Il Dictator clavi figendi causa

in A. MOMIGLIANO, Quarto contributo alla Storia degli Studi Classici e del Mondo Antico, parte III. Istituzioni e leggende di Roma arcaicaRicerche sulle magistrature romane, Roma 1969, pp. 273-283.

 

Denario, Roma 207 a.C. Ar. 4.36 gr. Obverso: Roma. I Dioscuri a cavallo al galoppo verso destra.

L’origine della dittatura continua a permanere, secondo l’opinione dei più tra gli storici, una specie di enigma che va risolto passando dalla storia alla preistoria romana e immaginando uno stato di cose che condizioni e spieghi ciò che, sempre secondo gli storici di tale opinione, sarebbe nella Roma repubblicana una incomprensibile stranezza costituzionale, un ritorno alla monarchia, che interromperebbe in momenti eccezionali la validità degli ordinamenti abituali. Perché, in fondo, ciò che è implicito nella teoria, che in questi ultimi tempi è stata ripresa da storici insigni[1], è appunto il carattere monarchico della dittatura, che non si potrebbe spiegare se non pensando a un periodo dello sviluppo statale romano, in cui la dittatura fosse l’ordinaria magistratura suprema annuale di Roma, come la troviamo in altre città latine[2]. Ma questa teoria – sia detto con il massimo rispetto per coloro che l’hanno sostenuta – non spiega nulla. È un’ipotesi, a cui nessun documento offre la benché minima conferma, la quale è inutile ed imbarazzante, perché non serve affatto a comprendere l’istituzione, per cui è stata formulata. È evidente che, ammessa pure l’esistenza di una dittatura annuale in Roma, sarebbe ugualmente incomprensibile il suo ritorno, dopo l’abolizione, nella forma di una magistratura straordinaria. O questa magistratura straordinaria si spiega per ragioni intrinseche, inerenti all’attività politica di Roma, e allora è errato supporre che essa costituisca un reliquato di un periodo preistorico; o questa magistratura non si spiega nella forma in cui noi la conosciamo, e allora costituisce soltanto una difficoltà di più il pensare che essa, dopo essere stata abolita, sia tornata in forma diversa. La vera caratteristica della dittatura romana è la straordinarietà: è veramente curioso volerla spiegare supponendo una magistratura ordinaria, che la preceda.

Tanto meno può soddisfare un’altra teoria[3], anche questa di rispettabile età, ma ripresa, di recente, sotto la forma di una lotta tra la tendenza sabina alla magistratura collegiale e la tendenza etrusca alla magistratura unica, la quale si esprimerebbe nell’alternanza di consoli e dittatori. L’errore di questa concezione sta nella sua possibilità, che non si traduce nella forma precisa e determinata assunta dalla dittatura in Roma e non spiega, quindi, perché coesista con la magistratura consolare (compromesso tra le due tendenze?), perché non possa durare che sei mesi (vittoria etrusca a scadenza fissa?), perché abbia funzione essenzialmente militare ecc.

È notevole che questi tentativi, non riusciti, di risolvere il problema dell’origine della dittatura siano stati formulati senza nemmeno tener conto della… soluzione, che effettivamente era già stata scoperta nei suoi elementi principali di G. De Sanctis[4], il quale trovò la magistratura, che costituiva il presupposto e il precedente della dittatura romana, cioè la dittatura latina, documentata nella famosa dedica fatta nel bosco di Nemi dal dittatore latino Egerio Levio di Tuscolo (Catone, fr. 58). La dittatura federale latina, che non poteva non essere temporanea e straordinaria, ha un’evidente analogia con la dittatura romana. Ora se si mantengono fermi il significato e la data del foedus Cassianum, che sancì l’alleanza tra Roma e la Lega latina a parità di condizioni[5], deve essere senz’altro chiaro che il documento riferito da Catone, non contenendo il nome di Roma, che avrebbe dovuto a pieno diritto partecipare alle cerimonie religiose federali, è anteriore al foedus Cassianum, cioè all’inizio del V secolo a.C., ed è quindi anche anteriore ai primi dittatori romani. Credo che, a prescindere dalle argomentazioni numerose apportate dal De Sanctis, basti questa prova a convincerci dell’anteriorità della dittatura latina. Dopo il foedus Cassianum, Roma, prima partecipa a condizioni uguali, poi con sempre più accentuata egemonia alla vita federale, tanto che più tardi le cerimonie sacrali della Lega saranno esercitate dai magistrati romani: il non vedere il nome di Roma in un documento della Lega latina, non sospetto per alcuna ragione plausibile di falsità, è la dimostrazione del tempo antichissimo a cui deve risalire.

Ma, ammessa l’anteriorità della dittatura latina, accettate le evidenti analogie con la dittatura romana, non può certo soddisfare la teoria del De Sanctis nei termini precisi in cui essa fu proposta. Per il De Sanctis, Roma avrebbe imitato l’istituzione confederale, perché l’esperienza le avrebbe dimostrato la sua utilità nei momenti più gravi. Si può obiettare che un popolo imita gli istituti altrui, quando si libera dai propri, ma difficilmente sovrappone alle sue magistrature un’altra di carattere così disforme, che implicava mutamenti radicali nella costituzione. Nel complesso questo principio dell’imitazione è ancora troppo astratto e non ci permette di scendere a un preciso momento della politica romana. La dittatura temporanea e straordinaria della Lega latina è il naturale organo direttivo di un gruppo, che si raccoglie solo quando la necessità lo costringe o quando una comune tradizione religiosa lo richiama. Perché Roma accolse questa magistratura, che non aveva nulla a che fare con la sua tradizione politica?

Il problema che io formulo in questo modo è stato discusso più volte nelle esercitazioni della scuola di G. De Sanctis ed ha avuto una soluzione, come è inevitabile in ogni dibattito, collettiva. Primo un mio compagno dell’Università, Emanuele Testa, intuì, senza addurre una vera dimostrazione, che la dittatura romana non è altro che la dittatura latina trasferita a Roma. Credo d’aver apportato a questa acutissima teoria la prova della contemporaneità del foedus Cassianum e dei primi dittatori; ed è per chiarire questo punto che io sono costretto a riprendere un concetto non mio. Mia è quindi la responsabilità di tutta la dimostrazione e di tutte le conseguenze che ne traggo, non già il merito della prima intuizione. D’altra parte non potrei accostarmi al tema specifico di questo mio articolo, la Dittatura clavi figendi causa, senza aver prima determinato con esattezza la funzione originaria del Dittatore.

Quando Roma, in seguito al foedus Cassianum, venne a trovarsi a parità di condizioni con le città latine, dovette evidentemente cooperare nel comando supremo delle guerre. E poiché il magistrato supremo era uno solo, è credibile che Roma in un primo tempo si alternasse nel comando con le città latine. In altre parole, Roma doveva eleggere anch’essa un dittatore, quando il turno la designava. La dittatura si introduceva così in Roma non già come magistratura civica, ma come magistratura federale. Questo faceva sì che la dittatura venisse considerata quale una misura straordinaria, che si prendeva soltanto nei momenti più gravi, quando o Roma aveva bisogno delle città latine o le città latine di Roma. E anche poi con il progressivo predominio di Roma, per cui essa fu considerata come l’effettiva signora della Lega e nominò da sola i magistrati, ci dovette essere un periodo in cui si distingueva tra impresa militare della Lega, con un dittatore a capo, e impresa militare della città, con i consoli.

Dissoltasi a poco a poco, più che la Lega, la coscienza dell’esistenza della Lega stessa, la dittatura apparve interamente romana e fu ritenuta un mezzo eccezionale di difesa. Ma appunto perché diventò romana, essa sparì presto; perché i Romani, quando perdettero coscienza della sua funzione primitiva, se la sentirono estranea e l’accolsero sempre di più come una misura da sopportarsi a stento per le esigenze supreme dello Stato. Perciò si deve affermare, senza ombra di paradosso, che la dittatura fu considerata come ripugnante alla costituzione romana, quando apparve come romana. L’ultimo dittatore rei gerundae causa fu, come si sa, eletto nel 216 a.C. e l’ultimo comitiorum habendorum causa nel 202 a.C., cioè precisamente in quel periodo in cui, cominciandosi a formare l’impero di Roma ed essendo ogni giorno di più necessario che i comandanti dell’esercito andassero lontano dall’Urbe, il dittatore poteva essere considerato il magistrato più adatto per queste incombenze. Invece i Romani si sforzarono di evitare questa magistratura rendendo le magistrature ordinarie atte a sostituirla. Questa è una delle ragioni principali per cui la collegialità dei magistrati con imperio andò in disuso in questo tempo: un solo pretore ebbe ciascuna provincia e soprattutto un solo console, di regola, guidò le campagne fuori d’Italia con poteri, si può dire, dittatoriali. È vero che la creazione dei pretori quali governatori delle province era una conseguenza del moltiplicarsi di queste; ma per i consoli il principio della collegialità poteva essere conservato, pur che si conservassero i dittatori. E invece si giunse in questo periodo fino alla nomina di privati cum imperio, abuso costituzionale iniziato probabilmente con P. Cornelio Scipione, che attesta la volontà di evitare il dittatore. Non è dunque il cadere in disuso della collegialità che fa sparire la dittatura, come vuole il De Sanctis[6]; ma è la tendenza ad evitare la dittatura che contribuisce in misura grandissima a far sparire la collegialità.

Come dicevo, l’identità della dittatura romana con la latina è comprovata dal fatto che il foedus Cassianum è contemporaneo all’apparizione dei dittatori a Roma. È ben noto che la tradizione annalistica (Liv., II 33, 4; Dionys., VI 95; Cic., pro Balbo, 23, 53) mette concordemente il trattato nel secondo dei consolati di Spurio Cassio (502, 493, 486 a.C.). Questa data sembrerebbe contraddire alla nostra asserzione, perché la dittatura appare qualche anno prima, nel 501, secondo Livio (II 18), nel 498, secondo Dionigi (V 71, 73). Ma la stessa incertezza delle date ci informa a posteriori ciò che è ovvio a priori, che la data del primo dittatore non si conosceva esattamente.  La tradizione doveva certamente aver conservato ricordo dei primi dittatori, ma la loro lista non fu redatta che più tardi e quindi solo più tardi poté essere costituito il parallelismo con le liste consolari. La data o meglio le date che noi abbiamo sono congetture molto trasparenti. Secondo la tradizione più comune, il primo dittatore fu T. Larcio e il primo magister equitum Sp. Cassio: la tradizione che pone M. Valerio come primo dittatore (Fest., pag. 216 L.; Liv., II 18, che la ripudia) è evidentemente una delle solite falsificazioni della vanità aristocratica. T. Larcio era di famiglia divenuta poi oscura e forse spentasi: ciò che da una parte è garanzia della sua autenticità e dall’altra spiega la falsificazione intorno al nome di M. Valerio. Ebbene T. Larcio appare come console nelle liste dei fasti appunto negli anni 501 e 498 a.C. in cui le due diverse tradizioni ponevano la sua dittatura. Possiamo constatare qui il medesimo processo di fabbricazione della cronologia dittatoriale, che si ritrova per la seconda coppia di A. Postumio dittatore e T. Ebuzio magister equitum. Livio (II 21) segue la tradizione che preferisce l’anno 499, perché vi appariva tra i consoli T. Ebuzio; mentre Dionigi (VI 2, 3) aderisce all’altra versione che stabiliva la data nel 496, perché vi appariva console A. Postumio. Le date precise vanno dunque ripudiate, ma il periodo approssimativo di tempo ci è assolutamente oscurato dai nomi di T. Larcio e Sp. Cassio. E non è senza significato, mi pare, che l’artefice del foedus tra Latini e Romani appaia come il primo magister equitum. Che se poi si volessero anche ripudiare questi primi nomi di dittatori – ciò che non credo debba farsi – resterebbe sempre fermo che la dittatura fa la sua comparsa in Roma (l’anno preciso non conta) al tempo in cui fu redatto il foedus.

A questo modo si risolve anche, senz’altro, il problema delle origini del magister equitum, diventato un grosso indovinello, da quando il Rosenberg[7] constatò che l’istituzione non aveva esatto riscontro nelle magistrature italiche e cercò di metterla in relazione all’italico magister iuventutis o simili: ciò che è sempre possibile, data la nostra ignoranza sulle reali funzioni di questi magistrati, ma non è né dimostrabile, né probabile, perché, al solito, il problema si accentra attorno alla straordinarietà della magistratura romana. La soluzione più semplice è invece che il magister equitum fosse una creazione della Lega latina, resasi necessaria per l’introduzione dei cavalli nell’esercito e per la conseguente formazione di un corpo semi-autonomo, giacché è evidente, e fu già notato[8], che il divieto (codificazione certo di un antico uso) fatto al dittatore ἵππῳ χρῆσθαι παρὰ τάς στρατείας (Plut., Fab., 4, 1) presuppone che la dittatura sia sorta quando i cavalli non erano ancora adoperati in guerra. S’intende che, come il dittatore latino è certo in relazione con le dittature locali, così anche il magister equitum è in una relazione, sia pure meno precisa, con i vari magistri italici; ma la spiegazione della sua originalità e irriducibilità ai modelli italici si ha nella stessa originalità della Lega latina.

Credo sia ormai chiaro che, per intendere la storia della dittatura romana, bisogna riportarsi a quelle esigenze che furono imposte a Roma dalla partecipazione prima e dall’egemonia poi che essa venne ad assumere nella Lega latina. Il foedus Cassianum segnò un rivolgimento nella politica romana, al quale essa cercò di adeguarsi in uno sforzo di adattamento e di trasformazione che si può osservare non solo nella dittatura, ma anche altrove. Su questo argomento, l’importanza che il compito di egemone sulla Lega latina ebbe nella storia interna di Roma, spero di poter ritornare.

La dittatura, aggiuntasi alle altre istituzioni romane, per i motivi che cercammo di chiarire, aveva questa duplice caratteristica: in quanto magistratura originariamente federale, portava le tracce delle varie funzioni a cui serviva in una Lega, non solo militare, ma anche sacrale; in quanto magistratura introdotta in Roma non era vincolata qui da una tradizione giuridica, che ne determinasse le funzioni in modo rigoroso. Queste due caratteristiche convergevano nell’unica conseguenza che la dittatura in Roma venne ad avere una struttura priva d’impacci che, congiunta con la straordinarietà e l’imperio supremo, poteva permetterle di intervenire nei casi più disparati e risolvere le difficoltà procedurali più varie. Così si spiega il moltiplicarsi delle dittature per singoli scopi, così si spiega anche il dictator clavi figendi causa. L’origine federale faceva sì che per la nomina del dittatore non occorresse la convocazione dei comizi, giacché non si trattava di eleggere un magistrato romano; inoltre permetteva che tutte le ordinarie magistrature, consoli compresi, rimanessero in carica, siano pure subordinate al comando supremo; infine concedeva l’imperium non solo militae, ma anche domi, in quanto Roma era parificata a tutto il territorio della Lega, per la quale l’esclusione dell’imperium sarebbe stata un assurdo in caso di guerra. S’intende che anche l’assenza della provocatio e dell’intercessio aveva il medesimo fondamento. Ora, trascurando quella dittatura seditionis sedandae et rei gerundae causa di P. Manlio Capitolino (368 a.C.), che ha troppi palmari elementi sospetti, si capisce che, in tali condizioni, divenissero agevoli dittature comitiorum habendorum o feriarum consituendarum causa. Il primo tipo di dittatura permetteva, senza la convocazione dei comizi, di creare un magistrato che tali comizi potesse convocare: veniva risolta in tale modo una non lieve difficoltà giuridica. Il secondo tipo permetteva, quando i consoli erano assenti, di fare compiere determinate cerimonie che competessero ai consoli da un magistrato, che, essendo superiore ai consoli, poteva assumerne le funzioni. Tanto più agevole era questo trapasso, quanto più fresco doveva essere nei primi tempi il ricordo delle funzioni sacrali del dittatore latino.

Non altrimenti che uno dei parecchi dittatori nominati per una speciale cerimonia va considerato il dictator clavi figendi causa. Noi sappiamo soprattutto da Festo (De Sign. verb., pag. 49, Lindsay) dell’uso di figgere un chiodo (clavus annalis) in parietibus sacrarum aedium per annos singulos, ut per eos numerus colligeretur annorum. Anche a prescindere da una tanto celebre quanto confusa testimonianza di Livio (VII 3, 5), che analizzeremo tosto, è ovvio pensare che la cerimonia dell’infissione del chiodo fosse compiuta dal supremo magistrato: se ora troviamo che negli anni 363, 331, 313 e 263 a.C. fu nominato un dittatore clavi figendi causa[9], ne dedurremo che in quegli anni i consoli non avevano potuto per una ragione qualsiasi presiedere alla cerimonia ed erano stati sostituiti da un apposito dittatore, precisamente come avveniva nelle dittature comitiorum habendorum o feriarum constituendarum causa. A questa soluzione, molto semplice, di quella complicata rete di questioni che si è ormai addensata intorno a questa dittatura si opporrà il passo di Livio. Rileggiamolo dunque: Lex vetusta est, priscis litteris verbisque scripta, ut qui praetor maximus sit idibus Septembribus clavum pangat; fixa fuit dextro lateri aedis Iovis optimi maximi, ex qua parte Minervae templum est… a consulibus postea ad dictatores, quia maius imperium erat, sollemne clavi figendi translatum est. Intermisso deinde more, digna etiam per se visa res propter quam dictator crearetur (VII 3, 5-9). Come si vede dal contesto, Livio si valeva di notizie raccolte da Cincio: non c’è da dubitare che questi avesse davvero vista la legge nei suoi caratteri arcaici. In sé la legge non fa nessuna difficoltà; attesta semplicemente che il console doveva piantare il chiodo alle Idi di settembre. Si potrà dubitare che praetor maximus significhi realmente console; ma in primo luogo Livio e probabilmente Cincio lo hanno preso in questo senso; poi il titolo di praetor, sia pure maximus, non è mai altrove testimoniato per il dittatore; infine – e questa è la ragione fondamentale – στρατηγός ὕπατος è la evidente traduzione di praetor maximus e ne attesta, insieme con l’antichità, l’autenticità.

Ricostruzione grafica dei Fasti Antiates, un calendario pre-giuliano. Frammenti da un affresco dalle rovine della villa di Nerone ad Anzio.

Ciò che invece è assurdo è la costruzione che Livio ha aggiunto alla notizia intorno alla lex vetusta. E dico Livio e non Cincio perché si può dimostrare, e gli elementi essenziali sono già stati visti da H. Peter[10], che Cincio non ha fornito a Livio che la notizia della lex. Mentre nel passo in discussione Livio riconnette evidentemente il dictator clavi figendi causa con il clavus annalis, poche linee sopra lo collegava con una funzione purificativa: repetitum ex seniorum memoria dicitur pestilentiam quondam clavo ab dictatore fixo sedatam. Ea religione adductus senatus dictatorem clavi figendi causa dici iussit (VII 3, 3). La stessa affermazione è ripetuta in un altro caso: itaque memoria ex annalibus repetita in secessionibus quondam plebis clavum ab dictatore fixum alienatas discordia mentes hominum eo piaculo compotes sui fecisse, dictatorem clavi figendi causa creari placuit (VIII 18, 12)[11]. Come è facilmente constatabile, Livio accoglie nella sua opera due tradizioni toto coelo differenti, di cui egli stesso ha cura di indicarci la provenienza: la tradizione annalistica parla di un clavus piantato in condizioni particolari a scopo di purificazione da un dittatore; la tradizione accolta da Cincio e documentata in una legge sa del clavus annalis confitto dal console. Livio ricorse evidentemente a Cincio per completare le sue informazioni sul clavus e trovò nozioni del tutto diverse da quelle annalistiche in proposito e allora elaborò quella spiegazione artificiosissima, secondo cui dal console si sarebbe passato al dittatore e poi a una dittatura speciale. C’è appena bisogno di dire che la spiegazione, fatta apposta per intendere il preteso passaggio dal console a un dittatore speciale, presuppone un anello intermedio, il dittatore che può assumersi annualmente l’incarico del clavus, che è un non senso nel modo più rigoroso.

Ma è agevole riconoscere donde tragga la sua origine la tradizione annalistica. Essa si trovava di fronte a pochissimi casi di una dittatura speciale. Il legame con il clavus annalis, cerimonia annua e abitudinaria, non era facile a vedersi, anche se il suo uso permaneva ancora, quando gli annalisti consultati da Livio raccolsero le loro notizie. Ciò che non è sicuro, perché noi abbiamo l’ultima testimonianza con l’ultima dittatura clavi figendi causa (263 a.C.), che non dovrebbe essere troppo anteriore al venir meno di questo uso. In caso contrario nel III secolo a.C. dovremmo vedere moltiplicate queste dittature speciali, essendo i consoli spesso lontani da Roma. Queste dittature non s’incontrano, probabilmente, perché tale costume arcaico e ormai inutile, cadde allora in disuso. Certo, quando Augusto volle rimettere in vigore l’antica cerimonia, essa era già sparita da molto tempo, ché altrimenti non si spiegherebbe come egli la potesse attribuire al censore invece che al console e la trasferisse dal tempio di Giove a quello di Marte Ultore (Dion., 55, 10, 4). La tradizione si era già da tempo spezzata, e si poteva privare il consolato e un tempio di uno dei loro privilegi, senza nemmeno forse aver coscienza di farlo. Non può costituire un argomento in contrario la nota frase di Cicerone: Laodiceam veni pridie Kal. Sext. Ex hoc die clavum anni movebis (ad Att., V 15). Cicerone non allude già a una cerimonia attuale: ripete un modo di dire, che poteva essere sopravvissuto all’uso cui si riferiva. Comunque ad ogni modo si voglia giudicare intorno all’uso del clavus annalis, è certo che gli annalisti, trovatisi di fronte a quelle poche dittature veramente singolari, non seppero metterle in relazione con il clavus annalis stesso e pensarono a una funzione apotropaica. Non è da escludere, anzi è probabile, che questa congettura fosse suggerita da qualche pratica superstizione romana, come quella ricordata da Plinio (Nat. Hist., XXVIII 6, 63): clavum ferreum defigere in quo loco primum caput fixerit corruens morbo comtiali, absolutorium eius mali dicitur. Ma non ci può essere dubbio, credo, che gli annalisti commisero un arbitrio, riferendo queste pratiche alla dittatura clavi figendi causa e creando tutta una costruzione leggendaria là dove le notizie autentiche certo non abbondavano.

Le incertezze e le confusioni che i Romani stessi avevano sull’argomento sono provate anche dalle doppie versioni che si hanno per due dei dittatori clavi figendi causa. G. Favaro[12] ha visto assai bene come in Livio (VII 3) si confondono due tradizioni, di cui una faceva L. Manlio dictator rei gerundae causa, l’altra clavi figendi causa. Lo stesso fatto è ben noto per la dittatura di C. Petelio, che, per testimonianze di Livio stesso (IX 28), era ritenuto solo da alcuni (fra questi dal compilatore dei fasti capitolini) dictator rei gerundae causa. Tanto nell’un caso quanto nell’altro vale la norma della lectio difficilior: fuor di metafora, è spiegabile che un dittatore clavi figendi causa fosse creduto del tipo solito. Perciò ritengo sia eccessivo il pessimismo del Beloch[13], che finisce con il negar fede a queste due dittature. E specialmente per la prima di esse, quella di L. Manlio, va anche osservato che ha torto K.J. Beloch stesso a credere che nel IV secolo fossero indicati solo i nomi dei dittatori e non le competenze speciali. Non si vede la ragione per cui un semplice dittatore, cioè un dictator rei gerundae causa, avrebbe dovuto essere trasformato in dictator clavi figendi causa, molto meno importante e conosciuto. Non può ugualmente convincere ciò che il Beloch oppone contro l’autenticità del dittatore del 331 a.C.: «auch der Dictator von 423/331 scheint nicht in allen Annalen gestanden zu haben (Liv., VIII 18, 2 nec omnes autores sunt, vgl…)», (pag. 37). Il nec omnes autores sunt di Livio si riferisce non alla dittatura, confermata anche dai fasti, ma ai particolari della pestilenza di quell’anno: Illud pervelim – nec omnes auctores sunt – proditum falso esse venenis absumptos quorum mors infamen annum pestilentia fecerit (VIII, 18, 2). Del resto, il Beloch, dopo aver eliminato tre dittatori, è stato costretto ad ammettere l’autenticità del quarto (263 a.C.), perché troppo in età storica; e questa è la migliore conferma dell’impossibilità di poter infirmare totalmente il valore delle testimonianze più antiche.

In tutto ciò che precede è senz’altro implicita la confutazione della vecchia teoria del Mommsen[14], che, prestando fede solo alle due dittature del 363 e del 263 a.C., riteneva secolare la cerimonia dell’infissione del chiodo: per le medesime ragioni non dovrà accogliersi la recentissima teoria del Favaro, che, seguendo inconsapevolmente gli annalisti antichi, ha cercato con molto acume di scindere la dittatura clavi figendi causa dal clavus annalis.

Quando si valutino le conoscenze positive, su cui si potevano fondare gli annalisti, si potrà difficilmente dubitare che il clavus del dittatore non sia il clavus annalis. Perciò la dittatura clavi figendi causa non solo è storica, ma rientra senza difficoltà nella storia costituzionale di Roma e in particolare nella storia della dittatura quale è qui prospettata.

 

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[1] E. Kornemann, Klio 14, 1914, pp. 190 sgg; K.J. Beloch, Röm. Gesch., pp. 63 sgg. Il materiale concernente la Dittatura è raccolto con diligenza da F. Bandel, Die Römischen Diktaturen, Inaug. Diss., Breslau 1910.

[2] A. Rosenberg, Der Staat der alten Italiker, pp. 71 sgg.

[3] P. De Francisci, Storia del diritto romano, I, pp. 168 sgg.

[4] Storia dei Romani, I, pp. 421 sgg.

[5] Id., II, pp. 96 sgg.; Id., «Sul foedus Cassianum» in Atti del 1° Congresso Nazionale di Studi Romani, I, pp. 231 sgg.

[6] Storia dei Romani, IV, 1, pp. 501 sgg.

[7] Op. cit., pp. 89 sgg.

[8] Storia dei Romani, I, 422, n. 3 [V. oltre il saggio Procum Patricium].

[9] Per il 363 a.C., Liv. VII 3, 3 e CIL I, 1, 20; per il 331, Liv. VIII 18, 12 e N. d. Scavi, 1899, p. 384 (cfr. C. Huelsen, Klio 2, 1902, pp. 248 sgg; Th. Mommsen, Hermes 38, 1903, pp. 116 sgg.); per il 313, Liv., IX 28, 6; per il 263, CIL I, 1, 22.

[10] Hist. roman. Reliquiae, CVIIII sgg. Non entro nella questione sulla personalità di Cincio [J. Heurgon, Atheneum 42, 1964, p. 432].

[11] Seguo l’ed. oxoniense di C.F. Walters e R.S. Conway.

[12] Il «Clavus annalis» e il «Dictator clavi figendi causa» in Atti del 1° Congresso Nazionale di Studi Romani, II, pp. 223 sgg.

[13] Röm. Gesch., pp. 36 sgg.

[14] Römische Chronologie, pp. 175 sgg.

La prima orazione contro Catilina (8 novembre 63 a.C.)

di E. Risari (a cura di), Cicerone, Le Catilinarie, Mondadori, Milano 2008, pp. 9-12; 36-63; testo lat. in M. Tullius Cicero, Against Catiline, in A.C. Curtius (ed.), M. Tulli Ciceronis Orationes, Claredon Press (Scriptorum Classicorum Bibliotheca Oxoniensis), Oxford 1908.

 

Il 63 è un anno cruciale per la storia di Roma: contrassegnato dal consolato di Cicerone (che era tanto convinto dell’importanza della propria opera a favore della Repubblica da iniziare la stesura di un poema De consulatu suo – di cui restano 65 esametri – e da progettare – come documenta una lettera ad Attico [II 1, 3] – la raccolta e la pubblicazione di un corpus delle proprie orazioni consolari), esso è anche l’anno in cui Cesare, sostenuto dalle ingenti ricchezze di Crasso, comincia a sviluppare la sua azione politica come esponente di spicco dei populares, il cui programma si fonda su due capisaldi: la richiesta di una riforma agraria e la lotta per l’abolizione del senatusconsultum ultimum. Al primo si ispira – nel mese di gennaio – la proposta di una legge agraria da parte del tribuno della plebe Rullo; ma i grandi proprietari terrieri e gli uomini dell’alta finanza temono un simile provvedimento, che giudicano un tentativo di conferire peso politico alle classi umili, di trasformare i rapporti di forza e – alla lunga – di cambiare il “sistema”: convinto dalle orazioni pronunciate da Cicerone, il senato respinge la proposta di Rullo. La lotta contro il ricorso al senatusconsultum ultimum in caso di grave pericolo per la Repubblica si esplica nel processo che durante la primavera Labieno, futuro luogotenente di Cesare in Gallia, istituisce contro il vecchio senatore Rabirio, accusato di aver messo a morte nel dicembre del 100 il tribuno Saturnino senza permettegli di ricorrere al popolo; il processo però rimane in sospeso. Nel frattempo Cesare stesso, che ha solo trentasette anni, riesce a farsi eleggere pontifex maximus sconfiggendo il ben più anziano e degno ex console Quinto Catulo, che ne diviene un acerrimo nemico. In luglio si riuniscono i comizi per l’elezione dei consoli del 62: Catilina ancora una volta è tra i candidati. Cicerone vi presenzia rivestendo la corazza sotto la toga: un’abile mossa propagandistica per scuotere l’opinione pubblica, come confessa apertamente in un’orazione tenuta nel corso dell’anno: «Mi era noto che torme di congiurati scendevano armati con Catilina in Campo Marzio; io stesso vi andai con un saldo presidio di uomini coraggiosi e rivestendo la mia ampia e vistosa corazza: non perché essa potesse proteggermi dai suoi colpi – so bene che è abituato a mirare alla testa o alla gola, non certo al fianco o al ventre – ma per richiamare l’attenzione di tutti gli onesti» (pro Murena, 26, 52). Ancora una volta il responso delle urne è sfavorevole a Catilina: risultano infatti eletti Lucio Murena, valoroso luogotenente di Pompeo, e Giunio Silano, un giurista cognato di Catone il Giovane. Dopo le elezioni, con Catilina rimangono schierati soltanto Cesare e Metello Nepote, mentre il console Antonio Hybrida lo abbandona, allettato dal gesto di Cicerone che rinuncia al proconsolato in Macedonia “sacrificando” all’avidità del collega la ricca provincia che la sorte gli aveva riservato. Le vie legali sono ormai completamente precluse: Catilina progetta la conquista del potere per altra via. La sua azione sovversiva si articola su più fronti: Roma, dove i complici sono numerosi e ben rappresentati anche in senato; l’Etruria, dove il centurione Gaio Manlio sta raccogliendo un esercito; Capua, dove è attivo Publio Silla, il console destituito del 65, che cerca di sobillare i gladiatori; l’Apulia e il Piceno, dove si trovano Gaio Giulio e Settimio da Camerino. La giustificazione ideologica è fornita alla congiura dalla recente bocciatura della legge agraria proposta da Rullo: Catilina intende presentarsi al popolo come difensore delle classi oppresse e promette una generale cancellazione dei debiti. Nel corso dell’autunno la situazione precipita: il 20 ottobre Crasso consegna a Cicerone delle lettere anonime in cui si afferma che Catilina progetta un massacro di cittadini; nella seduta del senato del 21 ottobre si diffonde la notizia che il centurione Manlio sta raccogliendo truppe in Etruria; in quella stessa occasione Cicerone rende di pubblico dominio le rivelazioni fattegli da Fulvia, amante di uno dei congiurati, fino allora tenute segrete: per il 27 ottobre è prevista una sollevazione in Etruria, per il 28 l’eccidio degli ottimati a Roma. Come reazione a queste sconvolgenti rivelazioni il senato vota il senatusconsultum ultimum, conferendo ai consoli poteri dittatoriali […]. La fatidica giornata del 28 trascorre in realtà senza particolari incidenti, ma si viene a sapere che la sera del 27 è scoppiata la ribellione in Etruria; pochi giorni dopo, il 1 novembre, viene sventato un tentativo di occupare Preneste. Nel frattempo, in seguito dell’accusa de vi intentatagli da Lucio Emilio Paolo, Catilina invoca il provvedimento della libera custodia, e a questo proposito fa il nome di alcuni senatori e dello stesso Cicerone, che rifiuta con sdegno: la richiesta di arresti domiciliari in casa del console è interpretata da Cicerone nella prima Catilinaria come mossa propagandistica da parte di Catilina, che vuol farsi passare per innocente calunniato. Eludendo però il provvedimento, nella notte tra il 6 e il 7 novembre Catilina convoca in casa di Marco Lega una riunione, nel corso della quale ordina ai suoi di passare all’azione: la prima cosa da farsi è togliere di mezzo Cicerone. Se ne incaricano Vargunteio e Cornelio, ma il loro piano viene sventato dalla delazione di Fulvia: quando, la mattina seguente, si presentano in casa di Cicerone per mescolarsi ai suoi clienti raccoltisi nell’atrio per l’abituale salutatio, trovano là riuniti un gran numero di senatori, che Cicerone ha convocati e a cui ha predetto l’arrivo dei sicari, che sono così costretti a darsi alla fuga per evitare l’arresto. Il console riunisce d’urgenza il senato nel tempio di Giove Statore sul Palatino, dove, in presenza dello stesso Catilina, la mattina dell’8 novembre pronuncia la prima orazione contro di lui…

 

Cesare Maccari, Cicerone denuncia la congiura di Catilina in Senato. Affresco, 1882-88. Roma, Palazzo di Villa Madama.

 

ORATIO QVA L. CATILINAM EMISIT IN SENATV HABITA

I.1. Quo usque tandem abutere, Catilina, patientia nostra? Quam diu etiam furor iste tuus nos eludet? Quem ad finem sese effrenata iactabit audacia? Nihilne te nocturnum præsidium Palati, nihil urbis uigiliæ, nihil timor populi, nihil concursus bonorum omnium, nihil hic munitissimus habendi senatus locus, nihil horum ora uoltusque mouerunt? Patere tua consilia non sentis, constrictam iam horum omnium scientia teneri coniurationem tuam non vides? Quid proxima, quid superiore nocte egeris, ubi fueris, quos conuocaueris, quid consili ceperis quem nostrum ignorare arbitraris? [2] O tempora, o mores! senatus hæc intellegit, consul uidet; hic tamen uiuit. Viuit? Immo uero etiam in senatum uenit, fit publici consili particeps, notat et designat oculis ad cædem unum quemque nostrum. Nos autem fortes uiri satis facere rei publicæ uidemur, si istius furorem ac tela uitamus. Ad mortem te, Catilina, duci iussu consulis iam pridem oportebat, in te conferri pestem quam tu in nos omnis iam diu machinaris. [3] An uero uir amplissimus, P. Scipio, pontifex maximus, Ti. Gracchum mediocriter labefactantem statum rei publicæ priuatus interfecit: Catilinam orbem terræ cæde atque incendiis uastare cupientem nos consules perferemus? Nam illa nimis antiqua prætereo, quod C. Seruilius Ahala Sp. Mælium nouis rebus studentem manu sua occidit. Fuit, fuit ista quondam in hac re publica uirtus ut uiri fortes acrioribus suppliciis ciuem perniciosum quam acerbissimum hostem coercerent. Habemus senatus consultum in te, Catilina, uehemens et graue, non deest rei publicæ consilium neque auctoritas huius ordinis: nos, nos, dico aperte, consules desumus. 2. [4] Decreuit quondam senatus uti L. Opimius consul uideret ne quid res publica detrimenti caperet: nox nulla intercessit: interfectus est propter quasdam seditionum suspiciones C. Gracchus, clarissimo patre, avo, maioribus, occisus est cum liberis M. Fuluius consularis. Simili senatus consulto C. Mario et L. Valerio consulibus est permissa res publica: num unum diem postea L. Saturninum tribunum plebis et C. Seruilium prætorem mors ac rei publicæ poena remorata est? At uero nos uicesimum iam diem patimur hebescere aciem horum auctoritatis. Habemus enim eius modi senatus consultum, uerum inclusum in tabulis, tamquam in uagina reconditum, quo ex senatus consulto confestim te interfectum esse, Catilina, conuenit. Viuis, et uiuis non ad deponendam, sed ad confirmandam audaciam. Cupio, patres conscripti, me esse clementem, cupio in tantis rei publicæ periculis non dissolutum uideri, sed iam me ipse inertiæ nequitiæque condemno. [5] Castra sunt in Italia contra populum Romanum in Etruriæ faucibus conlocata, crescit in dies singulos hostium numerus; eorum autem castrorum imperatorem ducemque hostium intra moenia atque adeo in senatu uidetis intestinam aliquam cotidie perniciem rei publicæ molientem. Si te iam, Catilina, comprehendi, si interfici iussero, credo, erit uerendum mihi ne non hoc potius omnes boni serius a me quam quisquam crudelius factum esse dicat. Verum ego hoc quod iam pridem factum esse oportuit certa de causa nondum adducor ut faciam. Tum denique interficiere, cum iam nemo tam improbus, tam perditus, tam tui similis inueniri poterit qui id non iure factum esse fateatur. [6] Quam diu quisquam erit qui te defendere audeat, uiues, et uiues ita ut nunc uiuis, multis meis et firmis præsidiis obsessus ne commouere te contra rem publicam possis. Multorum te etiam oculi et aures non sentientem, sicut adhuc fecerunt, speculabuntur atque custodient. 3. Etenim quid est, Catilina, quod iam amplius exspectes, si neque nox tenebris obscurare coetus nefarios nec privata domus parietibus continere voces coniurationis tuæ potest, si inlustrantur, si erumpunt omnia? Muta iam istam mentem, mihi crede, obliuiscere cædis atque incendiorum. Teneris undique; luce sunt clariora nobis tua consilia omnia, quæ iam mecum licet recognoscas. [7] Meministine me ante diem XII Kalendas Nouembris dicere in senatu fore in armis certo die, qui dies futurus esset ante diem ui Kal. Nouembris, C. Manlium, audaciæ satellitem atque administrum tuæ? Num me fefellit, Catilina, non modo res tanta tam atrox tamque incredibilis, uerum, id quod multo magis est admirandum, dies? Dixi ego idem in senatu cædem te optimatium contulisse in ante diem V Kalendas Nouembris, tum cum multi principes civitatis Roma non tam sui conseruandi quam tuorum consiliorum reprimendorum causa profugerunt. Num infitiari potes te illo ipso die meis præsidiis, mea diligentia circumclusum commouere te contra rem publicam non potuisse, cum tu discessu ceterorum nostra tamen qui remansissemus cæde contentum te esse dicebas? [8] Quid? cum te Præneste Kalendis ipsis Nouembribus occupaturum nocturno impetu esse confideres, sensistin illam coloniam meo iussu meis præsidiis, custodiis, vigiliis esse munitam? Nihil agis, nihil moliris, nihil cogitas quod non ego non modo audiam sed etiam videam planeque sentiam. 4. Recognosce mecum tandem noctem illam superiorem; iam intelleges multo me uigilare acrius ad salutem quam te ad perniciem rei publicæ. Dico te priore nocte uenisse inter falcarios — non agam obscure — in M. Læcæ domum; conuenisse eodem compluris eiusdem amentiæ scelerisque socios. Num negare audes? Quid taces? Conuincam, si negas. Video enim esse hic in senatu quosdam qui tecum una fuerunt. [9] O di immortales! Vbinam gentium sumus? Quam rem publicam habemus? In qua urbe uiuimus? Hic, hic sunt in nostro numero, patres conscripti, in hoc orbis terræ sanctissimo grauissimoque consilio, qui de nostro omnium interitu, qui de huius urbis atque adeo de orbis terrarum exitio cogitent. Hos ego uideo consul et de re publica sententiam rogo, et quos ferro trucidari oportebat, eos nondum uoce uolnero! Fuisti igitur apud Læcam illa nocte, Catilina, distribuisti partis Italiæ, statuisti quo quemque proficisci placeret, delegisti quos Romæ relinqueres, quos tecum educeres, discripsisti urbis partis ad incendia, confirmasti te ipsum iam esse exiturum, dixisti paulum tibi esse etiam nunc morae, quod ego uiuerem. Reperti sunt duo equites Romani qui te ista cura liberarent et se illa ipsa nocte paulo ante lucem me in meo lecto interfecturos esse pollicerentur. [10] Hæc ego omnia uixdum etiam coetu uestro dimisso comperi; domum meam maioribus præsidiis muniui atque firmaui, exclusi eos quos tu ad me salutatum mane miseras, cum illi ipsi uenissent quos ego iam multis ac summis uiris ad me id temporis uenturos esse prædixeram. 5.Quæ cum ita sint, Catilina, perge quo coepisti: egredere aliquando ex urbe; patent portæ; proficiscere. Nimium diu te imperatorem tua illa Manliana castra desiderant. Educ tecum etiam omnis tuos, si minus, quam plurimos; purga urbem. Magno me metu liberaveris, modo inter me atque te murus intersit. Nobiscum uersari iam diutius non potes; non feram, non patiar, non sinam. [11] Magna dis immortalibus habenda est atque huic ipsi Iovi Statori, antiquissimo custodi huius urbis, gratia, quod hanc tam taetram, tam horribilem tamque infestam rei publicæ pestem totiens iam effugimus. Non est sæpius in uno homine summa salus periclitanda rei publicæ. Quam diu mihi consuli designato, Catilina, insidiatus es, non publico me præsidio, sed priuata diligentia defendi. Cum proximis comitiis consularibus me consulem in campo et competitores tuos interficere uoluisti, compressi conatus tuos nefarios amicorum præsidio et copiis nullo tumultu publice concitato; denique, quotienscumque me petisti, per me tibi obstiti, quamquam uidebam perniciem meam cum magna calamitate rei publicæ esse coniunctam. [12] Nunc iam aperte rem publicam uniuersam petis, templa deorum immortalium, tecta urbis, uitam omnium ciuium, Italiam totam ad exitium et uastitatem uocas. Qua re, quoniam id quod est primum, et quod huius imperi disciplinæque maiorum proprium est, facere nondum audeo, faciam id quod est ad seueritatem lenius, ad communem salutem utilius. Nam si te interfici iussero, residebit in re publica reliqua coniuratorum manus; sin tu, quod te iam dudum hortor, exieris, exhaurietur ex urbe tuorum comitum magna et perniciosa sentina rei publicæ. 6. Quid est, Catilina? [13] Num dubitas id me imperante facere quod iam tua sponte faciebas? Exire ex urbe iubet consul hostem. Interrogas me, num in exsilium? Non iubeo, sed, si me consulis, suadeo. Quid est enim, Catilina, quod te iam in hac urbe delectare possit? In qua nemo est extra istam coniurationem perditorum hominum qui te non metuat, nemo qui non oderit. Quæ nota domesticæ turpitudinis non inusta uitæ tuæ est? Quod priuatarum rerum dedecus non hæret in fama? Quæ libido ab oculis, quod facinus a manibus umquam tuis, quod flagitium a toto corpore afuit? Cui tu adulescentulo quem corruptelarum inlecebris inretisses non aut ad audaciam ferrum aut ad libidinem facem prætulisti? [14] Quid uero? Nuper cum morte superioris uxoris nouis nuptiis locum uacuefecisses, nonne etiam alio incredibili scelere hoc scelus cumulauisti? Quod ego prætermitto et facile patior sileri, ne in hac ciuitate tanti facinoris immanitas aut exstitisse aut non uindicata esse uideatur. Prætermitto ruinas fortunarum tuarum quas omnis proximis Idibus tibi impendere senties: ad illa uenio quæ non ad priuatam ignominiam uitiorum tuorum, non ad domesticam tuam difficultatem ac turpitudinem, sed ad summam rem publicam atque ad omnium nostrum uitam salutemque pertinent. [15] Potestne tibi hæc lux, Catilina, aut huius cæli spiritus esse iucundus, cum scias esse horum neminem qui nesciat te pridie Kalendas Ianuarias Lepido et Tullo consulibus stetisse in comitio cum telo, manum consulum et principum ciuitatis interficiendorum causa parauisse, sceleri ac furori tuo non mentem aliquam aut timorem tuum sed Fortunam populi Romani obstitisse? Ac iam illa omitto — neque enim sunt aut obscura aut non multa commissa postea — quotiens tu me designatum, quotiens uero consulem interficere conatus es! Quot ego tuas petitiones ita coniectas ut uitari posse non uiderentur parua quadam declinatione et, ut aiunt, corpore effugi! Nihil agis, nihil adsequeris, neque tamen conari ac uelle desistis. quotiens iam tibi extorta est ista sica de manibus, [16] quotiens excidit casu aliquo et elapsa est! Quæ quidem quibus abs te initiata sacris ac deuota sit nescio, quod eam necesse putas esse in consulis corpore defigere. 7. Nunc uero quæ tua est ista uita? Sic enim iam tecum loquar, non ut odio permotus esse uidear, quo debeo, sed ut misericordia, quæ tibi nulla debetur. Venisti paulo ante in senatum. Quis te ex hac tanta frequentia, tot ex tuis amicis ac necessariis salutauit? Si hoc post hominum memoriam contigit nemini, uocis exspectas contumeliam, cum sis grauissimo iudicio taciturnitatis oppressus? Quid, quod aduentu tuo ista subsellia uacuefacta sunt, quod omnes consulares qui tibi persæpe ad cædem constituti fuerunt, simul atque adsedisti, partem istam subselliorum nudam atque inanem reliquerunt, quo tandem animo tibi ferendum putas? [17] Serui mehercule mei si me isto pacto metuerent ut te metuunt omnes ciues tui, domum meam relinquendam putarem: tu tibi urbem non arbitraris? Et si me meis ciuibus iniuria suspectum tam grauiter atque offensum uiderem, carere me aspectu ciuium quam infestis omnium oculis conspici mallem: tu, cum conscientia scelerum tuorum agnoscas odium omnium iustum et iam diu tibi debitum, dubitas quorum mentis sensusque uolneras, eorum aspectum præsentiamque uitare? Si te parentes timerent atque odissent tui neque eos ratione ulla placare posses, ut opinor, ab eorum oculis aliquo concederes. Nunc te patria, quæ communis est parens omnium nostrum, odit ac metuit et iam diu nihil te iudicat nisi de parricidio suo cogitare: huius tu neque auctoritatem uerebere nec iudicium sequere nec uim pertimesces? [18] Quæ tecum, Catilina, sic agit et quodam modo tacita loquitur: «Nullum iam aliquot annis facinus exstitit nisi per te, nullum flagitium sine te; tibi uni multorum ciuium neces, tibi uexatio direptioque sociorum impunita fuit ac libera; tu non solum ad neglegendas leges et quæstiones uerum etiam ad euertendas perfringendasque ualuisti. Superiora illa, quamquam ferenda non fuerunt, tamen ut potui tuli; nunc uero me totam esse in metu propter unum te, quicquid increpuerit, Catilinam timeri, nullum uideri contra me consilium iniri posse quod a tuo scelere abhorreat, non est ferendum. Quam ob rem discede atque hunc mihi timorem eripe; si est uerus, ne opprimar, sin falsus, ut tandem aliquando timere desinam». 8. [19] Hæc si tecum, ut dixi, patria loquatur, nonne impetrare debeat, etiam si uim adhibere non possit? Quid, quod tu te in custodiam dedisti, quod uitandæ suspicionis causa ad M’. Lepidum te habitare uelle dixisti? A quo non receptus etiam ad me uenire ausus es, atque ut domi meæ te adseruarem rogasti. Cum a me quoque id responsum tulisses, me nullo modo posse isdem parietibus tuto esse tecum, quia magno in periculo essem quod isdem moenibus contineremur, ad Q. Metellum prætorem uenisti. A quo repudiatus ad sodalem tuum, uirum optimum, M. Metellum demigrasti, quem tu uidelicet et ad custodiendum te diligentissimum et ad suspicandum sagacissimum et ad uindicandum fortissimum fore putasti. Sed quam longe uidetur a carcere atque a uinculis abesse debere qui se ipse iam dignum custodia iudicarit? [20] Quæ cum ita sint, Catilina, dubitas, si emori æquo animo non potes, abire in aliquas terras et uitam istam multis suppliciis iustis debitisque ereptam fugæ solitudinique mandare? «Refer – inquis – ad senatum»; id enim postulas et, si hic ordo placere sibi decreuerit te ire in exsilium, obtemperaturum te esse dicis. Non referam, id quod abhorret a meis moribus, et tamen faciam ut intellegas quid hi de te sentiant. Egredere ex urbe, Catilina, libera rem publicam metu, in exsilium, si hanc uocem exspectas, proficiscere. Quid est? Ecquid attendis, ecquid animaduertis horum silentium? Patiuntur, tacent. Quid exspectas auctoritatem loquentium, quorum uoluntatem tacitorum perspicis? [21] At si hoc idem huic adulescenti optimo P. Sestio, si fortissimo uiro M. Marcello dixissem, iam mihi consuli hoc ipso in templo senatus iure optimo uim et manus intulisset. De te autem, Catilina, cum quiescunt, probant, cum patiuntur, decernunt, cum tacent, clamant, neque hi solum quorum tibi auctoritas est uidelicet cara, uita uilissima, sed etiam illi equites Romani, honestissimi atque optimi uiri, ceterique fortissimi ciues qui circumstant senatum, quorum tu et frequentiam uidere et studia perspicere et uoces paulo ante exaudire potuisti. Quorum ego uix abs te iam diu manus ac tela contineo, eosdem facile adducam ut te hæc quæ uastare iam pridem studes relinquentem usque ad portas prosequantur. 9. [22] Quamquam quid loquor? Te ut ulla res frangat, tu ut umquam te corrigas, tu ut ullam fugam meditere, tu ut ullum exsilium cogites? Vtinam tibi istam mentem di immortales duint! Tametsi uideo, si mea uoce perterritus ire in exsilium animum induxeris, quanta tempestas inuidiæ nobis, si minus in præsens tempus recenti memoria scelerum tuorum, at in posteritatem impendeat. Sed est tanti, dum modo tua ista sit priuata calamitas et a rei publicæ periculis seiungatur. sed tu ut uitiis tuis commoueare, ut legum poenas pertimescas, ut temporibus rei publicæ cedas non est postulandum. Neque enim is es, Catilina, ut te aut pudor a turpitudine aut metus a periculo aut ratio a furore reuocarit. [23] Quam ob rem, ut sæpe iam dixi, proficiscere ac, si mihi inimico, ut prædicas, tuo conflare uis inuidiam, recta perge in exsilium; uix feram sermones hominum, si id feceris, uix molem istius inuidiæ, si in exsilium iussu consulis iueris, sustinebo. Sin autem seruire meæ laudi et gloriæ mauis, egredere cum importuna sceleratorum manu, confer te ad Manlium, concita perditos ciuis, secerne te a bonis, infer patriæ bellum, exsulta impio latrocinio, ut a me non eiectus ad alienos, sed inuitatus ad tuos isse uidearis. [24] Quamquam quid ego te inuitem, a quo iam sciam esse præmissos qui tibi ad forum Aurelium præstolarentur armati, cui sciam pactam et constitutam cum Manlio diem, a quo etiam aquilam illam argenteam quam tibi ac tuis omnibus confido perniciosam ac funestam futuram, cui domi tuæ sacrarium sceleratum constitutum fuit, sciam esse præmissam? Tu ut illa carere diutius possis quam venerari ad caedem proficiscens solebas, a cuius altaribus sæpe istam impiam dexteram ad necem civium transtulisti? 10. [25] Ibis tandem aliquando quo te iam pridem tua ista cupiditas effrenata ac furiosa rapiebat; neque enim tibi hæc res adfert dolorem, sed quandam incredibilem voluptatem. Ad hanc te amentiam natura peperit, uoluntas exercuit, fortuna seruauit. Numquam tu non modo otium sed ne bellum quidem nisi nefarium concupisti. Nactus es ex perditis atque ab omni non modo fortuna uerum etiam spe derelictis conflatam improborum manum. [26] Hic tu qua lætitia perfruere, quibus gaudiis exsultabis, quanta in uoluptate bacchabere, cum in tanto numero tuorum neque audies uirum bonum quemquam neque uidebis! Ad huius uitæ studium meditati illi sunt qui feruntur labores tui, iacere humi non solum ad obsidendum stuprum uerum etiam ad facinus obeundum, uigilare non solum insidiantem somno maritorum uerum etiam bonis otiosorum. Habes ubi ostentes tuam illam præclaram patientiam famis, frigoris, inopiæ rerum omnium quibus te breui tempore confectum esse senties. [27] Tantum profeci, cum te a consulatu reppuli, ut exsul potius temptare quam consul uexare rem publicam posses, atque ut id quod esset a te scelerate susceptum latrocinium potius quam bellum nominaretur. 11. Nunc, ut a me, patres conscripti, quandam prope iustam patriæ querimoniam detester ac deprecer, percipite, quæso, diligenter quæ dicam, et ea penitus animis uestris mentibusque mandate. etenim si mecum patria, quae mihi uita mea multo est carior, si cuncta Italia, si omnis res publica loquatur: «M. Tulli, quid agis? Tune eum quem esse hostem comperisti, quem ducem belli futurum uides, quem exspectari imperatorem in castris hostium sentis, auctorem sceleris, principem coniurationis, euocatorem seruorum et ciuium perditorum, exire patiere, ut abs te non emissus ex urbe, sed immissus in urbem esse uideatur? Nonne hunc in uincla duci, non ad mortem rapi, non summo supplicio mactari imperabis? Quid tandem te impedit? Mosne maiorum? [28] At persæpe etiam priuati in hac re publica perniciosos ciuis morte multarunt. An leges quæ de ciuium Romanorum supplicio rogatæ sunt? At numquam in hac urbe qui a re publica defecerunt ciuium iura tenuerunt. An inuidiam posteritatis times? Præclaram uero populo Romano refers gratiam qui te, hominem per te cognitum, nulla commendatione maiorum tam mature ad summum imperium per omnis honorum gradus extulit, si propter inuidiam aut alicuius periculi metum salutem ciuium tuorum neglegis. [29] Sed si quis est inuidiæ metus, non est uehementius seueritatis ac fortitudinis inuidia quam inertiæ ac nequitiæ pertimescenda. An, cum bello uastabitur Italia, uexabuntur urbes, tecta ardebunt, tum te non existimas inuidiæ incendio conflagraturum?» 12. His ego sanctissimis rei publicæ uocibus et eorum hominum qui hoc idem sentiunt mentibus pauca respondebo. Ego, si hoc optimum factu iudicarem, patres conscripti, Catilinam morte multari, unius usuram horæ gladiatori isti ad uiuendum non dedissem. Etenim si summi uiri et clarissimi ciues Saturnini et Gracchorum et Flacci et superiorum complurium sanguine non modo se non contaminarunt sed etiam honestarunt, certe uerendum mihi non erat ne quid hoc parricida ciuium interfecto inuidiæ mihi in posteritatem redundaret. Quod si ea mihi maxime impenderet, tamen hoc animo fui semper ut inuidiam uirtute partam gloriam, non inuidiam putarem. [30] Quamquam non nulli sunt in hoc ordine qui aut ea quæ imminent non uideant aut ea quæ uident dissimulent; qui spem Catilinæ mollibus sententiis aluerunt coniurationemque nascentem non credendo conroborauerunt; quorum auctoritate multi non solum improbi uerum etiam imperiti, si in hunc animaduertissem, crudeliter et regie factum esse dicerent. Nunc intellego, si iste, quo intendit, in Manliana castra peruenerit, neminem tam stultum fore qui non uideat coniurationem esse factam, neminem tam improbum qui non fateatur. Hoc autem uno interfecto intellego hanc rei publicæ pestem paulisper reprimi, non in perpetuum comprimi posse. Quod si sese eiecerit secumque suos eduxerit et eodem ceteros undique conlectos naufragos adgregarit, exstinguetur atque delebitur non modo hæc tam adulta rei publicæ pestis uerum etiam stirps ac semen malorum omnium. 13. [31] Etenim iam diu, patres conscripti, in his periculis coniurationis insidiisque uersamur, sed nescio quo pacto omnium scelerum ac ueteris furoris et audaciæ maturitas in nostri consulatus tempus erupit. Nunc si ex tanto latrocinio iste unus tolletur, uidebimur fortasse ad breue quoddam tempus cura et metu esse releuati, periculum autem residebit et erit inclusum penitus in uenis atque in uisceribus rei publicæ. Vt sæpe homines ægri morbo graui, cum æstu febrique iactantur, si aquam gelidam biberunt, primo releuari uidentur, deinde multo grauius uehementiusque adflictantur, sic hic morbus qui est in re publica releuatus istius poena uehementius reliquis uiuis ingrauescet. [32] Qua re secedant improbi, secernant se a bonis, unum in locum congregentur, muro denique, quod sæpe iam dixi, secernantur a nobis; desinant insidiari domi suæ consuli, circumstare tribunal prætoris urbani, obsidere cum gladiis curiam, malleolos et faces ad inflammandam urbem comparare; sit denique inscriptum in fronte unius cuiusque quid de re publica sentiat. Polliceor hoc uobis, patres conscripti, tantam in nobis consulibus fore diligentiam, tantam in uobis auctoritatem, tantam in equitibus Romanis uirtutem, tantam in omnibus bonis consensionem ut Catilinæ profectione omnia patefacta, inlustrata, oppressa, uindicata esse uideatis. [33] Hisce ominibus, Catilina, cum summa rei publicæ salute, cum tua peste ac pernicie cumque eorum exitio qui se tecum omni scelere parricidioque iunxerunt, proficiscere ad impium bellum ac nefarium. Tu, Iuppiter, qui isdem quibus hæc urbs auspiciis a Romulo es constitutus, quem Statorem huius urbis atque imperi uere nominamus, hunc et huius socios a tuis ceterisque templis, a tectis urbis ac moenibus, a uita fortunisque ciuium omnium arcebis et homines bonorum inimicos, hostis patriæ, latrones Italiæ scelerum foedere inter se ac nefaria societate coniunctos æternis suppliciis uiuos mortuosque mactabis.

 

I.1. Fino a quando, Catilina, intendi dunque abusare della nostra pazienza? Per quanto tempo ancora questo tuo comportamento fazioso si prenderà gioco di noi? Fino a che punto si spingerà la tua illimitata sfrontatezza? Non ti turbano il presidio notturno a difesa del Palatino, le pattuglie armate che perlustrano la città, l’angoscia del popolo, l’accorrere di tutti i cittadini onesti, e neppure la scelta di questa sede – così difesa – per le riunioni del senato, né l’espressione del volto di costoro? Non ti accorgi che i tuoi progetti sono stati scoperti? Non ti rendi conto che il tuo complotto è ostacolato dal fatto che tutti qui ne sono a conoscenza? Credi forse che qualcuno di noi ignori che cosa hai fatto la notte scorsa e quella precedente, dove sei stati, quali congiurati hai convocato e quali decisioni hai preso? 2. Che tempi! Che costumi! Il senato è informato di questi progetti, il console ne è consapevole: eppure quello lì continua a vivere! A vivere? Non solo, ma addirittura viene in senato, gli si permette di prender parte alle decisioni d’interesse comune, osserva ciascuno di noi e con un’occhiata gli assegna un destino di morte! Quanto a noi, uomini di grande coraggio, siamo convinti di fare abbastanza per la Repubblica vanificando i furiosi tentativi assassini di costui. Ti si sarebbe dovuto condannare a morte già in precedenza, Catilina, per ordine del console; su di te avrebbe dovuto riversarsi la rovina che tu già da lungo tempo trami contro tutti noi! 3. Se un uomo di grandissimo prestigio, quale fu il pontefice massimo Publio Scipione, pur non ricoprendo cariche pubbliche, mandò a morte Tiberio Gracco che peraltro attendeva solo in misura marginale alla stabilità della Repubblica, noi consoli tollereremo che Catilina accarezzi l’idea di devastare con stragi e incendi il mondo intero? Tralascio il noto esempio, ormai troppo lontano, di Gaio Servilio Ahala, il quale uccise di propria mano Spurio Melio che ordiva trame estremistiche. Ma vi assicuro che vi fu, vi fu anche in questa Repubblica un tempo il coraggio, quando gli uomini di grande energia infliggevano al cittadino sedizioso un supplizio più crudele di quello riservato al peggior nemico. Contro di te, Catilina, un decreto del senato energico e severo lo possediamo: la Repubblica non è priva della saggezza e della capacità di decisione del collegio senatorio; siamo noi consoli – lo riconosco davanti a tutti – siamo noi a venir meno al nostro dovere. II. 4. Un tempo, il senato conferì al console Lucio Opimio i pieni poteri con l’incarico di vigilare affinché la Repubblica non subisse danni; non trascorse nemmeno una notte che per un semplice sospetto di congiura venisse messo a morte Gaio Gracco (eppure suo padre era famosissimo, così come il nonno materno e i vari antenati); anche l’ex console Marco Fulvio fu ucciso insieme con i figli. Un analogo decreto del senato affidò la salvezza dello Stato ai consoli Gaio Mario e Lucio Valerio. Ebbene, la condanna a morte decretata dal senato non attese nemmeno un giorno a colpire il tribuno della plebe Lucio Saturnino e il pretore Gaio Servilio. Noi invece già da venti giorni tolleriamo che la decisione dei senatori rimanga senza conseguenze. Abbiamo a disposizione, infatti, un senatusconsultum dell’efficacia che sapete, ma lo lasciamo ben chiuso negli archivi ufficiali, come una spada nel fodero! In conformità a tal decreto, Catilina, saresti dovuto essere ucciso senza indugio. Vivi invece, e sei ancora in vita non per moderare la tua arroganza, ma per rafforzarla. Desidero essere clemente, padri coscritti; ma in un momento di così grave pericolo per la Repubblica desidero anche non apparir indolente: io stesso quindi mi accuso di pigrizia e negligenza. 5. In Italia, allo sbocco delle valli toscane, vi è un esercito schierato contro il popolo romano; il numero dei nemici cresce di giorno in giorno; il comandante, la guida di tal esercito, lo potete vedere in città, e persino in senato, ordire giorno per giorno le sue trame contro la Repubblica. Se ora ordinassi di arrestarti, Catilina, o di ucciderti, sono convinto che tutti i cittadini onesti direbbero che l’ho fatto troppo tardi, e non che ho agito con eccessiva crudeltà. Ma io per una ben precisa ragione sono portato a credere che sia bene non fare ancor ciò che si sarebbe dovuto fare in precedenza. Alla fine sarai comunque giustiziato, quando ormai non si troverà più nessuno tanto ingiusto, tanto corrotto, tanto simile a te, da non riconoscere apertamente che ho agito secondo la legge. 6. Finché ci sarà uno solo che oserà difenderti vivrai, ma vivrai così come stai vivendo ora, assediato dalle mie numerose e risolute guardie, in modo che tu non possa ordire trame contro la Repubblica. Molti occhi e molte orecchie ti osserveranno e ti ascolteranno, senza che tu te ne accorga, come hanno fatto finora. III. E dunque, Catilina, che motivo c’è per attendere ancora, se nemmeno la notte riesci a nascondere con le tenebre i tuoi incontri scellerati, se neppure le pareti di un’abitazione privata bastano a coprire le voci della tua congiura, se tutto è chiaro, se tutto viene allo scoperto? Dammi ascolto: cambia il tuo proposito, dimentica massacri e incendi. Sei accerchiato: tutti i tuoi piani sono per noi più chiari della luce; se vuoi, possiamo passarli insieme in rassegna. 7. Non ricordi che il 21 ottobre in senato ho sostenuto che in un giorno stabilito, che sarebbe stato il 27 ottobre, Gaio Manlio, tuo compare d’azioni temerarie e tuo braccio destro, sarebbe sceso in armi? Mi è forse sfuggita, Catilina, l’enormità del tuo tentativo – così crudele e incredibile – o peggio – e ciò colpisce ancor più – la data? Inoltre sono stato io a rivelare in senato che tu avevi posticipato il massacro dei senatori al 28 ottobre, giorno in cui molti notabili della città lasciarono Roma non tanto per mettersi in salvo quanto per vanificare i tuoi progetti. Puoi forse negare che proprio in quel giorno, circondato dalle mie guardie e dalla mia attenta vigilanza, non hai potuto attuare i tuoi piani contro la Repubblica, e – giacché gli altri erano partiti – andavi dicendo che ti saresti accontentato di eliminare me che non mi ero allontanato? 8. Che cosa vuoi ancora? Confidando nel fatto che l’1 novembre con una sortita notturna avresti conquistato Preneste, non ti rendesti conto che quella colonia, per mio ordine, era custodita dai miei soldati, dalle mie guardie, dalle mie sentinelle? Non puoi fare né tramare né pensar nulla senza che io non solo senta, ma anche veda e comprenda perfettamente. IV. Ripercorri dunque con me la penultima notte: ti accorgerai così che io veglio sulla sicurezza della Repubblica molto più attentamente di quanto tu non ti adoperi per la sua rovina. La penultima notte ti sei recato nella via dei fabbricanti di falci – intendo parlar chiaro – in casa di Marco Leca. Là si erano radunati parecchi complici del tuo piano folle e scellerato. Osi forse negarlo? Perché te ne stai zitto? Se neghi, addurrò prove della tua colpevolezza: vedo, infatti, che qui in senato sono presenti alcuni che erano là insieme con te! 9. Dèi immortali! In che mondo viviamo? In che città abitiamo? Che governo abbiamo mai? Qui, proprio qui, in mezzo a noi, senatori, in quest’assemblea, la più sacra e autorevole della terra, sono seduti quelli che tramano la morte di noi tutti, la distruzione di questa città e persino del mondo intero. A me, console, tocca sopportare la loro presenza e devo chiedere il loro parere per la salvezza della Repubblica senza neppure riuscire a ferire con la voce coloro che sarebbe stato necessario passar per le armi. Dunque, Catilina, quella notte andasti da Leca: distribuisti gli incarichi ai congiurati delle varie zone d’Italia e decidesti dove ti pareva opportuno che ciascuno si recasse; stabilisti anche chi lasciare a Roma e chi portare con te. Designasti i quartieri della città da incendiare, confermasti che la tua partenza era ormai prossima e dicesti di doverti trattenere ancora – ma per poco – per il fatto che io ero ancora in vita. Si trovarono due cavalieri romani disposti a liberarti anche da questa preoccupazione, i quali s’impegnarono a uccidermi nel mio letto quella notte stessa poco prima dell’alba. 10. Tutte queste cose sono venuto a saperle non appena sciolta la vostra riunione. Rafforzai il presidio di guardie intorno alla mia casa, vietai l’ingresso a coloro che al mattino tu hai mandato a salutarmi, poiché erano venuti proprio quelli la cui visita in quel momento mi aspettavo – come avevo già predetto a molti illustri cittadini. V. Questa è la situazione, Catilina: porta a termine ciò che hai intrapreso; esci una volta per tutte dalla città; le porte sono spalancate: vai! Da troppo tempo ormai le celebri truppe del tuo amico Manlio ti attendono, loro comandante! Portati via tutti i tuoi, o almeno il maggior numero possibile: ripulisci la città! Sarò liberato da una grande preoccupazione quando un muro si leverà tra me e te. Ormai non puoi restare tra noi più a lungo: io non voglio, non posso, non ho assolutamente intenzione di sopportarlo. 11. Dobbiamo nutrire grande riconoscenza verso gli dèi immortali e in particolare verso Giove Statore, da sempre custode di questa città, per il fatto che già tante volte siamo riusciti a sfuggire a questa rovina, così spaventosa, orribile e pericolosa per la Repubblica, la cui sopravvivenza non bisogna mai più permettere che venga messa a repentaglio da un solo uomo. Fino a che tu, Catilina, hai tramato contro di me, quando ero console designato, mi son difeso non con una scorta pubblica, ma con una guardia del corpo privata. Quando poi, nel corso degli ultimi comizi per l’elezione dei consoli, hai tentato di uccidermi – allora ero console in carica – nel Campo Marzio insieme con i candidati tuoi concorrenti, sono riuscito a reprimere i tuoi tentativi assassini grazie alla protezione degli amici e delle loro guardie, senza ricorrere a una leva straordinaria. Insomma, ogni volta che hai preso di mira me mi sono opposto da solo ai tuoi dardi, sebbene mi rendessi conto che la mia morte avrebbe comportato una grave rovina per la Repubblica. 12. Ora però tu attenti apertamente all’intera cosa pubblica, vuoi trascinare alla distruzione e alla catastrofe i templi degli dèi immortali, gli edifici della città, la vita di tutti i cittadini, insomma l’Italia intera. Perciò, dato che non oso ancora provvedere con la decisione che sarebbe la prima da prendere e la più conveniente a questo mio grado e alla tradizione, farò quanto risulta meno grave dal punto di vista del rigore, ma più utile alla salvezza comune. Se, infatti, impartissi l’ordine di ucciderti rimarrebbe nella Repubblica un manipolo di congiurati. Se invece tu – cosa a cui ti esorto già da parecchio tempo – te ne andrai, la fogna della città, la numerosa ed esiziale torma dei tuoi complici, sarà ripulita. 13. Che c’è, Catilina? Esiti a fare per mio ordine ciò che avresti fatto di tua spontanea volontà? Il console ordina al nemico di allontanarsi dalla città. In esilio, mi chiedi? Non te lo posso ordinare, ma, se mi chiedi un consiglio, te lo suggerisco! VI. Che cosa c’è, Catilina, che non ti possa trattenere ancora in questa città, nella quale non vi è nessuno – tranne questa banda di tuoi scellerati complici – che non ti tema, che non ti abbia in odio? Quale marchio d’immoralità non bolla la tua vita privata? Quali azioni disonorevoli non macchiano la tua fama? Da quale dissolutezza rifuggirono mai i tuoi occhi, da quale delitto le tue mani, da quale scandalo la tua persona? Quale adolescente, dopo averlo irretito con gli allettamenti della tua corruzione, non hai guidato al delitto o alla passione sfrenata? 14. Che dire di più? Quando, poco tempo fa, con l’uccisione della tua prima moglie hai sgomberato la casa per nuove nozze, non hai forse sommato a quest’infamia anche un delitto impronunciabile? Ma lo passo sotto silenzio, e volentieri evito di parlarne, perché non risulti che in questa città è stato perpetrato o non è stato punito un delitto tanto esecrabile. Ometto lo stato rovinoso delle tue finanze: ti accorgerai alle prossime Idi della minaccia che incombe su di te; vengo piuttosto a quei fatti che non riguardano l’obbrobrio della tua vita privata, né le tue difficoltà economiche, ma il supremo bene della Repubblica e la vita e la sicurezza di tutti noi. 15. Come può, Catilina, esserti gradita questa luce o l’aria che respiri, sapendo che nessuno dei presenti ignora che l’ultimo giorno dell’anno di consolato di Lepido e Tutto hai preso parte ai comizi armato, che avevi raccolto un pugno di uomini per uccidere i consoli e i cittadini più in vista e che al progetto scellerato non un tuo pensiero di ravvedimento o un qualche timore si è opposto, ma la Fortuna del popolo romano? Ma tralascio anche questi delitti: infatti, quelli commessi in seguito non sono né sconosciuti né pochi. Quante volte hai tentato di uccidermi quand’ero console designato e quante volte persino dopo che ero divenuto console! Da quanti tuoi colpi assestati in modo che sembrasse impossibile evitarli mi son difeso con un semplice scarto del corpo! Perdi tempo, non ottieni nulla, eppure non metti fine ai tuoi velleitari tentativi. 16. Quante volte già questo pugnale ti è stato strappato dalle mani! Quante volte per qualche motivo ti è caduto e non ha avuto effetto! Non so con quali riti sia stato consacrato e promesso in voto, se ritieni necessario conficcarlo nel corpo di un console. VII. Ma dimmi, che vite è ora la tua? Ormai ti rivolgo la parola non mosso dall’odio, come dovrei, ma dalla misericordia, che tu non meriti affatto. Poco fa sei venuto qua in senato. Chi di tutta questa folla, chi dei tuoi numerosi amici e clienti ti ha rivolto il saluto? A memoria d’uomo non si ricorda che qualcuno abbia mai ricevuto un’accoglienza così ostile: e allora? Attendi il disprezzo delle parole quando già sei colpito dal durissimo giudizio del silenzio? E ancora: al tuo arrivo questi sedili sono stati lasciati liberi, non appena ti sei seduto, tutti gli ex consoli da te più volte condannati a morte hanno abbandonato completamente questo settore di seggi. Con che animo insomma pensi di sopportare tutto ciò? 17. Se i miei servi mi temessero al punto a cui ti temono tutti i tuoi concittadini, mi riterrei costretto ad abbandonare la mia casa. Non pensi tu di dover lasciare la città? Se mi vedessi da loro sospettato e accusato di cose tanto gravi – sia pur a torto –, preferirei essere privato della possibilità di vederli piuttosto che essere guardato da tutti con occhi ostili. Tu invece, nonostante riconosca – per la coscienza che hai dei tuoi crimini – che l’odio di tutti è giustificato e dovuto a te da tempo, esiti tuttavia ad allontanarti dagli occhi e dalla presenza di quelli cui ferisci la mente e l’anima? Se i tuoi genitori avessero paura di te e ti odiassero e non ti fosse possibile in alcun modo ricondurli alla ragione, te ne andresti lontano – immagino – dai loro occhi. Ora è la patria, madre comune di tutti noi, a odiarti e temerti, ormai da tempo convinta che tu non accarezzi altro progetto che il parricidio: non ne rispetterai l’autorità, non ne accetterai la sentenza, non ne temerai la forza? 18. Essa, Catilina, discute con te silenziosa, in un certo qual modo, ti rivolge la parola così: «Ormai da molti anni non è stato perpetrato alcun delitto se non per opera tua, nessuna azione infamante senza la tua partecipazione; soltanto per te l’uccisione di molti cittadini, la vessazione e la depredazione degli alleati sono rimasti impuniti e privi di conseguenze: sei stato capace non solo di calpestare le leggi e i tribunali, ma anche di distruggerli e annientarli. I noti delitti del passato, che non avrei dovuto sopportare, tuttavia, come ho potuto, li ho sopportati. Ora però sono in grande ansietà per causa soltanto tua: a ogni rumore si teme Catilina; sembra che nessun complotto possa essere ordito contro di me senza la tua scellerata partecipazione: non intendo più sopportarlo. Perciò vattene, e liberami da questo timore: se è fondato, perché io non ne sia uccisa, se invece è falso, perché una volta per tutte io smetta di aver paura!». VIII. 19. Se, come ho detto, la patria ti rivolgesse queste parole, non dovrebbe forse ottenere ciò che ti chiede, anche se non fosse in grado di usare la forza? E che dirò del fatto che hai chiesto gli arresti domiciliari e che fugare i sospetti hai dichiarato l’intenzione di trasferirti presso Marco Lepido? Ma Lepido non ti ha accolto, e hai osato venire anche da me a chiedere di essere ospitato in casa mia. Ricevuta la medesima risposta, cioè che io non potevo ritenermi sicuro abitando tra le stesse pareti in cui abitavi tu, poiché correvo già un grave pericolo vivendo entro la stessa cerchia di mura, ti sei recato dal pretore Quinto Metello. Rifiutato anche da lui, te ne andasti dal tuo amico Marco Metello, ottima persona, che credesti sarebbe stato molto zelante nel custodirti, astutissimo nel sorvegliarti e durissimo nel punirti. Ma quanto è giusto che stia lontano dai ceppi del carcere uno che da se stesso si giudica degno degli arresti domiciliari? 20. Vista la situazione, Catilina – dal momento che non sei in grado di morire con animo fermo –, esiti ad andare in altre terre e ad affidare la tua vita, sottratta a numerosi supplizi giusti e meritati, a quella forma di fuga che è la solitudine? «Fanne proposta formale al senato» mi dici: lo chiedi tu stesso e, se il senato decretasse il tuo esilio, ti proclami disposto a obbedire. Non lo proporrò, perché ciò è contrario alle mie abitudini, e farò tuttavia in modo che tu percepisca chiaramente che cosa pensano di te. Vattene dalla città, Catilina, libera la Repubblica dal terrore! Va’ in esilio, se aspetti il loro giudizio! E allora? Ma presti attenzione? Non senti il loro silenzio? Lasciano che parli io, loro tacciono. A che scopo attendi un ordine esplicito, quando la loro volontà traspare anche solo dal silenzio? 21. Se io avessi detto le stesse cose a questo giovane valoroso, Publio Sestio, o a Marco Marcello, uomo di grande coraggio, il senato avrebbe già reagito violentemente contro di me in questa stessa sede e a buon diritto, nonostante io sia il console. Invece, trattandosi di te, approvano con il silenzio, lasciandomi parlare pronunciano sentenze, tacendo gridano; e non soltanto costoro, dei quali rispetti l’autorità pur tenendo scarso conto della loro vita, ma anche tutti i cavalieri romani, uomini di grande onore e valore e tutti gli altri cittadini coraggiosi che circondano il senato, dei quali puoi costatare di persona il numero, intuire i propositi e di cui poco fa hai anche potuto sentire le voci. A fatica tengo lontani da te le loro armi e i loro colpi. Ma potrei facilmente convincerli a farti da scorta fino alle porte se tu decidessi di abbandonare questi luoghi che già da tempo ti proponi di distruggere. IX. 22. Ma perché parlare? Con la speranza che qualcosa ti pieghi, che prima o poi tu ti corregga, che tu giunga finalmente alla decisione di fuggire o di andare in esilio? Magari entrassi in tale ordine d’idee! Eppure mi è chiaro che, nel caso ti convincessi ad andare in esilio per effetto delle mie parole, un’immensa grandine d’impopolarità ne verrebbe per me, se anche non oggi – è vivo, infatti, il ricordo dei tuoi recenti delitti –, certo in futuro. Ciononostante ne vale la pena, purché la sventura colpisca me soltanto e la Repubblica non sia minacciata. Ma non si deve pretendere che tu sia spinto dai tuoi vizi a temere le pene sancite dalla legge, che ti sacrifichi per la difficile situazione della Repubblica. Infatti, Catilina, non sei certo il tipo che la vergogna trattiene dal compiere un’azione infamante, o la paura dell’affrontare un pericolo, o la ragione dal commettere una follia. 23. Perciò, come ti ho già ripetuto più volte, vattene e se vuoi suscitare odio contro di me – tuo nemico, come dici, personale – va’ in esilio immediatamente. Sarà una dura fatica sopportare le calunnie dei malvagi se farai ciò. A stento sarò in grado di sostenere il peso di quest’odio se andrai in esilio per ordine del console. Se invece vuoi essere utile alla mia fama futura, allora vattene insieme con la schiera impudente dei tuoi fidi, raggiungi Manlio, raccogli i peggiori cittadini, allontanati dai buoni, dichiara guerra alla patria, gioisci di questa guerra di briganti, in modo che non sembri che io ti abbia cacciato in mezzo a degli stranieri ma che tu abbia raggiunto i tuoi dietro loro invito. 24. Perché mai dovrei tentare di persuaderti, sapendo che hai inviato alcuni ad attenderti armati a Foro Aurelio? Sapendo che hai preso accordi con Manlio sul giorno dell’incontro? Sapendo che hai mandato avanti anche l’aquila d’argento, che – ne sono sicuro – sarà segno di luttuosa rovina per te e per tutti i tuoi, aquila a cui hai addirittura eretto un empio sacrario in casa tua? È mai possibile che possa starle lontano tu che eri solito pregarla prima di uscire per commettere un delitto, tu che dai suoi altari hai spesso ritratto la mano sacrilega per andare a uccidere dei concittadini? X. 25. Te ne andrai insomma una volta per tutte là dove già in precedenza ti trascinava la tua sfrenata e insana smania! E questo fatto non ti provoca dolore, ma una sorta di sconvolgente voluttà: per tale follia ti ha generato la natura, ti ha allenato la volontà, ti ha protetto il destino. Non solo non hai mai desiderato la pace, ma neppure la guerra, a meno che non fosse rovinosa. Ti sei imbattuto in una masnada di mascalzoni, un’accozzaglia di uomini perduti, non solo traditi dalla sorte ma anche privi di qualsiasi speranza. 26. Con loro chissà che felicità potrai sperimentare, quali gioie ti faranno esultare, quale immenso diletto t’inonderà quando ti accorgerai che in un così numeroso gruppo di persone non ne ascolterai e non ne potrai vedere una che sia perbene. A questo genere di vita erano indirizzate le tue fatiche, di cui si favoleggia: dormivi per terra non solo per progettare un adulterio ma anche per commettere un delitto, vegliavi non solo per insidiare il sonno dei mariti ma anche i beni dei cittadini pacifici. Ti si offre un’occasione per dar prova della tua tanto celebrata capacità di sopportare la fame, il freddo, la privazione di tutto: senti che tra breve ne sarai sopraffatto. 27. Respingendoti dal consolato ho ottenuto almeno un risultato positivo: hai assalito la Repubblica da esule, piuttosto che vessarla da console, e quanto di scellerato hai intrapreso è stato giudicato un atto di brigantaggio piuttosto che di guerra. XI. Ora, senatori, affinché io possa prevenire o respingere un rimprovero in un certo qual modo fondato per la Repubblica, ascoltate con attenzione – vi prego – ciò che sto per dire e imprimetevelo bene nel cuore e nella mente. Infatti, se la patria, che mi è molto più cara della vita, se l’Italia intera, se tutta la Repubblica mi parlasse così: «Marco Tullio, che fai? Hai scoperto che è un nemico, prevedi che porterà guerra, ti accorgi che gli avversari lo aspettano come comandante, lui, autore di delitti, capo di una congiura, sobillatore di schiavi e di cittadini ridotti in rovina, eppure sopporti che se ne vada, in modo che sembrerà non che tu l’abbia cacciato, ma che l’abbia fatto entrare in città. Non darai dunque l’ordine di imprigionarlo, di condannarlo a morte, di punirlo con l’estremo supplizio? 28. Che cosa mai te lo impedisce? Il mos maiorum? Più e più volte in questa Repubblica anche dei privati cittadini hanno condannato a morire i cittadini pericolosi. Forse le leggi che sono state emanate riguardo alla condanna a morte di cittadini romani? Mai in questa città chi si è messo contro la Repubblica ha potuto conservare i diritti civili. Temi forse l’odio dei posteri? Dunque nutri una riconoscenza davvero mirabile verso il popolo romano, che ha elevato te – uomo fattosi da solo e privo di qualsiasi raccomandazione dovuta a parentele – attraverso tutta la serie delle cariche pubbliche così giovane al sommo comando, se per timore dell’odio o di qualche rischio personale trascuri la sicurezza dei tuoi concittadini. 29. Tuttavia, se pure non può mancare il timore d’incorrere nel biasimo, si deve forse temere più quello proveniente dall’aver operato con un severo vigore di quello attirato da una malvagia insolenza? Quando l’Italia sarà sconvolta dalla guerra, le città devastate, gli edifici dati alle fiamme, non pensi che anche tu allora verrai travolto dall’incendio del biasimo?». XII. Risponderò brevemente a queste accorate parole della Repubblica e ai pensieri di coloro che provano sentimenti analoghi. Se avessi ritenuto che la cosa migliore, senatori, fosse condannare Catilina a morte, non avrei concesso nemmeno il godimento di un’ora di vita in più a questo delinquente. Infatti, se uomini grandi e famosi non solo non restarono contaminati dal sangue di Saturnino, dei Gracchi, di Flacco e di molti altri ribelli dei tempi passati, ma addirittura ne guadagnarono onori, senza dubbio io non avrei dovuto temere che – per l’uccisione di quest’assassino di cittadini – si riversasse su di me, tuttavia sono sempre stato del parere che l’odio guadagnato col valore non sia da considerare tale, ma gloria. 30. Sennonché nell’ordine senatorio vi sono alcuni che o non vedono ciò che sta per accadere oppure dissimulano ciò che vedono; alcuni che alimentarono con deboli proposte le speranze di Catilina e – non prestandovi credito – diedero forza alla nascente congiura. In base all’autorevole consiglio di costoro, se i lo avessi punito, molti, non soltanto male intenzionati ma anche ingenui, avrebbero sostenuto che agivo in modo crudele e dispotico. Ma comprendo: se questo qui giungerà agli accampamenti di Manlio, dov’è diretto, non vi sarà nessuno tanto stolto da non vedere che è stata ordita una congiura, nessuno tanto disonesto da non ammetterne l’esistenza. Inoltre, ucciso lui soltanto, è chiaro che questo flagello della Repubblica sarebbe frenato per un po’, ma non debellato per sempre. Se invece se ne andrà da sé portandosi via i suoi, e raccoglierà in quel luogo gli altri sbandati che ha convocato da ogni parte, sarà completamente estirpato non solo questo flagello tanto radicato nella cosa pubblica, ma anche il seme e la radice di tutti i mali. XIII. 31. Già da parecchio tempo, infatti, senatori, ci troviamo in questo insidioso pericolo della congiura, ma, non so proprio per quale motivo, il culmine di tutti i delitti, del furore antico e dell’estremismo politico è stato raggiunto durante il mio consolato. Se dunque di tutta questa cosca di briganti viene ucciso soltanto costui, forse sembrerà di essere stati liberati dalla preoccupazione e dal terrore, ma per brevissimo tempo: il pericolo perdurerà, rimanendo chiuso nel profondo, nelle vene e nelle viscere della Repubblica. Come spesso accade a chi è gravemente ammalato e in preda all’arsura della febbre, che sembra in un primo momento provare sollievo quando beve dell’acqua gelida, ma in seguito le sue condizioni si aggravano, così questo morbo, che affligge la Repubblica, alleviato dalla morte di costui, s’inasprirà se rimangono in vita i suoi complici. 32. Perciò se ne vadano i malvagi; si separino dai buoni, si radunino tutti nello stesso luogo. Un moro, come ho ripetuto spesso, li divida da noi. Smettano di tramare insidie al console nella sua casa, di accerchiare il tribunale del pretore urbano, di assediare con spade la curia, di preparare proiettili incendiari e torce per dar fuoco alla città; una buona volta, ciascuno porti scritte in fronte le sue idee politiche. Vi prometto, senatori, che grazie all’infaticabile impegno di noi consoli e alla vostra somma autorità, all’immenso valore dei cavalieri romani, all’unanime consenso di tutti i cittadini onesti, con l’allontanamento di Catilina vedrete tutti gli intrighi scoperti, messi in luce, soffocati e puniti. 33. Con questi auguri, Catilina, con la somma salvezza della Repubblica, con la rovinosa distruzione tua e di quelli che si sono uniti a te in ogni delitto e nell’assassinio, parti per una guerra empia e nefasta. Tu, o Giove, il cui culto è stato stabilito in questo luogo da Romolo con gli stessi auspici con cui è stata fondata la città, che chiamiamo «Protettore» di questa città e giustamente anche del sommo comando, tieni lontani costui e i suoi compari dai tuoi templi e da quelli degli altri dèi, dalle abitazioni e dalle mura urbane, dalla vita e dai beni dei cittadini, e questi uomini, avversi ai buoni, nemici della patria, predatori dell’Italia, uniti da un patto delittuoso e da una nefasta amicizia, puniscili vivi e morti con eterni supplizi!

 (trad. it. E. Risari)