroncata, la guerra civile era stata risolta. La battaglia del Frigidus assunse un potente valore simbolico nel confronto tra pagani e cristiani nell’ultimo scorcio del IV secolo. Da tutti, anche dai tradizionalisti, quello scontro fu avvertito come una sorta di ordalia, un giudizio divino che si era espresso al di sopra della volontà degli uomini. Le fonti, come si è detto, concordano sul verificarsi di eventi prodigiosi, che consentirono l’irresistibile vittoria di Teodosio: il “miracolo” decise il trionfo dei Cristiani sui culti antichi.

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Stesicoro

Per i colonizzatori dell’Italia meridionale il mito non rappresentava soltanto un veicolo per la sopravvivenza dei legami con la madrepatria, ma anche un modo per interpretare e giustificare l’impulso migratorio, collegando le storie di Eracle, degli Argonauti, di Diomede e degli altri reduci dalla guerra troiana alla scelta dei siti in cui le nuove colonie sarebbero sorte. In quest’ottica, l’eroe protettore della nuova comunità si configurava spesso come una sorta di proiezione del capo aristocratico (οἰκιστής) che aveva guidato la spedizione e che, con il tempo, avrebbe potuto diventare egli stesso oggetto di culto eroico. In più, il mito, con le tensioni implicite delle multiformi vicende degli eroi, permetteva di alludere attraverso figure e atteggiamenti esemplari ai problemi che agitavano l’attualità coloniale e in special modo a quei contrasti sociali forieri di στάσεις, che ben presto emersero all’interno delle nuove πολεῖς, dopo un iniziale momento egalitario della lotta per l’insediamento e dell’organizzazione del nuovo spazio territoriale.

Pittore anonimo. Un poeta (dettaglio). Pittura vascolare su un λήκυθος attico a figure rosse, c. 480 a.C. da Atene. Los Angeles-Malibu, Villa Getty Museum.

Massimo interprete della tradizione mitica all’interno del mondo magno-greco nelle forme, verosimilmente, della lirica citarodica fu Stesicoro (Στησίχορος), figlio di Eufemo (o di Euclide?). Gli antichi, in genere, associavano questo poeta alla siciliana Imera, dove si era presumibilmente trasferito dall’originaria Matauro (colonia locrese nell’Italia meridionale). Stesicoro avrebbe soggiornato anche in altre località magno-greche e siceliote (PMGF TA 8-13).

Le testimonianze antiche sulla sua cronologia sono alquanto incerte, forse perché lo si confuse con omonimi più tardi oppure perché fu considerato l’«inventore» (πρῶτος εὑρετής) della lirica corale: secondo la testimonianza del lessico Sud. σ 1095 (IV 433. 16-20 Adler = Stes. TA 10, 1-5 Ercoles1), il nome stesso Stesicoro sarebbe stato un epiteto derivato dal fatto che egli «per primo, istituì un coro con la citarodia, mentre il suo vero nome era Tisia» (πρῶτος κιθαρῳδίᾳ χορὸν ἔστησεν· ἐπεί τοι πρότερον Τισίας ἐκαλεῖτο).

Comunque stessero le cose, mentre è sicuramente da escludere la data registrata dal Marmor Parium (FGrHist. 239, 50 = PMGF TA 6, che riferisce di un suo arrivo nella Grecia continentale nel 485/4 a.C., in sincronia con la prima vittoria di Eschilo nei concorsi tragici e con la nascita di Euripide), sembra probabile una sua collocazione tra la fine del VII e la prima metà del VI secolo a.C.: nell’ultimo periodo, in particolare, Stesicoro doveva essere ancora in vita, se Aristotele (Rhet. 1393b) lo connetté con il tiranno di Agrigento Falaride (570-554 a.C.), da cui il poeta avrebbe invano cercato di mettere in guardia gli abitanti di Imera, quando essi gli si assoggettarono. Non lontana dal vero appare dunque la datazione già suggerita da Sud. σ 1095, che collocava la sua vita fra la XXXVII e la LVI Olimpiade, cioè fra il 632/629 e il 556/553, anche se andrebbe posticipata di poco la data di morte, se si presta fede alle testimonianze che collegano Stesicoro alla battaglia del fiume Sagra, combattuta fra Locresi e Crotoniati verso il 550 a.C. (cfr. [Luc.]Macr. 26, I 81 Macleod = PMGF TA 7, che riferisce che il poeta visse fino a 85 anni).

Più incerta è la notizia secondo cui il poeta avrebbe soggiornato per un certo tempo a Pallantio, in Arcadia, donde sarebbe tornato in Sicilia, a Catania. E a Catania (oppure a Imera) sarebbe morto.

Pittore di Dana. Scena musicale (dettaglio): due donne in atto di ascoltare una terza mentre canta e suona la lira. Pittura vascolare da un cratere a campana attico a figure rosse, c. 460 a.C. New York, Metropolitan Museum of Art.

I componimenti di Stesicoro furono raccolti dai filologi alessandrini in 26 libri. Di questa produzione, di cui ora si sa con certezza che era davvero enorme e che aveva incontrato nel mondo antico una vasta diffusione, era nota fino al secolo scorso solo una cinquantina di versi (frammenti desunti da citazioni, per lo più assai brevi), mentre già si conosceva un buon numero di titoli (probabilmente stabiliti dai grammatici alessandrini), che per la maggior parte si riferiscono a fatti e personaggi della leggenda: Giochi per Pelia, Gerioneide, Elena, Palinodie per Elena, Distruzione di Ilio, Cerbero, Cicno, Ritorni, Orestea, Scilla, Cacciatori del cinghiale. Si confermava, comunque, la sentenza di Quintiliano (X 1, 62), secondo cui Stesicoro epici carminis onera lyra sustinentem («sostenne con la cetra il peso dell’epos»).

Parecchi studiosi contemporanei attribuiscono non a Stesicoro, ma a un omonimo imerese vissuto nel IV secolo a.C. altri carmi che, a giudicare dai titoli, trattavano storie d’amore a triste fine: Calica, Radina, Dafni (la storia del pastore che muore d’amore, nota dall’Idillio I di Teocrito). Stesicoro avrebbe infine composto, secondo la dubbia testimonianza di Ateneo (XIII 601a), anche carmi omoerotici.

Se nel 1936 il filologo inglese Cecil M. Bowra poteva parlare di Stesicoro come dell’«ombra indistinta di un grande nome agli inizi della poesia greca», oggi quest’ombra è certamente assai meno vaga, perché un considerevole incremento alla conoscenza dell’opera stesicorea è venuto da una serie di scoperte papiracee, che hanno restituito brani più o meno estesi inseribili nella Gerioneide (F S7-S87), nella Distruzione di Ilio (F S88-S147), nei Ritorni (PMGF 209) e nella Tebaide (PMGF 222b).

Pittore Nicone. Un poeta con barbiton. Pittura vascolare da un λήκυθος attico a figure rosse, c. 460-450 a.C. New York, Metropolitan Museum of Art.

I nuovi frammenti papiracei hanno permesso di accertare le dimensioni davvero cospicue dei testi: un’indicazione sticometrica contenuta in P. Oxy. 2617, che conserva frammenti della Gerioneide, documenta che questo carme superava i 1.300 versi! In particolare, è ora possibile chiarire il rapporto di innovazione/continuazione, se non di concorrenzialità, che legava i carmi stesicorei con l’epica non solo a livello lessicale e stilistico, ma anche nella costruzione di ampi intrecci e di estese sezioni narrative, intercalate da scambi dialogici.

Discusse sono le modalità di esecuzione di queste composizioni, la cui struttura strofica, detta “triadica” (PMGF TA 19), era caratterizzata dalla ripetizione ad libitum di segmenti composti da una strofe, un’antistrofe (metricamente equivalente) e un epodo (metricamente autonomo, ma ritmicamente connesso alle precedenti) e dall’innovativo impiego dei metri dattilo-epitriti. Questa articolazione “triadica” è documentata al di là di ogni dubbio dalla testimonianza dei papiri e gli antichi ne assegnavano l’invenzione allo stesso Stesicoro.

Oggi l’opinione dei più è che l’esecuzione dei carmi non fosse (o almeno non sempre) realizzata da un coro, come si riteneva in passato, ma da un solista (di solito, il poeta in persona), che si accompagnava con la cetra alla maniera della citarodia lirica pre-omerica (della quale Stesicoro sarebbe stato un continuatore).

È pur vero che la stessa articolazione triadica rende probabile, insieme con le testimonianze antiche, la presenza di un coro, che doveva pertanto limitarsi a eseguire mute evoluzioni di danza destinate a porsi in un rapporto mimetico nei confronti dello sviluppo del tema mitico di volta in volta affrontato.

Quale luogo privilegiato delle esecuzioni dei carmi stesicorei Luigi Enrico Rossi (1983) individuò l’ambito di quelle gare citarodiche che si svolgevano all’interno delle riunioni festive diffuse in tutto il mondo greco arcaico: in tale contesto Stesicoro avrebbe cantato le sue composizioni di epica lirica “alternativa” fianco a fianco con rapsodi che recitavano brani di Omero o nuovi brani di epica esametrica. E con la necessità di soddisfare le richieste di un pubblico di cui dipendeva la vittoria agonale si spiegherebbe anche la frequente rifunzionalizzazione “regionale” del mito.

Pittore di Londra E. Apollo musico. Pittura vascolare dal tondo di una κύλιξ attica a figure rosse, c. 480-470 a.C. da Chiusi. London British Museum.

La proposta di Giocasta(PMGF 222b)

È la colonna meglio conservata (A II) di una serie di frustoli papiracei (P. Lille 76A II + 73 I) recuperati dal cartonnage di una mummia e pubblicati nel 1977 da G. Archer e C. Meillier nel Cahier de Recherches de l’Istitut de Papyrologie et d’Egyptologie de Lille 4, 287 ss. Contengono brani di un carme in triadi strofiche e nell’impasto linguistico tipico della lirica corale – attribuibile con quasi assoluta certezza a Stesicoro – sulla divisione dell’eredità paterna tra i figli di Edipo, Eteocle e Polinice: un soggetto trattato già nella Tebaide epica e poi ripreso ripetutamente dalla tragedia attica (Sette contro Tebe di Eschilo; Fenicie di Euripide, Edipo a Colono di Sofocle – sulla trattazione stesicorea della leggenda, cfr. A. Carlini, QUCC 25 [1977], 61-67, e Bremer 1987).

Il brano qui riprodotto inizia nel mezzo di una risposta della madre Giocasta all’indovino Tiresia, perché non voglia aggiungere nuovi mali a quelli esistenti. La soluzione prospettata dalla regina consiste nel proporre un sorteggio in base al quale uno dei fratelli otterrà il regno, mentre l’altro se ne andrà in esilio portando con sé i tesori paterni.

La colonna successiva (73 II + 76C I + 111C) a quella riportata qui doveva appunto contenere, come possiamo arguire dai miseri monconi superstiti, una rapida descrizione del sorteggio e della raccolta dei beni paterni da parte di Polinice, a cui la sorte assegnava l’esilio, seguita da uno scambio dialogico (cfr. v. 253 μῦθον ἔειπε), di cui non possiamo identificare gli interlocutori. Poi, nella colonna ancora seguente (76C II + B), l’indovino prediceva le nozze che Polinice avrebbe contratto in Argo con la figlia di Adrasto (vv. 274 ss.) e annunciava i mali che avrebbero colpito Tebe, se l’accordo fosse stato infranto. Dagli ultimi residui di testo (vv. 291 ss.) si deduce che, appena terminato l’ultimo intervento di Tiresia, Polinice partiva in direzione di Argo, giungendo all’Istmo di Corinto.

Scena tebana con Eteocle, Polinice, Giocasta, Antigone e Creonte. Rilievo, marmo, II sec. da un sarcofago in stile attico. Roma, Villa Doria Pamphilj.

(P. Lille 76 A II + 73 I Bremer 1987a)

‹Ἰοκάστη› (?)

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

ἐπ’ ἄλγεσι μὴ χαλεπὰς ποίει μερίμνας

μηδέ μοι ἐξοπίσω

πρόφαινε ἐλπίδας βαρείας.

οὔτε γὰρ αἰὲν ὁμῶς

θεοὶ θέσαν ἀθάνατοι κατ’ αἶαν ἱρὰν

νεῖκος ἔμπεδον βροτοῖσιν

οὐδέ γα μὰν φιλότατ’, ἐπὶ δ’ ἁμέρα‹ι ἐ›ν νόον ἀνδρῶν

θεοὶ τιθεῖσι.

μαντοσύνας δὲ τεὰς ἄναξ ἑκάεργος Ἀπόλλων

μὴ πάσας τελέσσαι[1].

αἰ δέ με παίδας ἰδέσθαι ὑπ’ ἀλλάλοισι δαμέντας

μόρσιμόν ἐστιν, ἐπεκλώσαν δὲ Μοίρα[ι,

αὐτίκα μοι θανάτου τέλος{ο}στυγερο[ῖο] γέν[οιτο,

πρίν ποκα ταῦτ’ ἐσιδεῖν

ἄλγεσ‹σ›ι πολύστονα δακρυόεντa ἀ[γεῖσαν

παίδας ἐνὶ μεγάροις

θανόντας ἢ πόλιν ἁλοίσαν.

ἀλλ’ ἄγε παίδες ἐμοῖς μύθοις φίλα[ τέκνα, πίθεσθε,

τᾶιδε γὰρ ὑμὶν ἐγὼν τέλος προφα[ίνω,

τὸν μὲν ἔχοντα δόμους ναίειν πό[λιν εὐκλέα Κάδμου,

τὸν δ’ ἀπίμεν κτεάνη

καὶ χρυσὸν ἔχοντα φίλου σύμπαντα [πατρός,

κλαροπαληδὸν ὃς ἄν

πρᾶτος λάχῃ ἕκατι Μοιρᾶν[2].

τοῦτο γὰρ ἂν δοκέω

λυτήριον ὔμμι κακοῦ γένοιτο πότμο[υ,

μάντιος φραδαῖσι θείου,

εἴ γε νέον Κρονίδας γένος τε καὶ ἄστυ [σαώσει

Κάδμου ἄνακτος

ἀμβάλλων κακότατα πολὺν χρόνον[, ἃ περὶ Θήβα]ς

πέπρωται γενέ[σ]θαι.

ὣς φάτ[ο] δῖα γυνά, μύθοις ἀγ[α]νοῖς ἐνέποισα,

νείκεος ἐμ μεγάροις π[αύο]ισα παίδας,

σὺν δ’ ἅμα Τειρ[ε]σίας τ[ερασπό]λος, οἱ δὲ πίθο[ντο[3].

Giovanni Silvagni, Il duello tra Eteocle e Polinice. Olio su tela, 1820. Roma, Galleria dell’Accademia di San Luca.

[1] vv. 201-210. La colonna A II inizia col terzultimo colon di un’antistrofe, nel corso della replica di Giocasta all’indovino Tiresia: «… “Non creare ansie opprimenti (χαλεπὰς… μερίμνας costituisce un nesso formulare arcaico estraneo a Omero, attestato in Hes. Erga 178 χαλεπὰς δὲ θεοὶ δώσουσι μερίμνας; Mimn. 1, 7 ἀμφὶ κακαὶ τείρουσι μέριμναι; Sapph. 1, 25 χαλέπαν …/ἐκ μερίμναν) in aggiunta ai dolori (presenti: forse si allude al lutto per la morte di Edipo, o più in generale alla sequela di sciagure che hanno colpito la regina tebana a partire dalla morte del marito Laio) e a me non predire (πρόφαινε: il verbo ha spesso questa accezione in relazione a oracoli e indovini: cfr. Soph. Trach. 849, Hdt. VII 37, 2; cfr. R. Tosi, MCr 13-14 [1978/1979], 125-142 [126] Bremer, 137) d’ora in poi (ἐξοπίσω) gravi attese (ἐλπίς ha generalmente connotazione positiva, “speranza”, ma di per sé è una vox media, “attesa”, e può essere associata ad aggettivi con qualificazione negativa, cfr. Soph. Ajax 606 κακὰν ἐλπίδ’ ἔχων). Né, infatti, sempre (αἰὲν = ἀεί) allo stesso modo (ὁμῶς) gli dèi immortali provocano (θέσαν = ἔθεσαν, aoristo gnomico: il nesso paretimologico θεοὶ θέσαν, che tende a prospettare gli dèi come coloro che, per definizione, dispongono degli eventi e degli uomini, è tradizionale) ai mortali sulla sacra (ἱρὰν = ἱεράν: l’aggettivo è spesso riferito nell’epica a singole località, non alla terra intera) terra discordia incessante, e neppure (οὐδέ γα μὰν = οὐδέ γε μὴν) concordia (la presenza della polarità νεῖκος/φιλότης, centrale nella cosmologia di Empedocle 31 B 17,7-20; 26,5-6; 33,3-13 D.-K., induceva J. Bollack a datare il nostro brano al V secolo a.C., negando l’attribuzione a Stesicoro; ma si è opportunamente osservato che già Esiodo include Φιλότης ed Ἔρις nel catalogo delle forze cosmiche in Th. 211 ss.), ma gli dèi dispongono la mente (τιθεῖσι di v. 208 riprende θέσαν 205) degli uomini secondo gli eventi del giorno (ἁμέριον = ἡμέριον, in contrasto con αἰὲν di v. 204). Ma il sire Apollo lungisaettante (ἄναξ ἑκάεργος Ἀπόλλων è clausola formulare, cfr. Il. XV 253; XXI 461, ecc.) non porti a compimento (τελέσσαι = τελέσαι, ottativo deprecativo, non infinito) tutte le tue (τεὰς = σὰς) profezie (μαντοσύνας, cfr. Emped. 31 B 112, 10 D.-K.)».

[2] vv. 211-224. «Ma se (αἰ = εἰ) è destino, e le Moire (le dee del destino, figlie di Zeus e di Themis: Cloto, Lachesi e Atropo, secondo Hes. Th. 904-906 Μοίρας θ’, ᾗς πλείστην τιμὴν πόρε μητίετα Ζεύς,/Κλωθώ τε Λάχεσίν τε καὶ Ἄτροπον, αἵ τε διδοῦσι/θνητοῖς ἀνθρώποισιν ἔχειν ἀγαθόν τε κακόν τε) hanno filato (l’immagine è ridondante dopo μόρσιμόν, ma tradizionale), che io veda i figli uccisi l’uno dall’altro, subito a me venga il termine (il modulo del “potessi morire prima di…” compare più volte in Omero) dell’odiosa morte (θανάτου…στυγεροῖο/-ροῦ rappresenta lo smembramento di una formula omerica, cfr. Od. XII 341 στυγεροὶ θάνατοι; XXIV 414 στυγερὸν θάνατον), prima di veder mai (ποκα = ποτε) queste molto lamentevoli (e) lacrimevoli (giustapposizione asindetica con effetto patetico) cose per i dolori (ἄλγεσ‹σ›ι = ἄλγεσι), i figli morti nel (ἐνὶ = ἐν) palazzo o (con riferimento alla profezia resa da Apollo a Laio, il dilemma stirpe/città ricomparirà in Aesch. Theb. 745-749 …Ἀπόλλωνος εὖτε Λάιος/βίᾳ, τρὶς εἰπόντος ἐν/μεσομφάλοις Πυθικοῖς/χρηστηρίοις θνῄσκοντα γέν-/νας ἄτερ σῴζειν πόλιν) la città conquistata (ἁλοίσαν = ἁλοῦσαν < ἁλίσκομαι). Suvvia, figli (παίδες = παῖδες), alle mie parole date ascolto, figli (τέκνα) diletti, io a voi (ὑμὶν = ὑμῖν) propongo (προφαίνω, con intenzionale antitesi, ma con diversa valenza semantica, rispetto al πρόφαινε di v. 203) questa (τᾶιδε = τῇδε, prolettico) soluzione: l’uno abiti ‹la celebre città di Cadmo› (πό[λιν εὐκλέα Κάδμου), tenendo (ἔχοντα) la reggia, l’altro se ne vada (ἀπίμεν = ἀπιέναι) tenendo (ἔχοντα, con ricercata simmetria dell’ἔχοντα di v. 220) il bestiame (κτεάνη) e tutto quanto l’oro di suo padre, colui che per primo (πρᾶτος = πρῶτος) per volere (ἕκατι = ἕκητι) delle Moire ottenga il verdetto col getto delle sorti (κλαροπαληδὸν, avverbio non attestato altrove, formato su *κλαροπαλέω; l’aggettivo κληροπαλής è presentein H. Herm. 129)». La relativaὃς…Μοιρᾶν è agganciata al secondo corno del dilemma essendo stato prefissato che colui la cui sorte fosse stata estratta per prima avrebbe preso la parte maggiore.

[3] vv. 225-234. «E ciò io credo (con δοκέω parentetico) che sarebbe per voi (ὔμμι = ὑμῖν) un riscatto (λυτήριον: è la prima attestazione del termine; cfr. Soph. Elect. 1489-1490 κακῶν/…λυτήριον) dal maligno destino, secondo i suggerimenti del vate divino, se il Cronide ‹proteggerà› (σαώσει) la nuova progenie (Eteocle e Polinice, opposti a Laio e a Edipo; cfr. Pind. Paean. IX, 20; Soph. OT 1) e la città di Cadmo sovrano, allontanando (ἀμβάλλων = ἀναβάλλων) per molto tempo la sventura, che è destinata (πέπρωται, forma di perfetto dalla radice * πορ-, donde l’aor. πορεῖν) ad abbattersi su Tebe”. Così disse (ὣς φάτο = ἔφατο, modulo frequentissimo nell’epica per chiudere la “cornice” di un discorso diretto) la donna divina (δῖα γυνά) parlando (ἐνέποισα = ἐνέπουσα) con miti parole, ricomponendo (π[αύο]ισα = παύουσα) la lite dei figli nel palazzo, e insieme (ἅμα) con Tiresia interprete di prodigi (τ[ερασπό]λος, integrazione su analogia con τερασκόπος, “profeta”, e ὀνειροπόλος, “interprete di sogni”), e quelli obbedirono».


Sette contro Tebe. Rilievo, marmo pario, II sec. da un sarcofago romano. Corinto, Museo Archeologico.

Il passo presenta un ritratto tutt’altro che convenzionale di una donna impegnata a prendere una decisione cruciale sotto la pressione di un forte e improvviso impatto emotivo prodotto in lei da una dolorosa profezia: Tiresia ha profetizzato che la contesa fra Eteocle e Polinice potrà risolversi solo con la mutua uccisione dei fratelli o con la distruzione di Tebe (cfr. vv. 214-217: alternativa – marcata dalla disgiuntiva ἢ – fra morte dei figli e città distrutta). Di fronte a questo dilemma soffocante la regina non si abbandona a uno sfogo patetico (anche il modulo, impiegato ai vv. 213 ss., del «potessi morire prima di…[se non…]» – cfr. p. es. Il. XXIV 244-246; Od. XVI 106-111; Mimn. F 1, 2 ss.; Theogn. 342-343 – non esprime una reale volontà di suicidio), bensì elabora una personale risposta intesa ad affrontare il problema sia sul piano ideologico che su quello operativo.

Quanto al primo, ella nega che esista alcunché di immutabile, tanto meno odio e amore, «sulla sacra terra»: tutto cambia e gli dèi adattano la mente degli uomini agli accadimenti che di giorno in giorno si verificano (il motivo compare già in Od. XVIII 136-137: «perché così è la mente degli uomini sopra la terra, /come l’ispira di giorno in giorno il padre dei numi e degli uomini»; e in Archil. F 131-132 West2: «Glauco, figlio di Leptine, l’indole degli uomini/ha la patina dei giorni che via via ci porta Zeus,/e all’azione che li impegna uniformano l’idea»). È una considerazione di sapore esistenziale che tuttavia – come ha opportunamente osservato A. Burnett, CA 7 (1988), 107-154 (114) – veniva ad assumere un’importante valenza politica in quanto rispondeva alle esigenze di una ristretta comunità oligarchica: significativa a questo proposito la possibilità di un confronto sia con una delle norme che si tramandano codificate da uno dei grandi “legislatori” arcaici, Zaleuco di Locri, secondo cui (cfr. Diod. XII 20, 3) «non bisogna avere nessuno dei concittadini come nemico inconciliabile, ma considerare l’inimicizia come se in futuro potrà di nuovo volgersi in riconciliazione e amicizia», sia con un passo dell’Aiace di Sofocle (vv. 678-683), dove il protagonista dichiara, sia pure con ironia, di aver preso consapevolezza del fatto che «i nemici odiati/ci potranno anche amare, più tardi,/e gli amici a cui farò del bene, non saranno amici per sempre; l’amicizia non è un porto sicuro per gli uomini».

Era un messaggio che, trasposto nella relazione fra Stesicoro e il pubblico delle città magnogreche presso il quale i suoi canti venivano eseguiti, poteva cooperare al tentativo, a cui anche le feste religiose e gli agoni poetici contribuivano, di frenare i contrasti tra le fazioni in lotta, secondo un ruolo del poeta e più in generale del “saggio” che le fonti antiche dichiarano esercitato proprio da Stesicoro a proposito di tensioni interne alla comunità di Locri Epizefiri.

Non meno significativa è la dimensione operativa della risposta elaborata dalla regina. Rispetto ai due schemi di sorteggio tradizionalmente usati nella Grecia arcaica – sorteggio attraverso cui si opera la divisione in lotti o porzioni uguali, ad esempio in occasione di un’eredità (cfr. Od. XIV 209-210) o della fondazione di una colonia, e sorteggio in cui si sceglie qualcuno all’interno di un gruppo – Giocasta cerca infatti di contaminare i due procedimenti, mirando simultaneamente a dividere i beni parteni fra beni immobili e beni mobili (oro e armenti) e a scegliere chi fra i due dovrà tenere i primi insieme con il regno e chi invece dovrà prendersi i secondi andando in esilio.

Si tratta di un’ingegnosa soluzione di compromesso, fondato su una personale «opinione» (δοκέω v. 225) che cerca di sfruttare le pieghe dei responsi, ma che sembra tuttavia condannata al fallimento. La simultanea salvezza della stirpe e della città può infatti realizzarsi solo temporaneamente: la stessa regina invoca da Zeus non l’eliminazione ma solo un «rinvio» (ἀμβάλλων v. 230) della rovina incombente. E nel contempo una tale spartizione non avrebbe fatto che esacerbare il figlio esiliato e insieme indebolire il regno di colui che restava (Eteocle): «regnare», nel mondo della monarchia eroica, comportava non solo autorità su uomini e cose, ma anche il disporre di armenti e di quel metallo che «voleva dire strumenti e armi», nonché disponibilità di κειμήλια (“tesori”), in quanto simboli di ricchezza e di prestigio (cfr. Finley, 70 s.).

Sul piano espressivo, dunque, è possibile cogliere nell’arte di Stesicoro una puntigliosa aderenza a moduli già noti dall’epica, ma non è possibile accertare in che misura essi derivino direttamente da quella tradizione o da una ancora più antica. D’altra parte, una tale impressione è verificabile solo nell’ambito del discorso diretto di Giocasta, mentre le sezioni narrative (come, p. es., quella della partenza e del viaggio di Polinice e dei suoi compagni alla volta di Argo) dovevano procedere con un ritmo molto veloce e una selezione estremamente sintetica dei dettagli. Si può, ancora, osservare, anche all’interno della replica di «Giocasta», che la dizione tradizionale, con un procedimento che si potrebbe definire “manieristico”, viene caricata e appesantita dalle Stesichori… graves Camenae di oraziana memoria. Si riscontra, infatti, la costante ricerca di un’enfasi espressiva che va spesso al di là della misura epica, determinata da fenomeni peculiari, come la ripetizione di nozioni già espresse, l’accumulo di sinonimi, la contrapposizione polare di concetti antitetici.

La lettura del testo evidenzia, insomma, uno stile che rende ora meglio comprensibile il giudizio di Quintiliano (X 1, 62), che se elogiava in Stesicoro la capacità di attribuire ai suoi personaggi l’appropriato rilievo sia nell’agire sia nel parlare (reddit enim personis in agendo simul loquendoque debitam dignitatem) ne sottolineava, d’altra parte, l’effusa ridondanza (sed redundat atque effunditur).

La Gerioneide (F S11; S13, 2-6; S15, col. II)

Non meno interessanti del brano della Tebaide appaiono i frammenti provenienti dalla Gerioneide, che presenta la rievocazione di una di quelle saghe legate all’esplorazione e alla colonizzazione di nuove terre occidentali. Generalmente, Gerione è rappresentato come un mostro gigante dotato di tre teste e tre busti (ma due gambe), che possedeva una mandria di buoi, custodita dal pastore Eurizione e dal cane a due teste Ortro. Nei suoi versi Stesicoro narrava della cattura da parte di Eracle, come una delle sue proverbiali fatiche, delle vacche di Gerione nell’isola di Erizia, situata nell’estremo Occidente presso Cadice, di fronte alla foce del fiume Tartesso, oggi Guadalquivir (cfr. Strab. III 2, 11).

Sia pure a costo di qualche lacuna, oggi, grazie a un fortunato ritrovamento papiraceo, possiamo leggere almeno tre parti: il dialogo fra qualcuno (probabilmente un guardiano delle mandrie, in genere chiamato Eurizione nella tradizione mitografica) che cerca di dissuadere il gigante dal battersi con Eracle e Gerione stesso che, sul punto di affrontare lo scontro, ne prevede l’esito mortale ma rifiuta di dar prova di viltà (F S11); la supplica della madre Calliroe a Gerione perché rinunci allo scontro (F S13, 2-6); infine la rappresentazione della morte patita dallo sventurato mandriano (F S15, col. II).

Pittori del Gruppo di Priceton. Il gigante Gerione. Pittura vascolare su anfora a collo con figure nere, 540-530 a.C. ca. dall’Attica. New York, Metropolitan Museum of Art.

S11

χηρσὶν δ[     τὸν

     δ᾽ ἀπαμ[ειβόμενος

ποτέφα̣ [κρατερὸς Χρυσάορος ἀ-

     θανάτοιο̣ [γόνος καὶ Καλλιρόας[1]·

«μή μοι θά[νατον προφέρων κρυόεν-

     τα, δεδίσκ[ε’ ἀγάνορα θυμόν,

μηδεμελ[

     Αἰ μὲν γὰ[ρ γένος ἀθάνατος πέλο-

μαι καὶ ἀγή̣[ραος ὥστε βίου πεδέχειν

     ἐν Ὀλύμπ[ῳ,

κρέσσον[ ἐ-

     λέγχεα δ̣[

καὶ τ[

κεραϊ[ζομένας ἐπιδῆν βόας ἁ-

     μετέρω[ν ἀπόνοσφιν ἐπαύλων

Αἰ δ᾽ ὦ φί̣[λε χρὴ στυγερόν μ᾽ ἐπὶ γῆ-

     ρας [ἱκ]έ̣σ̣θαι̣,

ζώ[ει]ν τ᾽ ἐν̣ ἐ̣[φαμερίοις ἀπάνευ-

     θε θ̣[ε]ῶ̣ν μακάρω[ν,

νῦν μοι πο̣λ̣ὺ̣ κ̣ά̣[λλιόν ἐστι παθῆν

     ὅ τι μόρσιμ[ον

καὶ ὀνείδε[     α

καὶ παντὶ γέ[νει                                     ἐξ-

     ὀπίσω Χρυς[άο]ρ̣ο[ς υ]ἱ̣ό̣ν̣·

μ]ὴ τοῦτο φ[ί]λ̣ον μακά̣[ρε]σσι θε[ο]ῖ-

     σι γ]ένοιτο

….].[.].κ̣ε[..].[.] περὶ βουσὶν ἐμαῖς

     ……………]

     ]κ̣λεος̣.[[2]

S13

     ……] ἐ̣γ̣ὼν̣ [μελέ]α καὶ ἀλασ-

     τοτόκος κ]αὶ ἄλ̣[ας]τ̣α̣ π̣α̣θοῖσα

…… Γ]αρυόνα γωνάζομα[ι,

     αἴ ποκ᾽ ἐμ]όν τιν μαζ[ὸν] ἐ̣[πέσχον[3]

S15

                   ]ων̣ στυγε[ρ]οῦ

     θανάτοι]ο ..[ ]

κ]ε̣φ[αλ]ᾷ πέρι̣ [ ] ἔ̣χων, πεφορυ-

     γ]μένος αἵματ[ι …..]..[..]ι̣ τε χολᾷ,

ὀλεσάνορος αἰολοδε[ίρ]ου

ὀδύναισιν Ὕδρας· σιγᾷ δ᾽ ὅ γ᾽ ἐπι-

     κλοπάδαν [ἐ]νέρεισε μετώπῳ·

διὰ δ᾽ ἔσχισε σάρκα [καὶ] ὀ̣[στ]έ̣α δαί-

     μονος αἴσᾳ·

διὰ δ᾽ ἀντικρὺ σχέθεν οἰ[σ]τ̣ὸς ἐπ᾽ ἀ-

     κροτάταν κορυφάν,

ἐμίαινε δ᾽ ἄρ᾽ αἵματι πο̣ρ̣φ̣[υρέῳ

     θώρακά τε καὶ βροτό̣ε̣ντ̣[α μέλεα·

ἀπέκλινε δ᾽ ἄρ᾽ αὐχένα Γ̣α̣ρ̣[υόνας

     ἐπικάρσιον, ὡς ὅκα μ[ά]κ̣ω̣[ν

ἅτε καταισχύνοισ᾽ ἁπ̣α̣λ̣ὸ̣ν̣ [δέμας     

αἶψ’ ἀπὸ φύλλα βαλοῖσα̣ ν̣[[4]

Pittore delle Iscrizioni. Eracle combatte contro Gerione e gli ruba il bestiame. Pittura vascolare da un’anfora calcidica a figure nere, c. 540 a.C. dall’Italia meridionale. Paris, Cabinet des Médailles.


[1] vv. 1-4. «… con le mani ‹…A lui› rispondendo diceva (ποτέφα = προσέφη: calco dell’omerico τὸν δ᾽ ἀπαμειβόμενος προσέφη) ‹il forte figlio di Crisaore› immortale ‹e di Calliroe› (la genealogia è quella già fissata da Hes. Th. 287 ss.; 979-983;Crisaore, “Spada d’oro” era balzato fuori dal capo di Medusa insieme con il cavallo Pegaso, quando Perseo le aveva mozzato latesta)».

[2] vv. 6-29: «“No, ‹preannunciando› a me una morte ‹agghiacciante› (κρυόεν-]|-τα), non cercare di terrorizzarmi ‹l’animo fiero›, né… Se (αἰ = εἰ), infatti, ‹fossi immune da morte› e da vecchiezza ‹così da vivere› sull’Olimpo, ‹sarebbe› meglio ‹…› e i biasimi… ‹osservare (ἐπιδῆν = ἐπιδεῖν) le mie vacche› razziate ‹via› dalle nostre ‹stalle›. Ma se, o mio caro, ‹mi tocca› arrivare alla vecchiezza e vivere tra ‹gli effimeri› (l’uso di ἐφήμεροι / ἐφημέριοι per indicare gli uomini – in quanto sottoposti agli influssi della sorte e dei loro stessi volubili pensieri e tali quindi da mutare condizione ogni giorno – non è omerico ma è attestato fra i lirici in Semon. F 1, 3 W2; Pind. Pyth. VIII 95; F 157, 1; 182, 1) lungi dagli dèi beati, ora per me è molto più nobile ‹patire› (παθῆν = παθεῖν) ciò che è mio destino patire e che il figlio di Crisaore ‹non attacchi› le infamie ‹ai suoi nati› e a tutta la stirpe futura (ἐξοπίσω, cfr. Sol. F 13, 32 W2): questo non sia caro agli dèi beati, che ‹…› per le mie vacche ‹…› la fama… (l’accento batte sul fatto che il κλέος è qualcosa di strettamente legato alla condizione mortale, che non conosce altra risorsa per affermare il proprio valore)».

[3] vv. 2-5. «… io, ‹misera› e che ho generato un figlio sventurato e sventure indimenticabili ho sofferto (παθοῖσα = παθοῦσα),… supplico (γωνάζομαι = γουνάζομαι, propriamente “stringo le tue ginocchia”, cfr. Od. XI 66 νῦν δέ σε τῶν ὄπιθεν γουνάζομαι) ‹te›, o Gerione, ‹se mai› (αἴ ποκ’ = εἰ ποτ’) ti (τιν = σοι) ‹porsi› il mio seno».

[4] vv. 1-17. «… ‹la freccia› che aveva intorno alla punta ‹il termine› della morte odiosa, intrisa del sangue e della bile ‹…› dell’Idra (l’Idra di Lerna, nell’Argolide, nata da Tifone e da Echidna, un serpente mostruoso dalle molte teste che ricrescevano ogni volta che fossero state mozzate: Eracle la uccise nel corso della seconda delle sue “fatiche” con l’aiuto del nipote Iolao, che diede fuoco a una vicina foresta, procurando all’eroe rami infuocati con cui l’eroe cicatrizzava la pelle dell’Idra, là dove ne aveva appena tagliato una testa) omicida dal collo screziato (altrove in età arcaica e classica αἰολοδείρος compare solo in Ibyc. PMGF 317a, 2, in relazione a delle anatre; l’accostamento con ὀλεσάνορος = ὀλεσήνορος crea un effetto di violento chiaroscuro) ‹…› per gli spasimi di dolore. In silenzio, furtivamente (ἐπικλοπάδαν, sonante avverbio formato su ἐπίκλοπος), essa si conficcò nella fronte e lacerò la carne ‹e› le ossa per volere di un nume (cfr. Od. XI 61 δαίμονος αἶσα κακὴ). Da parte a parte la freccia raggiunse (σχέθεν = ἔσχεν) l’apice del capo e macchiava di sangue purpureo (cfr. da un lato Il. IV 146 μιάνθην αἵματι μηροὶ; XVI 795796 μιάνθησαν δὲ ἔθειραι / αἵματι; dall’altro Il. XVII 360-361 αἵματι δὲ χθὼν / δεύετο πορφυρέῳ: Stesicoro fonde i due nessi omericicreando un’espressione più enfatica) la corazza e ‹le membra› (già) insanguinate (Stesicoro trasferisce alle membra un aggettivo che Omero riferiva alle “spoglie”, le armi tolte al nemico ucciso), e Gerione piegò il collo di lato,  come quando (ὅκα = ὅτε) un papavero, sfigurando (καταισχύνοισα = καταισχύνουσα: ἅτε conferisce al participio un tenue valore causale) la delicata ‹figura›, d’un tratto lasciando cadere (ἀπὸ …βαλοῖσα = ἀποβαλοῦσα) i petali…».


Ercole e Gerione. Rilievo, marmo, III sec. d.C. ca. Toulouse, Musée Saint-Raymond.

Soprattutto nel primo brano si trovano, come nella Tebaide, scansioni elaborate e simmetriche: il discorso diretto viene introdotto, omericamente, con l’espressione di dire e il nesso nome/epiteto del parlante; l’invito iniziale («non indurmi a temere la morte») viene allargato con una motivazione sviluppata attraverso due ipotesi in contrasto avviate rispettivamente da αἰ μὲν (v. 8) e αἰ δ’ (v. 16) in principio di colon metrico; infine balza agli occhi il parallelismo fra ἐλέγχεα (vv. 11-12) e ὀνείδε[α (v. 22) e tra κρέσσον (v. 11) e κά[λλιον (v. 20).

Di qui una “liricizzazione” che espande in calme geometrie un modello epico più energico ed essenziale che si può ravvisare nel discorso rivolto da Sarpedonte a Glauco in Il. XII 322-328: «Amico mio, se sfuggendo a questa battaglia potessimo vivere eterni senza vecchiaia né morte, certo non mi batterei in prima fila né spingerei te alla lotta gloriosa; ma poiché a migliaia incombono i destini di morte, e nessun uomo mortale può sfuggirli o evitarli, andiamo, dunque, daremo gloria ad altri o altri a noi la daranno» (tr. M. G. Ciani).

Anche nel secondo brano, relativo al dialogo fra madre e figlio, è riconoscibile la memoria di un modello epico illustre, ossia la supplica di Ecuba al figlio Ettore perché non affronti Achille in campo aperto (Il. XXII 82-85): «Ettore, figlio mio, rispetta questo seno; e abbi pietà di me che te lo offrivo un tempo per calmare il tuo pianto; ricordalo, figlio mio, e respingi il nemico restando dentro le mura, al riparo, non affrontarlo in campo» (tr. M. G. Ciani); d’altra parte, è presente anche la propensione stesicorea a variare l’epos con l’epos: il raffinato composto ἀλαστοτόκος («che ha generato ἄλαστα, cose indimenticabili», da ἀ- privativo e tema verbale di λανθάνω) non compare nella supplica di Ecuba a Ettore ma ha dietro di sé un diverso aggettivo epico, δυσαριστοτόκεια «che ha generato in modo sventurato [δυσ-] un figlio eccelso»), usato anch’esso per l’apostrofe di una madre a un figlio sventurato (Teti ad Achille in Il. XVIII 54).

Nel terzo brano, infine, il gesto di reclinare il collo e il paragone con il papavero richiamano la descrizione omerica della morte di Gorgizione figlio di Priamo, colpito per errore da una freccia scagliata da Teucro in Il. VIII 306-308 – «Come un papavero, in un orto, piega la corolla di lato sotto il peso dei semi e delle piogge primaverili, così si piegò la testa dell’eroe, sotto il peso dell’elmo» (tr. M. G. Ciani) –, e più genericamente tradizionale si più considerare l’osservazione analitica del percorso compiuto dal dardo, mentre nuovo sembra il tentativo di suggerire preliminarmente l’atmosfera della scena attraverso la giustapposizione iniziale degli avverbi σιγᾷ («in silenzio», v.6) e ἐπικλοπάδαν («furtivamente», vv. 6-7). Più in generale, appare innovativo nella Gerioneide soprattutto il dato per cui Stesicoro attribuisce a Gerione, un essere deforme che la tradizione letteraria e iconografica dipinge in genere come dotato di tre teste e tre busti (ma due gambe), lo statuto di eroe valoroso provvisto di un’acuta sensibilità umana, e dunque rifiuta implicitamente la concezione tradizionale per cui la bellezza fisica era componente essenziale dell’eroismo.

Pittore Eutimide. Elena rapita da Teseo (particolare). Anfora attica a figure rosse, V sec. a.C. ca., da Vulci. München, Staatliche Antikensammlung.

Le παλινῳδὶαι per Elena

L’atteggiamento assai libero di Stesicoro nei confronti della mitologia e la sua disponibilità a conformare le singole versioni di una storia al gusto dei diversi contesti di pubblico a cui erano destinati i suoi carmi sono eloquentemente documentati dai suoi interventi sulla figura di Elena (PMGF 192-193). Dell’eroina il poeta doveva aver narrato una prima volta la vicenda nella forma tradizionale (omerica), che presentava la donna come un’adultera e traditrice della patria Sparta. In un secondo momento, però, sullo stesso mito Stesicoro avrebbe composto due παλινῳδὶαι («ritrattazioni»), probabilmente perché sollecitato da un uditorio magno-greco insoddisfatto della memoria dell’eroina dorica. Secondo una tradizione aneddotica, il poeta avrebbe cercato per questa via di recuperare la vista perduta, dopo che l’eroina divinizzata, incollerita con lui, lo aveva reso cieco. È plausibile che questa leggenda si sia sviluppata a partire da qualche dichiarazione di Stesicoro stesso che, per giustificare il mutamento della versione e ammettere che «non era vero» il suo racconto precedente, aveva forse affermato di essere stato metaforicamente «accecato», perché non aveva saputo «vedere» la verità (così Cameleonte e Conone, FGrHist. 26 F 1, 18; e Ireneo, Haer. I 23, 2).

La prima delle due palinodie – ammesso che non si trattasse di una sola, articolata in due fasi –, che iniziava con δεῦρ’ αὖτε θεὰ φιλόμολπε («Orsù, di nuovo, o dea amica del canto», PMGF 193), rigettò la precedente presentazione della storia, condotta sulla falsariga di Omero, proponendo la versione per cui Elena partì da Sparta con Paride, ma non sarebbe mai andata a Troia: durante una sosta in Egitto, ella sarebbe stata sostituita da un εἴδωλον, un «fantasma» della bellissima donna, creato da Hera, che, desiderosa di scatenare la guerra fra Achei e Troiani, voleva anche vendicarsi di Paride, impedendogli di godere del premio promessogli da Afrodite. Perciò, il conflitto si sarebbe risolto per questa falsa immagine della regina spartana; questa, infatti, sarebbe stata ritrovata da Menelao al ritorno dalla guerra: si tratta di una versione del mito attestata per la prima volta in Esiodo, F 358 Merkelbach-West, e che si ritrova in seguito anche nell’Elena di Euripide.

La seconda palinodia, che iniziava con χρυσόπτερε παρθένε («O vergine dalle ali dorate», PMGF 193), doveva proporre un’ulteriore versione ancora più assolutoria, secondo la quale Elena non avrebbe mai messo piede sulla nave di Paride: non solo l’eroina non sarebbe mai giunta a Troia, ma non avrebbe neppure abbandonato Sparta. A questa seconda palinodia appartiene il tristico, costituito da due enopli (vv. 1 e 3) e da una pentapodia trocaica catalettica (v. 2), il cui principale testimone è Platone (Plat. Phaedr. 243a-b = PMGF 192):

οὐκ ἔστ’ ἔτυμος λόγος οὗτος,

οὐδ’ ἔβας ἐν νηυσὶν ἐυσσέλμοις

οὐδ’ ἵκεο πέργαμα Τροίας.

Non è veritiera questa storia:

tu non salisti sulla nave dai bei banchi,

né giungesti alla rocca di Troia.

Oltre al prologo dell’Elena e al finale dell’Ecuba euripidee, la retractatio stesicorea influenzò l’Encomio di Elena di Gorgia e quello di Isocrate, e a Roma le composizioni di Orazio (Hor. Carm. I 16, 34; Epod. 17, 37-45) e di Tibullo (Tib. I 5, 1-18).

Pittore di Amasis. Ricongiungimento fra Elena e Menelao. Pittura vascolare su anfora attica (lato B) a figure nere, 550 a.C. ca. München, Staatliche Antikensammlungen.

***

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Le Supplici di Eschilo

da F. FERRARI, R. ROSSI, L. LANZI, Bibliotheke, II, Roma 2001, 91-92; 152-158.

Considerate a lungo come l’opera più antica di Eschilo (soprattutto per la funzione centrale assegnata al coro), le Supplici (Ἱκέτιδες) furono rappresentate, nel 463 a.C., o in un anno compreso fra 466 e 459. L’opera rappresentava il primo dramma di una tetralogia comprendente anche Egizî e Danaidi, con l’Amimone come dramma satiresco.

Pittore del sakkos bianco. Le Danaidi (dettaglio). Pittura vascolare da un cratere apulo a volute con figure rosse, 320 a.C. ca. Antikensammlung, Kiel.

La vicenda delle Supplici rievoca la fuga delle figlie di Danao dall’Egitto ad Argo per evitare le nozze non volute coi figli di Egitto, fratello di Danao. Lo scenario presenta una κοινοβωμία, un «altare comune», su cui sono dislocate le statue di alcune divinità. Alla zona della κοινοβωμία, posta al di fuori dell’abitato di Argo, in prossimità del mare, si avvicina nell’esordio il coro delle Danaidi e in un’ampia parodo rievoca le vicende della loro progenitrice, Io figlia di Inaco, fuggita di terra in terra da Argo, dove era stata sacerdotessa di Era, fino in Egitto, dove aveva generato Epafo.

Su comando del padre, promotore e organizzatore della fuga oltremarina, le Danaidi si accostano al grande altare e vi depongono rami avvolti di lana, simbolo del loro stato di supplicanti. Poi intrecciano col re del luogo, Pelasgo, prontamente accorso, un ampio dialogo attraverso il quale le due parti ripercorrono gli eventi che rivelano l’antico vincolo che lega le giovani al territorio argivo. In nome di esso le Danaidi chiedono a Pelasgo protezione e soccorso in previsione del prossimo arrivo dei cugini figli di Egitto. Di fronte a queste suppliche insistite il sovrano argivo è consapevole del proprio dovere di offrire una risposta operativa al diritto dei supplici, ma nel contempo teme di coinvolgere la propria comunità in una guerra imprevista e pericolosa, finché risolve il proprio dilemma concedendo il suo assenso a condizione che esso venga ratificato dall’assemblea cittadina.

Danao è inviato in città a perorare la causa delle figlie e ben presto ritorna portando buone notizie: l’assemblea ha deciso l’accoglimento delle supplici. Di qui un canto di gratitudine e di benedizioni del coro per la terra argiva. Ma subito si affaccia un nuovo pericolo: dall’alto del poggio dove si erge il grande altare dei numi, Danao scorge all’orizzonte la nave degli Egiziani prossima all’attracco e corre in città a implorare soccorso. Così le figlie restano sole, esposte alle minacce dell’araldo egiziano, che cerca di sospingerle a forza verso il mare. Ma interviene prontamente Pelasgo e il rapimento è sventato. L’araldo si allontana minacciando prossima guerra e le giovani sono scortate dalle loro ancelle e dagli armigeri (ὀπαδοί 1022), accorsi insieme con Pelasgo, verso la città di cui intonano un’ultima lode. Senonché, con un effetto a sorpresa, assistiamo da ultimo alla scissione delle Danaidi in due semicori, dei quali l’uno ribadisce l’intenzione di sfuggire alle nozze, l’altro elogia Afrodite e la sua potenza.

John William Waterhouse, Le Danaidi. Olio su tela, 1903. Collezione privata.

La scena finale con la divisione in semicori contrapposti doveva servire a prefigurare lo sviluppo ulteriore della trilogia. Infatti, secondo la tradizione più diffusa del mito, allorché il matrimonio si fosse reso inevitabile per l’arrivo dei figli di Egitto e per la morte in battaglia di Pelasgo, le Danaidi avrebbero ucciso i rispettivi mariti nella prima notte di nozze: tutte tranne una, Ipermestra, che avrebbe risparmiato la vita dello sposo Linceo e dalla loro unione sarebbe discesa la dinastia reale argiva. Il comportamento di Ipermestra appare dunque come anticipato dal semicoro che dichiara di avere a cuore l’onore di Afrodite.

Dagli esigui frammenti superstiti non si è in grado di capire nei dettagli come si articolasse l’azione scenica degli Egizî e delle Danaidi, ma si sa che l’ultima tragedia si apriva in coincidenza del mattino successivo alla notte della strage (fr. 43 Radt) e che in essa Afrodite tesseva un encomio dell’eros come forza cosmica originaria (fr. 44 Radt), forse con la funzione di giustificare (nel corso di un processo?) il comportamento di Ipermestra.

Nel dramma satiresco Amimone una Danaide di questo nome, recatasi con le sorelle in cerca di acqua, colpiva con una freccia, cercando di raggiungere un cervo, un satiro dormiente. Costui la inseguiva, ma Amimone veniva salvata da Poseidone, che poi la seduceva e le rivelava l’ubicazione delle sorgenti di Lerna.

John Singer Sargent, Le Danaidi. Olio su tela, 1922-25. Boston, Museum of Fine Arts.

Un tradizionale nodo critico che investe l’interpretazione delle Supplici concerne la motivazione per cui le Danaidi ripudiano le nozze coi cugini: se per misandria innata o invece per il divieto dell’endogamia (il matrimonio all’interno dello stesso gruppo familiare allargato), come voleva G. Thomson, o ancora per il tipo di comportamento, improntato a hybris ed empietà, dei pretendenti. In ogni caso, è proprio quest’ultimo l’aspetto su cui il testo richiama più insistentemente l’attenzione, e significativa sembra essere anche la sottolineatura del fatto che i figli di Egitto non si curano neppure del rifiuto che viene loro opposto da Danao, legittimo tutore (kyrios) delle proprie figlie secondo la prospettiva giuridica del poeta e del suo pubblico.

Le Supplici, dunque, come si accennava sopra, rappresentano l’arrivo ad Argo delle cinquanta figlie di Danao, che formano il coro, in fuga dalla patria per sottrarsi alle nozze forzate con i cinquanta figli di Egitto, re del paese omonimo. Il problema, oltre che politico, è anche famigliare, poiché Egitto è fratello di Danao – gli Egizi sono dunque cugini delle Danaidi – e non è chiaro se il rifiuto delle nozze opposto dalle fanciulle sia motivato da un’ancestrale ripugnanza per l’unione fra consanguinei o non derivi invece dalla repulsione tout court per il matrimonio. L’intervento alla fine del dramma di un secondo coro, costituito dalle ancelle, che esorta le Danaidi a riconoscere la potenza di Afrodite, sembra orientare verso la seconda ipotesi (che pare trovare conferma anche dai pur modesti frammenti dei drammi successivi della trilogia).

Si presentano due passi della tragedia: nel primo le supplici sono di fronte al re argivo Pelasgo, tormentato dal dubbio se offrire o meno ospitalità; nel secondo è in azione il popolo di Argo, in un’assemblea che prefigura le strutture dell’Atene democratica.

Hans Ernst Brühlmann, Die Wasserschöpferin (Danaide). Olio su cartone, 1909.

Riparate presso gli altari e i simulacri divini che offrono loro il rifugio rituale, le Danaidi supplicano Pelasgo perché le accolga sotto la sua protezione, difendendole dalla violenza intentata dagli Egizi, smaniosi di estendere il loro dominio alle terre libiche (dote nunziale delle cugine), più che spinti da autentico amore. Il re Pelasgo, secondo uno schema tipicamente tragico, si trova suo malgrado di fronte alla necessità di una scelta senza uscita fra due alternative entrambe rovinose: rifiutare la richiesta e abbandonare le supplici al loro destino equivarrebbe a un sacrilegio, ma accettare l’aiuto richiesto esporrebbe la comunità di Argo al rischio di uno scontro con gli Egizi in una guerra dagli esiti incerti.

Il dilemma di Pelasgo (vv. 348-483)

Pelasgo ritiene di risolvere la questione affidando la decisione all’assemblea popolare, ma è implicito nella situazione che la responsabilità collettiva del demos argivo non può sollevare Pelasgo da una personale responsabilità: prima che il popolo decida, occorre pur sempre che egli consenta alle supplici di mandare il padre in città come loro rappresentante e tutore, sottoponendo la questione all’assemblea. Su questo Pelasgo deve prendere posizione se non vuole suscitare l’ira di Zeus protettore dei supplici e attirarsi in casa un pesante demone vendicatore. Ma il dilemma che lo attanaglia gli appare insuperabile ed Eschilo lo rappresenta ideando una forma di monologo, in cui il personaggio non si limita a meditare con se stesso, ma confessa apertamente la propria condizione di monologante: una dichiarazione espressa attraverso la metafora del palombaro che apre una catena di immagini (tratte dalla sfera del mare o della marineria), che viene continuata con lo scafo saldamente applicato ai verricelli (vv. 438 ss.) e più oltre con il mare di sventura senza fondo e con l’assenza di un porto come rifugio dai mali.

            Χο. Παλαίχθονος τέκος, κλῦθί μου                 [στρ. α.

            πρόφρονι καρδίᾳ, Πελασγῶν ἄναξ.

350      ἴδε με τὰν ἱκέτιν φυγάδα περίδρομον,

            λυκοδίωκτον ὡς δάμαλιν ἂμ πέτραις

            ἠλιβάτοις, ἵν’ ἀλκᾷ πίσυνος μέμυ-

            κε φράζουσα βοτῆρι μόχθους.

            Βα. ὁρῶ κλάδοισι νεοδρόποις κατάσκιον

355      νεύονθ’ ὅμιλον τόνδ’ ἀγωνίων θεῶν.

            εἴη δ’ ἄνατον πρᾶγμα τοῦτ’ ἀστοξένων.

            μηδ’ ἐξ ἀέλπτων κἀπρομηθήτων πόλει

            νεῖκος γένηται· τῶν γὰρ οὐ δεῖται πόλις.

           

            Χο. ἴδοιτο δῆτ’ ἄνατον φυγὰν                            [ἀντ. α.

360      ἱκεσία Θέμις Διὸς κλαρίου.

            σὺ δὲ παρ’ ὀψιγόνου μάθε γεραιόφρων·

            ποτιτρόπαιον αἰδόμενος †οὖνπερ

            ἱεροδόκα †…

            θεῶν λήματ’ ἀπ’ ἀνδρὸς ἁγνοῦ.

365      Βα. οὔτοι κάθησθε δωμάτων ἐφέστιοι

            ἐμῶν. τὸ κοινὸν δ’ εἰ μιαίνεται πόλις,

            ξυνῇ μελέσθω λαὸς ἐκπονεῖν ἄκη.

            ἐγὼ δ’ ἂν οὐ κραίνοιμ’ ὑπόσχεσιν πάρος,

            ἀστοῖς δὲ πᾶσι τῶνδε κοινώσας πέρι.

370      Χο. σύ τοι πόλις, σὺ δὲ τὸ δήμιον·                   [στρ. β.

            πρύτανις ἄκριτος ὤν,

            κρατύνεις βωμόν, ἑστίαν χθονός,

            μονοψήφοισι νεύμασιν σέθεν,

            μονοσκήπτροισι δ’ ἐν θρόνοις χρέος

375      πᾶν ἐπικραίνεις· ἄγος φυλάσσου.

            Βα. ἄγος μὲν εἴη τοῖς ἐμοῖς παλιγκότοις,

            ὑμῖν δ’ ἀρήγειν οὐκ ἔχω βλάβης ἄτερ·

            οὐδ’ αὖ τόδ’ εὖφρον, τάσδ’ ἀτιμάσαι λιτάς.

            ἀμηχανῶ δὲ καὶ φόβος μ’ ἔχει φρένας

380      δρᾶσαί τε μὴ δρᾶσαί τε καὶ τύχην ἑλεῖν.

            Χο. τὸν ὑψόθεν σκοπὸν ἐπισκόπει,                     [ἀντ. β.

            φύλακα πολυπόνων

            βροτῶν, οἳ τοῖς πέλας προσήμενοι

            δίκας οὐ τυγχάνουσιν ἐννόμου.

385      μένει τοι Ζηνὸς ἱκταίου κότος

            δυσπαραθέλκτους παθόντος οἴκτοις.

            Βα. εἴ τοι κρατοῦσι παῖδες Αἰγύπτου σέθεν

            νόμῳ πόλεως, φάσκοντες ἐγγύτατα γένους

            εἶναι, τίς ἂν τοῖσδ’ ἀντιωθῆναι θέλοι;

390      δεῖ τοί σε φεύγειν κατὰ νόμους τοὺς οἴκοθεν,

            ὡς οὐκ ἔχουσι κῦρος οὐδὲν ἀμφὶ σοῦ.

            Χο. μή τί ποτ’ οὖν γενοίμαν ὑποχείριος                 [στρ. γ.

            κράτεσιν ἀρσένων. ὕπαστρον δέ τοι

            μῆχαρ ὁρίζομαι γάμου δύσφρονος

395      φυγᾷ· ξύμμαχον δ’ ἑλόμενος Δίκαν

            κρῖνε σέβας τὸ πρὸς θεῶν.

 

            Βα. οὐκ εὔκριτον τὸ κρῖμα· μή μ’ αἱροῦ κριτήν.

            εἶπον δὲ καὶ πρίν, οὐκ ἄνευ δήμου τάδε

            πράξαιμ’ ἄν, οὐδέ περ κρατῶν, μὴ καί ποτε

400      εἴπῃ λεώς, εἴ πού τι μὴ τοῖον τύχοι,

             “ἐπήλυδας τιμῶν ἀπώλεσας πόλιν”.

            Χο. ἀμφοτέροις ὁμαίμων τάδ’ ἐπισκοπεῖ               [ἀντ. γ.

            Ζεὺς ἑτερορρεπής, νέμων εἰκότως

            ἄδικα μὲν κακοῖς, ὅσια δ’ ἐννόμοις.

405      τί τῶνδ’ ἐξ ἴσου ῥεπομένων μεταλ-

            γὲς τὸ δίκαιον ἔρξαι;

           

            Βα. δεῖ τοι βαθείας φροντίδος σωτηρίου,

            δίκην κολυμβητῆρος ἐς βυθὸν μολεῖν

            δεδορκὸς ὄμμα, μηδ’ ἄγαν ᾠνωμένον,

410      ὅπως ἄνατα ταῦτα πρῶτα μὲν πόλει,

            αὐτοῖσί θ’ ἡμῖν ἐκτελευτήσει καλῶς,

            καὶ μήτε δῆρις ῥυσίων ἐφάψεται,

            μήτ’ ἐν θεῶν ἕδραισιν ὧδ’ ἱδρυμένας

            ἐκδόντες ὑμᾶς τὸν πανώλεθρον θεὸν

415      βαρὺν ξύνοικον θησόμεσθ’ ἀλάστορα,

            ὃς οὐδ’ ἐν Ἅιδου τὸν ἀλιτόντ’ ἐλευθεροῖ.

            μῶν οὐ δοκεῖ δεῖν φροντίδος σωτηρίου;

 

            Χο. φρόντισον καὶ γενοῦ                                    [στρ. δ.

            πανδίκως εὐσεβὴς πρόξενος·

420      τὰν φυγάδα μὴ προδῷς,

            τὰν ἕκαθεν ἐκβολαῖς

            δυσθέοις ὀρμέναν·

            μηδ’ ἴδῃς μ’ ἐξ ἑδρᾶν                                             [ἀντ. δ.

            πολυθέων ῥυσιασθεῖσαν, ὦ

425      πᾶν κράτος ἔχων χθονός.

            γνῶθι δ’ ὕβριν ἀνέρων

            καὶ φύλαξαι κότον.

            μή τι τλῇς τὰν ἱκέτιν εἰσιδεῖν                            [στρ. ε.

            ἀπὸ βρετέων βίᾳ

430      δίκας ἀγομέναν

            ἱππαδὸν ἀμπύκων,

            πολυμίτων πέπλων τ’ ἐπιλαβὰς ἐμῶν.

            ἴσθι γάρ· παισὶ τάδε καὶ δόμοις,                           [ἀντ. ε.

            ὁπότερ’ ἂν κτίσῃς,

435      μένει δορὶ τίνειν

            ὁμοΐαν θέμιν.

            τάδε φράσαι· δίκαια Διόθεν κράτη.

            Βα. καὶ δὴ πέφρασμαι· δεῦρο δ’ ἐξοκέλλεται·

            ἢ τοῖσιν ἢ τοῖς πόλεμον αἴρεσθαι μέγαν

440      πᾶσ’ ἔστ’ ἀνάγκη, καὶ γεγόμφωται σκάφος

            στρέβλαισι ναυτικαῖσιν ὡς προσηγμένον.

            ἄνευ δὲ λύπης οὐδαμοῦ καταστροφή.

            καὶ χρήμασιν μὲν ἐκ δόμων πορθουμένοις

445      γένοιτ’ ἂν ἄλλα κτησίου Διὸς χάριν

            ἄτης γε μείζω, καὶ μετεμπλήσαι γόμον.

            καὶ γλῶσσα τοξεύσασα μὴ τὰ καίρια,

             [ἀλγεινὰ θυμοῦ κάρτα κινητήρια,]

            γένοιτο μύθου μῦθος ἂν θελκτήριος·

            ὅπως δ’ ὅμαιμον αἷμα μὴ γενήσεται,

450      δεῖ κάρτα θύειν καὶ πεσεῖν χρηστήρια

            θεοῖσι πολλοῖς πολλά, πημονῆς ἄκη.

            ἦ κάρτα νείκους τοῦδ’ ἐγὼ παροίχομαι·

            θέλω δ’ ἄιδρις μᾶλλον ἢ σοφὸς κακῶν

            εἶναι· γένοιτο δ’ εὖ, παρὰ γνώμην ἐμήν.

455     ‹Χο.› πολλῶν ἄκουσον τέρματ’ αἰδοίων λόγων.

            Βα. ἤκουσα, καὶ λέγοις ἄν· οὔ με φεύξεται.

            Χο. ἔχω στρόφους ζώνας τε, συλλαβὰς πέπλων.

            ‹Βα.› τάχ’ ἂν γυναικῶν ταῦτα συμπρεπῆ πέλοι.

            ‹Χο.› ἐκ τῶνδε τοίνυν, ἴσθι, μηχανὴ καλή ‑

460      Βα. λέξον τίν’ αὐδὴν τήνδε γηρυθεῖσ’ ἔσῃ.

             Χο. εἰ μή τι πιστὸν τῷδ’ ὑποστήσεις στόλῳ ‑

            ‹Βα.› τί σοι περαίνει μηχανὴ συζωμάτων;

            Χο. νέοις πίναξι βρέτεα κοσμῆσαι τάδε.

            Βα. αἰνιγματῶδες τοὔπος· ἀλλ’ ἁπλῶς φράσον.

465      Χο. ἐκ τῶνδ’ ὅπως τάχιστ’ ἀπάγξασθαι θεῶν.

            Βα. ἤκουσα μαστικτῆρα καρδίας λόγον.

            Χο. ξυνῆκας· ὠμμάτωσα γὰρ σαφέστερον.

            ‹Βα.› ναί·

            ἦ πολλαχῇ γε δυσπάλαιστα πράγματα,

            κακῶν δὲ πλῆθος ποταμὸς ὣς ἐπέρχεται·

470      ἄτης δ’ ἄβυσσον πέλαγος οὐ μάλ’ εὔπορον

            τόδ’ ἐσβέβηκα, κοὐδαμοῦ λιμὴν κακῶν.

            εἰ μὲν γὰρ ὑμῖν μὴ τόδ’ ἐκπράξω χρέος,

            μίασμ’ ἔλεξας οὐχ ὑπερτοξεύσιμον·

            εἰ δ’ αὖθ’ ὁμαίμοις παισὶν Αἰγύπτου σέθεν

475      σταθεὶς πρὸ τειχέων διὰ μάχης ἥξω τέλους,

            πῶς οὐχὶ τἀνάλωμα γίγνεται πικρόν,

            ἄνδρας γυναικῶν οὕνεχ’ αἱμάξαι πέδον;

            ὅμως δ’ ἀνάγκη Ζηνὸς αἰδεῖσθαι κότον

            ἱκτῆρος· ὕψιστος γὰρ ἐν βροτοῖς φόβος.

480      σὺ μέν, πάτερ γεραιὲ τῶνδε παρθένων,

            .     .     .     .     .     .     .

            κλάδους τε τούτους αἶψ’ ἐν ἀγκάλαις λαβὼν

            βωμοὺς ἐπ’ ἄλλους δαιμόνων ἐγχωρίων

            θές…

Fernand Sabatté, Le figlie di Danao. Olio su tela, 1900. Melbourne, National Gallery of Victoria.

Coro: Figlio di Palectone, ascoltami

con propizio cuore, sovrano dei Pelasgi,

guarda me supplicante che fuggo in vorticosa corsa

come vitellina braccata dal lupo fra rocce

dirupate, dove fidando in securtà

mugghia al mandriano per dargli la sua pena.

Pelasgo: Io vedo […] questa accolta di numi ombrata di rami appena recisi. Senza danno sia la presenza di costoro, straniere e cittadine a un tempo, né sopravvenga inaspettata impreveduta discordia. Non di questo la mia città ha bisogno.

Coro: E tu, dunque, risparmi rovina a questa nostra fuga

Temis, la figlia di Zeus Clario.

E tu che pur tieni vegliardo senno

impara da chi più tardi è nata.

Se davanti al supplice reverente sarai,

non povero […] i sacrifici

accettano le menti degli dei

solo da un uomo che innocente sia.

Pelasgo: Ma voi non siete assise al focolare della mia casa. E dunque, se la macchia deve infettare l’intera comunità, spetta al popolo tutto approntare rimedi. Perciò io non posso farvi promessa alcuna se prima non mi consulto con tutti i cittadini.

Coro: Ma tu sei la città, tu sei la collettività!

Magistrato non sottoposto a giudizio

tu reggi l’altare, il sacro centro della contrada,

sovranamente con i tuoi cenni regali e

sovranamente col tuo trono decidi

ogni decreto. Attento a non macchiarti d’empietà!

Pelasgo: Che la macchia d’empietà infetti i miei nemici! A voi non posso recar soccorso senza nocumento agli miei, e per contro, saggio non è le vostre preci disonorare. Sono senza via d’uscita e angoscia mi domina il cuore. Agire? Non agire? Affidarmi al caso?

Coro: Guarda colui che dall’alto guarda, il guardiano dei miseri mortali che assisi in faccia

al prossimo non conseguono legittima giustizia. Ma dura nel tempo la collera di Zeus

supplicatore, che non incantano i singhiozzi di chi la sua pena sconta.

Pelasgo: Se, però, i figli di Egitto prevalessero su di te in base a legge della vostra città, col dichiarare di essere i più prossimi parenti, chi vorrebbe contestare una tale pretesa? È necessario che tu parli in tua difesa dimostrando che loro non hanno alcun diritto su di te secondo le leggi vostre.

Coro: Mi basta non diventar soggetta

all’imperio dei maschi. Fuggirò

fino alle stelle pur di scansare

dissennata unione. Tu scegli Dike

a tua alleata e da’ un verdetto che i numi onora.

Pelasgo: Arduo è il verdetto: non scegliermi a giudice. Lo ripeto: non posso agire senza il consenso del popolo, anche se sono un re, onde la gente mai possa dire, se qualcosa va storto: “Hai perduto la città per onorare straniera gente”.

Coro: A noi e a loro consanguineo,

Zeus imparziale vigila,

contraccambio d’ingiustizia al malvagio

e di pietà all’innocente

con equità rendendo.

Se tutto si soppesa in equilibrio,

come potrai pentirti

di agire com’è giusto?

Pelasgo: Davvero si richiede un profondo salvifico pensiero: scendere nell’abisso a mo’ di palombaro con vista acuta e sobria onde rovina non tocchi la città e per me stesso tutto riesca bene, e lotta non insorga per strapparvi di qui né d’altro lato, consegnando ai maschi voi che sedete a questi altari, ci portiamo in casa il dio che annienta, il greve demone vendicatore che nemmeno sotto la terra libera il morto. Non vi pare, dunque, che si richieda salvifico pensiero?

Coro: Medita e sii

giusto protettore che i numi teme.

Non tradire la fuggiasca

da empia caccia sospinta

in lunga corsa,

non tollerare di vedermi strappata

via dai sacri altari, o tu che intero

imperio hai su questa terra.

Riconosci la dismisura dei maschi!

Evita la collera di Zeus!

Non accettare di veder la supplicante

via dai simulacri a forza trascinata

come cavalla per le frontali bende,

presa feroce di variegati pepli.

Sta’ pur certo che ai figli e alle case vostre

toccherà poi di versare ad Ares

il giusto conto dell’agire tuo.

Medita tu! Giusto è l’imperio di Zeus.

Pelasgo: Ecco, ho meditato, ma il problema s’incaglia qui: o agli uni o agli altri di levar guerra grande è ormai piena necessità. La situazione è bloccata come scafo navale saldamente applicato ai verricelli. E senza dolorosa angoscia non c’è scampo in alcun luogo. In cambio di ricchezze depredate altre possono affluire alle nostre case col favore di Zeus che protegge i possessi giusti […] e se la lingua dardeggia parole inopportune e dolorose, insulti che l’ira accendono, può subentrar discorso che ammalia e quieta; ma perché sangue parentale sparso non sia c’è bisogno di sacrifici e che a stornare il danno per molti numi molte vittime oracolari cadano al suolo. Io, per me, mi tengo fuori dalla contesa vostra. Di mali preferisco essere ignaro anziché dotto. Ma tutto vada per il meglio contro la previsione mia.

Corifea: Ascolta il termine del mio già lungo ossequioso dire.

Pelasgo: Parla: ti ascolto con attenzione.

Corifea: Ho fasce e cinture, che stringono la mia veste.

Pelasgo: Come no? Femminili ornamenti.

Corifea: Ma in essi sta, devi saperlo, un espediente astuto.

Pelasgo: Continua! Che cosa intendi dire?

Corifea: Se non darai sicura garanzia a questo nostro stuolo…

Pelasgo: A cosa miri con l’espediente delle cinture?

Corifea: A ornare i simulacri di offerte inusitate!

Pelasgo: Questo è un indovinello! Parla più chiaro.

Corifea: Voglio dire impiccarci a queste statue, subito.

Pelasgo: È una minaccia che mi sferza il cuore.

Corifea: Bene, hai capito! Ti ho illuminato con parole chiare.

Pelasgo: Sì, un duro molteplice cimento; e come un fiume irrompe una massa di sciagure. Ormai eccomi penetrato in un mare di rovina senza fondo, invalicabile, né scorgo un porto che dai mali dia riparo. Ebbene, se non assolvo questo obbligo che voi reclamate, tu minacci ineludibile polluzione, ma se all’inverso mi piazzo davanti alle mura e affronto il rischio dello scontro coi figli di Egitto a te cugini, ecco che il dispendio non può non farsi amaro: insanguinar la piana argiva per causa di donne. Eppure, è necessario riverire la collera di Zeus supplicatore: suprema è la paura che ai mortali incute. E allora tu, anziano padre di queste vergini, raccogli subito nelle tue braccia questi sacri rami e trasferiscili sugli altari dei numi indigeni…

Erzsébet Korb, Danaidae. Olio su tela, 1925.

Per le Danaidi il problema è lineare: esse subiscono una prevaricazione, una hybris che proviene dal «potere dei maschi»; stare dalla parte di Dike vuol dire, dal loro punto di vista, non tradire la «fuggiasca da empia caccia sospinta» (non permettere che esse vengano strappate dall’altare). Di fronte a questa posizione così netta e risoluta Pelasgo, impressionato

dall’idea di una guerra contro ignoti invasori, oppone che, pur detenendo il potere, egli non può prendere una decisione di questa portata senza investire della scelta il demos argivo: al che le Danaidi replicano che il suo potere è assoluto (v. 425, πᾶν κράτος), ribadendo ciò che in forma martellante avevano dichiarato ai vv. 370-375: «Ma tu sei la città, tu sei la collettività./ Magistrato non sottoposto a giudizio,/ tu reggi l’altare, il sacro centro della contrada,/ sovranamente con i tuoi cenni regali e/ sovranamente sul tuo trono decidi/ ogni decreto. Attento a non macchiarti d’empietà!». In effetti, le Danaidi vedono Pelasgo attraverso il filtro di un modello orientale, in modo non diverso da come il coro (ma correttamente!) vedeva Dario nei Persiani. E tuttavia esse hanno torto: il coinvolgimento della responsabilità collettiva della città non è per il sovrano argivo una comoda scusa per sbarazzarsi di una spinosa faccenda internazionale, ma esprime la sensibilità per un momento essenziale dell’assetto istituzionale argivo quale viene rappresentato da Eschilo con evidente, anacronistico rispecchiamento della prassi democratica del suo tempo.

Nonostante l’insistenza già osservata sui termini che indicano la necessità della riflessione, la situazione di stallo non si sblocca in virtù di un processo riflessivo: diversamente da Eteocle, che dalla decifrazione dell’insegna posta sullo scudo del fratello deduceva che nessuno era più di lui stesso idoneo ad affrontare Polinice alla settima porta di Tebe, Pelasgo non arriva a decidere in seguito a un ragionamento. La risoluzione si attua invece sull’onda di un impatto emozionale provocato dall’extrema ratio messa in atto dalle giovani, quella cioè di minacciarlo di impiccarsi agli altari usando come cappi le loro fasce e cinture. La κοινοβωμία, la comunità di altari che occupa il punto focale dello spazio scenico e su cui le Danaidi si sono rifugiate fin dalla parodo deponendovi i propri rami di supplicanti, si prospetta ora, d’improvviso, come teoria di simulacri ornati da «offerte inusitate», ed è questo spettacolo immaginario, che si sovrappone minaccioso al quadro scenico realmente visibile, a richiamare al re l’eventualità di un μίασμα … οὐχ ὑπερτοξεύσιμον, ossia, letteralmente, di una contaminazione al di là della quale non si può scagliare il dardo.

Dietro la velleità di dominare gli eventi attraverso la riflessione sfregando gli argomenti l’uno contro l’altro perché ne sprizzi la scintilla della conoscenza e dell’azione avveduta (un metodo messo in atto da Pelasgo a più riprese: cfr. vv. 410 ss. e 472 ss.) c’è una fascia di realtà, dominata dalla paura della contaminazione e dell’«ira» di Zeus, di cui le Danaidi appaiono padrone, riuscendo a sfruttare la propria condizione di «vitelline braccate dal lupo fra rocce dirupate» (vv. 351 s.) fino a volgere a proprio favore una situazione che sembrava senza uscita.

La «mano dominante del popolo» (vv. 600-624)

Danao offre il resoconto della decisione presa dalla città di accogliere le figlie e riferisce di una situazione assembleare caratterizzata dalla deliberazione popolare presa per alzata di mano (χειροτονία), in base alla quale è sanzionato a favore delle supplici lo status di meteci, cioè di stranieri che vengono accolti in città. I vv. 607-614 appaiono addirittura strutturati come una sorta di versificazione di un decreto assembleare, suggellato dalla minaccia di ἀτιμία e di esilio per chi non ne rispetterà le prescrizioni: «Nell’assemblea gremita un fremito percosse l’aria per le destre alzate e fu sancito che a guisa di meteci libero soggiorno in questa terra a noi si dia, senza tema di violenze e rapimenti, e che nessuno, indigeno o straniero, vi porti via; se poi si usasse forza su di voi, il cittadino che negherà soccorso sarà privato dei suoi diritti e andrà in esilio per pubblico decreto». Come opportunamente osserva Degani, «Eschilo ha intenzionalmente presentato all’attenzione del pubblico ateniese una Argo del tutto simile all’Atene contemporanea e il suo Pelasgo è l’incarnazione dell’ideale governante democratico, ‹…› convinto che il suo potere poggia e deve poggiare unicamente sul consenso della comunità da lui rappresentata» (Democrazia ateniese e sviluppo del dramma attico, in Storia e civiltà dei Greci, Milano 1979, p. 268).

600 Δα. θαρσεῖτε παῖδες· εὖ τὰ τῶν ἐγχωρίων·

δήμου δέδοκται παντελῆ ψηφίσματα.

Χο. ὦ χαῖρε πρέσβυ, φίλτατ’ ἀγγέλλων ἐμοί·

ἔνισπε δ’ ἡμῖν, ποῖ κεκύρωται τέλος,

δήμου κρατοῦσα χεὶρ ὅπῃ πληθύνεται;

605 Δα. ἔδοξεν Ἀργείοισιν οὐ διχορρόπως,

ἀλλ’ ὥστ’ ἀνηβῆσαί με γηραιᾷ φρενί·

πανδημίᾳ γὰρ χερσὶ δεξιωνύμοις

ἔφριξεν αἰθὴρ τόνδε κραινόντων λόγον·

ἡμᾶς μετοικεῖν τῆσδε γῆς ἐλευθέρους

610 κἀρρυσιάστους ξύν τ’ ἀσυλίᾳ βροτῶν·

καὶ μήτ’ ἐνοίκων μήτ’ ἐπηλύδων τινὰ

ἄγειν· ἐὰν δὲ προστιθῇ τὸ καρτερόν,

τὸν μὴ βοηθήσαντα τῶνδε γαμόρων

ἄτιμον εἶναι ξὺν φυγῇ δημηλάτῳ.

615 τοιάνδ’ ἔπειθε ῥῆσιν ἀμφ’ ἡμῶν λέγων

ἄναξ Πελασγῶν, ἱκεσίου Ζηνὸς κότον

μέγαν προφωνῶν μή ποτ’ εἰσόπιν χρόνου

πόλιν παχῦναι, ξενικὸν ἀστικόν θ’ ἅμα

λέγων διπλοῦν μίασμα πρὸς πόλεως φανὲν

620 ἀμήχανον βόσκημα πημονῆς πέλειν.

τοιαῦτ’ ἀκούων χερσὶν Ἀργεῖος λεὼς

ἔκραν’ ἄνευ κλητῆρος ὣς εἶναι τάδε.

δημηγόρους δ’ ἤκουσεν εὐπιθεῖς στροφὰς

δῆμος Πελασγῶν· Ζεὺς δ’ ἐπέκρανεν τέλος.

Jan Frans Deboever, Le Danaidi. Olio su tela, 1927.

Danao: Siate fiduciose, figlie mie: tutto bene, sul versante degli Argivi. Il popolo ha sancito autorevoli decreti.

Corifea: Salve, o mio vegliardo padre, che porti a me così gradite nuove. Ma dimmi ancora: come fu ratificato il voto?

Danao: Gli Argivi hanno deciso con un consenso unanime che mi ha ringiovanito il vecchio cuore. Nell’assemblea gremita un fremito percosse l’aria per le destre alzate; e fu sancito che a guisa di meteci libero soggiorno in questa terra a noi si dia, senza tema di violenze e rapimenti, e che nessuno, indigeno o straniero, vi porti via; se poi si usasse forza su di noi, il cittadino che negherà soccorso sarà privato dei suoi diritti e andrà in esilio per pubblico decreto. A tale risoluzione li persuase, illustrando il caso nostro, il re Pelasgo: proclamò che, accolte noi, mai la collera tremenda di Zeus supplicatore questa città nell’avvenire ingrasserà; e ricordò che doppia polluzione, straniera e cittadina a un tempo, se minacciosa alla città incombesse, esca sarebbe d’irreparabile rovina. Docile alla sua voce la folla argiva con mani tese sentì che così fosse, prima ancora di udire l’invito dell’araldo. Facile orecchio porse il popolo argivo agli eloquenti giri del suo sovrano, e Zeus ratificò il decreto.

Bibliografia:

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Ospitalità e rispetto (D. Chr. Eub. 1-9; 65-71)

in BIONDI I., Storia e antologia della letteratura greca. Vol. 3 – L’Ellenismo e la tarda grecità, Messina-Firenze 2004, 639-644. Testo greco: Dionis Prusaensis quem vocant Chrysostomum quae exstant omnia, ed. J. VON ARNIM, I, Berlin 1893, 190-191; 202-203.

 

Caccia al cervo. Mosaico, III-IV sec. da Conimbriga.

 

L’incontro con il cacciatore

I passi presi in esame sono tratti dall’opera più originale di Dione, una lunga orazione intitolata Euboico o il cacciatore. Essa ha tutte le caratteristiche di un ampio racconto autobiografico, in cui, peraltro, è difficile distinguere la realtà oggettiva dal processo di idealizzazione al quale sono stati sottoposti molti particolari. L’autore, vittima di un naufragio, fu costretto ad approdare in una zona della costa meridionale dell’isola Eubea, particolarmente solitaria e impervia, nei pressi del promontorio Cafareo. Qui egli fu accolto cortesemente da un cacciatore incontrato per caso. La semplice e cordiale ospitalità dello sconosciuto permise così a Dione di venire per qualche tempo a contatto con uno stile di vita ormai lontano da quello, più lussuoso, ma certo meno tranquillo, delle grandi città.

 

[1] τόδε μὴν αὐτὸς ἰδών, οὐ παρ᾽ ἑτέρων ἀκούσας, διηγήσομαι. ἴσως γὰρ οὐ μόνον πρεσβυτικὸν πολυλογία καὶ τὸ μηδένα διωθεῖσθαι ῥᾳδίως τῶν ἐμπιπτόντων λόγων, πρὸς δὲ τῷ πρεσβυτικῷ τυχὸν ἂν εἴη καὶ ἀλητικόν. αἴτιον δέ, ὅτι πολλὰ τυχὸν ἀμφότεροι πεπόνθασιν, ὧν οὐκ ἀηδῶς μέμνηνται. ἐρῶ δ᾽ οὖν οἵοις ἀνδράσι καὶ ὅντινα βίον ζῶσι συνέβαλον ἐν μέσῃ σχεδόν τι τῇ Ἑλλάδι.

[2] ἐτύγχανον μὲν ἀπὸ Χίου περαιούμενος μετά τινων ἁλιέων ἔξω τῆς θερινῆς ὥρας ἐν μικρῷ παντελῶς ἀκατίῳ. χειμῶνος δὲ γενομένου χαλεπῶς καὶ μόλις διεσώθημεν πρὸς τὰ κοῖλα τῆς Εὐβοίας· τὸ μὲν δὴ ἀκάτιον εἰς τραχύν τινα αἰγιαλὸν ὑπὸ τοῖς κρημνοῖς ἐκβαλόντες διέφθειραν, αὐτοὶ δὲ ἀπεχώρησαν πρός τινας πορφυρεῖσὑφορμοῦντας ἐπὶ τῇ πλησίον χηλῇ, κἀκείνοις συνεργάζεσθαι [3] διενοοῦντο αὐτοῦ μένοντες. καταλειφθεὶς δὴ μόνος, οὐκ ἔχων εἰς τίνα πόλιν σωθήσομαι, παρὰ τὴν θάλατταν ἄλλως ἐπλανώμην, εἴ πού τινας ἢ παραπλέοντας ἢ ὁρμοῦντας ἴδοιμι. προεληλυθὼς δὲ συχνὸν ἀνθρώπων μὲν οὐδένα ἑώρων· ἐπιτυγχάνω δὲ ἐλάφῳνεωστὶ κατὰ τοῦ κρημνοῦ πεπτωκότι παρ᾽ αὐτὴν τὴν ῥαχίαν, ὑπὸ τῶν κυμάτων παιομένῳ, φυσῶντι ἔτι. καὶ μετ᾽ ὀλίγον ἔδοξα ὑλακῆς ἀκοῦσαι κυνῶν ἄνωθεν μόλις πως διὰ τὸν ἦχον τὸν ἀπὸ τῆς θαλάττης.

[4] προελθὼν δὲ καὶ προβὰς πάνυ χαλεπῶς πρός τι ὑψηλὸν τούς τε κύνας ὁρῶ ἠπορημένους καὶ διαθέοντας, ὑφ᾽ ὧνεἴκαζον ἀποβιασθὲν τὸ ζῷον ἁλέσθαι κατὰ τοῦ κρημνοῦ, καὶ μετ᾽ ὀλίγον ἄνδρα, κυνηγέτην ἀπὸ τῆς ὄψεως καὶ τῆς στολῆς, τὰ γένεια ὑγιῆ κομῶντα οὐ φαύλως οὐδὲ ἀγεννῶς ἐξόπισθεν, οἵους ἐπὶ Ἴλιον Ὅμηρός φησιν ἐλθεῖν Εὐβοέας, σκώπτων, ἐμοὶ δοκεῖν, καὶ καταγελῶν, ὅτι τῶν ἄλλων Ἀχαιῶν καλῶς ἐχόντων οἱ δὲ ἐξ ἡμίσους [5] ἐκόμων. καὶ ὃς ἀνηρώτα με, Ἀλλ᾽ ἦ, ὦ ξεῖνε, τῇδέ που φεύγοντα ἔλαφον κατενόησας; κἀγὼ πρὸς αὐτόν, Ἐκεῖνος, ἔφην, ἐν τῷ κλύδωνι ἤδη· καὶ ἀγαγὼν ἔδειξα. ἑλκύσας οὖν αὐτὸν ἐκ τῆς θαλάττης τό τε δέρμα ἐξέδειρε μαχαίρᾳ, κἀμοῦ ξυλλαμβάνοντος ὅσον οἷός τε ἦν, καὶ τῶν σκελῶν ἀποτεμὼν τὰ ὀπίσθια ἐκόμιζεν ἅμα τῷ δέρματι.παρεκάλει δὲ κἀμὲ συνακολουθεῖν καὶ συνεστιᾶσθαι τῶν κρεῶν· εἶναι δὲ οὐ μακρὰν τὴν οἴκησιν.

[6] ἔπειτα ἕωθεν παρ᾽ ἡμῖν, ἔφη, κοιμηθεὶς ἥξεις ἐπὶ τὴν θάλατταν, ὡς τά γε νῦν οὐκ ἔστι πλόϊμα. καὶ μὴ τοῦτο, εἶπε, φοβηθῇς. βουλοίμην δ᾽ ἂν ἔγωγε καὶ μετὰ πέντε ἡμέρας λῆξαι τὸν ἄνεμον· ἀλλ᾽ οὐ ῥᾴδιον, εἶπεν,ὅταν οὕτως πιεσθῇ τὰ ἄκρα τῆς Εὐβοίας ὑπὸ τῶν νεφῶν ὥς γε νῦν κατειλημμένα ὁρᾷς. καὶ ἅμα ἠρώτα με ὁπόθεν δὴ καὶ ὅπως ἐκεῖ κατηνέχθην, καὶ εἰ μὴ διεφθάρη τὸ πλοῖον. μικρὸν ἦν παντελῶς, ἔφην, ἁλιέων τινῶν περαιουμένων, κἀγὼ μόνος ξυνέπλεον ὑπὸ σπουδῆς τινος. διεφθάρη δ᾽ ὅμως ἐπὶ τὴν γῆν ἐκπεσόν.

[7] οὔκουν ῥᾴδιον, ἔφη, ἄλλως· ὅρα γὰρ ὡς ἄγρια καὶ σκληρὰ τῆς νήσου τὰ πρὸς τὸ πέλαγος. ταῦτ᾽, εἶπεν, ἐστὶ τὰ κοῖλα τῆς Εὐβοίας λεγόμενα, ὅπου κατενεχθεῖσα ναῦς οὐκ ἂν ἔτι σωθείη· σπανίως δὲ σῴζονται καὶ τῶν ἀνθρώπων τινές, εἰ μὴ ἄρα, ὥσπερ ὑμεῖς, ἐλαφροὶ παντελῶς πλέοντες. ἀλλ᾽ ἴθι καὶ μηδὲν δείσῃς. νῦν μὲν ἐκ τῆς κακοπαθείας ἀνακτήσῃ σαυτόν· εἰς αὔριον δέ, ὅ τι ἂν ᾖ δυνατόν, ἐπιμελησόμεθα ὅπως σωθῇς, ἐπειδή σε ἔγνωμεν ἅπαξ.

[8] δοκεῖς δέ μοι τῶν ἀστικῶν εἶναί τις, οὐ ναύτης οὐδ᾽ ἐργάτης, ἀλλὰ πολλήν τινα ἀσθένειαν τοῦ σώματος ἀσθενεῖν ἔοικας ἀπὸ τῆς ἰσχνότητος. ἐγὼ δὲ ἄσμενος ἠκολούθουν· οὐ γὰρ ἐπιβουλευθῆναί ποτε ἔδεισα, οὐδὲν ἔχων ἢ φαῦλον ἱμάτιον.

[9] καὶ πολλάκις μὲν δὴ καὶ ἄλλοτε ἐπειράθην ἐν τοῖς τοιούτοις καιροῖς, ἅτε ἐν ἄλῃ συνεχεῖ, ἀτὰρ οὖν δὴ καὶ τότε ὡς ἔστι πενία χρῆμα τῷ ὄντι ἱερὸν καὶ ἄσυλον, καὶ οὐδεὶς ἀδικεῖ, πολύ γε ἧττον ἢ τοὺς τὰ κηρύκεια ἔχοντας· ὡς δὴ καὶ τότε θαρρῶν εἱπόμην.

 

[1] Vi racconterò tutto questo avendolo vissuto io stesso in prima persona, non avendolo udito raccontare da altri. Infatti, forse, l’aver da narrare molte cose e il non lasciarsi distogliere facilmente da nessuno dei discorsi che vengono in mente non è proprio solo della vecchiaia; oltre che caratteristico degli anziani potrebbe esserlo anche dei giramondo. Il motivo è che entrambi rievocano con piacere le molte avventure che si sono trovati a vivere. Vi racconterò dunque quali uomini incontrai quasi nel cuore della Grecia e che genere di vita conducevano.

[2] Per caso, dunque, verso la fine dell’estate, ero salpato da Chio insieme ad alcuni pescatori a bordo di un’imbarcazione molto piccola. Ma, scoppiata una tempesta, con difficoltà e fatica riuscimmo a scamparla presso le Grotte d’Eubea; gli uomini, dopo aver diretto la barca verso un aspro tratto di costa sotto alcuni scogli dirupati, la sfasciarono; essi, invece, si rifugiarono presso alcuni pescatori di porpora, ormeggiati in una baia vicina e pensarono, rimanendo lì, [3] di lavorare insieme a quelli. Lasciato da solo e non avendo una città in cui rifugiarmi, mi aggiravo senza meta lungo il litorale, se per caso riuscissi a vedere qualcuno che navigava o che fosse ormeggiato nei pressi. Ma dopo aver camminato a lungo, non incontrai anima viva; mi imbattei, però, in un cervo che era da poco precipitato giù dai dirupi proprio sulla spiaggia, bagnato dalle onde e che respirava ancora. E dopo un po’ mi parve di sentire, seppur con difficoltà, a causa del rumore della risacca, un latrato di cani, che proveniva dall’alto.

[4] Dopo essere andato avanti ed essermi arrampicato a fatica su un rialzo, vidi i cani che cercavano e correvano qua e là, e mi immaginai che l’animale fosse caduto giù dalla scogliera, spinto a forza da loro; e poco dopo, anche un uomo, un cacciatore, dall’aspetto e dall’abbigliamento, con le guance colorite e con i capelli non tirati indietro in modo trascurato – come Omero racconta che gli Euboici giunsero a Troia, prendendoli in giro, credo, e deridendoli, perché, mentre gli Achei erano ben acconciati, [5] essi avevano soltanto metà capigliatura[1]. Costui mi domandò: «Ehi, straniero, hai visto per caso un cervo che fuggiva per di qua?». Io, allora, gli risposi: «Quello ormai è giù nella risacca»; e, dopo averlo accompagnato, glielo mostrai. Tiratolo fuori dall’acqua, lo scuoiò con un coltello, mentre io lo aiutavo come potevo. Poi, dopo aver tagliato i quarti posteriori delle zampe, se li portava via insieme alla pelle. Invitò anche me ad accompagnarlo e a banchettare insieme a lui con quella carne; infatti, egli non abitava molto lontano.

[6] Poi aggiunse: «Domani all’alba, dopo aver dormito da noi, tornerai sul mare, perché ora non è il momento di imbarcarsi. Non ti preoccupare; vorrei anch’io che il vento cessasse, magari fra cinque giorni; ma non è facile, quando le cime dell’Eubea sono così oppresse dalle nubi, fittamente coperte come le vedi ora». Poi mi chiese anche da dove e in che modo mi fossi spinto fin là, e se la mia barca fosse andata in pezzi. Io risposi: «Era molto piccola, di alcuni pescatori che andavano per mare; e io solo navigavo insieme a loro, per affari miei. Appena ha toccato terra, si è sfasciata».

[7] «Non era facile che accadesse diversamente», rispose lui; «guarda com’è aspra e dirupata la costa dell’isola in direzione del mare aperto. Queste sono le cosiddette Grotte d’Eubea e una nave che sia stata spinta qua non potrebbe mai salvarsi; raramente si salvano alcuni degli uomini, a meno che, come voi, non navighino su un’imbarcazione molto leggera. Ma vieni, e non temere nulla; ora ti riprenderai da quella brutta avventura. Poi, domani, per quanto sarà possibile, ci preoccuperemo di come sistemarti, dopo che avremo fatto conoscenza.

[8] Mi sembra che tu venga dalla città e non un marinaio o un contadino; e dalla magrezza mi pare anche che tu soffra di qualche malessere fisico». Io lo seguii volentieri; infatti, non temevo che mi tendesse qualche insidia, non avendo altro che una povera veste.

[9] Spesso, in altre occasioni, mi ero trovato in simili circostanze, poiché ero sempre in viaggio e avevo sperimentato, come in quel caso, che la miseria è sacra e inviolabile, e nessuno ti fa torto, molto meno che a quelli che portano le insegne di araldo; perciò, anche allora lo seguii fiducioso.

 

Cacciatore e cane (part.). Rilievo, marmo, inizi IV sec. d.C. Roma, Museo di S. Sebastiano.

 

L’orazione dalla quale proviene il passo preso in esame è considerata, in genere, l’opera più originale e interessante di Dione di Prusa: […] essa è probabilmente ispirata da una vicenda autobiografica, un’avventura di viaggio che costrinse l’autore a trascorre qualche giorno presso una piccola comunità di agricoltori e cacciatori d’Eubea, un’isola prossima alle coste della Beozia e dell’Attica, che i Romani avevano annesso alla provincia di Macedonia. La descrizione del naufragio denota, tra l’altro, una buona conoscenza della geografia dei luoghi; infatti, nella parte di costa ricordata da Dione l’approdo è difficilissimo e, a causa della conformazione accidentata di tutta la zona, non vi furono mai fondate città, ma solo piccoli villaggi litoranei. Inoltre, le scogliere del promontorio Cafareo, prossimo alle Grotte d’Eubea menzionate dall’autore, erano tristemente famose per l’alto numero di naufragi che vi si verificavano, il più celebre dei quali (a parte quello, mitico, dell’armata achea di ritorno da Troia) era avvenuto durante la Seconda guerra persiana, quando duecento navi, inviate da Serse a circumnavigare l’isola, erano perite in una volta sola, infrangendosi sulle rocce a causa di una violenta burrasca, e che i Greci avevano interpretato come un segno del favore di Poseidone nei loro confronti[2].

Tuttavia, se la topografia si distingue per la sua concreta precisione, il racconto del naufragio assume subito le tinte avventurose del romanzo, con la descrizione della sconsolata solitudine del protagonista, abbandonato dai suoi occasionali compagni, e poi inaspettatamente rassicurato dall’arrivo del buon cacciatore, vero e proprio deus ex machina giunto al momento opportuno per risolvere una situazione difficile. L’abilità retorica di Dione, letterato di raffinata cultura, si nota appunto nella sapiente gradualità con cui egli – narratore e protagonista – prepara l’incontro fra il naufrago e il suo salvatore: prima, la squallida solitudine della spiaggia rocciosa battuta dai marosi e l’ansioso scrutare alla ricerca di una presenza umana o di un’imbarcazione; poi, il cervo ferito, precipitato dall’alto della scogliera; subito dopo, il latrato dei cani, a mala pena udibile in mezzo allo scroscio delle onde; infine, l’arrivo del cacciatore, un uomo forte, dall’aspetto sano, la cui schietta cordialità rassicura subito il povero naufrago.

La scena dell’offerta e della pronta accettazione dell’ospitalità riconduce a uno dei concetti etici più antichi e più profondamente radicati nell’animo greco: quello della sacralità dell’ospite, oggetto, per sua stessa natura, di αἰδώς, di «rispetto» reverenziale. Tale condizione si fondava su motivi religiosi (lo sconosciuto in difficoltà poteva essere un dio sotto false sembianze, sceso in terra per saggiare l’animo degli uomini), ma anche sulla necessità di instaurare rapporti sociali stabili e duraturi anche al di fuori della propria patria, perché la πολιτεία («lo Stato») non garantiva in alcun modo la sicurezza di chi si allontanasse dalla protezione delle leggi cittadine. Ma, se in altri tempi il forestiero avrebbe seguito il suo ospite con piena fiducia nella sua lealtà, ora le certezze non sono più così solide; nel cuore del narratore non manca un’inquietante punta di diffidenza, che lo induce a dichiarare ai lettori di essere pronto a seguire lo sconosciuto non tanto perché creda alla sua sensibilità verso i tradizionali valori della ξενία («ospitalità»), quanto perché sa di avere un aspetto talmente miserando da scoraggiare qualunque tentazione.

***

 

Serenità campestre e miseria urbana

 

[…] Strada facendo, il cacciatore racconta all’ospite occasionale la storia della sua famiglia e di quella di un suo vicino di casa, entrambi di stirpe libera, discendenti da pastori salariati, trasformatisi, dopo la morte del loro signore, in cacciatori e coltivatori. Le due famiglie hanno dato origine a una minuscola comunità autosufficiente, soddisfatta di un genere di vita estremamente semplice, ma sereno e tranquillo; lo dimostra la familiare affabilità con cui è accolto il forestiero, invitato a banchettare con la carne di cervo.

 

[65] εἰσελθόντες οὖν εὐωχούμεθα τὸ λοιπὸν τῆς ἡμέρας, ἡμεῖς μὲν κατακλιθέντες ἐπὶ φύλλων τε καὶ δερμάτων ἐπὶ στιβάδος ὑψηλῆς, ἡ δὲ γυνὴ πλησίον παρὰ τὸν ἄνδρα καθημένη. θυγάτηρ δὲ ὡραία γάμου διηκονεῖτο, καὶ ἐνέχει πιεῖν μέλανα οἶνον ἡδύν. οἱ δὲ παῖδες τὰ κρέα παρεσκεύαζον, καὶ αὐτοὶ ἅμα ἐδείπνουν παρατιθέντες, ὥστε ἐμὲ εὐδαιμονίζειν τοὺς ἀνθρώπους ἐκείνους καὶ οἴεσθαι μακαρίως ζῆν πάντων μάλιστα ὧν ἠπιστάμην.

[66] καίτοι πλουσίων οἰκίας τε καὶ τραπέζας ἠπιστάμην, οὐ μόνον ἰδιωτῶν, ἀλλὰ καὶ σατραπῶν καὶ βασιλέων, οἳ μάλιστα ἐδόκουν μοι τότεἄθλιοι, καὶ πρότερον δοκοῦντες, ἔτι μᾶλλον, ὁρῶντι τὴν ἐκεῖ πενίαν τε καὶ ἐλευθερίαν, καὶ ὅτι οὐδὲν ἀπελείποντο οὐδὲ τῆς περὶ τὸ φαγεῖν τε καὶ πιεῖν ἡδονῆς, ἀλλὰ καὶ τούτοις ἐπλεονέκτουν σχεδόν τι.

[67] ἤδη δ᾽ ἱκανῶς ἡμῶν ἐχόντων ἦλθε κἀκεῖνος ὁ ἕτερος. συνηκολούθειδὲ υἱός αὐτῷ, μειράκιον οὐκ ἀγεννές, λαγὼν φέρων. εἰσελθὼν δὲ οὗτος ἠρυθρίασεν· ἐν ὅσῳ δὲ ὁ πατὴρ αὐτοῦ ἠσπάζετο ἡμᾶς, αὐτὸς ἐφίλησε τὴν κόρην καὶ τὸν λαγὼν ἐκείνῃ ἔδωκεν. ἡ μὲν οὖν παῖς ἐπαύσατο διακονουμένη καὶ παρὰ τὴν μητέρα ἐκαθέζετο, [68] τὸ δὲ μειράκιον ἀντ᾽ ἐκείνης διηκονεῖτο. κἀγὼ τὸν ξένονἠρώτησα, Αὕτη, ἔφην, ἐστίν, ἧς τὸν χιτῶνα ἀποδύσας τῷ ναυαγῷ ἔδωκας; καὶ ὃς γελάσας, Οὐκ, ἔφη, ἀλλ᾽ ἐκείνη, εἶπε, πάλαι πρὸς ἄνδρα ἐδόθη, καὶ τέκνα ἔχει μεγάλα ἤδη, πρὸς ἄνδρα πλούσιον εἰς κώμην. οὐκοῦν, ἔφην, ἐπαρκοῦσιν ὑμῖν ὅ, τι ἂν δέησθε; οὐδέν, [69] εἶπεν ἡ γυνή, δεόμεθα ἡμεῖς. ἐκεῖνοι δὲ λαμβάνουσι καὶ ὁπηνίκ᾽ ἄντι θηραθῇ καὶ ὀπώραν καὶ λάχανα· οὐ γὰρ ἔστι κῆπος παρ᾽ αὐτοῖς. πέρυσι δὲ παρ᾽ αὐτῶν πυροὺς ἐλάβομεν, σπέρμα ψιλόν, καὶ ἀπεδώκαμεν αὐτοῖς εὐθὺς τῆς θερείας. τί οὖν; ἔφην, καὶ ταύτην διανοεῖσθε διδόναι πλουσίῳ, ἵνα ὑμῖν καὶ αὐτὴ πυροὺς δανείσῃ; ἐνταῦθα μέντοι ἄμφω ἠρυθριασάτην, ἡ κόρη καὶ τὸ μειράκιον.

[70] ὁ δὲ πατὴρ αὐτῆς ἔφη, Πένητα ἄνδρα λήψεται, ὅμοιον ἡμῖν κυνηγέτην· καὶ μειδιάσας ἔβλεψεν εἰς τὸν νεανίσκον. κἀγώ, τί οὖν οὐκ ἤδη δίδοτε; ἢ δεῖ ποθεν αὐτὸν ἐκ κώμης ἀφικέσθαι; δοκῶ μέν, εἶπεν, οὐ μακράν ἐστίν· ἀλλ᾽ ἔνδον ἐνθάδε. καὶ ποιήσομέν γε τοὺς γάμους ἡμέραν ἀγαθὴν ἐπιλεξάμενοι. κἀγώ, Πῶς, ἔφην,κρίνετε τὴν ἀγαθὴν ἡμέραν; καὶ ὅς, Ὅταν μὴ μικρὸν ᾖ τὸ σελήνιον· [71] δεῖ δὲ καὶ τὸν ἀέρα εἶναι καθαρόν, αἰθρίαν λαμπράν. κἀγώ, Τί δέ; τῷ ὄντι κυνηγέτης ἀγαθός ἐστιν; ἔφην. ἔγωγε, εἶπεν ὁ νεανίσκος, καὶ ἔλαφον καταπονῶ καὶ σῦν ὑφίσταμαι. ὄψει δὲ αὔριον, ἂν θέλῃς, ὦ ξένε. καὶ τὸν λαγὼν τοῦτον σύ, ἔφην, ἔλαβες; ἐγώ, ἔφη γελάσας, τῷ λιναρίῳ τῆς νυκτός· ἦν γὰρ αἰθρία πάνυ καλὴ καὶ ἡ σελήνη τηλικαύτη τὸ μέγεθος ἡλίκη οὐδεπώποτε ἐγένετο.

 

[65] Dopo essere entrati, banchettammo per il resto della giornata, noi distesi su un alto giaciglio fatto di frasche e coperto di pelli, la moglie seduta presso il marito. Una figlia in età da sposarsi serviva a tavola e versava da bere vino nero dolce. I figli cucinavano la carne ed essi stessi, imbandendola, partecipavano al pranzo, così che io consideravo fortunate quelle persone e ritenevo che conducessero una vita felice più di tutte quelle che avevo conosciuto.

[66] Eppure, conoscevo le case e le mense dei ricchi, non solo di cittadini privati, ma anche di satrapi e di sovrani, e allora, come già altre volte, mi sembravano ancora più miseri, vedendo qui povertà e generosità, e constatando che non mancava loro niente del piacere del mangiare e del bere, ma che anzi, in un certo senso, ne abbondavano veramente.

[67] Quando ne avevamo già avuto a sazietà, giunse anche l’altro cacciatore. Lo accompagnava il figlio, un bel ragazzo che portava una lepre. Appena entrò, subito arrossì; e mentre suo padre ci salutava, egli diede un bacio alla fanciulla e le diede la lepre. Allora la ragazza smise di servire a tavola e si sedette accanto alla madre, [68] mentre il giovane serviva in sua vece. E io, allora, chiesi al mio ospite: «È lei la figlia alla quale togliesti la tunica per darla al naufrago?[3]». Ed egli: «No», mi rispose ridendo; «quella è andata a marito da tempo, a un uomo ricco del villaggio e ha già dei figli grandi». «Allora», feci io, «vi aiutano, quando ne avete bisogno?». «Ma noi», [69] intervenne la moglie, «non abbiamo bisogno di nulla; loro, piuttosto, ricevono da noi cacciagione, quando ce n’è, frutta di stagione e ortaggi; essi, infatti, non dispongono di un orto. L’anno scorso abbiamo comprato del frumento, proprio per seme, ma subito, al raccolto, lo abbiamo restituito». «E allora?», dissi, «pensate di dare in moglie a un ricco anche costei, perché lei vi presti il frumento?». A questo punto tutti e due, la fanciulla e il ragazzo, arrossirono.

[70] Allora il padre di lei disse: «Prenderà un uomo povero, un cacciatore come noi»; e sorridendo guardò verso il giovane. Allora io: «Perché dunque non gliela date? O bisogno che lo sposo arrivi dal villaggio?». «Io credo», rispose quello, «che non sia lontano; anzi, è già qui dentro. Celebreremo le nozze dopo aver scelto un giorno propizio». E io: «In che modo scegliete un giorno di buon auspicio?». E lui: «Quando la luna non è all’ultimo quarto; [71]  è opportuno che l’aria sia pura, e il sereno limpidissimo». E io, di nuovo: «Allora? È davvero un bravo cacciatore?». «Io sì!», rispose il ragazzo, «sono capace di stancare un cervo e di affrontare un cinghiale. Lo vedrai domani, se vorrai, o straniero». E io: «Hai preso tu anche questa lepre?». «Certo», mi rispose ridendo, «stanotte, con la rete; era, infatti, un sereno splendido e la luna tanto grande come non era mai stata».

Caccia alla lepre. Mosaico, III sec. d.C. da El-Jem. Tunis, Musée du Bardo.

L’Euboico era composto da due parti, diverse per contenuto e per finalità; la prima, descrittiva, si concludeva con il passo qui riportato, l’annuncio delle nozze imminenti tra la figlia del cacciatore e il cugino; la seconda, di tono riflessivo, affrontava il grave problema della povertà nei grandi centri urbani dell’Impero, che nessun intervento filantropico o autoritario era mai stato in grado davvero di risolvere. Bisogna osservare che, nella prima sezione, Dione capovolgeva il tradizionale atteggiamento che, secoli prima, Omero e i tragici (soprattutto Euripide) avevano mostrato nei confronti dell’ospitalità, della ricchezza e della povertà. Essi, infatti, erano apparsi convinti che il povero, anche se lo desiderava, non fosse in grado di ospitare decorosamente un forestiero, perché gliene mancavano i mezzi: basterebbero, a questo proposito, le parole con cui Eumeo, accogliendo Odisseo nella propria capanna, si scusa di non potergli offrire una mensa più ricca e di essere costretto a dargli il mantello soltanto in prestito, perché non ne possiede un altro per sé[4].

Al contrario, chi era ricco poteva donare con larghezza e, se non l’avesse fatto, oltre ad attirarsi biasimo e critiche, si esponeva alla collera delle divinità. Nell’Euboico, invece, l’esperienza personale dell’autore conduce a conclusioni diametralmente opposte: non solo i poveri offrono generosamente tutto ciò che possono donare agli ospiti occasionali, ma appaiono pure soddisfatti del proprio stile di vita e non mostrano di desiderare alcun cambiamento nella propria tranquilla esistenza – assai simile a quella descritta negli Idilli di Teocrito o, più ancora, in alcune scene aristofanesche (Acarnesi, Pace), in cui si ricorda con nostalgia il quieto vivere dei contadini dell’Attica, reso impossibile dalla Guerra del Peloponneso.

La descrizione di Dione presenta molte caratteristiche che contribuiscono a farla considerare un quadro idealizzato e lontano dalla realtà; ma, nell’intenzione dell’autore, l’utopistica serenità del cacciatore e dei suoi parenti, isolati dal resto del mondo nella loro isola aspra ma non avara per chi sa scoprirne le agresti ricchezze, doveva servire a evidenziare, per contrasto, la miseria materiale e morale delle plebi cittadine – oggetto di riflessione nella seconda parte dell’orazione. L’autore, infatti, conosceva bene la situazione delle grandi metropoli imperiali, in cui il fasto di pochi appariva in stridente contrasto con la miseria di una massa innumerevole che, strumentalizzata da demagoghi privi di scrupoli, poteva divenire in qualunque circostanza un elemento capace di mettere drammaticamente in crisi l’equilibrio politico.

Per questo, Dione suggeriva di favorire con ogni mezzo possibile l’allontanamento dalla città di chi non disponesse di sufficienti mezzi di sussistenza, offrendo terre da coltivare, anche gratis, in modo da diminuire, se non da cancellare del tutto, le due massime cause di instabilità sociale e di degrado morale: l’ozio e la miseria, che già intorno al 360 a.C. erano stati additati come due gravi problemi di ordine economico ed etico, oltre che politico, da Isocrate nell’Areopagitico. Questi motivi giustificavano, almeno in parte, il nostalgico quadro di un’esistenza immersa nella pace agreste, fondata sulla semplicità, la schiettezza e la solidarietà, che però traeva origine da una precisa ottica programmatica, non dall’osservazione della vita reale. Tuttavia, in esso traspariva anche quel desiderio di quiete e di serenità dello spirito che, fino alla prima età ellenistica, era apparso come il sogno e il rimpianto dell’uomo di città, consapevole di aver sacrificato al benessere materiale la parte migliore di sé. Da questo punto di vista, il motivo del contrasto fra la lieta povertà della vita campestre e le ricchezze della città, ingiustamente distribuite e fonte di ansie e di intrighi, capaci di corrompere ogni più nobile sentimento, sarebbe divenuto topico nella letteratura posteriore, latina e italiana; per non citarne che un solo, illustre esempio, basterà ricordare l’episodio di Erminia fra i pastori nella Gerusalemme liberata di Torquato Tasso (VII, ott. 1-22, vv. 1-176).

***

Note

[1] In Il. II 541-544 Omero descrive gli Abanti, antichi abitatori dell’Eubea, che si rasavano la parte anteriore del capo per impedire che gli avversari li afferrassero per i capelli, combattendo corpo a corpo. Essi, infatti, sono detti ὄπιθεν κομόωντες («con le chiome fluenti all’indietro»).

[2] Hdt. VIII 7; 13.

[3] Nella parte omessa del racconto, il cacciatore ha raccontato al suo ospite di aver accolto in casa un altro naufrago; e, non avendo di che vestirlo, aveva tolto la veste alla figlia, per darla a lui.

[4] Od. XIV 80-82; 507-514.

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Gettato da una tempesta sulle spiagge di Scheria, l’isola abitata dal popolo marinaro dei Feaci, Odisseo viene accolto benevolmente dal loro re, Alcinoo. Benché l’identità dell’eroe sia tuttora sconosciuta, il sovrano offre un banchetto in suo onore, durante il quale l’aedo Demodoco, per rallegrare gli ospiti, canta alcuni episodi della guerra di Troia e fra questi, anche l’inganno del cavallo. Alla rievocazione di un evento del quale è stato ideatore e protagonista, Odisseo non riesce a trattenere le lacrime ed è così costretto a rivelare chi sia. Lieto di avere come ospite un personaggio così illustre, Alcinoo lo invita a narrare le sue avventure: ha in tal modo inizio il «grande racconto» o «racconto conviviale» di Odisseo, destinato a servire da modello a molti autori più tardi, primo fra tutti Virgilio, che si ispirò ad esso per la narrazione dell’eccidio di Troia in Eneide II. È particolarmente significativo che i destinatari del racconto di Odisseo siano proprio i Feaci, un misterioso popolo di navigatori, lontani e isolati da tutti gli altri uomini tuttavia, benché la vita di mare sia un’esperienza comune a tutta la loro stirpe, nessuno di loro ha mai vissuto esperienze simili a quelle del Laertiade, né ha tratto da esse una conoscenza più profonda e più varia. Le parole di Odisseo rievocano nomi e costumi di popoli misteriosi, abitanti in regioni lontane: i Ciconi, coraggiosi e guerrieri; i Lotofagi, a cui la pianta del loto, loro cibo abituale, provoca la perdita della conoscenza e li fa vivere in un perenne stato di oblio dalla realtà; i giganteschi Lestrigoni, antropofagi come i mostruosi Ciclopi; i Cimmeri, immersi nelle eterne nebbie del loro paese; vi sono poi le isole abitate non da esseri umani ma da divinità, come Trinakria, l’isola del Sole, o la rupestre dimora di Eolo, signore e custode dei venti; descrivono creature inquietanti, dotate di straordinario potere, come Circe, Calipso e le Sirene dal canto malioso o spaventosi esseri marini come Scilla e Cariddi; ricordano infine il più straordinario dei viaggi, quello in cui l’eroe supera la barriera fra la vita e la morte e approda nel mondo degli defunti, al di là dell’Oceano, per conoscere dall’ombra di Tiresia il proprio futuro e la díkē brotōn, la «condizione dei mortali» dopo il trapasso, dal malinconico spettro della madre Anticlea.

 

Francesco Hayez, Ulisse alla Corte di Alcinoo. Olio su tela, 1814-15. Galleria Nazionale di Capodimonte..jpg

Durante la lunga e rischiosa peregrinazione, l’avventura più nota e più terribile è rappresentata dall’incontro con il Ciclope Polifemo, figlio di Poseidone. Egli e i suoi simili, esseri mostruosi e selvaggi, non conoscevano alcuna norma di vita associata, non coltivavano i campi, ma vivevano praticando la pastorizia e raccogliendo ciò che la terra produceva spontaneamente. Vicinissima alla loro terra, sorgeva un’isola ricca di vegetazione, abitata soltanto da un gran numero di capre selvatiche; Odisseo e i compagni ne uccisero molte e, fino al calar del sole, banchettarono sulla spiaggia con le loro carni. L’isola era così vicina alla terra dei Ciclopi, che Odisseo e i suoi potevano udirne le voci, i belati delle loro greggi, e vedere il fumo innalzarsi dalle caverne in cui dimoravano. Così l’eroe fu preso dal desiderio di conoscere più da vicino queste strane e selvagge creature e, con la sua sola nave, si recò ad esplorare la loro terra (Od., IX 170-186).

 

ἦμος δ᾽ ἠριγένεια φάνη ῥοδοδάκτυλος Ἠώς,

καὶ τότ᾽ ἐγὼν ἀγορὴν θέμενος μετὰ πᾶσιν ἔειπον·

ἄλλοι μὲν νῦν μίμνετ᾽, ἐμοὶ ἐρίηρες ἑταῖροι·

αὐτὰρ ἐγὼ σὺν νηί τ᾽ ἐμῆι καὶ ἐμοῖς ἑτάροισιν

ἐλθὼν τῶνδ᾽ ἀνδρῶν πειρήσομαι, οἵ τινές εἰσιν,

ἤ ῥ᾽ οἵ γ᾽ ὑβρισταί τε καὶ ἄγριοι οὐδὲ δίκαιοι,

ἦε φιλόξεινοι, καί σφιν νόος ἐστὶ θεουδής.

ὣς εἰπὼν ἀνὰ νηὸς ἔβην, ἐκέλευσα δ᾽ ἑταίρους

αὐτούς τ᾽ ἀμβαίνειν ἀνά τε πρυμνήσια λῦσαι.

οἱ δ᾽ αἶψ᾽ εἴσβαινον καὶ ἐπὶ κληῖσι καθῖζον,

ἑξῆς δ᾽ ἑζόμενοι πολιὴν ἅλα τύπτον ἐρετμοῖς.

ἀλλ᾽ ὅτε δὴ τὸν χῶρον ἀφικόμεθ᾽ ἐγγὺς ἐόντα,

ἔνθα δ᾽ ἐπ᾽ ἐσχατιῆι σπέος εἴδομεν ἄγχι θαλάσσης,

ὑψηλόν, δάφνηισι κατηρεφές. ἔνθα δὲ πολλὰ

μῆλ᾽, ὄιές τε καὶ αἶγες, ἰαύεσκον· περὶ δ᾽ αὐλὴ

ὑψηλὴ δέδμητο κατωρυχέεσσι λίθοισι

μακρῆισίν τε πίτυσσιν ἰδὲ δρυσὶν ὑψικόμοισιν.

 

Ma quando apparve mattiniera Aurora dalle rosee dita,

allora io, riuniti i compagni, così parlai, in mezzo a tutti:

«Ora, miei fedeli compagni, aspettatemi qui; io,

con la mia nave e con i miei uomini, sceso a terra,

andrò ad esplorare che genti siano queste;

se sono aggressive, selvagge e senza giustizia,

o se invece sono ospitali e il loro cuore rispetta gli dèi».

Dopo queste parole, mi imbarcai e ordinai ai miei compagni

che salissero a bordo e che sciogliessero gli ormeggi di poppa.

Ed essi subito si imbarcavano, sedevano presso gli scalmi

e seduti in fila battevano con i remi il mare bianco di spuma.

Quando dunque fummo giunti là, sulla punta estrema,

in vicinanza del mare, vedemmo un’immensa caverna,

ombreggiata da lauri; qui, di notte, trovavano riposo

molte greggi, pecore e capre; intorno vi era

un alto recinto, fatto di pietre piantate in terra

e di alti tronchi di pino e di querce frondose.

Gruppo del Pittore di New York. Una nave. Pittura vascolare dal cratere in stile geometrico. 800-775 a.C. ca., dalla Necropoli del Dipylon (Atene). New York, Metropolitan Museum of Art.
Gruppo del Pittore di New York. Una nave. Pittura vascolare dal cratere in stile geometrico. 800-775 a.C. ca., dalla Necropoli del Dipylon (Atene). New York, Metropolitan Museum of Art.

 

Il racconto di Odisseo ad Alcinoo presenta una struttura articolata, in cui l’eroe, nel ruolo di narratore-protagonista, mira abilmente a sottolineare l’eccezionalità della propria avventura e a mantenere vivo il senso di suspence nell’animo degli ascoltatori. Tale intento è chiaro fin dall’inizio; ad esempio, Odisseo, sul punto di recarsi ad esplorare l’isola dei Ciclopi, allude alla possibilità che le genti del luogo possano essere «aggressive, selvagge e senza giustizia»; inoltre, la descrizione della spelonca e del recinto per le greggi potrebbe sembrare quella della normale dimora di un pastore, se l’allusione alle loro smisurate dimensioni non preparasse i Feaci all’idea di un essere mostruoso (Od., IX 187-215).

 

ἔνθα δ᾽ ἀνὴρ ἐνίαυε πελώριος, ὅς ῥα τὰ μῆλα

οἶος ποιμαίνεσκεν ἀπόπροθεν· οὐδὲ μετ᾽ ἄλλους

πωλεῖτ᾽, ἀλλ᾽ ἀπάνευθεν ἐὼν ἀθεμίστια ἤιδη.

καὶ γὰρ θαῦμ᾽ ἐτέτυκτο πελώριον, οὐδὲ ἐώικει

ἀνδρί γε σιτοφάγωι, ἀλλὰ ῥίωι ὑλήεντι

ὑψηλῶν ὀρέων, ὅ τε φαίνεται οἶον ἀπ᾽ ἄλλων.

δὴ τότε τοὺς ἄλλους κελόμην ἐρίηρας ἑταίρους

αὐτοῦ πὰρ νηί τε μένειν καὶ νῆα ἔρυσθαι,

αὐτὰρ ἐγὼ κρίνας ἑτάρων δυοκαίδεκ᾽ ἀρίστους

βῆν· ἀτὰρ αἴγεον ἀσκὸν ἔχον μέλανος οἴνοιο

ἡδέος, ὅν μοι ἔδωκε Μάρων, Εὐάνθεος υἱός,

ἱρεὺς Ἀπόλλωνος, ὃς Ἴσμαρον ἀμφιβεβήκει,

οὕνεκά μιν σὺν παιδὶ περισχόμεθ᾽ ἠδὲ γυναικὶ

ἁζόμενοι· ὤικει γὰρ ἐν ἄλσεϊ δενδρήεντι

Φοίβου Ἀπόλλωνος. ὁ δέ μοι πόρεν ἀγλαὰ δῶρα·

χρυσοῦ μέν μοι ἔδωκ᾽ ἐυεργέος ἑπτὰ τάλαντα,

δῶκε δέ μοι κρητῆρα πανάργυρον, αὐτὰρ ἔπειτα

οἶνον ἐν ἀμφιφορεῦσι δυώδεκα πᾶσιν ἀφύσσας

ἡδὺν ἀκηράσιον, θεῖον ποτόν· οὐδέ τις αὐτὸν

ἠείδη δμώων οὐδ᾽ ἀμφιπόλων ἐνὶ οἴκωι,

ἀλλ᾽ αὐτὸς ἄλοχός τε φίλη ταμίη τε μί᾽ οἴη.

τὸν δ᾽ ὅτε πίνοιεν μελιηδέα οἶνον ἐρυθρόν,

ἓν δέπας ἐμπλήσας ὕδατος ἀνὰ εἴκοσι μέτρα

χεῦ᾽, ὀδμὴ δ᾽ ἡδεῖα ἀπὸ κρητῆρος ὀδώδει

θεσπεσίη· τότ᾽ ἂν οὔ τοι ἀποσχέσθαι φίλον ἦεν.

τοῦ φέρον ἐμπλήσας ἀσκὸν μέγαν, ἐν δὲ καὶ ἦια

κωρύκωι· αὐτίκα γάρ μοι ὀίσατο θυμὸς ἀγήνωρ

ἄνδρ᾽ ἐπελεύσεσθαι μεγάλην ἐπιειμένον ἀλκήν,

ἄγριον, οὔτε δίκας ἐὺ εἰδότα οὔτε θέμιστας.

 

Qui dormiva un essere enorme, che pascolava

le greggi, solitario e lontano; non stava

con gli altri, ma viveva isolato, senza giustizia.

Era infatti una creatura mostruosa, gigantesca, non simile

ad un uomo che si nutre di pane, ma alla cima selvosa

di un altissimo monte, che si erge isolata dalle altre.

Allora io esortai gli altri miei fedeli compagni

a rimanere presso la nave e a sorvegliarla;

io stesso, scelti fra i miei uomini i dodici più coraggiosi,

mi avviai; portavo con me un otre di capra pieno di vino nero,

dolcissimo, che mi regalò Marone, figlio di Euante,

sacerdote di Apollo, che protegge Ismaro,

perché gli avevamo salvato la vita, insieme al figlio e alla moglie,

avendone rispetto; abitava infatti nel sacro bosco frondoso

di Febo Apollo. Egli mi offrì splendidi doni;

mi diede sette talenti d’oro ben lavorato,

un cratere d’argento massiccio e poi dolce vino schietto,

dopo averlo versato in anfore, dodici in tutto,

bevanda divina; nessuno dei servi né delle ancelle

ne sapeva l’esistenza, nella casa, ma lui soltanto,

la moglie e la dispensiera fedele.

E quando bevevano quel vino rosso dall’aroma di miele,

riempita una sola tazza, vi mescolava

venti misure d’acqua; e un aroma delicato, divino, emanava dal cratere;

e allora non era davvero gradevole starne lontano.

Dopo averne riempito un grande otre, lo portavo con me, e anche dei cibi,

in un cesto; infatti, subito il mio nobile cuore previde

che avremmo incontrato una creatura selvaggia,

dotata di forza immensa, ma ignara di giustizia e di leggi.

 

Pittore di Berlino. Dioniso con kantharos e tralcio di vite. Pittura vascolare dal lato A di un'anfora attica a figure rosse, 490-480 a.C. ca., da Vulci. Musée du Louvre
Pittore di Berlino. Dioniso con kantharos e tralcio di vite. Pittura vascolare dal lato A di un’anfora attica a figure rosse, 490-480 a.C. ca., da Vulci. Paris, Musée du Louvre.

 

Questa parte del racconto ha il suo centro nella storia di Marone, sacerdote di Apollo nella città di Ismaro, in Tracia. Odisseo narra l’episodio con un flashback abbastanza ampio, inserito nel racconto principale, che fa da cornice. L’accenno al padre di Marone, Euante, figlio di Dioniso, e l’eccezionalità del vino donato a Odisseo preparano gli ascoltatori al racconto del potentissimo effetto che esso avrà anche su una creatura gigantesca e fortissima come Polifemo.
La presenza del Ciclope domina l’inizio e la conclusione del passo: dapprima Odisseo ne sottolinea l’isolamento, che lo separa anche dagli altri esseri della sua stessa specie, poi ne evidenzia la mostruosa diversità da qualunque altra creatura, tanto che, per descriverlo, l’eroe lo paragona a un elemento naturale, la «cima selvosa di un monte». L’accenno al carattere ferino di Polifemo è posto alla fine del passo, in cui il Ciclope è descritto come «selvaggio» e «ignaro di giustizia e di leggi»; ma la sua apparizione diretta è ancora rimandata.

Quando Odisseo e i suoi compagni entrano nella caverna, egli non è ancora tornato dal pascolo (Od., IX 216-249).

 

καρπαλίμως δ᾽ εἰς ἄντρον ἀφικόμεθ᾽, οὐδέ μιν ἔνδον

εὕρομεν, ἀλλ᾽ ἐνόμευε νομὸν κάτα πίονα μῆλα.

ἐλθόντες δ᾽ εἰς ἄντρον ἐθηεύμεσθα ἕκαστα.

ταρσοὶ μὲν τυρῶν βρῖθον, στείνοντο δὲ σηκοὶ

ἀρνῶν ἠδ᾽ ἐρίφων· διακεκριμέναι δὲ ἕκασται

ἔρχατο, χωρὶς μὲν πρόγονοι, χωρὶς δὲ μέτασσαι,

χωρὶς δ᾽ αὖθ᾽ ἕρσαι. ναῖον δ᾽ ὀρῶι ἄγγεα πάντα,

γαυλοί τε σκαφίδες τε, τετυγμένα, τοῖς ἐνάμελγεν.

ἔνθ᾽ ἐμὲ μὲν πρώτισθ᾽ ἕταροι λίσσοντ᾽ ἐπέεσσιν

τυρῶν αἰνυμένους ἰέναι πάλιν, αὐτὰρ ἔπειτα

καρπαλίμως ἐπὶ νῆα θοὴν ἐρίφους τε καὶ ἄρνας

σηκῶν ἐξελάσαντας ἐπιπλεῖν ἁλμυρὸν ὕδωρ·

ἀλλ᾽ ἐγὼ οὐ πιθόμην, ἦ τ᾽ ἂν πολὺ κέρδιον ἦεν,

ὄφρ᾽ αὐτόν τε ἴδοιμι, καὶ εἴ μοι ξείνια δοίη.

οὐδ᾽ ἄρ᾽ ἔμελλ᾽ ἑτάροισι φανεὶς ἐρατεινὸς ἔσεσθαι.

ἔνθα δὲ πῦρ κήαντες ἐθύσαμεν ἠδὲ καὶ αὐτοὶ

τυρῶν αἰνύμενοι φάγομεν, μένομέν τέ μιν ἔνδον

ἥμενοι, ἧος ἐπῆλθε νέμων. φέρε δ᾽ ὄβριμον ἄχθος

ὕλης ἀζαλέης, ἵνα οἱ ποτιδόρπιον εἴη,

ἔντοσθεν δ᾽ ἄντροιο βαλὼν ὀρυμαγδὸν ἔθηκεν·

ἡμεῖς δὲ δείσαντες ἀπεσσύμεθ᾽ ἐς μυχὸν ἄντρου.

αὐτὰρ ὅ γ᾽ εἰς εὐρὺ σπέος ἤλασε πίονα μῆλα

πάντα μάλ᾽ ὅσσ᾽ ἤμελγε, τὰ δ᾽ ἄρσενα λεῖπε θύρηφιν,

ἀρνειούς τε τράγους τε, βαθείης ἔκτοθεν αὐλῆς.

αὐτὰρ ἔπειτ᾽ ἐπέθηκε θυρεὸν μέγαν ὑψόσ᾽ ἀείρας,

ὄβριμον· οὐκ ἂν τόν γε δύω καὶ εἴκοσ᾽ ἄμαξαι

ἐσθλαὶ τετράκυκλοι ἀπ᾽ οὔδεος ὀχλίσσειαν·

τόσσην ἠλίβατον πέτρην ἐπέθηκε θύρηισιν.

ἑζόμενος δ᾽ ἤμελγεν ὄις καὶ μηκάδας αἶγας,

πάντα κατὰ μοῖραν, καὶ ὑπ᾽ ἔμβρυον ἧκεν ἑκάστηι.

αὐτίκα δ᾽ ἥμισυ μὲν θρέψας λευκοῖο γάλακτος

πλεκτοῖς ἐν ταλάροισιν ἀμησάμενος κατέθηκεν,

ἥμισυ δ᾽ αὖτ᾽ ἔστησεν ἐν ἄγγεσιν, ὄφρα οἱ εἴη

πίνειν αἰνυμένωι καί οἱ ποτιδόρπιον εἴη.

 

Velocemente giungemmo nell’antro, ma non ve lo trovammo;

era infatti al pascolo con le sue grasse greggi.

Entrati nella spelonca, osservavamo con attenzione ogni cosa;

i graticci erano carichi di formaggi, i recinti pieni di agnelli

e di capretti; vi erano rinchiusi divisi secondo l’età,

da una parte i primi nati, da un’altra i secondi, da un’altra ancora

i lattanti; tutti i recipienti erano pieni di siero, i secchi

e le brocche ben lavorate, nelle quali mungeva.

Subito i miei compagni mi rivolsero parole di supplica,

di tornare indietro, rubati i formaggi, e poi,

spinti rapidamente agnelli e capretti fuori dai recinti

verso la veloce nave, di prendere il largo sul mare salmastro.

Ma io non li ascoltai, anche se sarebbe stato molto meglio,

perché volevo vederlo di persona, e sapere se mi avrebbe offerto doni ospitali.

Ma una volta apparso, non sarebbe stato benevolo

con i miei compagni. Là, acceso il fuoco, facemmo un sacrificio

e poi, presi dei formaggi, li mangiammo e lo aspettammo,

seduti, finché giunse, pascendo; portava un pesante carico

di legna secca, per prepararsi la cena.

Gettatolo a terra nella grotta, suscitò un rimbombo;

e noi, spaventati, balzammo nel fondo della caverna.

Egli sospinse nell’ampia spelonca le greggi ben pasciute,

tutte quelle che aveva da mungere, ma lasciò fuori tutti i maschi,

arieti e caproni, all’aperto nel vasto recinto.

Poi, sollevato in alto un macigno enorme e pesante,

lo pose a chiudere l’imboccatura; ventidue solidi carri

a quattro ruote non lo avrebbero spostato da terra,

un tale aspro macigno egli pose come chiusura.

Poi, sedutosi, mungeva con ordine le pecore

e le capre belanti, e poneva sotto ciascuna il lattante.

Subito, fatta cagliare una metà del bianco latte,

dopo averla raccolta, la mise in cesti intrecciati,

e versò l’altra metà nei boccali, per poterla

prendere e bere, perché gli facesse da cena.

 

Polifemo (dettaglio). Mosaico, metà IV sec. d.C. dal vestibolo dell’appartamento settentrionale 15. Piazza Armerina, Villa del Casale.
Polifemo (dettaglio). Mosaico, metà IV sec. d.C. dal vestibolo dell’appartamento settentrionale 15. Piazza Armerina, Villa del Casale.

 

La descrizione della caverna di Polifemo, a parte le sue immense dimensioni non ha in sé niente di spaventoso; al contrario, ha tutte le caratteristiche della dimora di un pastore abile e attento, esperto del proprio lavoro. Allora, quasi temendo che il quadro di questa pacifica attività possa attenuare nell’animo degli ascoltatori il senso di aspettativa e di tensione fin qui abilmente creato, Odisseo non solo lo mantiene vivo, ma lo accresce con alcuni abili accorgimenti. In primo luogo, l’eroe rivolge a se stesso un rimprovero per non aver ascoltato i compagni che tentavano di persuaderlo ad abbandonare l’antro prima del ritorno di Polifemo; anche se si tratta di poche parole, il loro contenuto è comunque tale da suscitare negli ascoltatori un presentimento funesto. Subito dopo, ecco giungere Polifemo; ora che egli appare direttamente, Odisseo non ne delinea l’aspetto, ma il cupo rimbombo dell’enorme fascio di legna che il Ciclope getta a terra e l’accurata descrizione dell’immenso macigno posto da lui a chiusura della caverna bastano a suggerire l’idea di una forza smisurata, che preannuncia un pericolo senza scampo, non attenuato neppure dalle tranquille attività pastorali alle quali il Ciclope si dedica come ogni sera, dopo il rientro dal pascolo.

Improvvisamente, la tenebra dell’antro è squarciata dalla fiamma accesa da Polifemo, che scorti gli intrusi dei quali ha fino a quel momento ignorato la presenza, si informa sulla loro identità (Od., IX 250-286).

 

αὐτὰρ ἐπεὶ δὴ σπεῦσε πονησάμενος τὰ ἃ ἔργα,

καὶ τότε πῦρ ἀνέκαιε καὶ εἴσιδεν, εἴρετο δ᾽ ἡμέας·

ὦ ξεῖνοι, τίνες ἐστέ; πόθεν πλεῖθ᾽ ὑγρὰ κέλευθα;

ἦ τι κατὰ πρῆξιν ἦ μαψιδίως ἀλάλησθε,

οἷά τε ληιστῆρες, ὑπεὶρ ἅλα, τοί τ᾽ ἀλόωνται

ψυχὰς παρθέμενοι κακὸν ἀλλοδαποῖσι φέροντες;

ὣς ἔφαθ᾽, ἡμῖν δ᾽ αὖτε κατεκλάσθη φίλον ἦτορ,

δεισάντων φθόγγον τε βαρὺν αὐτόν τε πέλωρον.

ἀλλὰ καὶ ὥς μιν ἔπεσσιν ἀμειβόμενος προσέειπον·

ἡμεῖς τοι Τροίηθεν ἀποπλαγχθέντες Ἀχαιοὶ

παντοίοις ἀνέμοισιν ὑπὲρ μέγα λαῖτμα θαλάσσης,

οἴκαδε ἱέμενοι, ἄλλην ὁδὸν ἄλλα κέλευθα

ἤλθομεν· οὕτω που Ζεὺς ἤθελε μητίσασθαι.

λαοὶ δ᾽ Ἀτρεΐδεω Ἀγαμέμνονος εὐχόμεθ᾽ εἶναι,

τοῦ δὴ νῦν γε μέγιστον ὑπουράνιον κλέος ἐστί·

τόσσην γὰρ διέπερσε πόλιν καὶ ἀπώλεσε λαοὺς

πολλούς. ἡμεῖς δ᾽ αὖτε κιχανόμενοι τὰ σὰ γοῦνα

ἱκόμεθ᾽, εἴ τι πόροις ξεινήιον ἠὲ καὶ ἄλλως

δοίης δωτίνην, ἥ τε ξείνων θέμις ἐστίν.

ἀλλ᾽ αἰδεῖο, φέριστε, θεούς· ἱκέται δέ τοί εἰμεν,

Ζεὺς δ᾽ ἐπιτιμήτωρ ἱκετάων τε ξείνων τε,

ξείνιος, ὃς ξείνοισιν ἅμ᾽ αἰδοίοισιν ὀπηδεῖ.

ὣς ἐφάμην, ὁ δέ μ᾽ αὐτίκ᾽ ἀμείβετο νηλέι θυμῶι·

νήπιός εἰς, ὦ ξεῖν᾽, ἢ τηλόθεν εἰλήλουθας,

ὅς με θεοὺς κέλεαι ἢ δειδίμεν ἢ ἀλέασθαι·

οὐ γὰρ Κύκλωπες Διὸς αἰγιόχου ἀλέγουσιν

οὐδὲ θεῶν μακάρων, ἐπεὶ ἦ πολὺ φέρτεροί εἰμεν·

οὐδ᾽ ἂν ἐγὼ Διὸς ἔχθος ἀλευάμενος πεφιδοίμην

οὔτε σεῦ οὔθ᾽ ἑτάρων, εἰ μὴ θυμός με κελεύοι.

ἀλλά μοι εἴφ᾽ ὅπηι ἔσχες ἰὼν ἐυεργέα νῆα,

ἤ που ἐπ᾽ ἐσχατιῆς, ἦ καὶ σχεδόν, ὄφρα δαείω.

ὣς φάτο πειράζων, ἐμὲ δ᾽ οὐ λάθεν εἰδότα πολλά,

ἀλλά μιν ἄψορρον προσέφην δολίοις ἐπέεσσι·

νέα μέν μοι κατέαξε Ποσειδάων ἐνοσίχθων

πρὸς πέτρηισι βαλὼν ὑμῆς ἐπὶ πείρασι γαίης,

ἄκρηι προσπελάσας· ἄνεμος δ᾽ ἐκ πόντου ἔνεικεν·

αὐτὰρ ἐγὼ σὺν τοῖσδε ὑπέκφυγον αἰπὺν ὄλεθρον.

 

Poi, dopo aver sbrigato velocemente il suo lavoro,

accese il fuoco, ci vide e ci chiese:

«Chi siete, stranieri? Da dove venite, per le vie del mare?

Forse per qualche commercio, oppure errate senza meta

sul mare, come i pirati, che vagabondano

rischiando la vita e causando sventure agli estranei?».

Così disse; e a noi si spezzò il cuore nel petto,

per paura di quella voce cavernosa e di quel mostro gigantesco.

Tuttavia, rivolgendomi a lui, gli risposi:

«Noi siamo Achei di ritorno da Troia, trascinati

da tutti i venti sul profondo abisso del mare; mentre

eravamo diretti in patria, altra via, altre rotte abbiamo

percorso; così Zeus volle stabilire nella sua mente.

Ci vantiamo di essere guerrieri dell’Atride Agamennone,

la cui fama ora è altissima, sotto il cielo;

tale città ha distrutto, e ha ucciso numerosi nemici.

Ora siamo giunti supplici alle tue ginocchia,

se mai tu ci offrissi un dono ospitale, o ci facessi

qualche altro regalo, com’è consuetudine per gli ospiti.

Rispetta, o signore, gli dèi; noi siamo tuoi supplici.

Zeus è vendicatore dei supplici e dei forestieri,

Zeus protettore degli ospiti, che accompagna gli stranieri degni di rispetto».

Così dissi; ed egli mi rispose subito, con cuore spietato:

«Sei uno sciocco, straniero, o sei giunto da molto lontano,

tu che mi esorti a temere gli dèi o a guardarmi da loro.

I Ciclopi non si curano di Zeus signore dell’egida,

né degli dèi beati, perché siamo molto più forti.

Certo, io non risparmierò te e gli altri compagni

per evitare la collera di Zeus, se il mio cuore non me lo impone.

Ma dimmi invece dove lasciasti la nave ben costruita, venendo qui,

se nella parte estrema dell’isola, o qui vicino, perché lo sappia».

Così disse, tendendomi un tranello, ma non poté ingannarmi,

perché so molte cose. E a mia volta, gli risposi con false parole:

«Poseidone scuotitore della terra mi sfasciò la nave,

scagliandola contro gli scogli, ai confini di questa terra,

vicino ad un promontorio. Il vento ve la spinse contro, dal mare;

io solo, insieme con questi, sono sfuggito all’abisso di morte».

Nel descrivere l’incontro con il Ciclope, Odisseo evidenzia come Polifemo sia il primo a violare le leggi dell’ospitalità, confermando così il suo carattere selvaggio, già prima definito «ignaro di giustizia e di leggi». La consuetudine esigeva, infatti, che non si chiedesse agli ospiti la loro identità prima di averli accolti e rifocillati; ma il Ciclope non solo ignora del tutto questa regola, ma chiedendo bruscamente agli sconosciuti se siano mercanti o pirati, dimostra di porre sullo stesso piano entrambe le categorie. Odisseo risponde a nome di tutti, mettendo in risalto soprattutto due particolari: egli e i compagni non sono mercanti, ma guerrieri famosi, reduci dalla distruzione di una potente città; se si trovano lì, non è dipeso dalla loro volontà, ma da quella di Zeus, che li ha deviati dalla rotta del ritorno. Nel pronunciare il nome della somma divinità, Odisseo la connota con gli epiteti di «vendicatore dei supplici» e di «protettore degli stranieri», nell’intento di richiamare Polifemo al rispetto degli dèi e dei doveri di ospitalità; ma il Ciclope non si lascia impressionare né dalla fama guerriera degli Achei e del loro condottiero, né dal timore di una punizione divina, anzi ostenta beffardamente la propria indifferenza verso Zeus e tutte le divinità, affermando che egli è solito obbedire solo al proprio «cuore» (thymós), cioè all’aspetto più impulsivo e irrazionale del carattere.
A questo punto, Polifemo tenta di giocare d’astuzia, cercando di sapere da Odisseo dove sia la sua nave, per distruggerla, ignorando evidentemente le qualità di chi ha di fronte; infatti, fin da questo momento il polýmētis, «l’uomo dai molti accorgimenti», comincia a dare prova delle sue doti, mettendo in atto la propria strategia difensiva. Risponde infatti con una previdente menzogna, alla quale Polifemo non dà alcuna risposta.

Afferrati due compagni dell’eroe, Polifemo li uccide e li divora, con un gesto di orrenda bestialità. Subito dopo, sprofonda nel sonno (Od., IX 287-306).

 

ὣς ἐφάμην, ὁ δέ μ᾽ οὐδὲν ἀμείβετο νηλέι θυμῶι,

ἀλλ᾽ ὅ γ᾽ ἀναΐξας ἑτάροις ἐπὶ χεῖρας ἴαλλε,

σὺν δὲ δύω μάρψας ὥς τε σκύλακας ποτὶ γαίηι

κόπτ᾽· ἐκ δ᾽ ἐγκέφαλος χαμάδις ῥέε, δεῦε δὲ γαῖαν.

τοὺς δὲ διὰ μελεϊστὶ ταμὼν ὡπλίσσατο δόρπον·

ἤσθιε δ᾽ ὥς τε λέων ὀρεσίτροφος, οὐδ᾽ ἀπέλειπεν,

ἔγκατ τε σάρκας τε καὶ ὀστέα μυελόεντα.

ἡμεῖς δὲ κλαίοντες ἀνεσχέθομεν Διὶ χεῖρας,

σχέτλια ἔργ᾽ ὁρόωντες, ἀμηχανίη δ᾽ ἔχε θυμόν.

αὐτὰρ ἐπεὶ Κύκλωψ μεγάλην ἐμπλήσατο νηδὺν

ἀνδρόμεα κρέ᾽ ἔδων καὶ ἐπ᾽ ἄκρητον γάλα πίνων,

κεῖτ᾽ ἔντοσθ᾽ ἄντροιο τανυσσάμενος διὰ μήλων.

τὸν μὲν ἐγὼ βούλευσα κατὰ μεγαλήτορα θυμὸν

ἆσσον ἰών, ξίφος ὀξὺ ἐρυσσάμενος παρὰ μηροῦ,

οὐτάμεναι πρὸς στῆθος, ὅθι φρένες ἧπαρ ἔχουσι,

χείρ᾽ ἐπιμασσάμενος· ἕτερος δέ με θυμὸς ἔρυκεν.

αὐτοῦ γάρ κε καὶ ἄμμες ἀπωλόμεθ᾽ αἰπὺν ὄλεθρον·

οὐ γάρ κεν δυνάμεσθα θυράων ὑψηλάων

χερσὶν ἀπώσασθαι λίθον ὄβριμον, ὃν προσέθηκεν.

ὣς τότε μὲν στενάχοντες ἐμείναμεν Ἠῶ δῖαν.

 

Così dissi; ma egli, con cuore spietato, non mi diede nessuna risposta;

con un balzo allungò le mani sui miei compagni,

e dopo averne afferrati due insieme, li sbatté a terra,

come cuccioli; e il cervello schizzava fuori e bagnava la terra.

Poi, dopo averli smembrati, si preparava la cena:

come un leone cresciuto sulle montagne li divorò e non lasciò niente,

viscere, carni e ossa piene di midollo.

Noi, piangendo, alzavamo le braccia a Zeus,

vedendo l’orrendo misfatto; l’impotenza dominò il nostro animo.

Quando poi il Ciclope ebbe riempito l’immenso ventre,

divorando carne umana e bevendo latte puro,

giacque disteso nell’antro, in mezzo alle sue pecore.

E io meditavo, nel mio magnanimo cuore,

avvicinatomi a lui, sguainata dal fianco la spada affilata,

di piantargliela nel petto, dove il diaframma copre il fegato,

tastando con le mani; ma un altro pensiero mi trattenne.

Infatti anche noi, là dentro, saremmo morti di orribile morte,

perché non saremmo stati capaci, con le nostre braccia,

di spostare dall’alta apertura l’enorme roccia che egli vi aveva appoggiato.

Allora, piangendo, attendemmo la splendente Aurora.

 

Annibale Caracci, Il ciclope Polifemo. Affresco, 1595-1600 ca.
Annibale Caracci, Il ciclope Polifemo. Affresco, 1595-1600 ca.

 

In questa parte dell’episodio, il poeta accentua al massimo la drammaticità degli eventi: il racconto si apre infatti con la descrizione dell’orribile gesto cannibalesco di Polifemo e si chiude con il pianto impotente di Odisseo e dei compagni, che rivela la dolorosa coscienza della propria inadeguatezza di fronte all’immensa forza del mostro. Ma una situazione apparente senza scampo costituisce il presupposto migliore per conferire il massimo risalto alla mētis dell’eroe, in breve vittoriosa sulla forza bruta.
Prima che il piano di vendetta possa essere attuato, trascorre ancora un giorno e altri due uomini sono vittime del mostro antropofago (Od., IX 307-344).

 

ἦμος δ᾽ ἠριγένεια φάνη ῥοδοδάκτυλος Ἠώς,

καὶ τότε πῦρ ἀνέκαιε καὶ ἤμελγε κλυτὰ μῆλα,

πάντα κατὰ μοῖραν, καὶ ὑπ᾽ ἔμβρυον ἧκεν ἑκάστηι.

αὐτὰρ ἐπεὶ δὴ σπεῦσε πονησάμενος τὰ ἃ ἔργα,

σὺν δ᾽ ὅ γε δὴ αὖτε δύω μάρψας ὡπλίσσατο δεῖπνον.

δειπνήσας δ᾽ ἄντρου ἐξήλασε πίονα μῆλα,

ῥηιδίως ἀφελὼν θυρεὸν μέγαν· αὐτὰρ ἔπειτα

ἂψ ἐπέθηχ᾽, ὡς εἴ τε φαρέτρηι πῶμ᾽ ἐπιθείη.

πολλῆι δὲ ῥοίζωι πρὸς ὄρος τρέπε πίονα μῆλα

Κύκλωψ· αὐτὰρ ἐγὼ λιπόμην κακὰ βυσσοδομεύων,

εἴ πως τισαίμην, δοίη δέ μοι εὖχος Ἀθήνη.

ἥδε δέ μοι κατὰ θυμὸν ἀρίστη φαίνετο βουλή.

Κύκλωπος γὰρ ἔκειτο μέγα ῥόπαλον παρὰ σηκῶι,

χλωρὸν ἐλαΐνεον· τὸ μὲν ἔκταμεν, ὄφρα φοροίη

αὐανθέν. τὸ μὲν ἄμμες ἐίσκομεν εἰσορόωντες

ὅσσον θ᾽ ἱστὸν νηὸς ἐεικοσόροιο μελαίνης,

φορτίδος εὐρείης, ἥ τ᾽ ἐκπεράαι μέγα λαῖτμα·

τόσσον ἔην μῆκος, τόσσον πάχος εἰσοράασθαι.

τοῦ μὲν ὅσον τ᾽ ὄργυιαν ἐγὼν ἀπέκοψα παραστὰς

καὶ παρέθηχ᾽ ἑτάροισιν, ἀποξῦναι δ᾽ ἐκέλευσα·

οἱ δ᾽ ὁμαλὸν ποίησαν· ἐγὼ δ᾽ ἐθόωσα παραστὰς

ἄκρον, ἄφαρ δὲ λαβὼν ἐπυράκτεον ἐν πυρὶ κηλέωι.

καὶ τὸ μὲν εὖ κατέθηκα κατακρύψας ὑπὸ κόπρωι,

ἥ ῥα κατὰ σπείους κέχυτο μεγάλ᾽ ἤλιθα πολλή·

αὐτὰρ τοὺς ἄλλους κλήρωι πεπαλάσθαι ἄνωγον,

ὅς τις τολμήσειεν ἐμοὶ σὺν μοχλὸν ἀείρας

τρῖψαι ἐν ὀφθαλμῶι, ὅτε τὸν γλυκὺς ὕπνος ἱκάνοι.

οἱ δ᾽ ἔλαχον τοὺς ἄν κε καὶ ἤθελον αὐτὸς ἑλέσθαι,

τέσσαρες, αὐτὰρ ἐγὼ πέμπτος μετὰ τοῖσιν ἐλέγμην.

ἑσπέριος δ᾽ ἦλθεν καλλίτριχα μῆλα νομεύων.

αὐτίκα δ᾽ εἰς εὐρὺ σπέος ἤλασε πίονα μῆλα

πάντα μάλ᾽, οὐδέ τι λεῖπε βαθείης ἔκτοθεν αὐλῆς,

ἤ τι ὀισάμενος, ἢ καὶ θεὸς ὣς ἐκέλευσεν.

αὐτὰρ ἔπειτ᾽ ἐπέθηκε θυρεὸν μέγαν ὑψόσ᾽ ἀείρας,

ἑζόμενος δ᾽ ἤμελγεν ὄις καὶ μηκάδας αἶγας,

πάντα κατὰ μοῖραν, καὶ ὑπ᾽ ἔμβρυον ἧκεν ἑκάστηι.

αὐτὰρ ἐπεὶ δὴ σπεῦσε πονησάμενος τὰ ἃ ἔργα,

σὺν δ᾽ ὅ γε δὴ αὖτε δύω μάρψας ὡπλίσσατο δόρπον.

 

Quando apparve mattiniera Aurora dalle rosee dita,

anche allora egli accese il fuoco e munse le belle pecore,

tutto con ordine, e poneva sotto ciascuna il lattante.

Ma, terminato rapidamente il suo lavoro,

dopo avere afferrati altri due uomini, si preparò il pasto.

Dopo aver mangiato, spinse fuori della caverna le grasse pecore,

smosso facilmente l’enorme macigno; ma subito lo rimise

a posto, come se rimettesse il coperchio alla faretra.

Poi il Ciclope, con un lungo fischio, avviò verso il monte

le greggi ben pasciute; io rimasi là, meditando vendetta,

se in qualche modo potessi punirlo, e Atena me ne desse la gloria.

Questo, infine, nell’animo, mi parve il piano più adatto.

Giaceva, infatti, presso il recinto del Ciclope, un grosso tronco

verde, di olivo; lo aveva tagliato per portarlo poi con sé,

una volta secco. Ci sembrava, a guardarlo, lungo

come l’albero di una nera nave da carico, da venti remi,

grande, che attraversa l’immenso abisso;

tanto era la lunghezza e tanta la grossezza, a vederlo.

Io, avvicinatomi, ne tagliai un pezzo di circa due braccia,

lo diedi ai compagni, e ordinai loro di sgrossarlo;

essi lo resero liscio. Io lo aguzzai in punta,

stando loro vicino, e, presolo, lo indurivo nel fuoco ardente.

Poi lo deposi a terra, ben nascosto sotto il letame

che era sparso, abbondante, nella spelonca.

Poi ordinai agli altri di tirare a sorte chi, insieme a me,

avrebbe osato sollevare il palo e conficcarglielo nell’occhio,

quando il dolce sonno si fosse impadronito di lui.

Ed essi estrassero a sorte proprio quei quattro che io stesso

avrei voluto scegliere; e mi posi come quinto, con loro.

Egli ritornò la sera, guidando le pecore dalla bella lana;

e subito spinse le grasse pecore nella grotta, proprio

tutte, senza lasciarne nessuna fuori, nell’ampio recinto,

o perché meditava qualche cosa, o perché così un dio lo ispirò.

Dopo che, alzatolo, mise come chiusura l’enorme macigno,

stando seduto mungeva le pecore e le capre belanti,

una dopo l’altra, in ordine; e a tutte mise sotto il lattante.

Dopo che ebbe sbrigato in fretta il lavoro,

afferrati ancora due uomini, si preparò la cena.

Giulio Romano, Polifemo. Affresco, 1526-28
Giulio Romano, Polifemo. Affresco, 1526-28. Mantova, Palazzo Te.

 

Il piano di vendetta di Odisseo e dei suoi viene organizzato in assenza di Polifemo; infatti, questa parte dell’episodio ha inizio con la sua partenza dalla grotta e si conclude con il suo ritorno; il Ciclope, infatti, non interrompe le sue consuete attività, né cambia le proprie abitudini, senza preoccuparsi affatto che gli uomini da costui così crudelmente offesi possano tentare di vendicarsi, dimostrando in tal modo la sua ottusità e l’eccessiva fiducia nella propria forza. Nel frattempo, Odisseo e i compagni preparano l’arma destinata a rendere innocuo Polifemo e a fare di lui l’ignaro strumento della loro liberazione.
Il momento in cui la mētis dell’eroe darà la più alta prova della sua potenza è imminente; dopo aver assistito alla morte di altri due compagni, Odisseo si avvicina al Ciclope e rimproverandolo con un tono fra il serio e il faceto, gli offre da bere l’inebriante vino di Marone (Od., IX 345-374).

 

καὶ τότ᾽ ἐγὼ Κύκλωπα προσηύδων ἄγχι παραστάς,

κισσύβιον μετὰ χερσὶν ἔχων μέλανος οἴνοιο·

Κύκλωψ, τῆ, πίε οἶνον, ἐπεὶ φάγες ἀνδρόμεα κρέα,

ὄφρ᾽ εἰδῆις οἷόν τι ποτὸν τόδε νηῦς ἐκεκεύθει

ἡμετέρη. σοὶ δ᾽ αὖ λοιβὴν φέρον, εἴ μ᾽ ἐλεήσας

οἴκαδε πέμψειας· σὺ δὲ μαίνεαι οὐκέτ᾽ ἀνεκτῶς.

σχέτλιε, πῶς κέν τίς σε καὶ ὕστερον ἄλλος ἵκοιτο

ἀνθρώπων πολέων, ἐπεὶ οὐ κατὰ μοῖραν ἔρεξας;

ὣς ἐφάμην, ὁ δ᾽ ἔδεκτο καὶ ἔκπιεν· ἥσατο δ᾽ αἰνῶς

ἡδὺ ποτὸν πίνων καὶ μ᾽ ἤιτεε δεύτερον αὖτις·

᾽δός μοι ἔτι πρόφρων, καί μοι τεὸν οὔνομα εἰπὲ

αὐτίκα νῦν, ἵνα τοι δῶ ξείνιον, ὧι κε σὺ χαίρηις·

καὶ γὰρ Κυκλώπεσσι φέρει ζείδωρος ἄρουρα

οἶνον ἐριστάφυλον, καί σφιν Διὸς ὄμβρος ἀέξει·

ἀλλὰ τόδ᾽ ἀμβροσίης καὶ νέκταρός ἐστιν ἀπορρώξ.

ὣς φάτ᾽, ἀτάρ οἱ αὖτις ἐγὼ πόρον αἴθοπα οἶνον.

τρὶς μὲν ἔδωκα φέρων, τρὶς δ᾽ ἔκπιεν ἀφραδίηισιν.

αὐτὰρ ἐπεὶ Κύκλωπα περὶ φρένας ἤλυθεν οἶνος,

καὶ τότε δή μιν ἔπεσσι προσηύδων μειλιχίοισι·

Κύκλωψ, εἰρωτᾶις μ᾽ ὄνομα κλυτόν, αὐτὰρ ἐγώ τοι

ἐξερέω· σὺ δέ μοι δὸς ξείνιον, ὥς περ ὑπέστης.

Οὖτις ἐμοί γ᾽ ὄνομα· Οὖτιν δέ με κικλήσκουσι

μήτηρ ἠδὲ πατὴρ ἠδ᾽ ἄλλοι πάντες ἑταῖροι.

ὣς ἐφάμην, ὁ δέ μ᾽ αὐτίκ᾽ ἀμείβετο νηλέι θυμῶι·

Οὖτιν ἐγὼ πύματον ἔδομαι μετὰ οἷς ἑτάροισιν,

τοὺς δ᾽ ἄλλους πρόσθεν· τὸ δέ τοι ξεινήιον ἔσται.

ἦ καὶ ἀνακλινθεὶς πέσεν ὕπτιος, αὐτὰρ ἔπειτα

κεῖτ᾽ ἀποδοχμώσας παχὺν αὐχένα, κὰδ δέ μιν ὕπνος

ἥιρει πανδαμάτωρ· φάρυγος δ᾽ ἐξέσσυτο οἶνος

ψωμοί τ᾽ ἀνδρόμεοι· ὁ δ᾽ ἐρεύγετο οἰνοβαρείων.

 

Allora io, standogli accanto, così apostrofai il Ciclope

tenendo fra le mani una coppa di vino nero:

«Prendi, Ciclope, bevi questo vino, ora che hai mangiato carne umana,

affinché tu sappia quale bevanda è questa, che la mia nave

conservava; la recavo a te come offerta, se tu avessi avuto pietà di me

e mi avessi rimandato a casa; invece, tu commetti intollerabili follie.

Crudele, anche in futuro, come potrebbe venire a trovarti qualcun altro

dei molti uomini? Infatti non hai agito secondo giustizia».

Così dissi; ed egli l’accettò e bevve; gli piacque terribilmente

bere la dolce bevanda, e ne chiedeva ancora una seconda coppa:

«Sii buono, dammene ancora, poi dimmi il tuo nome,

perché possa darti un dono ospitale, del quale tu sia lieto.

Infatti, la terra feconda produce anche ai Ciclopi

vino di ottimi grappoli, e la pioggia di Zeus li fa crescere;

ma questo è un fiume di ambrosia e di nettare».

Così diceva; e io gli porgevo di nuovo il vino rosseggiante;

per tre volte lo tracannò con folle ingordigia.

Ma quando il vino fu sceso nel cuore del Ciclope,

allora mi rivolsi a lui con dolci parole:

«Ciclope, mi chiedi il mio nome glorioso; io

te lo rivelerò, ma tu dammi il dono ospitale che mi hai promesso.

Nessuno è il mio nome; padre e madre

e tutti gli altri compagni mi chiamano Nessuno».

Così dissi: ed egli mi rispose con animo spietato:

«Per ultimo, dopo i suoi compagni, io mangerò Nessuno,

e tutti gli altri prima; questo sarà il mio dono ospitale».

Disse; e piegatosi all’indietro, cadde supino,

e giacque, piegando di lato il collo massiccio; e il sonno

che tutto doma lo vinse. Dalla gola gli uscivano vino

e pezzi di carne umana; e ruttava, del tutto ubriaco.

 

 

Ulisse, assistito da due compagni, porge a Polifemo la coppa del vino di Ismaro. Mosaico, metà IV sec. d.C. dal vestibolo dell’appartamento settentrionale 15. Piazza Armerina, Villa del Casale.jpg
Ulisse, assistito da due compagni, porge a Polifemo la coppa del vino di Ismaro. Mosaico, metà IV sec. d.C. dal vestibolo dell’appartamento settentrionale 15. Piazza Armerina, Villa del Casale.

 

In quest’occasione, Odisseo fornisce la più alta prova della sua ben nota capacità di nascondersi dietro un travestimento, perché nessun modo di camuffarsi può considerarsi così completo ed efficace come la rinuncia alla propria identità. Nessun personaggio dell’Iliade nasconderebbe mai, di fronte a un nemico, il nome e il patronimico, o notizie anche più ampie sulla propria genealogia; il nome forma un’identità inscindibile con la persona, la connota rendendola unica e nessun eroe rinuncerebbe a quell’unicità, che costituisce la sua massima ambizione. Odisseo, benché educato a questi stessi valori, egli offre paradossalmente la massima conferma di se stesso proprio nel momento in cui nega la propria identità, così da creare il presupposto per sottomettere alla potenza della mētis la forza animalesca di Polifemo, altrimenti indomabile. Mai come in questa circostanza, l’intelligenza pratica si rivela contemporaneamente in tutti i suoi aspetti: acuta nell’escogitare i mezzi, lungimirante nel prevederne le conseguenze, paziente nell’attendere il kairós, il «momento opportuno» per passare all’azione, anche se questa attesa è causa di ulteriore sofferenza. Per contrasto, il poeta dà crudamente risalto alla brutale istintualità di Polifemo, evidente nella goffaggine delle parole e nella bestialità del comportamento.

Quando finalmente il potere inebriante del vino ha compiuto la sua opera e Polifemo si abbatte, domato dall’ubriachezza e dal sonno, Odisseo e i compagni si accingono ad attuare la loro vendetta (Od., IX 375-414).

 

καὶ τότ᾽ ἐγὼ τὸν μοχλὸν ὑπὸ σποδοῦ ἤλασα πολλῆς,

ἧος θερμαίνοιτο· ἔπεσσι δὲ πάντας ἑταίρους

θάρσυνον, μή τίς μοι ὑποδείσας ἀναδύη.

ἀλλ᾽ ὅτε δὴ τάχ᾽ ὁ μοχλὸς ἐλάινος ἐν πυρὶ μέλλεν

ἅψεσθαι, χλωρός περ ἐών, διεφαίνετο δ᾽ αἰνῶς,

καὶ τότ᾽ ἐγὼν ἆσσον φέρον ἐκ πυρός, ἀμφὶ δ᾽ ἑταῖροι

ἵσταντ᾽· αὐτὰρ θάρσος ἐνέπνευσεν μέγα δαίμων.

οἱ μὲν μοχλὸν ἑλόντες ἐλάινον, ὀξὺν ἐπ᾽ ἄκρωι,

ὀφθαλμῶι ἐνέρεισαν· ἐγὼ δ᾽ ἐφύπερθεν ἐρεισθεὶς

δίνεον, ὡς ὅτε τις τρυπῶι δόρυ νήιον ἀνὴρ

τρυπάνωι, οἱ δέ τ᾽ ἔνερθεν ὑποσσείουσιν ἱμάντι

ἁψάμενοι ἑκάτερθε, τὸ δὲ τρέχει ἐμμενὲς αἰεί.

ὣς τοῦ ἐν ὀφθαλμῶι πυριήκεα μοχλὸν ἑλόντες

δινέομεν, τὸν δ᾽ αἷμα περίρρεε θερμὸν ἐόντα.

πάντα δέ οἱ βλέφαρ᾽ ἀμφὶ καὶ ὀφρύας εὗσεν ἀυτμὴ

γλήνης καιομένης, σφαραγεῦντο δέ οἱ πυρὶ ῥίζαι.

ὡς δ᾽ ὅτ᾽ ἀνὴρ χαλκεὺς πέλεκυν μέγαν ἠὲ σκέπαρνον

εἰν ὕδατι ψυχρῶι βάπτηι μεγάλα ἰάχοντα

φαρμάσσων· τὸ γὰρ αὖτε σιδήρου γε κράτος ἐστίν

ὣς τοῦ σίζ᾽ ὀφθαλμὸς ἐλαϊνέωι περὶ μοχλῶι.

σμερδαλέον δὲ μέγ᾽ ὤιμωξεν, περὶ δ᾽ ἴαχε πέτρη,

ἡμεῖς δὲ δείσαντες ἀπεσσύμεθ᾽· αὐτὰρ ὁ μοχλὸν

ἐξέρυσ᾽ ὀφθαλμοῖο πεφυρμένον αἵματι πολλῶι.

τὸν μὲν ἔπειτ᾽ ἔρριψεν ἀπὸ ἕο χερσὶν ἀλύων,

αὐτὰρ ὁ Κύκλωπας μεγάλ᾽ ἤπυεν, οἵ ῥά μιν ἀμφὶς

ὤικεον ἐν σπήεσσι δι᾽ ἄκριας ἠνεμοέσσας.

οἱ δὲ βοῆς ἀίοντες ἐφοίτων ἄλλοθεν ἄλλος,

ἱστάμενοι δ᾽ εἴροντο περὶ σπέος ὅττι ἑ κήδοι·

τίπτε τόσον, Πολύφημ᾽, ἀρημένος ὧδ᾽ ἐβόησας

νύκτα δι᾽ ἀμβροσίην καὶ ἀύπνους ἄμμε τίθησθα;

ἦ μή τίς σευ μῆλα βροτῶν ἀέκοντος ἐλαύνει;

ἦ μή τίς σ᾽ αὐτὸν κτείνει δόλωι ἠὲ βίηφιν;

τοὺς δ᾽ αὖτ᾽ ἐξ ἄντρου προσέφη κρατερὸς Πολύφημος·

ὦ φίλοι, Οὖτίς με κτείνει δόλωι οὐδὲ βίηφιν.

οἱ δ᾽ ἀπαμειβόμενοι ἔπεα πτερόεντ᾽ ἀγόρευον·

εἰ μὲν δὴ μή τίς σε βιάζεται οἶον ἐόντα,

νοῦσον γ᾽ οὔ πως ἔστι Διὸς μεγάλου ἀλέασθαι,

ἀλλὰ σύ γ᾽ εὔχεο πατρὶ Ποσειδάωνι ἄνακτι.

ὣς ἄρ᾽ ἔφαν ἀπιόντες, ἐμὸν δ᾽ ἐγέλασσε φίλον κῆρ,

ὡς ὄνομ᾽ ἐξαπάτησεν ἐμὸν καὶ μῆτις ἀμύμων.

 

Allora io spinsi il palo sotto la molta brace,

finché si arroventasse; e con le parole, incoraggiavo

tutti i compagni, affinché qualcuno, spaventato, non si ritirasse.

Ma quando il palo di olivo nel fuoco, pur essendo verde,

stava per incendiarsi e risplendeva terribilmente,

allora io lo tolsi rapidamente dal fuoco; i compagni mi stavano

intorno e la divinità ci ispirò un grande coraggio.

Essi, sollevato il palo d’olivo appuntito in cima,

lo conficcarono nell’occhio; e io, facendo forza da sopra,

lo facevo girare, come quando un uomo fora la tavola di una nave

con il trapano, e altri, da sotto, lo fanno girare con una cinghia,

tenendola di qua e di là; e quello corre ininterrottamente.

Così noi, piantato nell’occhio il palo rovente,

lo facemmo girare e il sangue scorreva intorno ad esso, che ardeva.

La vampa riarse tutta la palpebra e le sopracciglia,

bruciata la pupilla; le radici dell’occhio sfrigolavano al fuoco.

Come quando un fabbro, per temprare una grande scure

o un’ascia, la immerge nell’acqua fredda con forte stridio,

infatti questa è la forza del ferro,

così strideva l’occhio intorno al palo di olivo.

Il Ciclope emise un terribile grido, e tutta la grotta ne riecheggiò;

noi balzammo indietro terrorizzati. Egli, allora, si strappò

dall’occhio il palo grondante di sangue

e lo scagliò lontano da sé con le mani, smaniando;

poi chiamava a gran voce i Ciclopi che vivevano

là intorno, nelle spelonche, sulle cime battute dai venti.

Essi, udendo le grida, accorrevano, chi da una parte e chi da un’altra,

e stando intorno alla grotta, chiedevano che cosa lo preoccupasse:

«Perché mai, Polifemo, gridasti con tanta sofferenza,

nella notte divina, e ci hai destato dal sonno?

Forse qualcuno dei mortali ti ruba le pecore tuo malgrado?

O qualcuno tenta di ucciderti con l’inganno o con la forza?».

E dall’interno dell’antro rispose il forte Polifemo:

«Amici, Nessuno mi uccide con l’inganno, e non con la forza».

Essi allora, in risposta, gli rivolsero parole alate:

«Se nessuno ti fa del male e sei solo,

non è possibile evitare la sventura che viene dal grande Zeus;

invoca piuttosto tuo padre, il signore Poseidone».

Così dicevano, andandosene via, e il mio cuore rideva,

perché il mio nome e l’astuzia perfetta lo avevano ingannato.

 

Pittore di Polifemo, La cosiddetta Anfora di Eleusi. Dettaglio: l l’accecamento di Polifemo. Pittura vascolare a figure nere, 660 a.C. ca. Eleusi, Museo Archeologico.
Pittore di Polifemo, La cosiddetta Anfora di Eleusi. Dettaglio sul collo: l’accecamento di Polifemo. Pittura vascolare a figure nere, 660 a.C. ca. Eleusi, Museo Archeologico.

 

Dopo la lunga fase preparatoria, la perfetta realizzazione dell’impresa conferma la validità del progetto. Il poeta conferisce alla descrizione caratteri di forte realismo, evidenziato dalle due similitudini, la prima di carattere visivo, la seconda di carattere uditivo, desunte entrambe dal campo delle attività artigianali. Il movimento rotatorio del palo è infatti paragonato a quello del trapano, usato con abilità da alcuni carpentieri navali, mentre il macabro stridio del sangue e degli umori dell’occhio a contatto con il palo incandescente ha il suo termine di confronto nel sibilo emesso dalla lama rovente di un’ascia, che il fabbro immerge di colpo nell’acqua fredda, per temprarla.

Pittore anonimo. Odisseo e compagni accecano Polifemo. Coppa laconica a figure nere, 565-560 a.C. ca. Paris, Cabinet des Medailles.
Pittore anonimo. Odisseo e compagni accecano Polifemo. Coppa laconica a figure nere, 565-560 a.C. ca. Paris, Cabinet des Medailles.

 

La prima parte del piano di Odisseo si è realizzata; Polifemo possiede ancora la forza necessaria per smuovere il macigno che chiude la spelonca, ma non può più vedere Odisseo e i compagni per ucciderli; in questo modo, egli diviene l’artefice involontario della loro liberazione, perché la sua mente è troppo ottusa per prevedere che, con un nuovo accorgimento, essi fuggiranno nascosti sotto il ventre delle sue pecore. Anche lo stratagemma dell’identità negata rivela in questa occasione tutta la sua genialità, perché i Ciclopi, accorsi alle grida di Polifemo, non appena sentono che «nessuno» è il responsabile delle sue sofferenze, si allontanano, considerando assurda la sua richiesta di aiuto.

Agesandro, Atanodoro e Polidoro. Odisseo che acceca Polifemo. Gruppo scultoreo, marmo, copia di I sec. d.C. da originale ellenistico, dalla Villa di Tiberio (Sperlonga). Sperlonda, Museo Archeologico Nazionale.
Agesandro, Atanodoro e Polidoro. Odisseo che acceca Polifemo. Gruppo scultoreo, marmo, copia di I sec. d.C. da originale ellenistico, dalla Villa di Tiberio (Sperlonga). Sperlonda, Museo Archeologico Nazionale.

 

Constatata la piena riuscita del suo inganno, Odisseo ride silenziosamente nel cuore, rimandando a un momento più opportuno l’aperta manifestazione del vanto per il successo se un nemico tanto più forte di lui (Od., IX 415-436).

 

Κύκλωψ δὲ στενάχων τε καὶ ὠδίνων ὀδύνηισι

χερσὶ ψηλαφόων ἀπὸ μὲν λίθον εἷλε θυράων,

αὐτὸς δ᾽ εἰνὶ θύρηισι καθέζετο χεῖρε πετάσσας,

εἴ τινά που μετ᾽ ὄεσσι λάβοι στείχοντα θύραζε·

οὕτω γάρ πού μ᾽ ἤλπετ᾽ ἐνὶ φρεσὶ νήπιον εἶναι.

αὐτὰρ ἐγὼ βούλευον, ὅπως ὄχ᾽ ἄριστα γένοιτο,

εἴ τιν᾽ ἑταίροισιν θανάτου λύσιν ἠδ᾽ ἐμοὶ αὐτῶι

εὑροίμην· πάντας δὲ δόλους καὶ μῆτιν ὕφαινον

ὥς τε περὶ ψυχῆς· μέγα γὰρ κακὸν ἐγγύθεν ἦεν.

ἥδε δέ μοι κατὰ θυμὸν ἀρίστη φαίνετο βουλή.

ἄρσενες ὄιες ἦσαν ἐυτρεφέες, δασύμαλλοι,

καλοί τε μεγάλοι τε, ἰοδνεφὲς εἶρος ἔχοντες·

τοὺς ἀκέων συνέεργον ἐυστρεφέεσσι λύγοισιν,

τῆις ἔπι Κύκλωψ εὗδε πέλωρ, ἀθεμίστια εἰδώς,

σύντρεις αἰνύμενος· ὁ μὲν ἐν μέσωι ἄνδρα φέρεσκε,

τὼ δ᾽ ἑτέρω ἑκάτερθεν ἴτην σώοντες ἑταίρους.

τρεῖς δὲ ἕκαστον φῶτ᾽ ὄιες φέρον· αὐτὰρ ἐγώ γε –

ἀρνειὸς γὰρ ἔην μήλων ὄχ᾽ ἄριστος ἁπάντων,

τοῦ κατὰ νῶτα λαβών, λασίην ὑπὸ γαστέρ᾽ ἐλυσθεὶς

κείμην· αὐτὰρ χερσὶν ἀώτου θεσπεσίοιο

νωλεμέως στρεφθεὶς ἐχόμην τετληότι θυμῶι.

ὣς τότε μὲν στενάχοντες ἐμείναμεν Ἠῶ δῖαν.

 

Il Ciclope, gemendo, dilaniato dal dolore,

brancolando, tolse il macigno dall’apertura e sulla soglia

sedette egli stesso, stendendo le braccia,

se mai potesse afferrare qualcuno che usciva dalla caverna con le pecore;

sperava che io fossi così stolto, nella mia mente.

Intanto, io pensavo a come agire nel miglior modo possibile,

se potessi trovare scampo dalla morte per me

e per i miei compagni; e tessevo ogni sorta di inganni e di astuzie,

perché era in gioco la vita; infatti una grave sciagura incombeva su noi.

Poi, questo mi parve, nell’animo, il piano migliore;

c’erano degli arieti ben pasciuti, dalla lana foltissima,

belli e grossi, coperti da un vello color viola;

in silenzio li legai insieme, tre alla volta, con giunchi ben intrecciati,

sui quali dormiva il mostruoso Ciclope, ignaro di giustizia;

e quello in mezzo portava un uomo, e gli altri due, camminavano,

da una parte e dall’altra, nascondendo i compagni.

Tre arieti portavano ciascun uomo; io invece,

– c’era un ariete, di gran lunga il più bello di tutto il gregge –

afferratolo sul dorso e spintomi sotto il suo ventre lanoso,

stetti là nascosto, e torcendo strettamente con le mani la sua magnifica lana,

mi tenevo aggrappato con cuore paziente.

Così allora, gemendo, attendevamo la divina Aurora.

 

Ulisse che sfugge a Polifemo nascosto sotto il ventre dell'ariete. Gruppo scultoreo, marmo, I-II sec. d.C. ca. Roma, Galleria Doria Pamphilj.
Ulisse che sfugge a Polifemo nascosto sotto il ventre dell’ariete. Gruppo scultoreo, marmo, I-II sec. d.C. ca. Roma, Galleria Doria Pamphilj.

 

La realizzazione dell’ultima fase del piano è favorita da un particolare precedente sottolineato (cfr. vv. 338-339): il Ciclope, rientrato con il gregge, lo ha spinto tutto dentro la caverna, diversamente dalle altre sere, in cui aveva lasciato i maschi nel recinto esterno. Di questo comportamento, diverso da quello consueto del Ciclope, non esiste una spiegazione; dobbiamo perciò scorgere in esso il manifestarsi di un’opportunità imprevista, un elemento imponderabile ma utilissimo, di cui Odisseo approfitta prontamente, scorgendo in essa il possibile aiuto di un dio.

Al sorgere dell’aurora, Odisseo e i suoi sono pronti ad attuare il progetto di fuga (Od., IX 437-472).

 

ἦμος δ᾽ ἠριγένεια φάνη ῥοδοδάκτυλος Ἠώς,

καὶ τότ᾽ ἔπειτα νομόνδ᾽ ἐξέσσυτο ἄρσενα μῆλα,

θήλειαι δὲ μέμηκον ἀνήμελκτοι περὶ σηκούς·

οὔθατα γὰρ σφαραγεῦντο. ἄναξ δ᾽ ὀδύνηισι κακῆισι

τειρόμενος πάντων ὀίων ἐπεμαίετο νῶτα

ὀρθῶν ἑσταότων· τὸ δὲ νήπιος οὐκ ἐνόησεν,

ὥς οἱ ὑπ᾽ εἰροπόκων ὀίων στέρνοισι δέδεντο.

ὕστατος ἀρνειὸς μήλων ἔστειχε θύραζε

λάχνωι στεινόμενος καὶ ἐμοὶ πυκινὰ φρονέοντι.

τὸν δ᾽ ἐπιμασσάμενος προσέφη κρατερὸς Πολύφημος·

κριὲ πέπον, τί μοι ὧδε διὰ σπέος ἔσσυο μήλων

ὕστατος; οὔ τι πάρος γε λελειμμένος ἔρχεαι οἰῶν,

ἀλλὰ πολὺ πρῶτος νέμεαι τέρεν᾽ ἄνθεα ποίης

μακρὰ βιβάς, πρῶτος δὲ ῥοὰς ποταμῶν ἀφικάνεις,

πρῶτος δὲ σταθμόνδε λιλαίεαι ἀπονέεσθαι

ἑσπέριος· νῦν αὖτε πανύστατος. ἦ σύ γ᾽ ἄνακτος

ὀφθαλμὸν ποθέεις, τὸν ἀνὴρ κακὸς ἐξαλάωσε

σὺν λυγροῖς ἑτάροισι δαμασσάμενος φρένας οἴνωι,

Οὖτις, ὃν οὔ πώ φημι πεφυγμένον εἶναι ὄλεθρον.

εἰ δὴ ὁμοφρονέοις ποτιφωνήεις τε γένοιο

εἰπεῖν ὅππηι κεῖνος ἐμὸν μένος ἠλασκάζει·

τῶι κέ οἱ ἐγκέφαλός γε διὰ σπέος ἄλλυδις ἄλληι

θεινομένου ῥαίοιτο πρὸς οὔδεϊ, κὰδ δέ κ᾽ ἐμὸν κῆρ

λωφήσειε κακῶν, τά μοι οὐτιδανὸς πόρεν Οὖτις.

ὣς εἰπὼν τὸν κριὸν ἀπὸ ἕο πέμπε θύραζε.

ἐλθόντες δ᾽ ἠβαιὸν ἀπὸ σπείους τε καὶ αὐλῆς

πρῶτος ὑπ᾽ ἀρνειοῦ λυόμην, ὑπέλυσα δ᾽ ἑταίρους.

καρπαλίμως δὲ τὰ μῆλα ταναύποδα, πίονα δημῶι,

πολλὰ περιτροπέοντες ἐλαύνομεν, ὄφρ᾽ ἐπὶ νῆα

ἱκόμεθ᾽. ἀσπάσιοι δὲ φίλοις ἑτάροισι φάνημεν,

οἳ φύγομεν θάνατον, τοὺς δὲ στενάχοντο γοῶντες.

ἀλλ᾽ ἐγὼ οὐκ εἴων, ἀνὰ δ᾽ ὀφρύσι νεῦον ἑκάστωι,

κλαίειν, ἀλλ᾽ ἐκέλευσα θοῶς καλλίτριχα μῆλα

πόλλ᾽ ἐν νηὶ βαλόντας ἐπιπλεῖν ἁλμυρὸν ὕδωρ.

οἱ δ᾽ αἶψ᾽ εἴσβαινον καὶ ἐπὶ κληῖσι καθῖζον,

ἑξῆς δ᾽ ἑζόμενοι πολιὴν ἅλα τύπτον ἐρετμοῖς.

 

Quando apparve mattiniera Aurora dalle rosee dita,

allora egli spinse gli arieti al pascolo,

mentre le femmine belavano presso i recinti, non munte

e le mammelle erano gonfie da scoppiare.

Il padrone, dilaniato da atroci dolori, tastava il dorso

di tutte le pecore che stavano in piedi; e non capì,

lo sciocco, che essi erano legati al ventre delle pecore lanose.

Per ultimo uscì dalla porta il maschio del gregge,

appesantito dal suo vello e da me, uomo dalla mente sottile.

E il fortissimo Polifemo, palpandolo, gli diceva:

«Mio caro ariete, perché mai mi esci così dalla grotta,

ultimo del gregge? Un tempo non restavi mai indietro alle pecore,

ma prima di tutti pascevi il tenero fiore dell’erba,

con grandi balzi, e per primo arrivavi alle correnti dei fiumi,

per primo, alla sera, eri impaziente di tornare all’ovile:

ora, invece, sei proprio l’ultimo. Forse rimpiangi

l’occhio del tuo padrone, che un vile accecò, insieme ai suoi

maledetti compagni, dopo avermi ottenebrato la mente con il vino,

Nessuno, che credo non sia ancora sfuggito alla morte.

Oh, se tu potessi capire e se ti fosse concesso il dono

della parola, per dirmi dove costui si nasconde

dalla mia rabbia! Allora lo sbatterei a terra, e il suo cervello

schizzerebbe qua e là per la caverna; e il mio cuore avrebbe

sollievo dalle sofferenze che questo Nessuno da nulla mi ha inflitto».

E dopo aver detto così, spingeva l’ariete fuori dell’apertura.

Arrivati un po’ lontano alla caverna e dal recinto,

io per primo mi sciolsi dall’ariete e sciolsi anche i compagni.

Velocemente, correndo intorno, spingevamo

le numerose pecore dalle agili zampe, pingui di grasso, finché

giungemmo alla nave. Noi, che eravamo scampati alla morte,

fummo rivisti con gioia dai cari compagni, ma piangevamo gli altri, gemendo.

Io, però, non permettevo loro di piangere, facendo cenno

con gli occhi; ma ordinai di prendere il largo sul mare salmastro,

gettate rapidamente nella nave le numerose pecore

dalla bella lana. Essi si imbarcarono subito e si disposero sui banchi;

seduti in fila, battevano con i remi il mare bianco di schiuma.

 

A questo punto, l’avventura dell’eroe può dirsi felicemente conclusa, con la dimostrazione della superiorità dell’intelletto sulla forza bruta; ma il poeta ha voluto aggiungere ancora un altro tocco alla figura di Polifemo, quasi a ribadire in modo ancor più evidente ciò che ha voluto suggerire fin qui. Quando l’ariete che porta Odisseo appeso al suo vello lascia per ultimo la caverna, il Ciclope si meraviglia dell’inconsueta lentezza del suo animale prediletto, sempre pronto, di solito, ad uscire per primo. Gli parla allora con dolcezza, immaginando che il ritardo sia dovuto alla tristezza e che esso partecipi al dolore del suo signore per l’orrenda mutilazione di cui è stato vittima; ma subito dopo, con un brusco cambiamento di tono, egli sfoga la sua rabbia impotente contro il responsabile usando espressioni di selvaggia ferocia e di crudo realismo («lo sbatterei a terra e il suo cervello schizzerebbe qua e là per la caverna»). In questo modo, il poeta ci fa comprendere che il Ciclope, la creatura inumana che vegeta nel suo assoluto isolamento, non è incapace di sentimenti, ma sceglie, per esprimerli, il colloquio con un animale, che sente molto più vicino a sé degli uomini, verso i quali nutre odio e desiderio di vendetta, come dimostra il repentino cambiamento di linguaggio che passa da una momentanea tenerezza verso l’ariete alla sanguinaria bramosia di vendetta verso Odisseo e i suoi.

Jacob Jordaens, Odisseo nella caverna di Polifemo. Olio su tela, 1635. Mosca, Pushkin Museum.
Jacob Jordaens, Odisseo nella caverna di Polifemo. Olio su tela, 1635. Mosca, Pushkin Museum.

 

Intanto la nave, sotto la spinta vigorosa dei remi, si allontana dalla costa. Quando Odisseo ritiene che la distanza sia tale da permettergli di sentirsi al sicuro, dà finalmente libero sfogo al suo orgoglio di vincitore, rivelando al Ciclope la propria identità e riconfermando così le regole tradizionali del codice eroico (Od., IX 473-536).

 

ἀλλ᾽ ὅτε τόσσον ἀπῆν, ὅσσον τε γέγωνε βοήσας,

καὶ τότ᾽ ἐγὼ Κύκλωπα προσηύδων κερτομίοισι·

Κύκλωψ, οὐκ ἄρ᾽ ἔμελλες ἀνάλκιδος ἀνδρὸς ἑταίρους

ἔδμεναι ἐν σπῆι γλαφυρῶι κρατερῆφι βίηφι.

καὶ λίην σέ γ᾽ ἔμελλε κιχήσεσθαι κακὰ ἔργα,

σχέτλι᾽, ἐπεὶ ξείνους οὐχ ἅζεο σῶι ἐνὶ οἴκωι

ἐσθέμεναι· τῶι σε Ζεὺς τίσατο καὶ θεοὶ ἄλλοι.

ὣς ἐφάμην, ὁ δ᾽ ἔπειτα χολώσατο κηρόθι μᾶλλον,

ἧκε δ᾽ ἀπορρήξας κορυφὴν ὄρεος μεγάλοιο,

κὰδ δ᾽ ἔβαλε προπάροιθε νεὸς κυανοπρώιροιο.

ἐκλύσθη δὲ θάλασσα κατερχομένης ὑπὸ πέτρης·

τὴν δ᾽ αἶψ᾽ ἤπειρόνδε παλιρρόθιον φέρε κῦμα,

πλημυρὶς ἐκ πόντοιο, θέμωσε δὲ χέρσον ἱκέσθαι.

αὐτὰρ ἐγὼ χείρεσσι λαβὼν περιμήκεα κοντὸν

ὦσα παρέξ, ἑτάροισι δ᾽ ἐποτρύνας ἐκέλευσα

ἐμβαλέειν κώπηις, ἵν᾽ ὑπὲκ κακότητα φύγοιμεν,

κρατὶ κατανεύων· οἱ δὲ προπεσόντες ἔρεσσον.

ἀλλ᾽ ὅτε δὴ δὶς τόσσον ἅλα πρήσσοντες ἀπῆμεν,

καὶ τότε δὴ Κύκλωπα προσηύδων· ἀμφὶ δ᾽ ἑταῖροι

μειλιχίοις ἐπέεσσιν ἐρήτυον ἄλλοθεν ἄλλος·

σχέτλιε, τίπτ᾽ ἐθέλεις ἐρεθιζέμεν ἄγριον ἄνδρα;

ὃς καὶ νῦν πόντονδε βαλὼν βέλος ἤγαγε νῆα

αὖτις ἐς ἤπειρον, καὶ δὴ φάμεν αὐτόθ᾽ ὀλέσθαι.

εἰ δὲ φθεγξαμένου τευ ἢ αὐδήσαντος ἄκουσε,

σύν κεν ἄραξ᾽ ἡμέων κεφαλὰς καὶ νήια δοῦρα

μαρμάρωι ὀκριόεντι βαλών· τόσσον γὰρ ἵησιν.

ὣς φάσαν, ἀλλ᾽ οὐ πεῖθον ἐμὸν μεγαλήτορα θυμόν,

ἀλλά μιν ἄψορρον προσέφην κεκοτηότι θυμῶι·

Κύκλωψ, αἴ κέν τίς σε καταθνητῶν ἀνθρώπων

ὀφθαλμοῦ εἴρηται ἀεικελίην ἀλαωτύν,

φάσθαι Ὀδυσσῆα πτολιπόρθιον ἐξαλαῶσαι,

υἱὸν Λαέρτεω, Ἰθάκηι ἔνι οἰκί᾽ ἔχοντα.

ὣς ἐφάμην, ὁ δέ μ᾽ οἰμώξας ἠμείβετο μύθωι·

ὢ πόποι, ἦ μάλα δή με παλαίφατα θέσφαθ᾽ ἱκάνει.

ἔσκε τις ἐνθάδε μάντις ἀνὴρ ἠύς τε μέγας τε,

Τήλεμος Εὐρυμίδης, ὃς μαντοσύνηι ἐκέκαστο

καὶ μαντευόμενος κατεγήρα Κυκλώπεσσιν·

ὅς μοι ἔφη τάδε πάντα τελευτήσεσθαι ὀπίσσω,

χειρῶν ἐξ Ὀδυσῆος ἁμαρτήσεσθαι ὀπωπῆς.

ἀλλ᾽ αἰεί τινα φῶτα μέγαν καὶ καλὸν ἐδέγμην

ἐνθάδ᾽ ἐλεύσεσθαι, μεγάλην ἐπιειμένον ἀλκήν·

νῦν δέ μ᾽ ἐὼν ὀλίγος τε καὶ οὐτιδανὸς καὶ ἄκικυς

ὀφθαλμοῦ ἀλάωσεν, ἐπεί μ᾽ ἐδαμάσσατο οἴνωι.

ἀλλ᾽ ἄγε δεῦρ᾽, Ὀδυσεῦ, ἵνα τοι πὰρ ξείνια θείω

πομπήν τ᾽ ὀτρύνω δόμεναι κλυτὸν ἐννοσίγαιον·

τοῦ γὰρ ἐγὼ πάϊς εἰμί, πατὴρ δ᾽ ἐμὸς εὔχεται εἶναι.

αὐτὸς δ᾽, αἴ κ᾽ ἐθέληισ᾽, ἰήσεται, οὐδέ τις ἄλλος

οὔτε θεῶν μακάρων οὔτε θνητῶν ἀνθρώπων.

ὣς ἔφατ᾽, αὐτὰρ ἐγώ μιν ἀμειβόμενος προσέειπον·

αἲ γὰρ δὴ ψυχῆς τε καὶ αἰῶνός σε δυναίμην

εὖνιν ποιήσας πέμψαι δόμον Ἄϊδος εἴσω,

ὡς οὐκ ὀφθαλμόν γ᾽ ἰήσεται οὐδ᾽ ἐνοσίχθων.

ὣς ἐφάμην, ὁ δ᾽ ἔπειτα Ποσειδάωνι ἄνακτι

εὔχετο χεῖρ᾽ ὀρέγων εἰς οὐρανὸν ἀστερόεντα·

κλῦθι, Ποσείδαον γαιήοχε κυανοχαῖτα,

εἰ ἐτεόν γε σός εἰμι, πατὴρ δ᾽ ἐμὸς εὔχεαι εἶναι,

δὸς μὴ Ὀδυσσῆα πτολιπόρθιον οἴκαδ᾽ ἱκέσθαι

υἱὸν Λαέρτεω, Ἰθάκηι ἔνι οἰκί᾽ ἔχοντα.

ἀλλ᾽ εἴ οἱ μοῖρ᾽ ἐστὶ φίλους τ᾽ ἰδέειν καὶ ἱκέσθαι

οἶκον ἐυκτίμενον καὶ ἑὴν ἐς πατρίδα γαῖαν,

ὀψὲ κακῶς ἔλθοι, ὀλέσας ἄπο πάντας ἑταίρους,

νηὸς ἐπ᾽ ἀλλοτρίης, εὕροι δ᾽ ἐν πήματα οἴκωι.

ὣς ἔφατ᾽ εὐχόμενος, τοῦ δ᾽ ἔκλυε κυανοχαίτης.

 

Ma quando la distanza fu tanta, quanta si raggiunge con un grido,

allora io apostrofai il Ciclope con parole di scherno:

«Ciclope, tu non divorasti con brutale violenza

nella tua profonda spelonca i compagni di un vile;

certamente il tuo delitto doveva ricadere su di te,

mostro, che non ti astenesti dal divorare gli ospiti

in casa tua; perciò Zeus ti punì, e con lui gli altri numi».

Così dissi; ed egli si infuriò nel cuore ancora di più;

e dopo aver divelto la cima di un alto monte,

la scagliò davanti alla nave dall’azzurra prora

e la fece cadere vicinissima, e poco mancò che raggiungesse

l’estremità del timone. Il mare, al precipitare del macigno, si gonfiò,

e l’onda, rifluendo, portava la nave di nuovo verso terra;

e il sollevarsi del mare fece sì che giungesse vicino alla riva.

Allora io, afferrata con le mani una lunga pertica,

la spinsi di fianco; e comandai ai compagni, incitandoli,

che facessero forza con i remi, per scampare al disastro,

accennando loro con il capo; ed essi remavano, piegandosi in avanti.

Ma quando, avanzando, eravamo a una distanza doppia,

anche allora io apostrofai il Ciclope, mentre intorno i compagni

tentavano di trattenermi, chi da una parte e chi da un’altra, con parole persuasive:

«Perché, sciagurato, vuoi irritare quel selvaggio?

Il quale, proprio ora, scagliato in mare un macigno, spinse

di nuovo la nave verso la terraferma e già credemmo di morire là.

Se sentiva qualcuno parlare o gridare, avrebbe fracassato

le nostre teste e le tavole della nave, colpendoci

con una roccia appuntita; così lontano riesce a tirare».

Così dicevano, ma non convincevano il mio magnanimo cuore;

anzi, di nuovo mi rivolsi a lui con l’animo pieno di rabbia:

«Ciclope, se qualcuno fra gli uomini mortali

ti chiede la causa dell’orribile accecamento del tuo occhio,

digli che ti ha accecato Odisseo, distruttore di città,

figlio di Laerte, che ha dimora in Itaca».

Così dissi; ed egli mi rispose gemendo:

«Ahimè, certamente mi raggiunge un’antica profezia.

Visse qui un indovino nobile e grande, Telemo,

figlio di Eurimo, che eccelleva nell’arte profetica,

e che invecchiò fra i Ciclopi, esercitando la mantica;

egli disse che tutto questo mi sarebbe avvenuto in futuro,

e che sarei stato privato dalla vista, per mano di Odisseo.

Ma io aspettavo che arrivasse qui un eroe

grande e bello, dotato di una forza straordinaria;

ora, invece, un piccoletto da nulla, mingherlino,

mi accecò l’occhio, dopo che mi ebbe vinto con il vino.

Ma suvvia, Odisseo, che io ti offra doni ospitali

e chieda all’inclito Scuotitore della terra di darti un buon vianggio;

infatti, io sono suo figlio, ed egli si vanta di essere mio padre.

Lui soltanto, se vuole, mi guarirà, e nessun altro,

né degli dèi beati, né degli uomini mortali».

Così parlò; e io gli dissi in risposta:

«Oh, se avessi potuto mandarti giù, nella casa di Ade,

dopo averti privato dell’anima e della vita, come è vero

che nemmeno lo Scuotitore della terra guarirà il tuo occhio!».

Così dissi; ed egli supplicava il signore Poseidone,

tendendo le mani verso il cielo stellato:

«Ascoltami, Poseidone che cingi la terra, dio dalla chioma azzurra;

se davvero io sono tuo figlio e tu ti vanti di essere mio padre,

fa’ che Odisseo, distruttore di città, figlio di Laerte,

che ha dimora in Itaca, non ritorni in patria.

Ma se è destino che riveda i suoi cari e che arrivi

alla sua casa ben costruita e alla terra dei padri,

tardi e male vi giunga, perduti tutti i compagni,

su una nave di altri, e in casa trovi sciagure».

Così disse, pregando; e lo ascoltò il dio dalla chioma azzurra.

Arnold Böcklin, Odisseo e Polifemo. Olio su tela, 1896
Arnold Böcklin, Odisseo e Polifemo. Olio su tela, 1896.

 

Dopo essersi riappropriato della sua identità, Odisseo articola il discorso in modo da esaltare la vittoria ed accrescere l’umiliazione dello sconfitto, in un sapiente crescendo. Nella prima parte del discorso, l’eroe si limita ad alludere a se stesso definendosi semplicemente un «uomo non vile»; egli evita poi di mostrarsi troppo orgoglioso del suo gesto, attribuendo a Zeus il merito della sciagura subita da Polifemo, giustamente punito per la sua empietà e per la trasgressione di ogni legge umana e divina. Dopo la violenta reazione del Ciclope, che tenta di colpire la nave con un macigno, Odisseo si rivolge di nuovo a Polifemo, nonostante che i compagni lo scongiurino di tacere per non provocare ulteriormente la collera del Ciclope. Questa volta, l’eroe dichiara completamente la propria identità: al nome, accompagnato dal patronimico e dall’indicazione del luogo di origine, egli aggiunge l’epiteto di ptolipórthios, «distruttore di città», che nell’Iliade aveva condiviso con Achille, riappropriandosi così del suo antico ruolo guerriero.
A queste parole, il ricordo di un’antica predizione si affaccia alla mente di Polifemo. Un tempo, l’indovino Telemo gli aveva profetizzato che sarebbe stato privato dalla vista per mano di Odisseo; ma poiché l’aspetto dello sconosciuto trovato nella grotta non era sembrato al Ciclope abbastanza conforme a quello di un eroe, egli non aveva minimamente pensato alle parole del vate. Ora che la predizione si è avverata, l’unica speranza di Polifemo si fonda sull’aiuto di suo padre Poseidone, signore del mare; ma Odisseo disillude anche questa speranza del Ciclope con parole così cariche di scherno da provocarne nuovamente la furia, espressa con una ará, una «maledizione» all’indirizzo dell’eroe, seguita dal lancio di un altro enorme macigno, talmente vicino alla nave che il violento riflusso delle onde allontana definitivamente l’imbarcazione dalla costa dell’isola dei Ciclopi (Od., IX 537-542).

 

αὐτὰρ ὅ γ᾽ ἐξαῦτις πολὺ μείζονα λᾶαν ἀείρας

ἧκ᾽ ἐπιδινήσας, ἐπέρεισε δὲ ἶν᾽ ἀπέλεθρον,

κὰδ᾽ δ᾽ ἔβαλεν μετόπισθε νεὸς κυανοπρώιροιο

τυτθόν, ἐδεύησεν δ᾽ οἰήιον ἄκρον ἱκέσθαι.

ἐκλύσθη δὲ θάλασσα κατερχομένης ὑπὸ πέτρης·

τὴν δὲ πρόσω φέρε κῦμα, θέμωσε δὲ χέρσον ἱκέσθαι.

 

Egli poi, di nuovo, sollevato un macigno ancora più enorme,

dopo averlo fatto roteare lo scagliò e gli impresse una forza immensa;

lo fece cadere dietro la nave dalla prora azzurra,

vicinissimo, e poco mancò che sfiorasse l’estremità del timone.

Al piombare del masso, il mare si gonfiò

e l’onda spostò la nave in avanti, e la spinse fino a giungere all’isola.