Gli “stipendia” dei soldati romani

Stranamente, a fronte di una vastissima bibliografia moderna sull’argomento, scarsa è la documentazione antica, letteraria ed epigrafica, su quanto esattamente guadagnassero i soldati romani.

Questo stato di cose ha reso difficile agli studiosi una precisa ricostruzione della paga annuale di un militare antico. Il primo a studiare l’argomento fu Alfred von Domaszewski nel 1899 e da allora sono stati proposti diversi modelli interpretativi; le ricerche più recenti sono state condotte da Michael A. Speidel, che a partire dal 1992 si è esercitato sulla questione.

Il signifer distribuisce lo stipendium ai soldati della Legio XXI Rapax (I secolo). Illustrazione di J. Morán.

È noto, grazie soprattutto a fonti papiracee, che i soldati romani ricevevano una paga annua in tre rate (stipendia): il 1° gennaio (RMR 72.7; 73 fr. h; ChLA 466; 473; 495; P. Panop. 2.37; 58; 201; 292), il 1° maggio (RMR 66 fr. b I 30, 71 fr. a 1; 10 fr. b 5) e il 1° settembre (RMR 66 fr. b II 3; ChLA 495; P. Oxy1047; 2561).

L’entità degli emolumenti corrisposti ai militari nel I e II secolo è stata ricostruita grazie ad alcune fonti letterarie, mentre quella del III secolo è stata desunta in modo indiretto e non esiste un parere unanime tra gli studiosi (Jahn 1984, 66 ss.). Per maggiore comodità, tutte le cifre stimate sono riportate dagli esperti in sestertii, quattro dei quali fanno un denarius (Jahn 1984, 65; cfr. Doppler 1989, 110-111).

I maggiori problemi hanno riguardato l’ammontare complessivo delle paghe in base al grado ricoperto nella gerarchia dell’esercito; naturalmente, cavalieri e centurioni percepivano molto di più di un semplice miles, ma le cifre non sono certe, soprattutto per i reparti scelti, come le cohortes praetoriae o quelle urbanae. In ogni caso, gli studi di Speidel hanno permesso di ricostruire con buona verosimiglianza il sistema utilizzato tra l’età di Cesare e l’impero di Massimino Trace: i pagamenti degli stipendia erano commisurati al grado del beneficiario, erano effettuati con scadenze regolari e prefissate, erano calcolati in base alla lunghezza del servizio prestato, e pare che contemplassero ulteriori  beneficia per particolari meriti del soldato.

Ora, un legionario semplice del I secolo percepiva 300 sestertii, pari a 75 denarii, per stipendium: Svetonio (Iul. 26, 3), riferendo che legionibus stipendium in perpetuum duplicavit, potrebbe alludere al fatto che Cesare, forse nel 49 a.C., avesse fissato le corresponsioni intorno a alla suddetta cifra (Keppie 1996, 371-372).

Non è attestato che sotto Augusto ci fosse stato un aumento, ma è noto da Cassio Dione (LIV 25, 5-6) che nel 13 a.C. il princeps impose una formula certa (o condicio) sul sistema degli emolumenti militari. Tacito (Ann. I 17, 4) riporta che intorno all’anno 14 d.C. i soldati romani ricevevano una paga giornaliera di 10 assi, equivalenti a 912½ sestertii l’anno.

Da sinistra a destra: miles auxiliarum (Germania, 14); miles legionarius (Germania, c. 20-50); beneficiarius (Britannia, 70). Illustrazione di G. Sumner.

Cassio Dione (LXVII 3, 5), invece, riferisce che prima dell’84 lo stipendium militare ammontava a 300 sestertii, mentre, dopo l’abolizione dello stipendium Domitiani (Suet. Dom. 7, 3, addidit et quartum stipendium militi, aureos ternos), ogni soldato ne riceveva 400.

Il biografo di Settimio Severo (SHA Sev. 12, 2) ed Erodiano (III 8, 5) dicono che l’imperatore aumentò le paghe militari a quantità mai raggiunte in precedenza: Joachim Jahn ha dimostrato che questo incremento fu del 100% (cfr. Passerini 1946, 145-159).

Caracalla, ricordando le ultime parole del padre sul letto di morte, incrementò ulteriormente gli stipendia a 1200 sestertii, soprattutto per ingraziarsi i soldati dopo l’uccisione del fratello Geta (Hrd. IV 4, 7; cfr. DCass LXXVIII 36, 6, che riporta che dal 218 l’aumento di Caracalla portò la spesa pubblica a 70.000.000 di denarii l’anno; cfr. Pekáry 1959, 484).

Massimino il Trace duplicò lo stipendio militare, portandolo a 2400 sestertii (Hrd. VI 8, 8), ma pare che dopo di lui non si siano verificati ulteriori aumenti pecuniari (cfr. Jahn 1984, 66-68): le uniche due forme di retribuzione per i soldati a subire incrementi furono soltanto l’annona militaris e i donativa (van Berchem 1936, 136-137; Jahn 1984, 53).

Sviluppo dello stipendium nell’esercito romano (da Augusto a Massimino il Trace) [tabella].

Di acclarata importanza documentaria, oltre che archeologica, è il sito della fortezza romana di Vindonissa (od. Windisch, Svizzera), che nel corso del I secolo fu quartier generale delle legiones (XIII Gemina, XXI Rapax, XI Claudia Pia Fidelis) e auxilia (le cohortes VI e VII Raetorum, XXVI Voluntariorum Civium Romanorum, III Hispanorum).

Il sepolcro di Indo, corporis custos di Nerone (AE 1952, 148). Illustrazione di Á. García Pinto.

Nel corso di lunghe campagne di scavo sono state portate alla luce ben 600 tavolette lignee, anticamente ricoperte di cera (delle quali soltanto 30 sono meglio conservate), che con i loro testi redatti in corsiva offrono uno spaccato di vita quotidiana castrense. Tra queste, la Tab. Vindon. 2 (16 x 7,3 cm, Speidel 1996) conserva quella che sembra la parte finale della ricevuta per lo stipendium di un soldato (è un testo raro e finora non ne sono stati trovati altri simili):

 [. . . . . . .] | Asinio Ce[l]erẹ, Nọṇ[io] co(n)s(ulibus), XI k(alendas) | Aug(ustas). S(upra) s(criptus) Cḷua, eq(ues) Raetor(um) | tụr(ma) Aḷbi Pudentis, ac(c)epi X̶ (denarios) L | [e]ṭ stipendi proximi X̶ (denarios) LXXV.

Traduzione: «[…] il 22 luglio dell’anno di consolato di Asinio Celere e Nonio (= 38), io, il suddetto Clua, cavaliere dello squadrone dei Reti di Albio Pudente, ho ricevuto una paga di 50 denarii e 75 di anticipo».

La natura del documento è piuttosto chiara: come si è detto, si tratta di una ricevuta della paga del cavaliere retico Clua, scritta, a quanto pare, proprio dall’interessato e con mano incerta (si nota l’omissione del cognomen Quintiliano del secondo console) – insomma, una sorta di autodichiarazione (sulle irregolarità della scrittura, cfr. Bakker – Gallsterer-Kröll 1975, n. 349; Tomlin 1988, n. 53; CIL XIII 10009, 6, 119a; 10010, 118d2, 228i, 251e).

Le pagine precedenti, non conservatesi, dovevano presumibilmente contenere il testo ufficiale dell’intero documento, insieme ai nomi e ai sigilli dei testimoni. Una copia dell’incartamento era probabilmente conservata nei registri ufficiali del reparto.

Cavaliere accompagnato da due servitori. Bassorilievo, marmo, c. 170, dal cosiddetto “Rilievo Giustiniani”. Berlin, Altes Museum.

La redazione e la conservazione di questo genere di documenti era solitamente affidata a un contabile (librarius) o a un tesoriere (signifer): a tal proposito, Vegezio (Ep. rei mil. II 20) ricorda che proprio i signiferi, che dovevano essere obbligatoriamente litterati homines, erano responsabili delle paghe delle truppe e di singulis reddere rationem.

Curiosamente, il nome Clua compare anche su un’iscrizione di Brescia (CIL V 4698), in cui figura come padre di un certo Esdrila. È probabile che Clua fosse abbastanza diffuso nell’onomastica locale subalpina e fosse proprio di origine retica (si vd. Untermann 1959, 126 ss.; 151 ss.; Hartmann-Speidel 1991; Holder 1896-1904, III 1238; 1240).

Il Clua della tavoletta era un membro di uno squadrone di cavalleria (turma) – un’unità propria degli auxilia (mentre la cavalleria legionaria era assegnata alle singole centuriae; cfr. Speidel 1987, 56-58) – al comando di un certo Albio Pudente, non altrimenti noto: potrebbe trattarsi di un soldato di carriera (un eques legionis) ad tradendam disciplinam immixtus (Tac. Agric. 28; cfr. AE 1969/70, 661; CIL III 8438; si vd. anche Speidel 1980, 111-113). Sebbene Clua si riferisca alla propria unità semplicemente con l’espressione colloquiale di equites Raetorum (cfr. anche Tab. Vindol. 181, 13; Speidel 2006, 14; 1981, 109-110), si può essere certi che si trattasse di una cohors Raetorum equitata, forse la cohors VII Raetorum equitata, di stanza a Vindonissa alla metà del I secolo.

Un eques cohortis (I-II secolo). Illustrazione di M. Alekseevich.

Secondo le stime degli studiosi, la paga annuale di un eques cohortis auxiliarum ammontava a 225 denarii; in questo caso, appare interessante che a luglio inoltrato Clua abbia avuto bisogno di riceverne in tutto 125 (tra il saldo, forse al netto di spese in detrazione, dello stipendio spettante al 1° maggio e quello successivo del 1° settembre), pari a quasi la metà dell’intera paga. Come ha mostrato Speidel (1992, 91), sono pervenuti dei papiri (RMR 70 [192 d.C.]; 73 [c. 120-150 d.C.]; ChLA 473 [II-III sec. d.C.]) che attestano, seppure indirettamente, altri casi di corresponsione anticipata degli stipendia.

In quali circostanze l’esercito romano era disposto a concedere un anticipo? Potrebbero essere state le più svariate, anche se ne è nota solo una: è testimoniata da un papiro egiziano datato al 179 (RMR 76), il cui corpo di testo conserva circa sessantadue ricevute, emesse a nome dei cavalieri dell’ala Veterana Gallica per la loro paga annuale di 25 denarii.

La maggior parte di costoro dichiara esplicitamente di aver ricevuto il denaro in anticipo (ἐν προχρε[ί]ᾳ), perché erano in procinto di lasciare i propri acquartieramenti di Alessandria per recarsi negli avamposti del Basso Egitto (alcuni dei quali a più di 300 km di distanza; si vd. Daris 1988, 752-753). Le paghe sono state corrisposte a quegli equites tra il 9 gennaio e il 6 marzo; purtroppo, non si sa con certezza quando la paga annuale sia stata interamente consegnata, ma la spiegazione più probabile per un anticipo è che i distaccamenti non sarebbero rientrati alla base il giorno di paga, poiché il servizio presso gli avamposti esterni poteva durare molti mesi.

Una zuffa per l’insegna: scena di vita castrense. Illustrazione di Z. Grbasic.

È possibile che anche Clua stesse per andare in missione (Hartmann-Speidel 1991, n. 27) e che, quindi, abbia ricevuto in anticipo il suo terzo stipendium. Quanto ai 50 denarii, sui quali non fornisce ulteriori informazioni, si potrebbe citare l’analogo caso della ricevuta di pagamento di un certo Tinhius Val[—] in RMR 70 (= P. Aberd. 133 b col. ii 7 ss.): questo soldato ricevette una certa somma, accepit sum(–), e fu inviato ad praesi(dium?) Bab(ylonis?); si attesta così la sua assenza il giorno in cui è stato redatto il documento e, quindi, non compare l’espressione accepit stipendium. Secondo Speidel (1992, 357), nonostante questo sia accaduto circa un secolo e mezzo dopo, il parallelo con la tavoletta di Vindonissa potrebbe essere interessante.

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Gli «imperii insignia»

Il concetto di potere, di imperium, è alla base della cultura politica romana fin dai suoi inizi. Già durante l’età monarchica, a quanto sembra, i reges si sforzarono di dare un volto all’autorità di cui erano investiti, articolandone i vari aspetti e spartendola fra diversi organi consultivi: ben diversa era, dunque, l’idea di regnum rispetto al modello delle grandi monarchie autocratiche orientali, in cui erano i funzionari della corte a esercitare i vari poteri come semplici emissari del re.

C. Giulio Cesare Ottaviano Augusto. Cammeo (‘Blacas Cameo’), sardonica, c. 20-50 d.C., dal Tesoro dell’Esquilino. London, British Museum.


Con il regifugium, avvenuto, secondo la tradizione, nell’anno 509/8 a.C., ci fu a Roma una vera e propria rivoluzione: nacquero le magistrature annuali, in particolare il doppio consolato, e si rese necessario un grande sforzo per riorganizzare il potere e bilanciarlo fra le varie magistrature e le assemblee popolari, in modo che sussistesse un controllo reciproco permanente.

Livio (II 1, 8-9) spiega che omnia iura, omnia insignia primi consules tenuere; id modo cautum est ne, si ambo fasces haberent, duplicatus terror uideretur. Brutus prior, concedente collega, fasces habuit; qui non acrior uindex libertatis fuerat quam deinde custos fuit («I primi consoli ne conservarono tutti i diritti, tutte le insegne; si evitò soltanto che entrambi avessero i fasci, perché non apparisse raddoppiato il terrore. Ebbe i fasci per primo, con il consenso del collega, Bruto, il quale non era stato più sollecito nel rivendicare la libertà di quanto lo fu poi nel custodirla»).

Le soluzioni adottate si radicarono in modo talmente profondo nelle coscienze dei Romani, che anche con l’avvento dell’Impero, quasi cinque secoli dopo, gli imperatori continuarono a esercitare il proprio potere rivestendo le magistrature più importanti o attribuendosi le prerogative di tali magistrature: così avvenne per il consolato, ricoperto direttamente, e per la tribunicia potestas, esercitata in modo continuativo, pur senza l’attribuzione formale della carica tribunizia.

Un console (consul) in tenuta da campagna, con il suo seguito di scribae e lictores. Illustrazione di A. McBride.


Per esprimere visivamente un’idea di potere tanto forte fu elaborata fin dalle origini una complessa simbologia, fatta di oggetti e capi d’abbigliamento che dovevano evocare immediatamente di fronte agli occhi della plebs urbana, e più tardi di fronte ai sudditi dell’Impero, tutta la dignitas e l’ineluttabilità dell’imperium. Ma non si trattò di una creazione ex novo: come in tanti altri ambiti, anche in questo i Romani non fecero che riprendere ed elaborare elementi desunti dalle culture vicine.

La civiltà più sviluppata con la quale i Romani erano entrati in contatto nei primi secoli della loro storia era senza dubbio quella etrusca. Sebbene anche le altre popolazioni italiche praticassero sistemi che prevedevano magistrature distinte con durata limitata nel tempo, erano proprio gli Etruschi ad aver sviluppato il sistema più complesso di distribuzione del potere ed erano probabilmente gli unici ad avere associato alle varie cariche veri e propri simboli.

Koson di Tracia. Statere, Skythia, Au 8, 37 g. Recto: KOΣΩN; un console romano accompagnato da due littori.

Ciò è tanto più notevole, in quanto la cultura più raffinata del bacino del Mediterraneo, quella greca, che tanto influì su quelle italiche, non elaborò mai niente di simile, se si eccettuano alcuni elementi di provenienza orientale, riservati alla rappresentazione del potere monarchico. Gli stessi scrittori antichi ammettevano senza timore che Roma, ai suoi primordi, aveva ripreso dall’Etruria le insegne del potere (imperii insignia), da Tarquinia, all’epoca dei Tarquini, secondo Strabone (V 2, 2), λέγεται δὲ καὶ ὁ θριαμβικὸς κόσμος καὶ ὑπατικὸς καὶ ἁπλῶς ὁ τῶν ἀρχόντων ἐκ Ταρκυνίων δεῦρο μετενεχθῆναι καὶ ῥάβδοι καὶ πελέκεις καὶ σάλπιγγες καὶ ἱεροποιίαι καὶ μαντικὴ καὶ μουσική, ὅσῃ δημοσίᾳ χρῶνται Ῥωμαῖοι («si dice che anche le insegne dei trionfi e quelle dei consoli e, in generale, dei magistrati furono portate a Roma da Tarquinia così pure i fasci, le asce, le trombe e i riti sacrificali e la divinazione e tutta la musica di cui fanno uso in Roma nelle pubbliche manifestazioni»); da Vetulonia, seguendo una tradizione riportata da Silio Italico (VIII 483-487), Vetulonia […] bissenos haec prima dedit praecedere fasces / et iunxit totidem tacito terrore securis; / haec altas eboris decorauit honore curulis / et princeps Tyrio uestem praetexuit ostro («Vetulonia […] fu la prima a far precedere dodici fasci e a congiungere a essi con silenzioso terrore altrettanti scuri; questa abbellì con eburneo decoro l’alte sedie curuli e per prima orlò la veste con porpora tiria»).


L’archeologia non ha fatto altro che confermare questa testimonianza: una scoperta eccezionale proviene appunto da Vetulonia, risalente al VII secolo, epoca in cui nell’Urbe si insediavano i re etruschi; un ammasso apparentemente informe di ferro arrugginito si è rivelato essere nient’altro che un fascio littorio, il celebre simbolo di potere tornato in auge come effige del totalitarismo novecentesco.

Scena di divinazione augurale (?). Lastra, pietra policroma, metà IV sec. a.C. dalla Necropoli della Banditaccia (Cerveteri). Paris, Musée du Louvre

Una sella curulis della fine del VI secolo proviene da una tomba di Bologna, l’etrusca Felsina: si trattava del tipico seggio pieghevole destinato a Roma ai magistrati di alto rango. Un modellino di lituus, il bastone ricurvo da pastore che a Roma caratterizzava l’alto sacerdozio augurale, proviene da una sepoltura ceretana di inizio V secolo. Ancora sellae curules e litui appaiono su lastre fittili e su pitture tombali del tardo periodo arcaico (fine VI-inizio V secolo a.C.). Il segno del potere per eccellenza era comunque il trono: per una serie di fortunate circostanze si è conservato quasi integro anche un seggio in legno finemente decorato, proveniente da una tomba principesca di Verrucchio (RN). Sepolcreti tirrenici più tardi, ormai di IV o di III secolo, mostrano personaggi in toghe caratterizzate dal bordo purpureo, identiche alla toga praetexta, indossata dai senatori, e addirittura una figura che indossa la toga picta, integralmente tinta di porpora, riservata a Roma agli imperatores (“comandanti vittoriosi”).

Ti. Claudio Nerone Augusto. Sesterzio, Roma 22-23. Æ 27,32 g. Recto: Civitatibus Asiae restitutis. Il principe assiso sulla sella curulis con scettro e patera, voltato a sinistra.


Nell’Urbe i magistrati superiori erano accompagnati dai lictores armati di fasci, costituiti da verghe annodate con al centro una scure: erano dodici per i consules e sei per i praetores. Altri accompagnatori (apparitores) dei magistrati, invece, portavano invece semplici verghe o fruste. Un altro membro del seguito recava la sella curulis, consentendo al magistrato (detto appunto curulis) di sedere ovunque ricadesse la propria iurisdictio per esercitare le proprie funzioni. Ugualmente, i sacerdoti maggiori, che esercitavano un potere non indifferente, amministrando rituali fondamentali per lo svolgimento della vita pubblica romana, detenevano simboli caratteristici: gli augures, appunto, avevano come attributo il lituus, con il quale officiavano le proprie cerimonie.

Due uomini, forse due augures. Affresco, c. 530-520 a.C. dalla Tomba degli Auguri (Tarquinia).


L’abbigliamento, come si è visto, aveva una forte valenza di status symbol e costituiva la rappresentazione materiale dell’imperium. I senatori portavano comunemente la toga praetexta, dotata di un largo bordo purpureo (latus clauus), che li differenziava dagli esponenti dell’ordo equestris, anch’essi aventi diritto alla praetexta, seppure con orlo più ristretto (angustus clauus). In epoca repubblicana, inoltre, soltanto il magistrato trionfatore poteva indossare la toga picta, unicamente nel giorno dei festeggiamenti.

Senatore romano in toga. Illustrazione di K. Kawashima.


I flamines, i sacerdoti preposti al culto delle divinità maggiori, indossavano un copricapo di cuoio sormontato da un elemento a punta, detto apex o galerus. Curioso era l’abbigliamento dell’haruspex, ministro di culto di origine etrusca che traeva presagi dall’esame delle viscere delle vittime: era dotato di un mantello di pelo con cappuccio.
L’adattamento operato dai Romani ai simboli tirrenici del potere conferì a queste e ad altre insegne significati precisi e distinti, in relazione alle singole cariche pubbliche e sacerdotali. Un altro fenomeno notevole fu quello della loro sacralizzazione: per esempio, gli attributi del trionfatore erano associati a Giove Ottimo Massimo e, perciò, insieme alle spolia opima erano solitamente consacrati al tempio capitolino.

L’importanza di questi simboli, in parte adottati anche in altre città italiche, non venne mai meno nel corso della storia romana: il loro valore rimase talmente forte, preciso e immediato, che ancora in età imperiale si ritrovano raffigurazioni degli stessi simboli isolati; in altre parole, soltanto il loro aspetto bastava a evocare il potere corrispondente. Inutile dire che vi furono anche numerosi abusi: le sellae curules e i fasces si trovano rappresentati anche su monumenti funerari di personaggi che non ricoprirono mai gli honores che avrebbero dato diritto a fregiarsi di quelle insegne.

Processione dei flamines (con apex e galerus) e altri sacerdoti. Rilievo, marmo bianco, 9 a.C., dal fregio A, lato ovest, dell’Ara Pacis. Roma, Museo dell’Ara Pacis.

È significativo, invece, che i simboli del regnum tardarono a tornare in auge durante il principato e il primo impero: solo verso l’età tardo-antica furono comunemente usati la corona radiata, lo scettro e il globo, simboli di un potere ecumenico sull’orbe terracqueo.

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Arria Maggiore, una “donna virile”

L’Ep. III 16 di Plinio il Giovane mette al centro della scena una figura muliebre, delicatamente tratteggiata e degna di grande ammirazione, in un’epoca ormai segnata dalla corruzione e dal malcostume dilagante. Arria Maggiore incarna un ideale di virtù che sembrava perso per sempre, quello della matrona, moglie e madre devota e consapevole dell’importanza del proprio ruolo all’interno della famiglia e della società. Plinio, perciò, racconta alcuni fatti che hanno per protagonista la moglie di Aulo Cecina Peto, consul suffectus nel 37 e complice nel complotto ordito da Scriboniano contro l’imperatore Claudio nel 42. Della donna si ricorda la celebre frase pronunciata, insieme con il marito, mentre si dava la morte («Peto, non fa male»), per poi contrapporvi episodi meno noti, ma, all’avviso di Plinio, ancora più grandi: tra questi, il comportamento tenuto di fronte al consorte malato per celargli la morte dell’amato figlio, notizia che avrebbe aggravato il suo stato di salute; oppure, il momento in cui ella seguì con una barca da pesca presa a noleggio il vascello sul quale Peto veniva portato a Roma da prigioniero; infine, la domanda rivolta alla moglie di Scriboniano, colpevole, agli occhi di Arria, di aver permesso che il marito fosse giustiziato.

Benjamin West, Arria e Peto. Olio su tela, 1766. Yale Centre for British Art.

Eppure, l’atteggiamento di Plinio nei confronti di questa figura è fondamentale: egli inverte radicalmente l’ordine costituito, perché parla di Arria come colei che «per il marito fu di conforto e di esempio davanti alla morte»: la moglie non è stata soltanto un’assistente (solacium) per il consorte, ma anche colei che gli indicava la strada da seguire. Nella narrazione, poi, sembra istituirsi una climax tra questi due comportamenti della donna, che si fa sempre più indipendente: nel primo quadro, Arria riesce a controllare il proprio dolore per la scomparsa del giovane figlio, con l’unico scopo di non pregiudicare la guarigione allo sposo; nel secondo quadro, ambientato nel 42, a seguito della congiura di Scriboniano, sebbene in un primo momento Arria appaia ancora come in soggezione, mentre chiede con insistenza (orabat) ai soldati che le portavano via il marito in catene di condurla con loro, non esitando a proporsi addirittura come serva di Peto, pur di accompagnarlo, al rifiuto delle guardie, il suo atteggiamento muta: non potendo offrire il proprio solacium di sposa devota, Arria decide di presentarsi come exemplum di coraggio virile. Ora e sino alla fine del racconto pliniano costei agisce proprio “come un uomo”: prende decisioni da sola, risponde di fronte all’imperatore, investendo con un severo rimprovero la moglie di Scriboniano, rea di essere sopravvissuta al marito e, infine, di fronte al silenzio del suo Cecina Peto, che, si potrebbe supporre, difettava del coraggio necessario, gli mostra come si deve morire.

Nel tipo più comune di “donna virile” rientrano le donne che riescono a liberarsi dalla presunta debolezza connaturata al proprio sesso e, quindi, ad affrontare con coraggio e “come un uomo” le avversità della vita. Tale “donna virile” costituisce un’eccezione, ma non spaventa l’uomo né mette in crisi l’ideologia maschilista, perché non sovverte il suo principio fondamentale, che è la sottomissione della donna – sia essa più o meno coraggiosa – all’uomo. L’ossimoro insito nella giustapposizione di femminilità e mascolinità perde in questo tipo della “donna virile” la sua funzione straniante e si stempera in una più tranquillizzante catacresi: ovvero, la donna resta donna, acquisendo però, al contempo, delle caratteristiche tipicamente maschili, che la nobilitano e la innalzano, senza che questa costituisca un’infrazione alle “leggi di natura”. Ora, il coraggio di Arria si iscriverebbe nella dedizione e, di conseguenza, nella tradizionale sottomissione al marito, portata sino alla morte. In questo senso, ella non si discosterebbe per nulla dalle molte nobildonne pronte a seguire lo sposo nell’aldilà che campeggiano nella storia segnata di sangue dei rapporti fra nobiltà e impero nel I secolo.

Luca da Reggio, Arria e Cecina Peto. Olio su tela, 1645.

Questa lettera sembra appartenere a quel genere di testi che, per l’eroismo della protagonista, l’evidenza dei fatti narrati e la maestria del narratore si commentano da sé. Tuttavia, un esame più attento al testo della lettera mostra come il personaggio di Arria rappresenti nel corpus pliniano un unicum sorprendente, da accostare al tipo della “donna virile”, la cui presenza nel mondo classico è ben attestata. Già Platone (Symp. 179b) metteva alla pari uomini e donne nella disponibilità al sacrificio per la persona amata, muovendo dal noto exemplum mitico di Alcesti; questo motivo del coraggio muliebre si affermò poi a Roma nel I secolo anche grazie all’insegnamento di Musonio Rufo. È certo, comunque, che ai tempi di Plinio il Giovane il coraggio di fronte al dolore, al pericolo, alla morte era riconosciuto anche alle donne – almeno come possibilità teorica – ed era sempre oggetto di lode (oltre che di stupore), quando si realizzasse.

C. Plinius Nepoti suo s.     

[𝟏] Adnotasse uideor facta dictaque uirorum feminarumque alia clariora esse alia maiora. [𝟐] Confirmata est opinio mea hesterno Fanniae sermone. Neptis haec Arriae illius, quae marito et solacium mortis et exemplum fuit. Multa referebat auiae suae non minora hoc sed obscuriora; quae tibi existimo tam mirabilia legenti fore, quam mihi audienti fuerunt. [𝟑] Aegrotabat Caecina Paetus maritus eius, aegrotabat et filius, uterque mortifere, ut uidebatur. Filius decessit eximia pulchritudine pari uerecundia, et parentibus non minus ob alia carus quam quod filius erat. [𝟒] Huic illa ita funus parauit, ita duxit exsequias, ut ignoraret maritus; quin immo quotiens cubiculum eius intraret, uiuere filium atque etiam commodiorem esse simulabat, ac persaepe interroganti, quid ageret puer, respondebat; «Bene quieuit, libenter cibum sumpsit». [𝟓] Deinde, cum diu cohibitae lacrimae uincerent prorumperentque, egrediebatur; tunc se dolori dabat; satiata siccis oculis composito uultu redibat, tamquam orbitatem foris reliquisset. [𝟔] Praeclarum quidem illud eiusdem, ferrum stringere, perfodere pectus, extrahere pugionem, porrigere marito, addere uocem immortalem ac paene diuinam: «Paete, non dolet». Sed tamen ista facienti, ista dicenti, gloria et aeternitas ante oculos erant; quo maius est sine praemio aeternitatis, sine praemio gloriae, abdere lacrimas operire luctum, amissoque filio matrem adhuc agere. [𝟕] Scribonianus arma in Illyrico contra Claudium mouerat; fuerat Paetus in partibus, et occiso Scriboniano Romam trahebatur. [𝟖] Erat ascensurus nauem; Arria milites orabat, ut simul imponeretur. «Nempe enim» inquit «daturi estis consulari uiro seruolos aliquos, quorum e manu cibum capiat, aquibus uestiatur, a quibus calcietur; omnia sola praestabo». [𝟗] Non impetrauit: conduxit piscatoriam nauculam, ingensque nauigium minimo secuta est. Eadem apud Claudium uxori Scriboniani, cum illa profiteretur indicium, «Ego» inquit «te audiam, cuius in gremio Scribonianus occisus est, et uiuis?».

Gaio Plinio saluta il suo caro Nepote,

[𝟏] Credo di aver osservato che fra le azioni e i detti di uomini e donne ce ne siano alcuni più noti, ma altri risultino più nobili. [𝟐] Mi ha confermato le mie convinzioni a proposito la chiacchierata di ieri con Fannia, nipote di quell’Arria che per il marito fu di conforto e di esempio davanti alla morte. Di sua nonna mi raccontava parecchi aneddoti non meno grandi di questo, ma solo meno conosciuti, che, nel leggerli, ritengo che ti stupiranno quanto hanno stupito me nell’ascoltarli. [𝟑] Cecina Peto, suo marito, si era ammalato e ugualmente il loro figlio: tutti e due, a quanto sembra, colpiti da una malattia incurabile. Morì il figlio, un ragazzo di straordinaria bellezza, di altrettanta umiltà, e caro ai genitori non meno per le altre qualità che per essere figlio loro. [𝟒] Arria organizzò le esequie e il corteo funebre in modo tale che lo sposo non si accorgesse di nulla; e anzi, ogni volta che entrava in camera sua, fingeva che fosse ancora vivo e andasse addirittura migliorando, e alle insistenti domande del marito sulle condizioni del ragazzo rispondeva: «Ha riposato bene; ha mangiato con appetito». [𝟓] Poi, quando le lacrime a lungo trattenute avevano la meglio e prorompevano, ella usciva: in quei momenti si abbandonava al dolore; sfogatasi, con gli occhi asciutti, con il viso rasserenato, rientrava come se avesse lasciato fuori il proprio lutto. [𝟔] Davvero uno splendido gesto quel suo famoso impugnare il pugnale, colpirsi il petto, estrarre la lama, porgerla al marito, soggiungere una frase immortale e quasi divina: «Peto, non fa male». Tuttavia, mentre compiva quest’azione, mentre pronunciava queste parole, aveva dinanzi agli occhi la gloria e l’immortalità. È una virtù ancora più grande, senza il premio dell’immortalità, senza il premio della gloria, mascherare le lacrime, dissimulare il proprio dolore e seguitare a comportarsi ancora da madre di un figlio che non c’è più. [𝟕] Scriboniano si era ribellato nell’Illyricum contro Claudio. Peto aveva parteggiato per lui e, dopo l’uccisione di Scriboniano, veniva tradotto a Roma. [𝟖] Stava per imbarcarsi. Arria pregava le guardie di farla salire con lui sulla nave. Diceva: «Dovrete pur mettere a disposizione di un ex console qualche servetto che gli porti da mangiare, che lo aiuti a vestirsi, che gli allacci i calzari; di tutto ciò mi occuperò io da sola». [𝟗] Non le venne concesso. Noleggiò allora una barchetta da pesca e con quel guscio di noce seguì la grande nave. Fu ancora lei ad apostrofare al cospetto di Claudio la moglie di Scriboniano, che stava per fare delle rivelazioni: «E io dovrei stare ad ascoltare te – le disse – sul cui grembo è stato trucidato Scriboniano, e sei ancora viva?».

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Riferimenti bibliografici:

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«Panem et circenses»: la passione per le corse dei carri

I Romani nutrivano una forte passione per gli spettacoli in generale (ludi publici): sebbene grande popolarità riscuotevano le rappresentazioni teatrali (ludi scaenici), le manifestazioni più amate erano senz’altro quelle marcatamente sportive, come i combattimenti gladiatori (munera), le cacce con animali esotici (venationes) e le corse dei carri (ludi circenses). Fin dall’età repubblicana questi eventi erano celebrati con regolarità in corrispondenza delle festività religiose previste dal calendario romano (ludi stati), come i ludi Apollinares in onore di Apollo, che, istituiti nel 212 a.C., si tenevano ogni anno in un periodo di otto giorni, dal 5 al 13 luglio (Liv. XXVI 23, 3; XXVII 6, 18; Per. 25, 3), e come i ludi Romani (o Magni) in onore di Giove, Giunone e Minerva, che, fondati da re Tarquinio Prisco (Liv. I 35; Eutrop. I 6), in origine si tenevano dal 12 al 14 settembre (Dion. Hal. 6, 95) e poi, dopo la morte di Cesare, si celebravano dal 4 al 19 settembre (Cic. Phil. II 4, 3; cfr. in Verr. II 52, 130). Nel corso del tempo, poi, molteplici divennero le occasioni per organizzare nuovi spettacoli, quali le esequie di un personaggio particolarmente importante, la candidatura o l’assunzione di una magistratura, l’inaugurazione di un nuovo edificio sacro, la celebrazione della vittoria o di un trionfo.

Uomo togato. Statua, marmo, c. 20-30 d.C. München, Glyptothek.

Bisogna tenere presente che nella mentalità romana, questi spettacoli non erano un semplice strumento d’intrattenimento e svago, ma costituivano un momento irrinunciabile della vita sociale e politica di ciascun cittadino, che, prendendovi parte, percepiva la propria appartenenza al corpo civico. In età repubblicana, in particolare, la partecipazione in prima persona dei magistrati nell’allestimento dei ludi publici si affermò in relazione all’importanza assunta dall’evergetismo della nobilitas: l’organizzazione delle manifestazioni non era affidata a una singola personalità, ma all’intero collegio magistratuale, il quale riceveva una determinata quota dall’aerarium stanziata appositamente per il finanziamento dei ludi. In genere, la cura degli spettacoli era a carico degli aediles, a eccezione dei ludi Apollinares, che erano di competenza del praetor urbanus (Liv. XXVI 23, 3). Ciononostante, soprattutto in occasione delle elezioni politiche, un magistrato era libero di intervenire personalmente nell’organizzazione degli eventi, investendo cospicue somme impensa sua per accrescere la propria popolarità e attirarsi il favore dell’elettorato. In questo modo, la rappresentazione più costosa e gli apparati più complessi garantivano all’editor ludorum l’opportunità di mostrare ai concittadini la propria generosità e l’idoneità ad ambire a cariche pubbliche superiori. A tal proposito, in età tardo repubblicana, questo valore attribuito agli spettacoli trovò largo favore presso i populares, tra i quali spiccava Gaio Giulio Cesare (Suet. Iul. 10).

Scena di frumentatio («distribuzione di pane») da parte di un candidato a una magistratura. Affresco (particolare), ante 79, da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Tra le manifestazioni che esercitavano una notevole attrattiva sulle masse molto apprezzati erano i ludi circenses, le gare dei carri trainati da una o due coppie di cavalli (bigae o quadrigae). Il luogo più grande e famoso di Roma in cui si tenevano le corse era il Circo Massimo, posto un in avvallamento tra il Palatino e l’Aventino (Liv. I 35, 8; Eutrop. I 6). In origine, come per spettacoli di altro tipo, non era un edificio in muratura: le competizioni avevano luogo in un circuito (circus) ellissoidale appositamente allestito in una zona pianeggiante della città e gli spettatori prendevano posto su tribune lignee (furcae). La monumentalizzazione della struttura fu inaugurata da Cesare (Plin. NH XXXVI 102; Suet. Iul. 39, 2) e terminata sotto Augusto (Dion. Hal. III 68, 1-4; Aug. RGDA 19; DCass. XLIX 43, 2; L 10, 3; Vitruv. Arch. I 3, 2; Cassiod. Var. III 51). L’edificio era costruito attorno a una pista (arena) lunga e relativamente stretta (c. 450 × 80 m), divisa al centro nel senso della lunghezza da una barriera (spina). Alle estremità del basamento c’erano due colonnette semicilindriche (metae), sulle quali poggiavano tre coni: ciascuno di essi presentava sulla sommità un uovo di marmo, che richiamava i Dioscuri (Castore e Polluce), protettori dei giochi, e l’uovo orfico, metafora del cosmo diviso tra luce e oscurità; la piattaforma, sulla quale erano solitamente eretti piccoli monumenti (sacelli, altari, obelischi), ospitava, infatti, sette figure a forma di uovo (ova) e altrettante figure a forma di delfino (delphini) – chiara allusione a Nettuno Equestre: queste figure venivano tolte da un apposito addetto per indicare il numero di giri compiuti dai concorrenti (cfr. Liv. XLI 27, 6): sette erano le figure, sette erano i giri che i carri dovevano compiere attorno alla spina, come sette erano i pianeti allora conosciuti (cfr. Anth. Pal. I 197; Cassiod. Var. III 51; Isid. Etym. 18, 27-41; Coripp. Iust. I 314-344; Lyd. Mens. 1, 12; 4, 30 Wuench). Sui due lati lunghi paralleli e sul lato stretto semicircolare, l’arena era circondata da file di sedili (loca) per il pubblico (cavea) – con una capienza stimata di 150.000 posti – , sorrette da sostruzioni, gallerie e arcate; l’altro lato stretto era occupato dai cancelli di partenza (carceres), dai quali uscivano i cocchi, che, a destra della spina, dovevano compiere i sette giri in senso antiorario (cfr. Liv. VIII 20, 2). Al di sopra dei carceres c’erano i palchi riservati ai magistrati organizzatori degli eventi.

Rappresentazione del Circo Massimo agli inizi del IV secolo. Illustrazione di J.-C. Golvin.

I ludi circenses erano e sono ancora oggi sinonimo di intrattenimento di massa: stando al poeta Giovenale (Sat. X 77-81), nella Roma del II secolo d.C., iam pridem, ex quo suffragia nulli / vendimus, effudit curas; nam qui dabat olim / imperium, fasces, legiones, omnia, nunc se / continet atque duas tantum res anxius optat, / panem et circenses («Ormai, da quando non si vendono più voti, [il popolino] ha perso ogni interesse; un tempo esso dava tutto, il potere, le insegne, le legioni; adesso lascia fare e due sole cose spasmodicamente desidera, la distribuzione di pane e i giochi del circo»). Quasi le stesse parole in Frontone (Princ. 5, 11): populum Romanum duabus praecipue rebus, annona et spectaculis, teneri («Il popolo romano è dominato da due passioni fondamentali, ovvero le distribuzioni di grano e gli spettacoli»). Il fanatismo per le corse dei carri raggiunse in età imperiale caratteri del tutto simili a quelli dell’attuale tifo calcistico, compresi gli scontri violenti tra supporter delle opposte squadre, l’enorme popolarità dei campioni, i loro guadagni astronomici, ecc. Sul mondo poteva governare un Nerone o un Marco Aurelio, l’Impero poteva essere tranquillamente sconvolto da rivolte e guerre civili, essere minacciato dalle externae gentes, che a Roma, per umili e potenti, liberi o servi, uomini e donne, l’interrogativo più importante era se avrebbe vinto la propria squadra del cuore!

Le tifoserie del circo. Illustrazione di E. Marini.

Questi spettacoli, insomma, erano in epoca imperiale la principale attrazione per la plebe: disprezzati dagli intellettuali (Plin. Ep. IX 6), oltraggiati dai Padri della Chiesa (Tert. Spect. 7-8), furono comunque lo strumento principale attraverso il quale i principes si facevano amare da milioni di persone: per esempio, è noto che Claudio allestì corse dei carri sul colle Vaticano, adornò il Circo Massimo con parapetti di marmo e mete dorate e vi assegnò dei posti riservati ai membri del Senato (Suet. Claud. 21, 2); anche Nerone, tra gli spectaculorum plurima et varia genera che offriva al popolo, non poté esimersi dall’organizzare ludi circenses (Suet. Nero 11, 1). Vitellio, durante il suo brevissimo principato, intensificò la centralità dello spettacolo come sua prassi politica, al punto tale da governare l’Impero secondo il consiglio e il capriccio dei più spregevoli istrioni e aurighi (Suet. Vit. 12, 1).

Auriga. Busto frammentario, avorio, inizi III secolo. London, British Museum.

La documentazione epigrafica sull’effettivo allestimento degli spettacoli è piuttosto scarsa e distribuita in modo disomogeneo e dal punto di vista geografico e dal punto di vista giuridico. Da quanto emerge dalle iscrizioni, sembra che i ludi organizzati dai magistrati municipali non fossero tanto espressione di liberalità e munificenza, quanto piuttosto veri e propri investimenti dovuti per il mantenimento della carica. D’altra parte, il titolo di curator ludorum è attestato in maniera incerta al di fuori di Roma: la preparazione delle manifestazioni era un’impresa tanto grande che persino gli stessi imperatori, talvolta, ne affidavano il disbrigo a funzionari deputati (cfr. Tac. Ann. XIII 22). Nella maggior parte delle città, soprattutto nelle comunità più piccole, pochissimi erano gli uomini abbastanza facoltosi da potersi permettere l’allestimento di ludi circenses o munera gladiatoria. In altri casi, invece, l’importanza dell’organizzazione degli spettacoli, che costituivano senz’altro uno dei momenti più importanti della vita degli editores, è splendidamente illustrata dalle testimonianze archeologiche, ovvero dai mosaici pavimentali delle villae e delle domus dei cittadini più abbienti dell’Impero. Del resto, questo tipo di raffigurazione erano solitamente collocate nelle sale di ricevimento (atrium e triclinium), in modo tale che il dominus potesse mostrare ai propri ospiti gli spettacoli che aveva allestito; e spesso incaricavano i mosaicisti di corredare le immagini di uomini e animali con i loro nomi propri. A ogni modo, dunque, il sistema adottato per l’approntamento degli spettacoli differiva da contesto a contesto ed era condizionato dalle usanze locali e dalle capacità economiche dell‘élite.

Corse coi carri nel circo. Mosaico, II-III sec. da Lugdunum. Fourvière, Musée gallo-romain.

Per esempio, nelle province galliche le architetture deputate alle corse dei carri sono sicuramente attestate a Narbo, Arelate, Vienna, Lugdunum e Mediolanum Santonum, tutte metropoli epigraficamente ricche. Il fatto che solo tre iscrizioni – da Narbo (EAOR 5, 1), Arelate (CIL XII 670) e Lugdunum (CIL XIII 1921) – menzionino eventi circensi, tutti privatamente sovvenzionati, testimonia forse che l’allestimento dei giochi fosse una pratica istituzionalizzata, una regolare mansione dei magistrati superiori. Le province iberiche, invece, forniscono testimonianze più numerose: le competizioni dei cocchi sono documentate in circa venti centri urbani, molti dei quali erano cittadine, dove però non sono state rivenute vestigia di stadi e ippodromi: per esempio, a Tucci in Baetica, dove nel corso del II secolo il flamen coloniarum immunium Lucio Lucrezio Fulviano (CIL II 1663) e il duovir Marco Valerio Marcello (CIL II 1685) impensa sua diedero giochi del circo. Queste testimonianze rivelano che in località simili, sebbene non vi fossero edifici monumentali appositi, gli sponsores facevano allestire gli eventi in spazi aperti; inoltre, la portata ridotta e i costi contenuti degli spettacoli, tenuti di solito per l’inaugurazione di un monumento o per altre speciali occasioni, possono spiegare la poca frequenza con cui venivano organizzati. Quasi paradossalmente, invece, le grandi capitali provinciali, come Tarraco, pur disponendo di imponenti edifici circensi, non hanno restituito alcun documento ufficiale che registri un solo evento sportivo.

Corsa dei carri nel circo. Bassorilievo, marmo, III sec. d.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

In origine, a disputare le gare erano i giovani patrizi; con il tempo, però, la dignitas della nobiltà impedì ai rampolli delle gentes di esibirsi in pubblico, partecipando attivamente ai ludi. Così, per questo genere di manifestazioni, venivano assunti aurighi professionisti di bassa estrazione sociale, addestrati e specializzati, in grado di soddisfare le esigenze dei ludi circenses. L’aumento delle gare dei carri innalzò gli standard, favorì la competizione e incrementò la qualità nell’allenamento di cavalli e conducenti.

Auriga con quadriga. Rilievo, marmo, fine III secolo da un sarcofago. Roma, Villa Albani.

Agli inizi del Principato, degli uomini d’affari di classe equestre, detti domini factionum, noleggiavano le bestie e il personale di servizio a coloro che organizzavano gli spettacoli (editores ludorum): con il tempo, i domini delle squadre si resero conto del proprio potere e che senza il loro lavoro, gli sponsores non potevano offrire i giochi (cfr. Plin. NH X 34; DCass. LV 10; Suet. Nero 22; HA Comm. 16, 9).

Durante le competizioni gli aurighi guidavano i cavalli stando ritti sui cocchi, vestiti dei colori delle squadre (factiones) in lizza, la cui comparsa è stimata entro la fine del II secolo a.C.; le fazioni, organizzate in vere e proprie società sportive, erano quattro: la bianca (albata), la rossa (russata), la verde (prasina) e l’azzurra (veneta). I colori rispondevano a un preciso significato: il bianco richiamava all’inverno ed era consacrato agli Zeffiri; il rosso era il simbolo dell’estate ed era posto sotto la protezione di Marte; il verde era dedicato alla primavera e alla Madre Tellus; l’azzurro, rappresentante l’autunno, era consacrato a Nettuno (Cassiod. Var. III 51, 5). Era ben nota la preferenza di alcuni imperatori verso un particolare club: Vitellio e Caracalla furono tifosi degli Azzurri (cfr. Suet. Vit. 7, 1; DCass. LXXVIII 1, 2; 9, 7; 10, 1; 17, 4), Caligola , Nerone e Elagabalo dei Verdi (Suet. Cal. 55, 2; Nero 22, 1; SHA Elag. 19, 2) – i preferiti anche del poeta Marziale. Come accade in certe città italiane di oggi, che dispongono di due squadre calcistiche, dove il tifo per l’una o per l’altra ha anche una connotazione di “distinzione” o di “volgarità”, nella Roma imperiale la preferenza verso la prasina factio era per i “popolari”, mentre quella per la veneta era da aristocratici: per esempio, Trimalcione, dopo essersi arricchito, parteggia per gli Azzurri e sfotte gli amici più umili che tengono per i Verdi (Petr. Sat. LXX 10, 13). Vitellio fece condannare a morte dei plebei che avevano gridato: «Abbasso gli Azzurri!» (Suet. Vit. 14). Giovenale (XI 197 ss.) scrive che, se i Verdi perdevano, l’Urbe intera piombava in una disperazione tale da superare quella anticamente provata per la disfatta di Canne!

Gli aurighi delle quattro factiones (veneta, russata, albata e prasina). Pannelli di mosaico, c. III secolo. Roma, Museo di P.zzo Massimo alle Terme.

Come accade nelle moderne società atletiche, non era insolito che gli aurighi cambiassero squadra, come testimonia l’iscrizione di Sesto Vistilio Eleno (AE 2001, 268), vissuto nel I secolo: il documento offre l’istantanea di un aspirante campione, un florens puer, la cui carriera fu tragicamente spezzata da una morte prematura: il ragazzo si era appena trasferito dalla factio prasina, dov’era allenato da Orfeo, a quella veneta, dove sarebbe stato preparato da Datileo, quando morì improvvisamente all’età di 13 anni.

Come sembra suggerire l’epigrafe, le factiones dovevano disporre di “manager” o “talent-scout” (doctores), che garantivano questi trasferimenti; inoltre, lascia pensare che molti cocchieri iniziassero la loro carriera sportiva in età precocissima – come testimonia anche il titulus funerario di Crescente, un agitator factionis venetae di origine mauritana (CIL VI 10050).

Auriga africano. Statuetta, bronzo, c. II secolo, da Altrier. Luxembourg, Musée national d’histoire et d’art.

Indubbiamente le factiones investivano ingenti capitali per assumere gli atleti più capaci, tanto quanto ne spendevano per acquistare i cavalli migliori alla corsa – solitamente comprati in Sicilia, in Italia meridionale, in Nord Africa e nella Penisola iberica. Per la cura delle bestie e la preparazione delle corse ogni “scuderia” poteva contare su una squadra di specialisti (cfr. CIL VI 10074-10076: aurigae, conditoresi, succonditores, sellarii, sutores, sarcinatores, medici, magistri, doctores, viatores, vilici, tentores, sparsores, hortatores). Prima delle gare, gli agitatores e i loro assistenti annusavano lo sterco dei cavalli per controllare se avessero digerito bene e se le biade fossero state opportunamente bilanciate.

La scomparsa prematura degli aurighi Eleno e Crescente testimonia la natura rischiosa di questo sport, nonché la considerazione in cui erano tenuti dal popolino come dispensatori di buona sorte o, addirittura, fattucchieri. Gli agitatores, come mostrano le fasces nelle rappresentazioni scultoree e musive, erano soliti legarsi le redini in vita: ciò aumentava non solo la manovrabilità del cocchio ma anche il rischio di essere trascinati a terra, con gravi lesioni, persino mortali, in caso d’incidente. Sebbene le cause del decesso degli aurighi non siano solitamente riportate sui tituli (a eccezione, p. es., di CIL VI 10049), i pericoli della pista sono chiaramente evidenziati dalle fonti letterarie (p. es., Cic. resp. II 68) e dalla descrizione dei rimedi medici per le ferite riportate (Plin. NH XXVIII 237). La fortuna (e non solo l’abilità) che avevano nel guidare i loro cocchi a tutta velocità, soprattutto nei punti più difficili dell’arena, suscitava un certo fascino nelle tifoserie.

Scena di trionfo dell’auriga della factio veneta. Mosaico, c. III secolo. Madrid, Museo Arqueológico Nacional.

I conducenti dei carri, e più ancora i loro cavalli, erano oggetto di chiacchiera ed erano gli idoli della folla, che, durante le corse, viveva momenti di puro delirio. Alcuni celebri aurighi, oltre a essere elogiati per le loro imprese, erano spesso invidiati: Scorpo, il più famoso cocchiere di età flavia (clamorosi gloria circi), morì all’età di 27 anni, dopo aver totalizzato ben 2.048 vittorie ed essersi classificato nella categoria dei miliarii (Mart. X 53); inoltre, Scorpo guadagnava 15 sacci d’oro all’ora (Mart. X 74). Quand’era ancora in vita, l’auriga Publio Elio Gutta Calpurniano aveva fatto innalzare per sé, verso la metà del II secolo, un monumento sormontato dalle statue dei suoi cavalli preferiti, corredate con i loro nomi. In una dettagliata iscrizione (CIL VI 10047) egli fece elencate le vittorie 1.127 conseguite per le quattro factiones. Per esempio, con Victor («il Vincitore»), un sauro, Calpurniano vinse 429 volte per la squadra verde (prasina): il nome benaugurale del cavallo indica probabilmente che si trattava quello di testa (equus funalis), cioè posto alla sinistra del carro; dalla sua abilità nella curva circum metas dipendeva il successo di ogni virata. Il clou della gara, infatti, era proprio il giro attorno alle metae: l’auriga, per fare la curva più stretta possibile e guadagnare tempo sui rivali, nel girare doveva cercare di rasentare le colonnie, evitando però di far ribaltare il cocchio (cfr. Varr. l. L. V 153, 3). Nell’elencare i suoi trionfi Calpurniano ha voluto distinguerli in base alla tipologia: per esempio, a pompa, cioè direttamente dopo il corteo inaugurale; o equorum anagonum, ossia con cavalli che non avevano mai corso prima. Alcuni anni dopo Calpurniano, Gaio Appuleio Diocle, agitator factionis russatae di origini lusitane, divenne la star del circo e uno tra gli atleti più pagati dell’antichità (ottenne una fortuna di circa 36.000.000 di sesterzi!): i suoi amici gli dedicarono una statua per commemorarne le vittorie. Stando all’iscrizione (CIL VI 10048; cfr. XIV 2884), l’auriga iniziò la sua carriera a 18 anni e si ritirò dalle corse a 42: in questo lasso di tempo, egli prese parte a 4.257 competizioni e ne vinse ben 1.462. L’elevato numero di gare disputate a Roma, in particolare, dimostra che i conduttori dei carri più abili partecipavano a più di una corsa al giorno.

Scena della corsa dei carri nel Circo Massimo (dettaglio). Mosaico, IV secolo, dalla palestra. Piazza Armerina, Villa del Casale.

Un’iscrizione del 275 (CIL VI 10060) rivela che a quel tempo un auriga poteva arricchirsi a tal punto da diventare egli stesso dominus factionis: è il caso di Claudio Aurelio Polifemo, dominus et agitator factionis russatae di Roma. Simile posizione fu raggiunta da un contemporaneo, un certo Marco Aurelio Libero, originario dell’Africa sahariana, divenuto dominus et agitator factionis prasinae (CIL VI 10058). L’agiatezza materiale e lo status sociale di alcuni atleti potevano aumentare anche grazie alle simpatie che alcuni principes nutrivano nei loro riguardi o ai donativa con cui i sovrani li gratificavano (Suet. Cal. 55, 2-3); si ha notizia di agitatores elevati a importanti uffici pubblici (SHA Elag. 6, 12).

Il maggior numero di tabellae defixionum relative alle attività sportive concerne le corse dei carri: circa un’ottantina di laminette plumbee proviene dai grandi ippodromi di Roma, Cartagine, Hadrumetum, Leptis Magna, Antiochia, Damasco, Apamea, Tiro, a cui va aggiunta un’ampia silloge da Caesarea. Siccome si trattava di manifestazioni che attiravano migliaia di persone, il cui malcontento poteva minacciare la stabilità di un princeps, non sorprende che i ludi circenses fossero un argomento privilegiato di maledizione. I conducenti dei carri, difatti, erano tra gli artisti e gli atleti più pagati e adorati (o odiati!) del mondo antico: ciò, unitamente all’aleatorietà e ai pericoli che insidiavano le competizioni, insieme all’ansia di vittoria degli editores e dei tifosi, fece sì che non fosse infrequente ricorrere alla magia nera per danneggiare gli avversari, scoraggiare incidenti e contrastare le imprecazioni dei rivali. Un autore cristiano del IV secolo, Anfilochio di Iconio, nei suoi Iambi ad Seleucum descrive i ludi circenses come γοητείας ἅμιλλαν, οὐχ ἵππων τάχος (v. 179, «una gara di maghi, non una corsa di cavalli»). I testi magici di maledizione relativi alle competizioni dei carri differiscono dalle defixiones per altri sport, in quanto coinvolgevano non solo le abilità e le capacità degli atleti, ma anche quelle dei loro animali. Una tavoletta (Tremel, no. 53) di II-III secolo, rinvenuta nella tomba di un funzionario imperiale in una necropoli di Cartagine, evoca lo spettro del morto affinché paralizzi i cavalli delle squadre avversarie:

Ἐξορκίζω σε ὅστις ποτ’ οὖν εἶ, νεκυδαίμων ἄωρε, κατὰ τ . .

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . καὶ τὰ . . . . . τα [ὀνό]ματα α . . πων

βρουραβρουρα μαρμαρει μαρμαρει αμαρταμερει απε-

ωρνομ φεκομφθω βαιεψων σαθσαθιεαω . . . . ββαιφρι

ἵνα καταδήσης τοὺς ἵππους τοῦ οὐενέτου καὶ τοῦ συνζύγου

αὐτοῦ πρασίνου . . . . . . . . ]εους σοι [ σεσημειοωμ]ένα ἐν τοῖς θα[λ]α[σσίοις]

ὀστράκοις παρακατατέθηκα ἐν τούτω τῶ σκεύει, Οὐιττᾶτον

Δηρεισῶρε Οὐικτῶρε Ἀρμένιον Νίμβον Τύριον Ἀμορε Πραικλ-

ᾶρον τὸν καὶ Τετραπλὰ Οὐρεῖλε Παρᾶτον Οὐικτῶρε

Ἰμβου]τρί[ουμ] Φονεῖκε Λίκον καὶ τοῦ συνζύγου αὐτοῦ πρα-

σίνου Δάρειον Ἄγιλε Κουπείδινε Πουγιῶνε Πρ-

ετιῶσον Προυνικὸν Δάρδανον Εἴναχον Φλόριδον Πάρδον

Σερουᾶτον Φούλγιδον Οὐικτῶρε Προφίκιον˙ κατά-

<δησον αὐτοῖς δρόμον πόδας νείκην ὁρμὴν ψυχὴν ταχύτη-

τα, ἐκκόψον ἐκνεύρωσον ἐξάρθρωσον αὐτοὺς ἵνα>

δησον αὐτοῖς τὸν δρόμον τὴν δύναμιν τὴν ψυχὴν τὴν ὁρμὴν τ-

ὴν ταχύτητα, ἄφελε αὐτῶν τὴν νείκην, ἐμπόδισον αὐ-

τοῖς τοὺς πόδας, ἐκκόψον ἐκνεύρωσον ἐξάρθρωσον αὐτοὺς ἵνα

μὴ δυνασθῶσιν τῆ αὔριον ἡμέρα ἐλθόντες ἐν

τῶ ἱπποδρόμω μήτε τρέχειν μήτε περιπατεῖν μήτε ν-

εικησαι μηδὲ ἐξελθεῖν τοὺς πυλῶνας τῶν ἱππαφ-

ίων μήτε προβαίνειν τὴν ἀρίαν μήτε τὸν σπάτιον μηδὲ

κυκλεῦσαι τοὺς καμπτῆρας, ἀλλὰ πεσέτωσαν

σὺν τοῖς ἰδίος ἡνιόχοις, Διονυσίω τοῦ οὐενέτου καὶ Λα-

μυρῶ καὶ Ῥεστουτιάνω καὶ τοῦ συνζύγου αὐτοῦ

πρασίνου Πρώτω καὶ Φηλεῖκε καὶ Ναρκίσσω […]

«Io ti supplico, chiunque tu ora sia, spirito di un morto deceduto anzitempo, per (il potere?) […] e […] i nomi […]». [Le ll. 4-5 contengono voces magicae]. «Affinché tu blocchi i cavalli degli Azzurri e quelli dei loro alleati Verdi […], ti affido i loro nomi su cocci marini in questo vaso: Vittatus, Derisor, Victor, Armenios, Nimbus, Tyrios, Amor, Praeclarus Tetraplas, Virilis, Paratus, Victor, Imboutrious, Phoenix, Likos e i cavalli dei loro alleati conducenti dei Verdi: Darius, Agilis, Cupido, Pugio, Pretiosus, Prounicus, Dardanos, Inachos, Floridus, Pardos, Servatus, Fulgidus, Victor, Prophikios; blocca loro la corsa, le zampe, la vittoria, la forza, l’audacia, la velocità, distruggili, falli impazzire, slogali, affinché blocchi loro la corsa, la forza, l’animo, l’audacia, la velocità, togligli la vittoria, ostacola loro le zampe, distruggili, falli impazzire, slogali affinché domani una volta giunti nell’ippodromo non possano correre né muoversi né vincere né lasciare le linee di partenza, non percorrano né l’area né lo spazio né facciano il giro delle mete, ma cadano coi propri cocchieri, Dioniso, Lamuro e Restuziano degli Azzurri e i loro alleati conducenti dei Verdi, Proto, Felice e Narcisso […]».

Scena di incidente tra aurighi (dettaglio). Mosaico, IV secolo, dalla palestra. Piazza Armerina, Villa del Casale. Mosaico.

Talvolta capita che gli atleti non fossero nemmeno menzionati, mentre i nomi dei cavalli venivano elencati in modo meticoloso: in una lunga tabella rinvenuta ad Antiochia (Tremel, no. 11) sono colpiti da imprecazione ben trentasei cavalli della factio veneta – probabilmente l’intera scuderia! In altri casi i nomi degli animali e dei loro conduttori sono intenzionalmente sovrapposti, così da augurare il peggio sia agli uni sia agli altri (cfr. Tremel, no. 18; 26). Ora, tutte le testimonianze suggeriscono che, almeno fino al VII secolo, la magia fosse uno strumento caratteristico delle competizioni equestri, nonostante le disposizioni di legge che minacciavano coloro che praticassero la defixio, e che vi si facesse ricorso non tanto come un disperato, ultimo tentativo di sbarazzarsi degli avversari più tosti, quando piuttosto era de facto (se non de iure) riconosciuto come un sistema efficace per ottimizzare le prestazioni dei concorrenti.

Scena di corsa dei carri. Rilievo funerario, marmo, II secolo. Roma, Museo Laterano.

Già alla fine del III secolo, le riforme politiche e amministrative promosse da Diocleziano, cioè la trasformazione della carica imperiale da unica a collegiale (tetrarchia), la conseguente suddivisione dell’Impero in partes e la moltiplicazione dei palatia con i loro apparati di corte, comportarono un’apparizione (adventus) sempre più rara e sporadica dei sovrani all’interno di Roma, che ormai aveva perso il suo ruolo di capitale e di sede imperiale. In questo contesto, il praefectus Urbi assunse a Roma il ruolo di principale responsabile di ogni aspetto relativo all’organizzazione dei ludi publici, fossero promossi dall’imperatore stesso o allestiti e finanziati direttamente dai magistrati cittadini. Rispetto al passato, comunque, l’ormai consolidata pratica di indire grandiosi eventi pubblici in occasione dell’entrata in carica non si configurava più come un atto spontaneo di evergetismo, ma come un vero e proprio obbligo sancito dalla legge a partire dall’epoca di Costantino (CTh. VI 4, 1-2). Quei magistrati che, essendo dotati di una limitata disponibilità economica, non erano in grado di competere con gli sponsores più facoltosi né di sobbarcarsi investimenti maggiori per la cura dei ludi, erano colpiti da pesanti sanzioni: essi dovevano corrispondere il pagamento alla città di un’ammenda pari a 50.000 modii di grano (CTh. IV 7; 11; VI 4) e rimborsare ai funzionari (censuales) le spese di cui si erano fatti carico per garantire comunque lo svolgimento degli eventi in programma (CTh. VI 4, 6). Nonostante l’onere finanziario, grandiosi spettacoli continuarono a essere celebrati dagli esponenti più abbienti dell’aristocrazia senatoria, che facevano letteralmente a gara nel proporre allestimenti sempre più costosi: nell’ottica delle famiglie più in vista di Roma, l’investimento di ingenti quantità di denaro per i ludi era uno strumento privilegiato non solo per ostentare la propria capacità patrimoniale, ma anche per ottenere visibilità e prestigio, ribadendo la propria posizione politica e sociale (Symm. Ep. IV 58, 2).

Scene di corse con i carri. Dittico dei Lampadii (Flavio Lampadio), avorio, VI secolo. Brescia, Museo di S. Giulia.

Contemporaneamente, la fondazione di più sedi imperiali ebbe l’effetto di moltiplicare le factiones circensi, che cominciarono ad assumere via via un peso socialmente e politicamente maggiore fino a divenire veri e propri gruppi di pressione: nel corso del IV secolo, in particolare, il circus si configurò come luogo privilegiato di interazione tra gli stessi sovrani e i loro sudditi. L’importanza assunta dai giochi equestri e dall’edificio nel quale essi avevano luogo è chiaramente testimoniata da Ammiano Marcellino (XXVIII 4, 29): hi omne, quod vivunt, vino et tesseris inpendunt et lustris et voluptatibus et spectaculis: eisque templum et habitaculum et contio et cupitorum spes omnis Circus est maximus: et videre licet per fora et compita et plateas et conventicula circulos multos collectos in se controversis iurgiis ferri, aliis aliud, ut fit, defendentibus («Costoro [= gli abitanti dell’Urbe] consacrano tutta la vita al vino, ai dadi, ai bordelli, ai piaceri e agli spettacoli; per loro il Circo Massimo è il tempio, la casa, l’assemblea e la meta dei loro desideri. È possibile vedere nei fori, nei trivi, nelle piazze e nei luoghi di riunione molti gruppi in preda a contrasti, poiché, chi sostiene, com’è naturale, una tesi, chi un’altra»). Non di rado, tale trasformazione fu spesso causa di drammatici eventi.

Scena di preparazione degli aurighi ai carceres del Circo Massimo. Mosaico, IV secolo, dalla palestra. Piazza Armerina, Villa del Casale.

Nel 390 a Tessalonica il magister militum per Illyricum Buterico, in ottemperanza alle severe disposizioni in materia di fornicazione contro natura (CTh. IX 7, 6), ordinò l’arresto di un celebre cocchiere, colpevole di aver violentato un giovane coppiere. Il rifiuto opposto dal comandante alla richiesta di scarcerazione dell’atleta, particolarmente amato dal popolo, fece scoppiare una violenta sommossa che costò la vita allo stesso Buterico e ad altri ufficiali; probabilmente la rivolta fu promossa dal partito anti-gotico, che si opponeva alla politica imperiale dell’hospitalitas (Soz. HE VII 25, 3; Ruf. HE II 18; Theod. HE V 17; Zon. XIII 8). Com’è noto, l’incidente suscitò la collera di Teodosio, che, intenzionato a punire duramente l’affronto, non avviò alcuna inchiesta contro i colpevoli, ma pianificò accuratamente la propria vendetta: con la scusa di dare giochi nel circo, l’imperatore fece affluire la cittadinanza all’ippodromo per poi far intervenire l’esercito e massacrare la folla (Theod. HE V 18, 10). Forse per l’intercessione di Ambrogio, vescovo di Mediolanum, Teodosio sarebbe tornato sui suoi passi e avrebbe accarezzato l’idea di una revoca dell’ordine brutale (Ambros. Ep. 51, 3); tuttavia, quando la revoca fu inviata, l’eccidio era già stato compiuto, lasciando nell’arena 7.000 corpi esanimi e suscitando uno scandalo in tutto l’Impero (Ambros. Ep. 51, 6; ob Theod. 34; Paul. v. Ambros. 24; August. civ. Dei V 26; Theod. HE V 17, 3). Un altro episodio notevole dell’età tardoantica è quello che ebbe per protagonista Porfirio Calliopa, celebre auriga della squadra verde di Antiochia: nel 507, al tempo dell’imperatore Anastasio, durante la celebrazione dell’ennesima vittoria nella località di Dafne, l’atleta incitò i tifosi del circo alla violenza contro la comunità ebraica; la folla assaltò la sinagoga, ne massacrò i fedeli raccolti in preghiera, ne depredò i paramenti sacri e la diede alle fiamme; l’edificio fu poi convertito in una chiesetta per commemorare il martirio di San Leonzio (JoMal. Chron. XVI 5, 396).

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Filippo l’Arabo: un effimero ritorno alla tradizione

Il principato di Filippo l’Arabo (244-249) desta particolare interesse, nel cinquantennio dell’«anarchia militare», sotto almeno due aspetti: innanzitutto, toccò a lui celebrare il millenario di Roma; in secondo luogo, durante il suo governo, lungo il basso Danubio iniziarono le prime grandi incursioni di genti esterne (PIR² I 461).

Marco Giulio Filippo, noto già agli antichi come Filippo l’Arabo per la sua origine, nacque presumibilmente intorno al 204 in un piccolo villaggio chiamato Trachontis dell’Auranitis (od. oasi di Chahba in Ḥawrān, Siria meridionale). Entrato nell’esercito imperiale, Filippo seguì una brillante carriera militare finché, nel 243, non ottenne la carica di praefectus praetorio, il cui prestigio era stato rinvigorito in quegli anni dall’azione di Timesiteo, suocero di Gordiano III. Secondo le fonti storiografiche – decisamente poco favorevoli –, Filippo era un uomo di umili origini e di modesta cultura, superbo e desideroso di raggiungere il potere (cfr. [Aur. Vict.] Epit. Caes. 28, 4, is Philippus humillimo ortus loco fuit). I mezzi di cui si servì nella sua irresistibile ascesa sarebbero stati di ogni tipo: dalla trama alla corruzione, all’assassinio. Assurto a capo del Pretorio, succeduto al defunto Timesiteo, Filippo partecipò alla campagna persiana di Gordiano III. La documentazione storiografica tramanda diverse versioni sulle convulse vicende che portarono alla fine di Gordiano: le fonti ufficiali riportano che il giovane imperatore sarebbe caduto in battaglia contro i Sasanidi nei pressi di Mesiché, in Mesopotamia, e sul luogo sarebbe stato eretto un memoriale (cfr. RSDS ll. 7-8; Zon. XII 17 D); gli autori ostili a Filippo, invece, riferiscono che l’ambizioso praefectus avrebbe iniziato a sobillare i soldati, impegnati sul fronte orientale, contro il loro stesso sovrano e a compiere vere e proprie azioni di sabotaggio: per creare una situazione di grande difficoltà e avere quindi il massimo spazio di manovra, cavalcando lo scontento, Filippo avrebbe insinuato la preferenza accordata da Gordiano verso i foederati gotici dell’esercito e avrebbe ostacolato l’arrivo delle navi cariche di rifornimenti, creando difficoltà di approvvigionamento. A questo punto, Filippo avrebbe ordinato l’assassinio di Gordiano III e si sarebbe fatto proclamare imperatore dai soldati, che a quel punto l’avrebbero visto come loro salvatore (Aur. Vict. Caes. 27, 7-8; Amm. Marc. XXIII 5, 7; 17; SHA Gord. 30, 8-9; Zos. I 18, 3; 19, 1; Zon. XII 18 D).

Šāpur I trionfa su Filippo Arabo e Valeriano. Rilievo, roccia calcarea, c. 241-272. Naqš-e Rajab (Pārs), Necropoli monumentale.

Gli storici contemporanei valutano i resoconti antichi con grande cautela e tendono a ritenere che molte delle informazioni tràdite siano viziate da forti pregiudizi nei confronti di Filippo l’Arabo, che non apparteneva all’establishment romano e veniva, perciò, considerato un outsider. Indubbiamente egli agì con una buona dose di spregiudicatezza, ma è probabile che Filippo non sia stato il mandante dell’assassinio del giovane predecessore.

D’altronde, il suo avvento all’Impero, tra la fine di febbraio e gli inizi di marzo 244, consolidò il potere della componente militare di rango equestre sull’ordine senatorio: era la terza volta in meno di trent’anni che saliva al governo un membro esterno all’aristocrazia (cfr. Cod. Iust. III 42, 6).

Il primo atto ufficiale del nuovo Augustus fu concludere al più presto possibile l’ormai annosa guerra contro i Persiani, stipulando con re Shāpūr un trattato di pace, che alcuni detrattori definirono poco onorevole: secondo i termini dell’accordo, i Romani, pur rinunciando al protettorato sull’Armenia, conservavano le province di Mesopotamia e Syria al prezzo di un gravoso indennizzo di 500.000 aurei (RSDS ll. 8-9; IGR III 1202; Zos. I 19, 1; Zon. XII 19 D.; Syncell. I 683 B.). Nondimeno, questa pacificazione fu celebrata come un successo dalla propaganda imperiale, anche se con prudenza: una serie monetale battuta per l’occasione reca la legenda Pax fundata cum Persis (cfr. RIC IV 3, 69 []).

M. Giulio Filippo Augusto Arabo. Antoninianus, Antiochia c. 244-249. AR 4,55 g. Obverso: Pax fundata cum Persis. Pax stante voltata a sinistra con ramo d’ulivo nella destra e lungo scettro nella sinistra.

In secondo luogo, Filippo rinverdì la vecchia usanza, già adottata dai predecessori fin dai tempi di Antonino Pio, di cooptare al trono un proprio familiare, in modo tale da assicurare la successione e instaurare una dinastia. Così il princeps si associò nell’Impero il figlioletto di appena sette anni, Marco Giulio Severo Filippo, attribuendogli il rango di Caesar (RIC IV 3, 216a []). Poi, per conferire maggiore legittimità al proprio regime, l’imperatore celebrò l’apoteosi di suo padre, Giulio Marino, malgrado questi non fosse mai asceso alla porpora: a conferma di ciò concorrono alcuni monetali bronzei con la legenda θεῷ Μαρίνῳ («al divo Marino») e il busto del genitore sorretto in volo da un’aquila (RPC VIII 2243; IGR III 1199-1200; cfr. [Aur. Vict.] Epit. Caes. 28, 4, … patre nobilissimo latronum ductore).

Conclusa l’onerosa pace con i Persiani, Filippo rimase in Oriente fino all’inizio dell’estate. Avviando una tendenza, che in seguito sarebbe diventata una prassi, di decentrare il potere e delegare responsabilità ad altri, si apprende da Zosimo (I 19, 2) che l’imperatore investì il fratello maggiore, Gaio Giulio Prisco, del comando delle legioni siriane: la decisione non era casuale, ma rientrava perfettamente nel solco del progetto dinastico di Filippo. Prisco, che tuttavia non venne associato al trono, era stato praefectus praetorio sotto Gordiano III, prima come collega di Timesiteo e poi dell’Augusto fratello. Nel 244 egli conservò l’incarico di comandante del Pretorio e il titolo di vir eminentissimus (ἐξοχώτατος), ma fu insignito anche della praefectura Mesopotamiae, retta cum imperio pro consule (ἔπαρχος Μεσοποταμίας), e del ruolo di rector totius Orientis (cfr. IGR III 1201-1202; P. Euphr. 1; CIL III 14149 = ILS 9005). Tra le incombenze ricevute, a quanto sembra, Prisco si vide assegnare l’improbo compito di riscuotere le somme necessarie per pagare l’indennizzo persiano, impresa resa ancor più ardua dal fatto che la corresponsione dovesse essere in oro.

Quanto a Filippo, egli si adoperò per una riorganizzazione amministrativa delle province orientali, conferendo a diverse comunità lo statuto giuridico di colonia (richiamandosi alla politica dei Severi), e compì una serie di restauri nelle città più colpite dalla recente guerra in Syria e in Palaestina: si hanno tracce del suo passaggio a Nisibis e Singara, entrambe elevate al rango di coloniae; la chiusura della zecca di re Abgar X a Edessa, in Mesopotamia; gli interventi a Flavia Neapolis (od. Nāblus) e a Bostra (od. Buṣrā), dichiarata città metropolitana, quartier generale della Legio III Cyrenaica.

Un esattore delle imposte. Rilievo, calcare, c. II-III secolo, da Saintes.

Proprio a soli dodici miglia di distanza da Bostra, nell’Auranitis, sorgeva il villaggio che aveva visto i natali dell’imperatore. Egli lo rifondò con il nome di colonia Philippopolis (Aur. Vict. Caes. 28). I resti dell’abitato, con il suo impianto quadrangolare cinto da mura e con le porte collocate ai limiti di cardo e decumanus, conservano ancora oggi gran parte degli edifici realizzati sotto Filippo. Intorno all’incrocio tra i due principali assi viari furono disposti gli edifici più rappresentativi: il teatro, la basilica, il tetrapylon, il palazzo imperiale, il tempio esastilo dedicato alla domus divina (il Philippeion) e il sacello del Divo Marino (IGR III, 1200). Tutt’intorno furono costruiti le insulae, l’acquedotto, gli impianti termali, la necropoli e alcune residenze dalle quali provengono composizioni musive di notevole bellezza e valore artistico. La città, dopo la morte dell’imperatore, non sarebbe stata completata, rimanendo così, per certi versi, chiusa storicamente nella sua breve parentesi architettonica (si è ipotizzato che fosse stata edificata dal sovrano e per il sovrano!); Philippopolis può essere a ragione considerata l’ultima delle città romane fondate nel Levante (cfr. IGR III, 1195-1202).

Vale la pena di soffermarsi su uno dei numerosi mosaici che Philippopolis ha restituito nel 1952, opera nella quale è possibile ravvisare alcuni spunti circa la mutata concezione religiosa sotto Filippo l’Arabo. Conservato al Museo di Damasco, il reperto (337 cm x 276 cm), che ha subito qualche rimaneggiamento nelle epoche successive, è bordato da quadrati intorno ai quali si snoda il motivo della greca. Al centro si trova la figura di Gea, circondata da quattro puttini identificabili con le personificazioni romane delle Stagioni (Horae). Alle spalle della dea, sempre in posizione centrale, sono rappresentati Trittolemo, il genio benefico delle terre coltivate, a cui Demetra insegnò l’uso degli strumenti per lavorare la terra, e la personificazione dell’Agricoltura, nota col nome di Gheorghia. Sulla destra compare Prometeo, intento a modellare la prima figura umana con accanto Afrodite e, sul registro superiore, Hermes fiancheggiato da due figure femminili, fra le quali è stata individuata l’immagine di Psiche. Sulla sinistra, invece, sta seduta la figura di Aion, nel cui volto si è tentato di riconoscere l’effige dell’imperatore. Aion, il tempo assoluto, la divinità solare suprema e primordiale, opposta a Cronos proprio perché quest’ultimo rappresenta il tempo nella sua quantità e relatività, ha alle spalle le quattro Stagioni. Completa la composizione, in alto, la raffigurazione dei quattro venti principali, due per parte, con al centro due Geni che fanno sgorgare acqua sulla terra da due contenitori. Il carattere fortemente simbolico di tutta la rappresentazione si discosta dalle tradizionali scene mitologiche in cui compaiono cicli epici o divinità a sé stanti, come era d’uso nel panorama iconografico ellenistico-romano.

Allegoria del Saeculum Aureum. Mosaico, III secolo, da Philippopolis (od. Chahba, Siria). Damasco, National Museum (foto da Charboennaux 1960).

Qui, al contrario, il principale soggetto a cui alludono tutte le figure, divinità comprese, è il ciclo naturale della vita, nelle sue continue e periodiche mutazioni e rinnovamenti. Si è quindi di fronte alla celebrazione del “Buon Governo” e del Saeculum Aureum, in cui Aion (con il volto di Filippo) permette e favorisce tutte le attività. Tale visione si inserisce bene in quell’atmosfera di unificazione e pacificazione tra tutte le genti e le religioni che si stabilì in questi anni di principato. Anzi, proprio la politica religiosa di Filippo può considerarsi il coronamento delle tendenze sincretistiche degli ultimi Severi. E questo, in special modo, per quanto riguardava il rapporto con il Cristianesimo.

È infatti curioso che la tradizione patristica – Eusebio di Cesarea (HE VI 34), Giovanni Crisostomo (De sanct. Babyl. in Iulian. 6) – e più tarda – Zonara (XII 19 D) –, abbia considerato Filippo l’Arabo addirittura un seguace della nuova religione: tra i vari episodi, forse il più eclatante è quello che avrebbe visto l’imperatore presentarsi a una funzione religiosa ad Antiochia, in occasione della Pasqua, e che il vescovo Babila gli avrebbe impedito l’accesso se prima non si fosse confessato e pubblicamente pentito. D’altra parte, Eusebio riferisce che, già agli inizi del III secolo, l’Auranitis, sotto l’episcopato di Berillo di Bostra, era sede di una fiorente comunità cristiana con tanto di scuola teologica, le cui deviazioni dottrinali, sia in materia cristologica sia sull’immortalità dell’anima, avevano indotto i vescovi orientali a riunire un sinodo e ad appellarsi al prestigio di Origene di Alessandria (Euseb. HE VI 20; 33; 37); tra l’altro, lo stesso Origene fu in contatto epistolare con Filippo e l’imperatrice Marcia Otacilia Severa (Euseb. HE VI 36, 3).

Non è dato di sapere con certezza se il princeps sia stato realmente un cristiano (cfr. Oros. VII 20, 2) o se, come più prudentemente ritengono alcuni studiosi, egli abbia solo manifestato particolare simpatia verso il Cristianesimo, come aveva già fatto a suo tempo Severo Alessandro. Comunque, è curioso osservare come una simile tradizione sia stata sviluppata proprio da quei Padri della Chiesa che fino a qualche decennio prima avevano ritenuto assurdo che un imperatore romano potesse farsi cristiano! Altre fonti, successivamente, ricordano le proteste dei gentiles contro il governo di Filippo, che non perseguitava più i Cristiani (Orig. contra Cels. 3, 15), e le preoccupazioni della comunità alessandrina dopo la scomparsa dell’imperatore (Dionig. Alex. ap. Euseb. HE VI 41, 9).

Il presunto Cristianesimo di Filippo, tuttavia, non è confermato dagli autori non cristiani. Dai dati esteriori emerge, invece, che il princeps arabo fu uno strenuo propagatore dei valori tradizionali della romanità e dell’Impero, come si evince dall’apoteosi del padre e dalla forte aspirazioni a celebrare il millenario dell’Urbe. Sarebbe più prudente, perciò, considerare Filippo non solo tollerante verso ogni credo religioso, ma soprattutto desideroso di portare unità e pace nell’Impero, sotto la sovranità di una nuova dinastia, accogliendo benevolmente tutte le forze e le energie disponibili, secondo quel ciclo naturale della vita così ben espresso nel mosaico di Philippopolis.

Marcia Otacilia Severa. Busto, marmo, c. 244-249. New York, Metropolitan Museum of Art.

Completata la risistemazione dell’Oriente e lasciate istruzioni al fratello, Filippo si affrettò a raggiungere Roma come Persicus Maximus (cfr. CIL VI 1097). L’atteggiamento assunto dal nuovo uomo forte fu di continuità con il predecessore Gordiano III, nel segno di un recupero della centralità dell’Urbe: i Romani ricordavano fin troppo bene l’assenza di Massimino il Trace dalla città per tutta la durata del suo principato, mentre, da parte sua, Filippo doveva aver fatto tesoro della tragica fine del «barbaro», colpevole di aver trascurato Roma e le sue istituzioni. Oppure, più semplicemente, il nuovo sovrano sapeva perfettamente che ottenere la sanzione del Senato, del Pretorio e del Popolo romano gli avrebbe garantito la massima legittimazione al potere – una conferma che l’appellatio imperatoria delle truppe non bastava. La dedica di un altare votivo alla Victoria Redux di Filippo e Otacilia, curata da un certo Pomponio Giuliano per conto della Legio II Parthica di stanza sui Colli Albani, testimonia che l’imperatore e il suo seguito erano nell’Urbe non oltre il 23 luglio 244 (ILS 505). La permanenza in città dell’imperatore è ulteriormente confermata dall’assunzione, l’anno successivo, del consolato ordinario. Il princeps concesse ai pretoriani gli attesi donativa e al popolino i consueti congiaria del valore di 350 denarii (Chron. a. CCCLIIII 147 M); quindi, cercò di intrattenere buoni rapporti con il Senato, nonostante egli appartenesse alla classe equestre e provenisse da una lontana provincia. Si dedicò all’urbanistica della città, realizzando anche nuove costruzioni, tra le quali una fontana monumentale trans Tiberim e una residenza sul Celio (Aur. Vict. Caes. 28, 1).

Nel resto dell’Impero, comunque, l’opera di Filippo, inserendosi nella linea dei predecessori, fu quella di provvedere alla sistemazione e al rinnovamento del complesso sistema viario, lavori che solitamente erano di competenza delle amministrazioni locali: il gran numero di cippi miliari, recanti il nome di Filippo, attesta una febbrile attività nell’ambito delle infrastrutture (cfr. A. Stein, s.v. Iulius 386, RE 10, 1918, 766 []).

M. Giulio Filippo Arabo. Busto, marmo, c. 244-249. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

Da ogni parte, l’ascesa al potere di Filippo fu salutata come un periodo di ritrovata pace – tema piuttosto ricorrente nella monetazione coeva (cfr., p. es., RIC IV 3, 69; 72; 99-100). Ma le difficoltà c’erano ancora e soprattutto sui fronti esterni: dalle province danubiane della Moesia e dalla Dacia giungevano notizie poco rassicuranti. Si apprende, infatti, da Zosimo (I 20, 1-2), unica fonte al riguardo, che i Carpi, una popolazione vagamente associata alla stirpe germanica, a partire forse dallo stesso 244, compirono razzie al di qua del Danubio e che invano furono contrastati, agli inizi del 245, da Messalino e da Severiano: il primo era governatore della Moesia Inferior, il secondo era cognato dell’imperatore ed era stato posto al comando delle legioni illiriche (cfr. Cod. Iust. II 26, 3). Le incursioni e i saccheggi compiuti dai barbari costrinsero Filippo ad assumere personalmente il comando delle operazioni di guerra già nello stesso 245. La presenza dell’imperatore al fronte sarebbe confermata da due documenti: una constitutio (FIRA 2, 657) promulgata il 12 novembre ad Aquae in Dacia (od. Cioroiul Nou, Romania) e trasmessa dall’Epitome Codicum Gregoriani et Hermogeniani Wisigothica; e un’iscrizione (CIL III 14191 = OGIS 519 = IGR IV 598 = FIRA 1, 107 = MAMA X 114 = AE 1898, 102+128 []) riportante il rescritto in favore degli abitanti di Aragua in Phrygia (od. Yapılcan, Turchia). Vale la pena di soffermarsi su questa epigrafe, che testimonia la disponibilità di Filippo l’Arabo nei confronti dei più deboli. L’imperatore fu interpellato da un miles centenarius frumentarius di nome Didimo, che gli sottopose la richiesta di soccorso per conto del κοινόν τῶν Ἀραγουηνῶν, vittima di abusi ed estorsioni dei funzionari imperiali. Il fatto che sia stato proprio un soldato, anziché un magistrato o un retore di professione, a recare la petizione rivela decisive trasformazioni sia nel ruolo di intermediari, assunto dai soldati, sia nelle modalità di comunicazione fra sudditi e principe. Dal momento che l’imperatore si trovava impegnato nella guerra carpica, perché non ricorrere all’intercessione di un uomo d’armi, anziché un declamatore? Come si legge nel rescritto, Filippo e suo figlio delegarono al governatore d’Asia, il proconsole Marco Aurelio Egletto, l’incarico di dirimere la questione.

Quanto alla guerra carpica, Zosimo informa che per tutto il 246 Filippo l’Arabo fu impegnato sul limes, dapprima in Moesia e poi in Dacia, dove era già nell’estate di quell’anno: egli concesse alla provincia il diritto di battere moneta. Nel quadro di un’estesa offensiva volta ad arginare le infiltrazioni di  externae gentes, Filippo riportò importanti successi anche sui Germani (presumibilmente Quadi), ricevendo il titolo onorifico di Germanicus Maximus (IGR IV 635 []; P. London 3, 951). Comunque, solo nel 247 riuscì dopo ripetuti scontri a riportare una vittoria decisiva sui Carpi, costringendoli a chiedere la pace. Il successo ottenuto fu dal principe celebrato in Roma con grande pompa e con l’attribuzione a sé stesso del cognome onorifico di Carpicus Maximus (RIC IV 3, 66, Victoria Carpica). Proprio in questa occasione il figlio di Filippo fu innalzato al rango di Augustus (CIL XI 6325; Zos. I 22, 2; Zon. XII 19 D; Oros. VII 20, 1) e alla consorte dell’imperatore, Otacilia Severa, venne conferito il pomposo appellativo di mater Augusti et castrorum et Senatus et patriae (PIR² I 462).

M. Giulio Filippo Augusto Arabo. Antoninianus, Roma c. 248. AR 4,77 g. Obverso: Co(n)sul III – Saeculares Aug(ustorum). Cippo commemorativo iscritto.

Difficilmente, nei precedenti decenni, si era giunti, come con Filippo, a un così grande consenso verso l’imperatore da parte non solo di Roma, ma anche di molte delle provincie romane. Numerose iscrizioni, provenienti da ogni parte dell’Impero, testimoniano il favore riscosso da Filippo: dediche onorifiche, altari votivi e basi di statua recano formule in honorem o d’invocazione agli dèi pro salute del principe, del Genius / Numen Augusti e della domus divina; i militari celebrano le vittorie, vere e presunte, del loro imperatore. Quale migliore premessa, quindi, a quel primo Millennio di Roma che stava per celebrarsi e per il quale fervevano imponenti preparativi. Le fonti si soffermano molto su questi festeggiamenti, avvenuti tra il 21 e il 23 aprile del 248: tre giorni e tre notti di feste ininterrotte, svolte in tutte le città dell’Impero e, naturalmente, nell’Urbe, dove si susseguirono spettacoli nei teatri, nel Colosseo e nel Circo Massimo, a cui il princeps, al suo terzo consolato, assistette dalla residenza sul Palatino (CIL VI 488; S.H.A. Gord. 33, 1; Zos. II 1-7; Aur. Vict. Caes. 28, 1; [Aur. Vict.] Epit. Caes. 28, 3; Eutrop. IX 3; Oros. VII 20, 2; Hieron. Chron. s. a. CCXLVICCXLVII; Chron. a. CCCLIIII 147, 33 M). Le monete di questo periodo ricordano ampiamente i festeggiamenti: sui coni, corredati dalla legenda Saeculares Augustorum, sono raffigurati gli animali esotici dei ludi o sono riproposti il cippo o la colonna commemorativa dell’evento (cfr., p. es., RIC IV 3, 24c; 161; 200; 265c). La suggestione dei festeggiamenti pare abbia avuto anche riflessi letterari: forse in quell’occasione un senatore, Gaio Asinio Quadrato, pubblicò una storia di Roma in quindici libri (Χιλιετηρίς), che abbracciava appunto circa un millennio dalla fondazione dell’Urbe al principato di Severo Alessandro (Suda κ 1905, s.v. Κοδράτος = Asin. FGrHist. 97).

Per un brevissimo momento, con la celebrazione del millenario, Roma parve tornare ai fasti del passato, recuperando una tradizione viva ormai solo nella memoria. Nonostante il clima di giubileo suscitato dai ricchi apparati e dagli splendidi giochi nell’Urbe, la situazione generale nella compagine imperiale non era assolutamente delle più rosee. L’analisi documenti papiracei provenienti dall’Egitto (P. Oxy. 1, 78; 6, 970; 33, 2854; 42, 3046-3050; 3178; P. Leit. 16 = SB 8, 10208; P. Mil. Vogl. 2, 97) ha permesso di ricostruire, almeno in parte, le linee della politica economico-fiscale di Filippo l’Arabo, soprattutto per quanto concerne l’apparato amministrativo provinciale, e i tentativi di riforma del sistema tributario: questioni altrimenti oscure, a causa della grave lacuna della storiografia contemporanea. I testi pervenuti restituiscono una vera e propria crisi agraria che colpì l’Aegyptus nei primi anni di governo di Filippo (cfr. anche Or. Sibyll. XIII, 42-49; 50-51): la situazione era aggravata dalle mancate piene del Nilo, che avevano come effetti quelli di rendere meno produttivi i campi, rallentando e impoverendo le attività rurali; di conseguenza, all’abbandono dei terreni inutilizzabili (e, quindi, non tassabili) le autorità provinciali cercarono di rispondere con una revisione delle proprietà fondiarie, ridefinendone i confini. I periodi di magra e le malannate provocavano forti ripercussioni sul sistema d’imposizione fiscale, costringendo i proprietari a richiedere possibili sgravi e a cedere forzatamente i terreni. Effetti altrettanto disastrosi si ebbero sulla politica annonaria, dovuti alla difficoltà di reperimento e trasporto delle derrate alimentari provenienti dall’Egitto. Perciò, sia i funzionari pubblici sia lo stesso imperatore tentarono di introdurre innovazioni nel sistema delle prestazioni liturgiche in modo da evitare la paralisi dei rifornimenti granari. Il settore annonario era, dunque, quello più colpito proprio a causa della particolare onerosità che, in una situazione simile, comportava il servizio di rifornimento: la responsabilità era normalmente detenuta dai membri delle βουλαί cittadine, magistrati con compiti amministrativi, che, in onore al proprio ruolo, si assumevano l’incombenza di investire a fondo perduto le proprie rendite fondiarie per le liturgie (λειτουργίαι). La crisi agraria, però, costrinse molti membri della classe buleutica a rinunciare a ogni incarico pubblico: sono testimoniati casi di cessio bonorum per funzionari sfiniti dall’aggravio liturgico. Se la tassazione diretta gravava pesantemente sull’attività agricola, le liturgie allontanavano dal lavoro, a volte per anni, persone che per garantire servizi non potevano badare ai propri interessi, abbandonando la propria attività e la terra. Verificandosi simili congiunture, coloro che erano incaricati di queste prestazioni, specie quelle della riscossione dei tributi, si vedevano costretti a indebitarsi per far fronte alla responsabilità di una sfortunata esazione. Probabilmente verso la fine del suo principato (c. 248/9 ?), Filippo tentò di affrontare la crisi egiziana allargando l’onere liturgico anche ai privati cittadini (ἰδιῶται), cercando nuovi soggetti che potessero farsi carico delle prestazioni (P. Oxy. 33, 2664): molto probabilmente le persone individuate per tali incombenze furono i coloni (κωμῆται; cfr. SB 5, 7696). Inoltre, complice la spirale inflazionistica che da tempo vessava l’Impero, proprio sotto Filippo l’Arabo, il rapporto di valore tra la moneta d’oro e quella d’argento mutò considerevolmente, a scapito della seconda, al punto che per avere un aureus occorreva scambiare tra i 60 e i 65 denarii d’argento. L’aumento del prezzo dell’oro fu provocato dalla scarsità in circolazione del numerario prezioso (cfr. IGR I, 5 1330, 5008 []; 5010 []). Insomma, la “macchina” dell’Impero, già vacillante e instabile sul piano economico, sembrava precipitare verso più profonde crisi e fratture.

Oxford, Bodleian Library MS. Gr. class. g. 58 (P). P. Oxy. 6, 970, c. 244-245. Denuncia di terreni non inondati dalla piena del Nilo [].

Nuove e pressanti difficoltà militari incombevano di nuovo dal settore danubiano: pur con alcune imprecisioni, un passo di Giordane (Get. 89) tramanda che i Goti, che fino ad allora erano rimasti tranquilli, avevano ricevuto un regolare tributo e, durante l’ultima campagna persiana (242-244), avevano militato al soldo di Gordiano III, si videro togliere lo stipendium da Filippo, trasformandosi da amici a nemici di Roma (Gothi… subtracta sibi stipendia sua aegre ferentes, de amicis effecti sunt inimici). Perciò, nel corso del 248, dalle loro sedi settentrionali, sotto la guida di re Ostrogota e dei condottieri Argaito e Gunterico, cominciarono a premere e a varcare i confini della Moesia, mostrando chiaramente che la questione danubiana era tutt’altro che risolta: all’invasione si unirono anche Bastarni, Carpi, Vandali Asdingi e Taifali e l’orda, raggiunta Marcianopolis (od. Devnya, Bulgaria), la capitale della provincia, la posero sotto assedio. L’irruzione dei barbari nelle province balcaniche rivelò la debolezza della frontiera danubiana: forse per la negligenza dell’imperatore nel rispondere all’offensiva, forse per le sue politiche fiscali, il disagio e il malcontento nei confronti della dinastia orientale dilagarono tra le legioni stanziate sul limes; non sono chiari i motivi che portarono alla loro rivolta, ma, presa probabilmente coscienza di essere l’ago della bilancia in un settore così delicato e sentendosi forse poco rappresentati, i soldati della Pannonia e della Moesia acclamarono imperatore il loro comandante (ταξιάρχης), Tiberio Claudio Marino Pacaziano, di famiglia senatoria, che era subentrato a Severiano (Zos. I 21, 2; Zon. XII 19 D.; CIL III 94; AE 1965, 21; PIR² II 929-930). La ribellione di Pacaziano può essere datata grazie alle sue emissioni monetali, che offrono gli stessi identici temi di propaganda dell’imperatore in carica: un antoninianus (RIC IV 3, 6) porta sul dritto il busto radiato, drappeggiato e corazzato dell’usurpatore e la sua sequenza onomastica (Imp. Ti. Cl. Mar. Pacatianus Aug.), mentre sul rovescio reca la tradizionale personificazione di Roma assisa in trono con la legenda Romae Aetern(ae) an(no) mill(esimo) et primo. L’anti-imperatore, evidentemente, prese possesso della zecca di Viminacium, capitale della Moesia Superior, perché non sono state trovate monete di Filippo ivi coniate nell’anno X dell’era locale, cioè nel 248/9. Da lì Pacaziano emise coni che celebravano la concordia tra i soldati e la fedeltà delle truppe (Concordia militum, Fides militum), la prosperità e la pace eterna (Felicitas publica, Pax aeterna) e il ritorno dell’imperatore (Fortuna Redux).

Tib. Claudio Marino Pacaziano. Antoninianus, Viminacium c. 248-249. AR 4,33 g. Recto. Imp(erator) Ti(berius) Cl(audius) Mar(inus) Pacatianus Aug(ustus). Busto radiato, drappeggiato e corazzato dell’usurpatore, voltato a destra.

Simili agitazioni si ebbero, a quanto sembra, anche in Germania Superior, dove i militari acclamarono Augustus un certo Marco Silbannaco, personaggio noto solo da un antoninianus rinvenuto nell’odierna Lorena (RIC IV 3, 105, 1; cfr. Eutrop. IX 4), e in Dacia, dove prese il potere Sponsiano, figura non altrimenti nota se non grazie a una coppia di aurei (RIC IV 3, 106, 1), scoperti nel 1713 in Transilvania e riconosciuti autentici solo nel 2022 []. Ancora più pericolose furono le sollevazioni avvenute in Oriente: il regime fiscale instaurato da Prisco era diventato in poco tempo tanto insostenibile quanto oppressivo, al punto tale da far scoppiare dei disordini. Probabilmente l’abrasione del nome di Prisco da un’iscrizione palmirena, databile ad alcuni anni prima, è indice dell’impopolarità raggiunta dal fratello dell’imperatore (cfr. IGR III 1033). A ogni modo, nella confusione più totale, si fece proclamare Augustus un certo Marco Furio Rufo Iotapiano, esponente dell’élite di Emesa, che vantava legami di parentela con Severo Alessandro o addirittura di discendere da Alessandro Magno (PIR² IV 49). Con ogni probabilità, il rector Orientis cercò di reagire ed eliminare il pretendente, ma le fonti non chiariscono la conclusione della vicenda (cfr. Aur. Vict. Caes. 29, 2; Pol. Silv. Later. 38, in Chron. min. I, MGH AA. IX, 521; Zos. I 20, 2; I 21, 2; Or. Sibyll. XIII 89-102).

Con la presenza di ben quattro usurpatori, portati alla porpora dalle legioni sempre più affamate di bottino e di gloria, pronte a schierarsi con il primo disposto ad accontentarle, Filippo si vide sfumare il sogno di aver avviato una nuova epoca in cui l’Impero fosse felicemente unito sotto la sua guida. Una tradizione confluita in Zosimo (I 21, 1) e in Zonara (XII 19 D.), apparentemente in contraddizione con l’immagine dell’uomo duro e spietato, riporta un evento mai accaduto prima di allora nella storia di Roma: il princeps, turbato dalle circostanze, si presentò in Senato per rassegnare le sue dimissioni. La procedura, assai singolare per i costumi romani, suscitò l’immediata reazione dei patres che respinsero la proposta. Nel consesso si distinse il praefectus Urbi, Gaio Messio Quinto Decio, «uomo in vista per famiglia e dignità, stimato e dotato inoltre di ogni virtù» (γένει προέχων καὶ ἀξιώματι, προσέτι δὲ καὶ πάσαις διαπρέπων ταῖς ἀρεταῖς): egli, dimostrando la propria lealtà, affermava che le preoccupazioni del principe erano infondate e che i rivali di Filippo, indegni del titolo usurpato, sarebbero stati presto eliminati dai loro stessi fautori. Seppur sfiduciato, l’imperatore tornò sui suoi passi, riprendendo il controllo della situazione: decise di inviare proprio Decio a fronteggiare le invasioni lungo le sponde del Danubio e a ristabilire la disciplina tra i soldati Illyriciani. Il nuovo plenipotenziario, nativo di Budalia (od. Martinci, Serbia), una cittadina che sorgeva nei pressi di Sirmium, nella Pannonia Inferior, si distinse subito per abilità e rapidità d’intervento. Egli, assunto il comando delle legioni, respinse i Goti e i loro alleati, quindi, punì severamente i fautori di Pacaziano: vedendo che il generale perseguiva i colpevoli con particolare diligenza e scorgendo in lui una figura che eccelleva per capacità politica ed esperienza militare, nel giugno 249, i soldati Illyriciani decisero di fargli indossare la porpora. Stando alle fonti (Zos. I 22, 1; Zon. XII 20 D.), inizialmente riluttante a mettersi contro Filippo, considerati i rapporti con lui, successivamente Decio si decise ad affrontare in armi il suo avversario. Filippo, informato dell’appellatio imperatoria di Decio, riunite le legioni a lui fedeli, si era messo in marcia verso le province danubiane.

M. Giulio Severo Filippo II. Busto, marmo, c. ante 249. Venezia, Museo Archeologico Nazionale.

Nel settembre del 249 d.C. i due imperatori-soldati si scontrarono a Verona (Aur. Vict. Caes. 28, 10; [Aur. Vict.] Epit. Caes. 28, 2; Eutrop. IX 3) e Filippo trovò la morte, come era d’uso, per mano amica, nella sua tenda (Or. Sibyll. XIII 79-80). Secondo un’altra tradizione, invece, risalente a Giovanni Antiocheno (FGrHist 4 F 148 = FHG IV 597 M), non ci sarebbe stata alcuna battaglia a Verona: l’imperatore sarebbe stato ucciso a tradimento negli accampamenti di Beroea (od. Veroia, Grecia settentrionale), di ritorno da una campagna vittoriosa sui barbari. Comunque sia, giunta a Roma la notizia della caduta di Filippo, suo figlio dodicenne fu barbaramente trucidato dai pretoriani (Aur. Vict. Caes. 28, 11; Eutrop. l.c.; Oros. VII 20, 4).

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