Omero, il primo aedo

I due più celebri poemi epici del mondo antico, l’Iliade e l’Odissea, appaiono indissolubilmente legati al nome di Omero. Ma gli antichi, in realtà, non sapevano niente di questo personaggio. Infatti, la grande quantità di dati biografici e di aneddoti esistenti su di lui, sottoposta a un più attento esame, si è rivelata per lo più frutto di fantasia. Tali dati, volti ad appagare la curiosità del pubblico nei confronti di un poeta così famoso, si trasmisero nel tempo senza subire sostanziali alterazioni; ma la loro scarsa attendibilità è dimostrata dal fatto che biografie omeriche relativamente recenti, come la Vita falsamente attribuita a Erodoto, o il racconto di una gara poetica che sarebbe avvenuta fra Omero ed Esiodo, hanno utilizzato materiale più antico, risalente almeno al VI secolo a.C. senza apportarvi cambiamenti.

Perfino il nome del poeta era oggetto di interpretazioni diverse: appellandosi alla tradizione che faceva di lui un cantore cieco e girovago – infatti, in età arcaica, la condizione di cecità conferiva a un aedo un’aura sacrale, per il fatto che si attribuiva ai non vedenti capacità profetiche, una forma di conoscenza superiore – il suo nome fu fatto derivare dall’espressione ὁ μὴ ὁρῶν, «colui che non vede», mentre il reale significato di ὅμηρος è «ostaggio», parola che non contiene nessun riferimento né all’attività poetica né alla cecità, sebbene quest’ultima caratteristica fosse considerata tipica, appunto, dei cantori e dei veggenti; ne è un esempio, nell’Odissea, proprio Demòdoco, l’aedo che vive alla corte di Alcinoo, re dei Feaci.

William-Adolphe Bouguereau, Omero e la sua guida. Olio su tela, 1874. Milwaukee, Art Museum.

Studi più recenti hanno ricollegato il nome del poeta al verbo ὀμηρεῖν, «incontrarsi», «andare insieme», alludendo così al carattere agonale della poesia epica, che prevedeva, in particolari solennità, l’incontro di cantori provenienti da varie parti dell’Ellade, per gareggiar fra loro. Tale ipotesi troverebbe conferma in un appellativo di Zeus, Ἁμάριος, così chiamato in quanto protettore di Hamarion, una località dell’Acaia in cui avvenivano le riunioni federali di tutti gli Achei, in occasione di grandi festività religiose.

Pertanto, agli antichi fu ignoto il vero nome di Omero e ignota anche la patria; secondo un celebre epigramma dell’Anthologia Palatina (XVI 295-298), raccolta composta probabilmente nell’XI secolo d.C., ben sette città – Smirne, Chio, Colofone, Itaca, Pilo, Argo e Atene – si contendevano l’onore di aver dato i natali al famoso poeta; ma anche l’accostamento dei nomi risulta però del tutto arbitrario e solo quelli di Smirne e di Chio sembrerebbero offrire una qualche attendibilità: Smirne era infatti colonia degli Eoli, ai quali si sovrapposero poi popoli di stirpe ionica; e ciò spiegherebbe il linguaggio usato nei poemi epici, di base ionica, ma arricchito di molti eolismi; a Chio, invece, esisteva una corporazione di rapsodi a ordinamento gentilizio, gli Omeridi (Ὁμηρίδαι), che si vantavano di discendere direttamente dal poeta; ma la validità di questa affermazione si fonda sulla fragile base rappresentata dalle parole dell’Inno ad Apollo (v. 172), attribuito a Omero, il cui compositore (in realtà, sconosciuto) si definiva «il cieco che abita nella rocciosa Chio» (τυφλὸς ἀνήρ, οἰκεῖ δὲ Χίῳ ἔνι παιπαλοέσσῃ).

Anche le Vite di Omero (ben sette, tutte di età post-classica, fra quelle anonime e quelle attribuite a un preciso autore) non forniscono alcun dato attendibile; si tratta di racconti favolosi, che presentano situazioni assai lontane dai dati che si possono ricavare dai poemi stessi. Nell’Iliade e nell’Odissea, infatti, l’aedo frequenta ambienti aristocratici o addirittura vive nella reggia, mentre le Vite pongono di fronte alla ben diversa figura di un poeta di umili origini, che vive ed esercita la sua arte in mezzo al popolo, in un contesto sociale in cui gli antichi palazzi regali, di cui il cantore era ospite rispettato e gradito, non sono più che un remoto ricordo. Altrettanto incerta è la cronologia che riguarda Omero: le oscillazioni sono talora di centinaia d’anni, dal periodo della guerra di Troia, intorno al 1184 a.C., a molto prima, intorno al 1250, fino a quattro secoli dopo. L’unico dato attendibile potrebbe essere quello fornito da Erodoto (II 53), secondo cui Omero sarebbe vissuto circa quattrocento anni prima dello storico, cioè verso l’850 a.C. e sarebbe stato contemporaneo di Esiodo.

Omero. Statua, marmo, c. II secolo a.C. dalla Villa dei Papiri, Ercolano. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

La «questione omerica»

Nonostante l’incertezza della sua figura storica, per gli antichi Omero rimase pur sempre un personaggio reale, oggetto della più profonda venerazione o, molto più raramente, di polemica. Quest’ultimo atteggiamento fu proprio dell’età ellenistica, quando Callimaco di Cirene (315/10-244 a.C.) e i suoi seguaci contrapposero una poesia di breve estensione e di grande accuratezza formale alla vasta mole del «poema uno e continuo, di molte migliaia di versi».

I poemi omerici si collocano a cavallo tra oralità e scrittura: da un lato, essi sono il prodotto di una lunga e stratificata produzione orale, durante la quale intere generazioni di aedi elaborarono il materiale narrativo; dall’altro, mostrano i caratteri di un’elaborazione unitaria, che presuppone l’utilizzo di materiale scritto.

Secondo la tradizione classica, il passaggio probabilmente decisivo per la redazione dei poemi omerici fu costituito dall’edizione voluta da Ipparco, figlio di Pisistrato e tiranno di Atene, alla fine del VI secolo a.C.. In occasione dei festival poetici che si svolgevano all’interno delle Panatenee (luglio-agosto, in onore di Atena), i cantori che volevano esibirsi dovevano attenersi alla redazione ufficiale. Il controllo esercitato dal potere politico confermerebbe così la funzione educativa riconosciuta alla poesia epica e l’influenza che la performance dei cantori aveva sulla mentalità collettiva.

Ma le vere e proprie edizioni critiche dei due poemi si ebbero solo a partire dal III secolo a.C. per opera dei filologi alessandrini, che lavoravano nell’ambito di istituzioni culturali come la Biblioteca e il Museo, sorte ad Alessandria d’Egitto per volontà dei sovrani della dinastia Tolemaica. Fra questi studiosi si possono ricordare Zenodoto di Efeso (330-260 a.C.), Aristofane di Bisanzio (257-180 a.C.) e Aristarco di Samotracia (216-144 a.C.), che operarono in un arco di tempo compreso fra il 300 e il 150 a.C. Costoro suddivisero Iliade e Odissea in ventiquattro libri ciascuno, tanti quanti erano le lettere del nuovo alfabeto attico, usando le maiuscole per il primo e le minuscole per il secondo. Il lavoro di questi studiosi fu rigorosamente conservatore, tanto da mantenere nel testo anche parti di dubbia autenticità, che contrassegnarono tuttavia con un segno grafico speciale, l’ὀβελός, «spiedo» (÷).

Benemeriti per la conservazione del testo omerico, i filologi alessandrini contribuirono però a distruggerne definitivamente il carattere originario di poesia destinata alla recitazione. Questa contraddizione fu notata già in età antica, tanto che Cicerone (De oratore III 137) espresse un giudizio favorevole nei confronti della redazione pisistratea, mentre a Giuseppe Flavio (Adv. Apion. I 12) la stesura scritta apparve in contrasto con l’intenzione originaria del poeta, che aveva concepito la propria opera come una serie di canti destinati alla trasmissione orale. Dalla coesistenza di questi due elementi, redazione pisistratea e composizione orale, oltre che dall’incertezza dei dati sulla stesura e sull’autore dei due poemi, nacque e si sviluppò nel tempo la cosiddetta «questione omerica», che rimane, malgrado l’opera di molti studiosi, un problema tuttora insoluto.

Senza addentrarsi troppo nei meandri dell’omerologia, si riassumeranno le linee essenziali di sviluppo della vexata quaestio. In età antica il problema fu affrontato nel III secolo a.C. da due grammatici, Xenone ed Ellanico, detti poi χωρίζοντες («separatisti»), perché attribuirono l’Iliade a Omero e l’Odissea a un aedo più tardo, fondandosi solo sull’analisi interna dei poemi e sulle differenze di contenuto e di stile. Per gli stessi motivi, nel I secolo d.C. l’anonimo autore del trattato Sul sublime propose, con una certa ingenuità, di attribuire l’Iliade all’età giovanile del poeta e l’Odissea alla sua tarda maturità.

Più di mille anni dopo, e precisamente nella seconda metà de XVII secolo, François Hédelin (1604-1676), abate d’Aubignac, in un suo scritto, le Conjectures académiques ou Dissertation sur l’Iliade, pubblicato soltanto nel 1715, sostenne una tesi che fu fin da subito considerata clamorosamente innovativa e rivoluzionaria: Omero non era mai esistito e, poiché in quell’epoca (che egli però non determinò) non esisteva ancora la scrittura, l’Iliade non sarebbe stata altro che una raccolta di canti composti in momenti diversi, riuniti poi nella redazione scritta attribuita a Pisistrato.

Rembrandt van Rijn, Omero. Olio su tela, 1663. Den Haag, Mauritshuis.

A distanza di circa trent’anni, nel 1744, il filosofo italiano Giambattista Vico (1668-1744) dedicò alla questione omerica il III capitolo dei suoi Principii di una Scienza nuova. In esso, sotto il programmatico titolo di Discoverta del vero Omero, negava anch’egli consistenza storica alla figura del celebre poeta, sostenendo che le opere a lui attribuite dovevano essere considerate solo espressione del patrimonio collettivo dei ricordi del popolo greco «nel suo tempo favoloso». Questo aspetto gli appariva più evidente nell’Iliade, mentre l’Odissea era da considerarsi espressione di una civiltà meno antica.

In tempi più recenti, la «critica antiunitaria» trasse origine dagli studi del filologo tedesco Friedrich August Wolf (1759-1824), il quale approfondì gli spunti offerti dai suoi predecessori e, con un’accurata analisi testuale dei due poemi, giunse nei suoi Prolegomena ad Homerum, pubblicati nel 1795, a conclusioni simili a quelle del D’Aubignac. Wolf illustrò con chiarezza di argomentazioni l’impossibilità che i testi omerici fossero opera di un solo poeta e sostenne, al contrario, che canti separati, recitati da aedi, fossero stati definitivamente fissati e riuniti nel VI secolo a.C. Queste teorie ebbero diffusione e fortuna nel corso dell’Ottocento e altri studiosi condivisero l’idea dell’esistenza di un vasto e antico materiale trasmesso oralmente, al quale avrebbero attinto i compositori dell’Iliade e dell’Odissea. In base a tale convinzione, ebbe quindi origine la cosiddetta «teoria del nucleo ampliato», secondo cui la matrice dell’Iliade sarebbe stato un canto dedicato alla contesa fra Achille e Agamennone, mentre l’Odissea si sarebbe sviluppata dal racconto del lungo e travagliato ritorno di Odisseo: entrambi sarebbero stati ampliati nel corso dei secoli dall’opera di generazioni di rapsodi, fino a raggiungere l’ampiezza attuale.

Un altro studioso tedesco, Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff (1848-1931), avanzò l’ipotesi dell’esistenza di un poeta di lingua ionica, unico autore del nucleo fondamentale dell’Iliade; la sua opera, databile all’VIII secolo a.C., sarebbe stata poi ampliata da altri.

Il primo quarto del Novecento fu caratterizzato da una vivace ripresa delle teorie unitaristiche, secondo le quali non vi sarebbe stato che un solo autore per entrambi i poemi; tuttavia, tali conclusioni appaiono sostenute più da un’entusiastica ammirazione per Omero che da un’attenta analisi critica dei testi, condotta con metodi rigorosi e scientifici.

Una svolta decisiva negli studi omerici arrivò solo nei primi decenni del XX secolo, grazie alle ricerche dell’americano Milman Parry (1902-1935). Attraverso il contributo dato dagli studi di comparatistica e di antropologia culturale sulle modalità di comunicazione orale delle civiltà tribali, e analizzando il linguaggio dell’Iliade, riuscì a dimostrare che l’unità compositiva di base della poesia epica non fosse la singola parola (come sarebbe avvenuto per una civiltà fondata sulla scrittura), bensì gli elementi formulari: la ripetizione di parole o frasi che compaiono molte volte, come epiteti umani e divini, inizio e conclusione di discorsi, modi di interpellare e di rispondere, indicazioni temporali, formule di transizione del discorso.

La tesi di Parry, secondo il quale Omero era un cantore di oral poetry, ebbe il pregio di allargare l’indagine dalla filologia all’antropologia, in quanto egli cercò sostegno alle proprie teorie confrontando l’ἔπος greco con le composizioni di cantori popolari, numerosi e attivi fino alla prima metà del Novecento soprattutto nell’Europa orientale.

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L’Historia Augusta

L’Historia Augusta, secondo il filologo svizzero Isaac Casaubon (1559-1614), o Vita diversorum principum et tyrannorum, secondo il titolo tràdito dai manoscritti, è una raccolta di trenta biografie di imperatori dal II al III secolo, da Adriano a Numeriano (117-284), con lacune per gli anni 244-260. L’opera non comprende solo i profili degli Augusti, ma anche quelle che gli studiosi hanno definito «vite sussidiarie», brevi biografie o di eredi designati o di usurpatori (tyranni): una serie di notizie che rende l’Historia Augusta un testo di importanza fondamentale per le attuali conoscenze del periodo fra il II e il III secolo, su cui scarso è l’apporto di altre fonti. In effetti, si tratta di una delle opere tra le più curiose della tarda antichità tanto per il suo carattere di enigma letterario quanto per il suo peculiare contenuto, che mescola spudoratamente verità e invenzione.

Un letterato nel suo studio. Rilievo, marmo, III-IV sec. d.C. Roma, Museo della Civiltà romana.

L’Historia Augusta presenta, infatti, una serie di problemi assai intricati, in modo particolare in merito ad attribuzione e a datazione, tutte questioni che secoli di dibattito critico non hanno risolto e che ancora giacciono sostanzialmente aperte (Johne 1976). Per quanto riguarda la datazione, nel suo insieme la raccolta si presenta composta tra la fine del III e gli inizi del IV secolo, se non altro per la serie di dediche e apostrofi rivolte in più luoghi a imperatori da Diocleziano a Costantino (cfr. S.H.A. Clod. 1, 1; 3, 1; Aurel. 44, 5). L’altra vexata quaestio filologica riguarda la paternità della raccolta, perché le varie biografie figurano scritte da sei distinti autori, non altrimenti noti: Elio Sparziano, Giulio Capitolino, Volcacio Gallicano, Trebellio Pollione, Elio Lampridio, Flavio Vopisco. Non pochi indizi hanno fatto supporre che la redazione appartenga a un’età successiva, in quanto i presunti biografi rivelano conoscenze inconciliabili con l’epoca alla quale dichiarano di appartenere. Per questo e per altre contraddizioni, si è fatta strada nel tempo l’ipotesi che i sei nomi siano del tutto fittizi e che l’opera sia stata composta in epoca più tarda, probabilmente da un unico autore, un falsario che grazie all’anonimato sperava di rendere più attraenti i suoi scritti. Altri hanno preferito un’ipotesi intermedia e cioè che qualcuno, nella seconda metà del IV secolo, abbia ripreso e rielaborato biografie originariamente redatte in età dioclezianea e costantiniana (Dessau 1889; contra Mommsen 1890; Lippold 1991; 1998). L’orientamento tradizionalista e anticristiano dell’opera ha fatto comunque propendere per una datazione agli anni di Giuliano (361-363) o ai primi anni d’impero di Teodosio (379-395), momenti in cui si ebbe una breve ma intensa ripresa pagana; altri ancora hanno pensato addirittura al V o al VI secolo (cfr. Baynes 1926; Hartke 1940; 1951; Straub 1963).

P. Licinio Egnazio Gallieno. Busto, marmo, 261 d.C. ca. Bruxelles, Musée Royal

Dal punto di vista ideologico, chi ha composto le biografie doveva essere di estrazione senatoria: infatti, gli imperatori sono valutati positivamente o negativamente in base alla loro condotta nei confronti del venerando consesso. Così, per esempio, Massimino Trace (235-238), che si oppose al latifondo e si batté contro l’evasione fiscale dell’élite senatoria africana, è raffigurato come una «belva crudelissima», brutale, ignorante e ingorda, solo muscoli e niente cervello; Gallieno (253-268), invece, che escluse i senatori dalla carriera militare, è presentato come un lussurioso, un uomo disonesto e incapace: «Regge lo Stato con la competenza dei bambini quando giocano a fare gli imperatori» (S.H.A. Gall. 10, 2). Diversamente, il filosenatorio Severo Alessandro (222-235) è descritto come un principe modello, idealizzato al punto che il suo profilo apparve ad Edward Gibbon una «goffa imitazione della Ciropedia». Al contrario, le biografie di Commodo, Caracalla, Elagabalo sono un vero e proprio «museo degli orrori».

Dal punto di vista stilistico, la narrazione è condotta in modo piano e monotono, «giornalistico» e sciattamente cronachistico. Sul piano contenutistico, l’opera è piena di incongruenze, esagerazioni macroscopiche su particolari secondari, che fanno perdere il punto di vista sui maggiori problemi storici; presenta molte profezie post eventum, fastidiosi pettegolezzi e notizie certamente false, al punto che qualcuno l’ha intesa come una parodia della storiografia ufficiale. Inclini alla curiosità aneddotica, queste biografie sono state considerate la degenerazione del modello svetoniano, al quale intendono riallacciarsi (forse sono andati perduti la prefazione e i ritratti di Nerva e di Traiano, che avrebbero continuato il De vita Caesarum; cfr. (S.H.A. Max. Balb. 4, 5; Prob. 2, 7; Quatt. tyr. 1, 1-2). Anche lo schema compositivo è lo stesso dei ritratti di Svetonio: esposizione cronologica fino all’assunzione del potere imperiale e, nella fase successiva, per categorie tematiche (per species).

C. Vibio Treboniano Gallo. Statua, bronzo, III sec. da Roma. New York, Metropolitan Museum of Art.

Fine prevalente dell’opera, a onta delle dichiarazioni di documentazione rigorosa (conscientia, fidelitas, diligentia), è l’intrattenimento del lettore, ma anche il suo ammaestramento morale, presentando modelli positivi da emulare e modelli negativi da evitare. D’altronde, in tutta la raccolta si avverte fortissima la tendenza all’inserimento, accanto a dati storici, di elementi di pura invenzione. Questo, tuttavia, non accade in maniera sistematica, ma in misura crescente a mano a mano che l’opera procede; le informazioni contenute nella prima serie di biografie (fino circa a quella di Caracalla), infatti, sono in larga parte accettabili, ma dalla vita di Macrino in poi iniziano a prendere il sopravvento gli elementi fantasiosi: riferimento a documenti falsi, personaggi totalmente inventati, notizie strampalate, il tutto narrato con un aplomb degno di un grande biografo.

Per esempio, Giulio Capitolino informa che i genitori di Massimino Trace si chiamavano, rispettivamente, Micca e Ababa. Sembrerebbe un’encomiabile completezza di informazione, se non fosse che non solo la notizia è palesemente inventata, ma per di più si tratta di una storpiatura delle parole che compongono la notizia dello storico greco Erodiano, che aveva definito l’imperatore un μιξοβάρβαρος, «mezzo barbaro» (Hdn. VI 8, 1): da qui il padre Micca e la madre Ababa. C’è poi una costante passione per i giochi di parole: Caracalla che si sarebbe potuto fregiare anche del titolo di Geticus Maximus, e non perché avesse trionfato sui Geti/Goti, ma perché aveva fatto assassinare il fratello Geta. Talvolta, all’interno delle singole biografie amplissimo spazio è concesso ai particolari più curiosi e insoliti, come mostra questo brano tratto dalla vita di Elagabalo, che si sofferma a lungo sulle sue assurde stravaganze: «Aveva anche l’abitudine di invitare a cena otto persone tutte calve, oppure otto persone strabiche, otto sofferenti di podagra o anche otto sordi, otto individui tutti di carnagione scura, oppure otto spilungoni o otto grassoni, divertendosi, nel caso di questi ultimi, a osservare gli equilibrismi cui dovevano ricorrere per prendere posto intorno alla tavola (S.H.A. Helag. 25, 1).

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Caligola, un mostro di invidia e gelosia (Suet. Calig. 34-35)

I capitoli che seguono sono parte della sezione negativa della biografia, quella in cui Caligola si manifesta come un monstrum. Ma pur nell’esagerazione propria del genere letterario, appaiono qui le tendenze all’autocrazia perseguita dal principe, nel rifiuto del passato di Roma e in maniacali atteggiamenti che rivelano anche i segni di un progressivo squilibrio psichico.

C. Giulio Cesare Caligola. Testa, marmo con tracce di policromia, c. 37-41. Copenhagen, Ny Carlsberg Glyptotek.

[34.1] Nec minore liuore ac malignitate quam superbia saeuitiaque paene aduersus omnis aeui hominum genus grassatus est. statuas uirorum inlustrium ab Augusto ex Capitolina area propter angustias in campum Martium conlatas ita subuertit atque disiecit ut restitui saluis titulis non potuerint, uetuitque posthac uiuentium cuiquam usquam statuam aut imaginem nisi consulto et auctore se poni. [2] cogitauit etiam de Homeri carminibus abolendis, cur enim sibi non licere dicens, quod Platoni licuisset, qui eum e ciuitate quam constituebat eiecerit? sed et Vergili[i] ac Titi Liui scripta et imagines paulum afuit quin ex omnibus bibliothecis amoueret, quorum alterum ut nullius ingenii minimaeque doctrinae, alterum ut uerbosum in historia neglegentemque carpebat. de iuris quoque consultis, quasi scientiae eorum omnem usum aboliturus, saepe iactauit se mehercule effecturum ne quid respondere possint praeter eum.

[35.1] Vetera familiarum insignia nobilissimo cuique ademit, Torquato torquem, Cincinnato crinem, Cn. Pompeio stirpis antiquae Magni cognomen. Ptolemaeum, de quo ret‹t›uli, et arcessitum e regno et exceptum honorifice, non alia de causa repente percussit, quam quod edente se munus ingressum spectacula conuertisse hominum oculos fulgore purpureae abollae animaduertit. [2] pulchros et comatos, quotiens sibi occurrerent, occipitio raso deturpabat. erat Aesius Proculus patre primipilari, ob egregiam corporis amplitudinem et speciem Colosseros dictus; hunc spectaculis detractum repente et in harenam deductum Thr‹a›eci et mox hoplomacho comparauit bisque uictorem constringi sine mora iussit et pannis obsitum uicatim circumduci ac mulieribus ostendi, deinde iugulari. [3] nullus denique tam abiectae condicionis tamque extremae sortis fuit, cuius non commodis obtrectaret. Nemorensi regi, quod multos iam annos poteretur sacerdotio, ualidiorem aduersarium subornauit. cum quodam die muneris essedario Porio post prosperam pugnam seruum suum manumittenti studiosius plausum esset, ita proripuit se spectaculis, ut calcata lacinia togae praeceps per gradus iret, indignabundus et clamitans dominum gentium populum ex re leuissima plus honoris gladiatori tribuentem quam consecratis principibus aut praesenti sibi.

[34.1] E con gelosia e malignità non inferiori alla superbia e alla crudeltà egli infierì quasi contro il genere umano di ogni tempo[1]. Fece abbattere e spezzare le statue delle personalità illustri che Augusto aveva trasferito dalla piazza del Campidoglio, ormai angusta, in Campo Marzio, e la distruzione fu tale che non si poterono più restaurare con le loro iscrizioni intere. Vietò anche che si erigessero statue a persone viventi se non con la sua approvazione o per sua iniziativa[2]. [2] Meditò persino di distruggere i poemi di Omero e ripeteva: «Perché non dovrei comportarmi come Platone, che l’ha messo al bando dalla sua Repubblica[3]. Poco mancò che non facesse togliere da tutte le pubbliche biblioteche le opere e i ritratti di Virgilio e di Tito Livio, rimproverando al primo di essere privo d’ingegno e poco esperto nell’arte, e al secondo di essere uno storico verboso e sciatto. Anche riguardo ai giureconsulti ebbe la pretesa di rendere del tutto inutile la loro scienza e ripeteva spesso: «Perbacco, farò in modo che non possano più dare alcuna consulenza legale all’infuori di quelle che voglio io!».

[35.1] Tolse ai membri delle più nobili famiglie le loro antiche attribuzioni onorifiche: la collana a un Torquato, i riccioli a un Cincinnato, il diritto di chiamarsi Magnus a un Gneo Pompeo, discendente dell’antico casato. Quanto a quel Tolemeo di cui ho parlato prima[4], dopo averlo convocato dal suo regno e averlo accolto con onore, Caligola lo colpì a morte improvvisamente solo perché, in occasione di uno spettacolo gladiatorio organizzato dallo stesso imperatore, si accorse che quello, entrato nell’anfiteatro, aveva attirato gli sguardi del pubblico con lo splendore del suo mantello di porpora[5].  Ogni volto che incontrava qualcuno con una bella capigliatura, gli faceva radere la testa per imbruttirlo[6]. [2] Viveva allora un certo Esio Proculo, figlio di un centurione primipilo, il quale, per la sua bellezza e per la prestanza della sua persona era soprannominato “Colossero”. Durante uno spettacolo del circo, Caligola lo fece arrestare improvvisamente tra gli spettatori e buttare nell’arena a combattere contro un Trace. In seguito, comparso un gladiatore in armatura completa, lo fece combattere di nuovo; e, poiché risultò vincitore tutt’e due le volte, diede ordine che fosse subito legato e, ricoperto di cenci, condotto di rione in rione e mostrato alle donne, quindi sgozzato. [3] Infine, non c’era nessuno di condizione tanto abietta e meschina, che egli non cercasse di nuocergli. Contro il “re del bosco”, poiché esercitava la funzione sacerdotale ormai da molti anni, spinse un avversario più vigoroso[7]. In una giornata di spettacoli, poiché Porio, un gladiatore che combatteva dal carro, era stato clamorosamente applaudito per avere, dopo la vittoria, affrancato un suo servo[8], Caligola si precipitò tra gli spettatori con tanta foga che, inciampando nella toga, cadde in mezzo alla gradinata, indignandosi e strepitando che il popolo, signore delle genti, attribuiva più onore a un gladiatore per una ragione così futile che agli imperatori divinizzati e a lui stesso che era presente.

Scene dal combattimento fra un retiarius (Kalendio) e un secutor (Astyanax). Mosaico, IV secolo. Madrid, Museo Arqueológico Nacional.

Fino al XIX secolo la critica riteneva verosimile la presentazione di Caligola come imperatore “folle” data da Svetonio. In seguito, la discussione si è fatta più articolata e ha dovuto tener conto del fatto che il biografo, oltre ai documenti imperiali cui aveva accesso diretto e alle notizie riferite oralmente (che quasi sempre segnala come dubbie), ha attinto anche a storici precedenti, spesso accettandone l’autorità. Tra le fonti di informazioni sui fatti del I secolo c’è una storia cominciata da Aufidio Basso (di età tiberiana) e continuata da Plinio il Vecchio (non è chiaro quale delle due coprisse il breve periodo di Caligola). Altri candidati sono Servilio Noniano (vissuto anch’egli sotto Tiberio), Cluvio Rufo (che fu console ai tempi di Caligola e scrisse su avvenimenti contemporanei) e Fabio Rustico (insieme al precedente una delle fonti delle Historiae tacitiane), ma Svetonio non offre particolari ragguagli sulla provenienza delle notizie riferite. È sicuro però che l’aperto conflitto tra Caligola e il Senato romano a causa degli atteggiamenti assolutistici dell’imperatore – che si ispirava al modello orientale-ellenistico delle monarchie divinizzate – diede origine a una tradizione storiografica generalmente polemica e ostile nei suoi confronti. Si può comunque considerare il punto di vista di Svetonio su Caligola come rappresentativo della sua classe e della sua epoca: quello che l’autore vuole mettere in evidenza è principalmente il carattere del princeps, la sua superbia e la sua crudeltà, che rendevano inaccettabile il suo modo di esercitare il potere. La Vita Caligulae è suddivisa in rubriche positive e negative come le altre biografie svetoniane, ma qui le seconde sono nettamente prevalenti e ben distinte nel testo dallo stesso autore: Hactenus quasi de principe, reliqua ut de monstro narranda sunt («Fin qui ho parlato di un principe, ora devo parlare, per così dire, di un mostro», Calig. 22, 1).

Nel brano riportato le azioni criminose di Caligola sono dettate dalla gelosia (livor). L’imperatore pretendeva in ogni circostanza gli onori più alti e una considerazione che lo mettesse al di sopra di tutti; pertanto, aveva paura di tutte le occasioni di confronto con persone (vive o morte) che da qualsiasi punto di vista potessero apparirgli superiori e traduceva questo risentimento in atti di cancellazione della memoria, umiliazione e addirittura messa a morte di presunti rivali. Gli esempi riferiti da Svetonio sono ordinati in una progressione che parte dai crimini perpetrati contro le cose (le statue degli uomini illustri del passato; le opere degli auctores, Omero, Virgilio e Livio) o il libero esercizio della professione (i provvedimenti contro i giureconsulti) e arriva a quelli contro le persone fisiche, colpite nella loro immagine (i nobili romani, i giovani di particolare bellezza) o private crudelmente della vita (Tolemeo, Esio Proculo, il rex Nemorensis). La narrazione è organizzata in una climax che culmina nella caduta di Caligola, geloso degli applausi a Porio, dalle gradinate: quasi un contrappasso per il princeps che pretendeva per sé lo sguardo riverente del pubblico.

Il brano esemplifica bene due caratteristiche abbastanza rappresentative dello stile svetoniano: la narrazione rapida e concisa, che mira all’essenziale tralasciando ogni ricercatezza letteraria, e il vigore espressivo, che non rifugge da un lessico a volte anche crudo. I misfatti della gelosia di Caligola sono raccontati semplicemente (quasi “elencati” uno dopo l’altro), mentre spesso le scelte lessicali (per esempio, l’uso di verbi generalmente adoperati con una connotazione negativa che si riflette sul soggetto dell’azione) contribuiscono a suggerire l’idea che il princeps, che voleva essere trattato come un dio, assomigliasse piuttosto a un brigante da strada o a un violento pretenzioso e perverso: grassatus est… iactauit (34); deturpabat… iugulari… obtrectaret… subornauit… clamitans (35).

Riferimenti bibliografici:

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H. Lindsay (ed.), Suetonius, Caligula, London 1993.

D. Wardle, Suetonius’ Life of Caligula: A Commentary, Bruxelles 1994.


[1] La superbia e la saevitia di Caligola sono state illustrate dal biografo, rispettivamente, in Calig. 22 e 27-33; la gelosia e la malevolenza del princeps prendevano di mira tanto i vivi quanto i morti.

[2] D’altronde, gli imperatori esercitarono il controllo sulle immagini in quanto veicoli di significati anche politici e propagandistici.

[3] Nello Stato ideale di Platone (Resp. 377-393) non c’era posto per i poeti narrativi come Omero; il principe, insomma, si arrogava gli stessi diritti del filosofo ateniese nel rifondare lo Stato.

[4] Cfr. Suet. Calig. 26, 1. Tolemeo era cugino dell’imperatore per parte di madre.

[5] Ancora un episodio di gelosia e paura da parte dell’imperatore. L’assassinio di Tolemeo si colloca nel 40, quando il principe era ancora molto scosso e diffidente per l’attentato dell’anno precedente.

[6] Il giovane imperatore soffriva di calvizie e ciò lo rendeva particolarmente suscettibile su questo particolare della bellezza maschile.

[7] Nemorensis rex era detto il sacerdote del santuario di Diana situato in un bosco sacro (nemus) ad Ariccia sui Colli Albani: era un servus fugitivus – l’esempio serve infatti a illustrare l’intento persecutorio dell’imperatore nei confronti dei disgraziati – che prendeva il posto del predecessore in carica uccidendolo e aspettava di essere ucciso a sua volta dal nuovo aspirante.

[8] Verosimilmente il proprio auriga.

Pacuvio e la nascita del ‘pathos’ tragico

Marco Pacuvio, di famiglia osca, nacque a Brundisium intorno al 220. Secondo Plinio il Vecchio (Plin. Nat. hist. XXXV 7, 19), era figlio di una sorella di Quinto Ennio (Enni sorore genitus) e probabilmente già in giovane età raggiunse lo zio a Roma, dove condusse un’esistenza agevolata dall’illustre parentela: si occupò della sua formazione Ennio stesso, da cui Pacuvio ereditò gli interessi filosofici e le tendenze razionalistiche; introdotto grazie allo zio negli ambienti ellenizzanti dell’Urbe, in particolare nel «circolo» scipionico, Pacuvio intraprese l’attività di pittore – ancora ai tempi di Plinio il Vecchio si ammirava un suo quadro nel tempio di Ercole, nel Foro Boario (Plin. ibid.) – e quella di poeta. Evidentemente, il rango rispettabile, che, per il mos maiorum, non ammetteva una vita dedicata alle arti, non gli impedì di impegnarsi in vari campi artistici, che anzi contribuì con ogni probabilità a nobilitare agli occhi dell’aristocrazia romana. Stando a Cicerone (Cic. Lael. 24), Pacuvio strinse amicizia con Gaio Lelio, ma è probabile che si tratti di una finzione letteraria dello stesso Arpinate. Rispettato e stimato da molti, negli ultimi anni della sua lunga vita Pacuvio si ritirò a Tarentum, dove morì, quasi novantenne, intorno al 130.

Pacuvio forse, ispirato all’attività letteraria dello zio, scrisse anche delle Saturae, ma è più verosimile che l’ambito nel quale si specializzò fosse quello del teatro tragico. Di lui restano, infatti, dodici titoli e circa quattrocento frammenti di tragedie cothurnatae, ovvero drammi incentrati sulla mitologia greca: Antiopa, Armorum iudicium, Atalanta, Chryses, Dulorestes, Hermion, Iliona, Medus, Niptra, Pentheus, Periboea, Teucer. Si conosce anche il titolo di una praetexta, ovvero una tragedia di argomento romano: il Paulus, che probabilmente narrava le gesta di Lucio Emilio Paolo e della sua vittoria su Perseo di Macedonia a Pidna (168), rappresentata durante il trionfo del condottiero o durante i ludi funebres dello stesso nel 160.

Mentre Ennio si era ispirato soprattutto al tragediografo Euripide come fonte per le proprie cothurnatae, Pacuvio sembra aver attinto ugualmente a tutt’e tre i grandi tragici ateniesi e forse ad altri drammaturghi perduti.

Dai frammenti superstiti e dai titoli delle tragedie emerge comunque una predilezione per vicende e varianti mitiche per molti versi marginali, spesso con personaggi secondari assurti a protagonisti, ma che presentavano ampie potenzialità per costruire intrecci complicati, ricchi di scene strazianti e sorprendenti. L’Antiopa trattava di Antiope, vittima delle angherie degli zii Lico e Dirce e salvata da Anfione e Zeto, i figli che aveva avuto da Zeus, abbandonati in tenera età e creduti morti da tutti; l’Armorum iudicium era incentrato sullo scontro tra Aiace e Odisseo per ottenere, dopo la sua morte, le armi di Achille; il Dulorestes vedeva Oreste vestire i panni di uno schiavo per punire gli uccisori del padre, Clitemnestra ed Egisto; il protagonista del Medus era l’omonimo figlio di Medea, fondatore del regno di Media, mentre nei Niptra («I lavacri») il protagonista era Odisseo tornato a Itaca. In questo dramma lo spunto tratto dall’Odissea (il riconoscimento dell’eroe, durante il bagno che dava il titolo alla tragedia, grazie a una cicatrice sulla gamba) era combinato con un episodio estraneo alla saga omerica, ovvero l’arrivo di Telegono, il figlio che il Laerziade aveva avuto da Circe e dal quale viene ucciso per errore.

Maschera tragica. Mosaico, I sec. d.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

Alcune scene delle tragedie di Pacuvio rimasero famose per la loro carica di altissimo e virtuosistico patetismo. Cicerone (Cic. Tusc. I 106, 1) ricorda in particolare l’incipit dell’Iliona, in cui alla protagonista appariva, per mezzo di una macchina scenica, in sogno il fantasma del figlio Deipilo, ucciso dal padre e rimasto insepolto (vv. 197-201 Ribbeck = vv. 227-231 D’Anna):

Mater, te appello; tu quae curam somno suspensam levas

neque te mei miseret, surge et sepeli natum ‹tuum› prius

quam ferae volucresque…

neu reliquias sic meas sireis denudatis ossibus

per terram sanie delibutas foede divexarier.

Madre, te io chiamo; tu che con il sonno dai requie e sollievo

alla pena e non hai pietà di me; alzati e da’ sepoltura a tuo figlio, prima

che fiere e uccelli…

non lasciare che le mie spoglie semidivorate, con le ossa messe a nudo,

siano sconciamente lacerate e disperse per terra, grondanti putredine.

Allegoria della Fortuna (memento mori). Mosaico, I sec. a.C. ca., da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Nell’Iliade Polidoro, il più giovane dei figli di Priamo, re di Troia, confidando nella propria rapidità nella corsa, partecipa ai combattimenti contro il volere del padre e cade per mano di Achille. Ma fin dalla tragedia attica si diffuse un’altra versione della leggenda: affidato dal padre al re di Tracia Polimestore insieme a molti tesori, garanzia di un futuro degno del suo rango, Polidoro è ucciso a tradimento dal suo ospite, gettato in mare e ritrovato sulla costa della Troade dalla madre Ecuba durante i preparativi per il funerale di Polissena, la figlia sacrificata sulla tomba di Achille. È Ecuba a vendicarsi su Polimestore, attirato al campo acheo con una scusa e accecato in modo orrendo.

Virgilio avrebbe variato la versione euripidea, immaginando che il corpo del principe troiano non fosse stato gettato in mare, ma lasciato sulla spiaggia dov’era caduto, trafitto da un nugolo di dardi, poi trasformati in un boschetto di mirto: approdato in Tracia, Enea scoprì l’orrenda fine di Polidoro, svellendo un arboscello dalla pianta che dal suo corpo traeva la linfa vitale.

In Pacuvio, dunque, la storia conobbe ancora un’altra variante: Polidoro era stato affidato neonato a Iliona, figlia maggiore di Priamo e sposa del crudele e sanguinario re trace; la donna per proteggere il fratellino lo aveva sostituito al figlio appena nato, facendo passare quest’ultimo come il proprio fratello. Dopo la caduta di Troia, d’accordo con gli Achei, Polimestore acconsente a sopprimere l’ultimogenito di Priamo, ma per l’inganno di Iliona uccide suo figlio Deifilo. Quando, consultato l’oracolo di Delfi, Polidoro scopre la verità sulle proprie origini, trama vendetta contro Polimestore, che muore accecato da Iliona.

Cicerone, che conserva il frammento pacuviano, attesta che le parole del piccolo Deifilo, declamate con l’accompagnamento di una musica atta a suscitare il pianto, provocavano nel pubblico forte emozione e commozione. Come in altri testi dello stesso poeta, anche qui si rintracciano caratteristiche simili a quelle del teatro tragico enniano – che si possono considerare tipiche della tragedia romana, fino a Seneca: nell’adattamento dei modelli greci, infatti, si tende ad accrescere e a “caricare” il pathos e la sublimità, in una direzione che certa critica moderna ha definito “espressionistica”. L’apostrofe di Deifilo alla madre esibisce proprio questi tratti, ovvero l’accentuazione patetica e l’espressionismo orrido: la preghiera è enfatizzata dall’anafora (variata dal poliptoto) del pronome di seconda persona te… tu… te, efficacemente accostato al nesso allitterante mei miseret e chiuso dal possessivo tuum…, e dalla studiata allitterazione in sibilante che contrappone somno suspensam (l’oblio della colpa nel sonno) alla coppia paratattica di imperativi surge et sepeli. L’insistenza sui dettagli orridi del corpo in decomposizione è sottolineata ancora dalla catena fonica che lega gli elementi verbali successivi denudatis… delibutas… divexarier.

Il supplizio di Dirce: Anfione e Zeto vendicano la madre Antiope. Affresco pompeiano, ante 79 d.C. dalla Casa dei Vettii. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

È noto che Pacuvio eccelleva, in particolare, nelle scene a effetto, dotate di una forte carica drammatica, come, per esempio, nel Teucer, l’invettiva di Telamone contro il figlio Teucro, maledetto e ripudiato perché era tornato dalla guerra di Troia senza il fratello Aiace e senza averne impedito o vendicato la morte; o come nei Niptra, l’agonia di Ulisse, ferito a morte da Telegono, in mezzo ad atroci sofferenze.

L’accentuazione del pathos e la ricerca del patetismo si manifestava talora con l’insistenza su particolari orridi e raccapriccianti, destinati a commuovere e a impressionare gli spettatori. Per esempio, nell’Antiopa, la protagonista, ridotta in miseria e nello squallore, era descritta con un cumulus di aggettivi (vv. 20-21 Ribbeck = vv. 17-18 D’Anna):

inluvie corporis

et coma prolixa, impexa, conglomerata atque horrida.

Con il corpo sudicio

e i capelli lunghi, scarmigliati, arruffati e irti.

E, ancora, nel Chryses fece sensazione la scena in cui gli inseparabili amici, Oreste e Pilade, fatti prigionieri da re Toante intenzionato a uccidere Oreste, sostenevano entrambi di esserlo, per salvarsi reciprocamente: Ego sum Orestes! – Immo enimvero ego sum, inquam, Orestes! (v. 365 Ribbeck, «Io sono Oreste!» «Niente affatto! Sono io, lo ripeto, Oreste!»).

Pilade, Oreste ed Ifigenia (da sx a dx). Affresco, ante 79 d.C., dal triclinium del procurator, Casa del Centenario (IX 8, 3-6), Pompei.

Anche l’alta frequenza di protagoniste femminili, che sembra emergere dai titoli delle tragedie, appare collegata a questa ricerca del patetismo, all’esasperazione dell’emotività, alla carica espressionistica.

Il teatro di Pacuvio, comunque, non si esauriva soltanto nella ricerca di trame a effetto, nelle atmosfere tragicamente cupe (simili, per certi versi, a quelle del moderno horror), nei soggetti angosciosi e nelle visioni orripilanti (apparizioni spettrali, cadaveri insepolti, tempeste sconvolgenti, ecc.), negli «effetti speciali»; il poeta sapeva anche ricorrere alla suspence ottenuta attraverso la dilazione dello scioglimento finale, l’inserzione di elementi a sorpresa, le scene di agnizione. Talvolta le rheseis («discorsi») dei personaggi contenevano dei brillanti excursus narrativi, come la celebre descrizione della tempesta del Teucer, conservata da Cicerone (Cic. Div. 1, 24 = vv. 409-416 Ribbeck):

profectione laeti piscium lasciviam          

intuentur, nec tuendi satietas capier potest.

interea prope iam occidente sole inhorrescit mare,               

tenebrae conduplicantur, noctisque et nimbum obcaecat nigror,   

flamma inter nubes coruscat, caelum tonitru contremit,   

grando mixta imbri largifico subita praecipitans cadit,    

undique omnes venti erumpunt, saevi existunt turbines,

fervit aestu pelagus.

Lieti per la partenza, osserviamo i giochi dei delfini

e non possiamo saziarci di guardarli.

Ma ecco che, verso il tramonto del Sole, il mare s’increspa,

le tenebre si fanno più fitte e il nero della notte e dei nembi ci acceca,

i fulmini balenano fra le nubi, il cielo trema per i tuoni,

grandine mista a pioggia dirotta si rovescia d’improvviso,

da ogni lato i venti irrompono, s’abbattono raffiche crudeli,

il mare ribolle di flutti.

Nave. Affresco, ante 79 d.C. da Pompei. Boscoreale, Antiquarium.

Il poeta mostra di conoscere già tutti gli ingredienti topici della tempesta letteraria: la natura improvvisa, imprevedibile del fenomeno, annunciato dall’incresparsi del mare, il raddoppiarsi dell’oscurità che cancella la distinzione tra cielo e mare, il balenare dei lampi seguito dal fragore dei tuoni, la grandine che scroscia a dirotto, la violenza dei venti in lotta, che soffiano in tutte le direzioni, il ribollire del mare. Ogni tratto descrittivo sembra sviluppato da Pacuvio attingendo da tutte le risorse dell’espressionismo: ne risulta uno stile ridondante, ripetitivo ed enfatico. Enfatici sono appunto verbi come conduplicantur e contremit, mentre la ricerca di suoni duri (t, c, r, s) e nasali (n, m) intende evocare le sonorità orride del mare in burrasca.

La ricercatezza di Pacuvio, evidente nella scelta degli argomenti e nell’attenzione alle problematiche etiche, emergeva anche nella sua cura attentissima per la forma. Gli antichi parlavano della sua ubertas («magniloquenza») e, come si vede, i suoi frammenti sono appunto contraddistinti dalla fitta presenza di coppie sinonimiche e dall’insistenza delle figure di suono – tutti tratti che fecero dire a Cicerone summum… Pacuvium tragicum (Cic. Opt. gen. 2). Emblematico, a tal riguardo, risulta un altro verso dal Teucer: periere Danai, plera pars pessum datast (v. 320 Ribbeck, «Sono periti i Danai, e per la massima parte sono andati in rovina»), passo nel quale tutte le parole sono legate da allitterazione e omeoarco (accostamento di parole di significato diverso che iniziano con la stessa sillaba).

Certi frammenti costituiscono, per esempio, vere e proprie massime morali, che rispecchiano gli ideali romani dell’autocontrollo e della gravitas, ovvero compostezza e dignità, come, per esempio, la seguente, tratta dai Niptra (vv. 268-269 Ribbeck = vv. 317-318 D’Anna, apud Gell. N.A. II 26, 13):

conqueri fortunam advorsam, non lamentari decet;

id viri est officium, fletus muliebri ingenio additust.

È ammissibile lamentarsi della sorte avversa, non piangere;

questo è il comportamento di un uomo, mentre le lacrime sono proprie dell’indole femminile.

In altre tragedie comparivano dibattiti etici, in cui si discuteva se la virtus fosse da intendere come valore militare o come superiorità intellettuale e spirituale (qualità incarnate rispettivamente da Aiace e da Ulisse nell’Armorum iudicium); in altri casi al centro del dibattito compariva il confronto tra vita attiva e vita contemplativa (rappresentate da Zeto e Anfione nell’Antiopa). A questo si aggiungeva l’interesse dell’autore per la scienza e la filosofia naturale, che contribuì a circondarlo della fama di poeta doctus. Come tale, oltre ad applicare per primo la tecnica della contaminatio alla tragedia (per esempio, fondendo nel Chryses elementi dell’omonimo dramma di Sofocle con dettagli dell’Ifigenia in Tauride di Euripide), la cothurnata di Pacuvio riecheggia i temi del razionalismo greco di stampo euripideo. Sempre nel Chryses, infatti, ora presenta il cielo come il principio spirituale che anima l’universo, ora disquisisce sul concetto di fortuna, ora polemizza contro gli indovini, gente che merita soltanto di essere udita, non ascoltata (magis audiendum quam auscultandum censeo).

Cupido che cavalca una coppia di delfini. Mosaico, c. 120-80 a.C. Delos, Casa dei Delfini.

Oltre a considerarlo il massimo autore scenico romano, Cicerone lodava lo stile accurato di Pacuvio (Cic. de orat. 36), giudicandolo più elegante di quello di Ennio: la ricerca della sublimità si spingeva sino ad ardite sperimentazioni. Famoso, anzi famigerato, perché deriso già dal poeta satirico Lucilio (v. 212 Marx, apud Gell. N.A. XVIII 8, 2) e poi criticato da Quintiliano (Quint. Inst. I 5, 67), fu il tentativo di Pacuvio di coniare composti ricalcati sull’uso epico-tragico greco. È il caso dei delfini, che Livio Andronico nell’Aegisthus aveva definito Nerei simum pecus («il camuso gregge di Nereo», F 2, 1 Ribbeck) e che Pacuvio con un’iperbolica perifrasi chiamò Nerei repandirostrum incurvicervicum pecus («il gregge di Nereo dal muso rivolto in alto e dal collo incurvato», v. 408 Ribbeck = v. 366 D’Anna). I neologismi dalla struttura linguistica troppo audace sia per l’eccessiva lunghezza, sia per il tipo di composizione (aggettivo più sostantivo) assai più congeniale alla lingua greca che a quella latina, non ebbero alcun seguito nella tradizione romana e simili forzate innovazioni sarebbero state criticate anche da grammatici e da puristi.

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Bibliografia:

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G. D’Anna (ed.), M. Pacuvii Fragmenta, Roma 1967.

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A. Di Meglio, «Ut ait Pacuvius»: sulle citazioni pacuviane nel De divinatione di Cicerone, Myrtia 35 (2020), 203-223.

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E.H. Warmington (ed.), Remains of Old Latin, II, London-Cambridge Mass. 1936.

Callimaco: il poeta degli Epigrammi

da G. ZANETTO, P. FERRARI (eds.), Callimaco. Epigrammi, Milano 1992, 13-18.

Esisteva certamente nell’antichità un’edizione completa degli Epigrammi di Callimaco: lo provano le citazioni di grammatici ed eruditi, che appunto fanno riferimento a un liber epigrammatico. Ma ben presto gli epigrammi del poeta entrarono a far parte di sillogi e antologie, che circolavano con successo in tutto il mondo ellenistico[1]. Fra esse ebbe particolare rilievo la raccolta curata all’inizio del I secolo a.C. da Meleagro di Gadara e intitolata Corona: comprendeva poesie di tutti i maestri di questo genere, dall’età arcaica fino a Meleagro stesso, e Callimaco vi figurava in maniera cospicua. La Corona meleagrea, via via integrata dai necessari aggiornamenti, sopravvisse nei secoli fino all’età bizantina, quando Costantino Cefala – intorno al 900 – la utilizzò come base della sua antologia, poi confluita nella nostra Anthologia Palatina.

Lawrence Alma-Tadema, Il poeta preferito. Olio su tela, 1888.

Di Callimaco, dunque, possediamo gli epigrammi trascelti da Meleagro: la nostra conoscenza della sua arte epigrammatica passa inevitabilmente attraverso il filtro di un giudizio altrui[2], anche se possiamo essere certi che il curatore della Corona – epigrammista di grande talento e di gusto sicuro – abbia scelto bene. È singolare prerogativa degli Epigrammi e degli Inni callimachei l’essere sopravvissuti in quanto legati a opere anche di altri poeti. Nella produzione di Callimaco assistiamo a questo curioso contrappasso: le opere «maggiori», quelle in cui più si esprimeva la rivoluzione letteraria dell’autore e a cui Callimaco più affidava il proprio successo poetico – le elegie degli Aitia e il poemetto Ecale – sono andate perdute, e sono oggi solo sommariamente ricostruibili attraverso un pulviscolo di frammenti; mentre rimangono i lavori del Callimaco «minore». A essi, e soprattutto agli Epigrammi, dobbiamo ricorrere per ricostruire la figura di un poeta la cui importanza nella storia della cultura è certo straordinaria, ma che da sempre divide gli interpreti. Nell’antichità egli conobbe stroncature impietose, fu additato a modello negativo di un’arte fredda e cerebrale, refrattaria al calore del sentimento. E anche fra i lettori moderni non mancano i detrattori. Ma sempre si ha l’impressione che il giudizio sul poeta sia in qualche modo inquinato da un pregiudizio di fondo, quasi gli si rimproverasse – inconsapevolmente – di aver suggellato la fine dell’età classica e della sua letteratura.

Chi fu, dunque, Callimaco? Negli Epigrammi il poeta parla direttamente di sé. non solo entro i termini di quella querelle letteraria che si riverbera anche nelle altre opere (soprattutto nel prologo degli Aitia), ma in una prospettiva più spigliatamente autobiografica. Il poeta esprime dei giudizi che ci dànno indicazioni preziose non solo sui suoi convincimenti letterari, ma anche sulla sua personalità. Gli epigrammi 22 e 39 sono rispettivamente l’autoepitafio del poeta e l’epitafio per il padre Batto:

Βαττιάδεω παρὰ σῆμα φέρεις πόδας εὖ μὲν ἀοιδὴν

   εἰδότος, εὖ δ’ οἴνῳ καίρια συγγελάσαι.

Passi accanto alla tomba del figlio di Batto, bravo

nel canto, bravo a bere vino e a scherzare.

(Ep. 22 = AP. VII 415)

Ὅστις ἐμὸν παρὰ σῆμα φέρεις πόδα, Καλλιμάχου με

   ἴσθι Κυρηναίου παῖδά τε καὶ γενέτην.

εἰδείης δ’ ἄμφω κεν· ὁ μέν κοτε πατρίδος ὅπλων

   ἦρξεν, ὁ δ’ ἤεισεν κρέσσονα βασκανίης.

οὐ νέμεσις· Μοῦσαι γάρ, ὅσους ἴδον ὄμματι παῖδας

   μὴ λοξῷ, πολιοὺς οὐκ ἀπέθεντο φίλους.

Tu che passi accanto alla mia tomba, sappi

che sono figlio e padre di un Callimaco di Cirene.

Entrambi famosi: il primo comandò l’esercito

della patria, l’altro fu un poeta più forte dell’invidia.

Niente di strano: se le Muse hanno protetto uno da piccolo,

gli rimangono amiche anche quand’è incanutito.

(Ep. 39 = AP.  VII 525)

Sono due componimenti che vanno letti in coppia: era infatti tradizione, nelle tombe di famiglia, incidere sui due lati di una stessa stele due diverse iscrizioni funebri; con un espediente letterario molto abile Callimaco utilizza questa convenzione per comporre una sorta di dittico, animato da una serie di rimandi, in cui talvolta ciò che è taciuto è più significativo di ciò che è detto[3]. Parlando di sé, il poeta si definisce «bravo nel canto, bravo a bere vino e a scherzare»: affiora in queste parole il vezzo, assolutamente tradizionale, di considerare la propria attività poetica come qualcosa di marginale; ma, nel complesso, la definizione colpisce nel segno. Non nel senso che Callimaco fosse davvero così, ma nel senso che così avrebbe voluto essere, lui che era tanto lontano dall’ispirazione larga e immediata di un poeta-soldato.

Pittore di Orfeo. Un trace (dettaglio). Pittura vascolare da un cratere a colonne a figure rosse, 440 a.C. c. da Gela. Berlin, Antikensammlung.

Del resto, è tipico di un letterato, quando accetta di ritrarsi, offrire una rappresentazione di sé che corrisponda alla propria immagine fantastica, e che spesso contraddice la realtà. Il menestrello spensierato ritratto nell’Ep. 22 è un po’ il Robert Jordan di Callimaco! Il protagonista di Per chi suona la campana, nelle riflessioni notturne che precedono il giorno dell’azione, si compiace di ricordare il nonno, grande soldato e grande comandante di cavalleria nella guerra civile americana; il ricordo del nonno, rappresentato come termine positivo di riferimento, si intreccia con quello del padre, il cobarde fallito. Robert Jordan ama pensare, applicando una sorta di aristocratismo genetico, che il coraggio e il valore si trasmettano di nonno in nipote, con il salto di una generazione: «È un gran peccato che ci sia un tale salto di tempo fra due uomini come noi». Il personaggio è immagine dell’autore: Hemingway cercò per tutta la vita di neutralizzare il fantasma del padre, il cobarde sottomesso e suicida; ma il suo vitalismo convulso approdò a un colpo di fucile liberatorio.

Anche Callimaco, nell’Ep. 39, traccia un parallelo ideale fra sé e il nonno, che aveva portato il suo stesso nome: il padre Batto – che formalmente parla dalla stele – si annulla, attribuendosi come unico merito quello di rappresentare l’anello di congiunzione fra il grande condottiero e il grande poeta. Ma poeta-soldato Callimaco assolutamente non fu. C’è una distanza siderale fra lui e un Archiloco: non solo perché Callimaco trascorse tutta la sua vita ad Alessandria, in un’operosità divisa fra la produzione letteraria e la frenetica attività erudita, ma anche perché gli mancò affatto l’umiltà dell’uomo d’azione, quella curiosità ingenua che spinge a far la prova di persona, fatta di orgoglio e di valore fisico, la forma più elementare ma forse più autentica del coraggio. Callimaco ebbe invece in somma misura il coraggio intellettuale. L’Ellenismo gli impose la riduzione della letteratura ad attività erudita, escludendola dal respiro della comunicazione politica. Egli l’accettò impavido: seppe donare un nuovo prestigio e un nuovo valore alla produzione letteraria, intesa ora come sfida estrema di intelligenza e di gusto, da affrontare con dedizione totale, con il bando di ogni compromesso e di ogni mediocrità. Dovette però pagare un prezzo: dovette accettare che ogni suo pensiero fosse rivolto alla poesia, e che per converso l’intero suo immaginario poetico si risolvesse nei termini di una religione dell’arte.

Caserma con soldati e processione. Mosaico, I sec. a.C. ca. dal «Mosaico con scena nilotica». Palestrina, Museo Archeologico Nazionale.

Callimaco anticipò Moravia: credette solo nella letteratura. Fu il primo, e forse il più grande, degli intellettuali moderni: fu l’«inventore» – in una proiezione psicologica e biografica prima ancora che ideale – della figura stessa dell’intellettuale. Dello scholar ebbe il rigore metodico e l’impegno scientifico, ma anche la passionalità introversa e stagnante, la propensione al rancore, alla rivalità di scuola e di clan. La stessa polemica letteraria, che assorbe tanta parte dell’affetto negli Epigrammi, non assume la maniera delle parabasi aristofanee: quel che in Aristofane è la consapevolezza sanguigna del ruolo sociale e politico diventa in Callimaco l’eco di una rivalità professionale. L’Ep. 45 (AP. IX 566) propone un siparietto fra un poeta virtuoso e uno sconfitto:

Μικρή τις, Διόνυσε, καλὰ πρήσσοντι ποιητῇ

   ῥῆσις· ὁ μὲν Νικῶ φησὶ τὸ μακρότατον·

ᾧ δὲ σὺ μὴ πνεύσῃς ἐνδέξιος, ἤν τις ἔρηται

   Πῶς ἔβαλες; φησί· Σκληρὰ τὰ γιγνόμενα.

τῷ μερμηρίξαντι τὰ μὴ ἔνδικα τοῦτο γένοιτο

   τοὖπος· ἐμοὶ δ’, ὦναξ, ἡ βραχυσυλλαβίη.

È di poche parole il poeta che fa bene, o Dioniso:

la più lunga che dice è «vittoria!».

Quell’altro, quello che tu non ispiri, se uno gli chiede:

«Com’è andata?», risponde: «Maledetta scalogna!».

Ma questo lo dica pure chi pensa cose brutte;

io, signore, preferisco esprimermi a sillabe.

Il contesto è lasciato indeterminato – certo un agone poetico, l’equivalente di un moderno premio letterario – e l’elemento di assoluta evidenza è il compiacimento per il successo: la vittoria coinvolge il vincitore sul piano personale, ma segna nel contempo il trionfo della sua poetica, quindi della sua «scuola». L’implicita irrisione dello sconfitto, ritratto mentre maledice la sfortuna, è assolutamente conforme alla mentalità greca (che fin da Omero conosce la risata sardonica e maligna sopra il nemico vinto!), ma esprime anche la nuova consapevolezza del letterato, in corsa per un’affermazione di sé che trascende il significato stesso del suo ruolo.

Statua di Dioniso. Marmo, copia romana da un originale greco del 325 a.C. ca., dalla Campania. London, British Museum.

Nelle Rane di Aristofane Dioniso scende nell’oltretomba per riportare in vita un poeta capace di riscattare la scena tragica ateniese dalla mediocrità cui l’ha condannata la morte quasi contemporanea di Euripide e di Sofocle (Eschilo è scomparso da tempo). Nell’agone che occupa la seconda metà della commedia, Eschilo ed Euripide si affrontano – sotto l’arbitrato di Dioniso – per stabilire chi dei due è il miglior tragediografo in assoluto, e quindi il più degno di risurrezione; alla fine, il dio del teatro decide di riportare in vita Eschilo, giudicandolo il poeta più sapiente, anche se non ha difficoltà ad ammettere che Euripide gli dà le emozioni estetiche più travolgenti. Anche Callimaco, com’è naturale, giudica la tradizione poetica del passato; ma il suo metro di valutazione prescinde ormai affatto dal valore di «verità» contenuto nell’opera letteraria, per privilegiare la dimensione del gusto, ossia proprio quella categoria che il Dioniso aristofanesco finisce per scoraggiare. Nell’Ep. 43 (AP. IX 507; Achill. comm. Arat. 78, 28 Maas) il riconoscimento dell’arte minuta e sapiente di Arato si accompagna a un’implicita difesa della propria poetica e si appoggia a un’esaltazione di Esiodo, anteposto addirittura al grande padre Omero:

Ἡσιόδου τό τ’ ἄεισμα καὶ ὁ τρόπος· οὐ τὸν ἀοιδῶν

   ἔσχατον, ἀλλ’ ὀκνέω μὴ τὸ μελιχρότατον

τῶν ἐπέων ὁ Σολεὺς ἀπεμάξατο. χαίρετε, λεπταὶ

   ῥήσιες, Ἀρήτου σύμβολον ἀγρυπνίης.

Il tema e lo stile sono quelli di Esiodo: non è l’ultimo

dei poeti, ma direi che l’amico di Soli

ha raccolto il meglio della poesia epica. Benvenuta,

arte sottile, notturna fatica di Arato!

Callimaco non poteva certo non apprezzare il prestigio formale del linguaggio omerico né poteva ignorare il ruolo svolto dai poemi omerici nella trasmissione della cultura greca: ma nel confronto fra i due maestri della poesia epica, Esiodo finisce per diventare il simbolo del clan letterario cui il poeta appartiene e per essere quindi privilegiato.

La notizia di una rivalità irriducibile fra Callimaco e il suo allievo Apollonio è probabilmente un’invenzione o almeno un’amplificazione di biografi più tardi. Ma come spesso avviene per le tradizioni biografiche concernenti i poeti greci, viene la tentazione di crederci! Una lotta al coltello fra i due poeti per la carica di arci-bibliotecario ad Alessandria equivarrebbe, in termini odierni, alla competizione di due romanzieri per il Nobel della Letteratura: ossia per un riconoscimento cui ogni letterato protesta di essere indifferente, e che pure è in cima ai pensieri di tutti. Certo, nell’Ep. 44 Callimaco augura all’amico Teeteto di godere di una lunga gloria presso i posteri, invitandolo a rinunciare di buon grado alla notorietà e al successo immediati. Ma il tono sembra consolatorio; e comunque l’agonalità della πόλις ellenica è ancora troppo vicina nel tempo per non infiammare il cuore anche dei poeti, oltre che dei dinasti.

Statua di Apollo. Marmo, copia romana del II secolo d.C. da un originale ellenistico, da Cirene. London, British Museum.

Callimaco apparitene sempre, infatti, per molti versi al mondo della πόλις. Non – come si è visto – nel senso che egli creda ancora all’impegno civile della poesia; ma certo nel segno di un orgoglio d’appartenenza, che non è in contraddizione con l’orizzonte ormai cosmopolita della cultura ellenistica. Aveva sangue dorico nelle vene, poiché Cirene era un’antica colonia di Thera: e i Dori erano, fra i Greci, quelli più legati al proprio passato, più calati nel mito eugenetico della città e della schiatta. Molti epigrammi, soprattutto funebri, hanno il senso di un ritorno ideale ai luoghi dell’infanzia. L’Ep. 31 muove dalla disgrazia che ha sconvolto una delle famiglie più in vista di Cirene, e si chiude con l’immagine suggestiva della città che si stringe attorno alle bare dei due ragazzi scomparsi, dunque della comunità che si riconosce affettivamente nei due nobili giovanetti. E l’Ep. 38, pure un epitimbio, è un divertente dialogo con un altro cireneo, Carida: qui la patria lontana è evocata con un diverso registro, fatto di allusioni e ammiccamenti, in parte incomprensibili per il lettore moderno. D’altra parte, proprio lo studio dei reperti archeologici ed epigrafici di Cirene ha consentito, negli ultimi decenni del Novecento, di ricostruire con più precisione la discendenza del poeta, rampollo di una famiglia che vantava come capostipite lo stesso Batto, il capo dei “padri pellegrini” cirenei; e ha altresì permesso di riconoscere tutta una serie di riferimenti alla realtà della città contenuti negli Epigrammi e nelle altre opere callimachee.

In che forma, concretamente, si estrinsecasse il rapporto d’amore di Callimaco per Cirene, presente con tanto calore nell’opera poetica, è assolutamente oscuro. Periodici ritorni sembrano in contraddizione con l’immagine che abbiamo di un intellettuale ormai calato nella dimensione sociale e culturale della metropoli alessandrina. Quel che è certo è che Callimaco conserva l’abitudine classica di connettere ogni persona con la sua patria, come fondendo insieme il πολίτης e la πόλις. Negli epigrammi funebri la puntigliosa indicazione della città d’origine non ha solo la funzione del dato anagrafico, ma acquista anche il senso di un gesto d’attenzione, di un’estrema carezza.

In sostanza, la rivoluzione culturale ellenistica non sottrae i poeti dalla prima generazione all’eredità classica, almeno nella dimensione affettiva. E fra le opere di Callimaco, forse proprio gli Epigrammi offrono la testimonianza più convincente. È il caso dell’Ep. 15, l’epitimbio che il poeta compose per l’amico Eraclito di Alicarnasso:

Εἶπέ τις, Ἡράκλειτε, τεὸν μόρον, ἐς δέ με δάκρυ

   ἤγαγεν· ἐμνήσθην δ’, ὁσσάκις ἀμφότεροι

ἥλιον ἐν λέσχῃ κατεδύσαμεν. ἀλλὰ σὺ μέν που,

   ξεῖν’ Ἁλικαρνησεῦ, τετράπαλαι σποδιή·

αἱ δὲ τεαὶ ζώουσιν ἀηδόνες, ᾗσιν ὁ πάντων

   ἁρπακτὴς Ἀίδης οὐκ ἐπὶ χεῖρα βαλεῖ.

Uno mi ha detto che sei morto, Eraclito, e ho pianto:

ho ricordato quante volte, chiacchierando, vedemmo

insieme tramontare il sole. Amico di Alicarnasso, ora

tu non sei che polvere, chissà dove e da quanto tempo,

ma continuano a vivere i tuoi versi: su di essi Ade,

il ladrone spietato, non potrà allungare la mano.

Un’elegia struggente, questa, divisa fra il dolore della separazione irrimediabile e il conforto della memoria. La perfezione formale di questi versi è squisitamente ellenistica; ma il loro fascino – cui non rimasero insensibili, fra gli altri, Callimaco e Foscolo – è in larga misura connesso con la rete di sentimenti che li innerva e che sono assolutamente classici: un pianissimo lene e diffuso, bilanciato però in qualche misura dalla fede nella φιλία e nell’arte. Basta quest’esempio – fra i molti presenti negli Epigrammi – di poesia composta e commossa per togliere a Callimaco la scomoda definizione di freddo versificatore e per far capire come la sua arte si alimenti ancora della riflessione greca sulla vita e sull’uomo.


[1] Sulla base di una notizia fornita da Aristarco (schol. Il. XI 101), si pensa che Posidippo ed Edilo avessero curato un’edizione comune dei loro epigrammi intitolata Σωρός. Inoltre, sono stati ritrovati ostraka e papiri con resti di raccolte epigrammatiche pre-meleagree.

[2] Come spesso avviene in questi casi, il successo della silloge di Meleagro fece sì che gli epigrammi non compresi nella raccolta venissero presto dimenticati. In effetti, le citazioni antiche riguardano quasi sempre componimenti compresi nella Corona.

[3] Secondo alcuni interpreti, i due epigrammi avrebbero avuto originariamente la funzione di chiudere il liber epigrammatico di Callimaco, fornendo insieme la mossa di congedo e una sorta di autoritratto dell’autore.