Olimpo, medico di Cleopatra

«A seguito di così grande afflizione e dolore fisico — il suo petto, infatti, si era infiammato per i colpi che si era inferta e le piaghe suppuravano —, Cleopatra fu colta dalla febbre e si rallegrò di quel pretesto per astenersi dal cibo e liberarsi della vita senza che glielo impedissero. Ella aveva come medico il solito Olimpo; gli rivelò la verità ed egli la consigliò e l’aiutò a togliersi la vita, come lo stesso Olimpo ha riferito in una relazione che pubblicò su questi avvenimenti. Ma Cesare Ottaviano, sospettando delle sue intenzioni, le rivolse minacce e le ispirò timore sulla sorte dei figli; allora, ella si arrese, come sotto i colpi di macchine da guerra, e abbandonò il suo corpo a coloro che volevano prendersene cura e nutrirlo».

ἐκ δὲ λύπης ἅμα τοσαύτης καὶ ὀδύνης – ἀνεφλέγμηνε γὰρ αὐτῆς (sc. Κλεοπάτρας) τὰ στέρνα τυπτομένης καὶ ἥλκωτο – πυρετῶν ἐπιλαβόντων, ἠγάπησε τὴν πρόφασιν, ὡς ἀφεξομένη τροφῆς διὰ τοῦτο καὶ παραλύσουσα τοῦ ζῆν ἀκωλύτως ἑαυτήν. ἦν δ᾽ ἰατρὸς αὐτῆι συνήθης ῎Ολυμπος, ὧι φράσασα τἀληθὲς ἐχρῆτο συμβούλωι καὶ συνεργῶι τῆς καθαιρέσεως, ὡς αὐτὸς ὁ ῎Ολυμπος εἴρηκεν, ἱστορίαν τινὰ τῶν πραγμάτων τούτων ἐκδεδωκώς. ὑπονοήσας δὲ Καῖσαρ ἀπειλὰς μέν τινας αὐτῆι καὶ φόβους περὶ τῶν τέκνων προσέβαλλεν, οἷς ἐκείνη καθάπερ μηχανήμασιν ὑπηρείπετο καὶ παρεδίδου τὸ σῶμα θεραπεύειν καὶ τρέφειν τοῖς χρήιζουσιν.

(Pʟᴜᴛ. Ant. 82, 3-5 = Oʟʏᴍᴘ. FGrHist. 198 F 1)

Artemisia Gentileschi, Cleopatra. Olio su tela, c. 1633-1635.

Nonostante Cesare Ottaviano le avesse concesso di dare all’amato Antonio una sepoltura sontuosa e degna di un sovrano tolemaico (πολυτελῶς καὶ βασιλικῶς), facendolo imbalsamare secondo il costume egizio e tumulare in Alessandria (Pʟᴜᴛ. Ant. 82, 2; DCᴀss. LI 11, 5), Cleopatra provava ancora grande angoscia e afflizione poiché i suoi figli erano stati fatti ostaggio dei Romani e messi sotto sorveglianza speciale (Pʟᴜᴛ. Ant. 81, 3). Mentre soltanto Plutarco registra il vano tentativo della regina di darsi la morte, restano invece incerti i dettagli circa il suicidio effettivo, avvenuto il 10 o il 12 agosto 30 a.C., all’età di 39 anni.

Nel complesso, le fonti pervenute tramandano diverse versioni dello stesso episodio, ma tutte concordano sull’uso del veleno da parte della regina – sebbene non specifichino esattamente quale – e sul fatto che l’unico elemento sicuro sia la coppia di piccoli fori trovati sul braccio della donna. Quel che è certo è che Cleopatra morì avvelenata, ma non si sa se ciò avvenne per il morso di un serpente (un aspide o un cobra egiziano), oppure attraverso l’iniezione letale di un siero con un ago o uno spillone, oppure ancora tramite l’assunzione di un unguento tossico durante l’ultimo pasto (si vd. Roller 2010, 147-149; Goldsworthy 2010, 384-385; Tsoucalas, Sgantzos 2014).

In ogni caso, tuttavia, lo stesso resoconto plutarcheo non fornisce alcuna certezza che Cleopatra abbia fatto chiamare Olimpo per ottenerne un consulto sul da farsi. Quasi nulla si sa di Olimpo, tranne che fu medico personale della regina Cleopatra VII e che fu presente nel momento in cui ella si suicidò, nell’agosto 30 a.C.

Morte di Cleopatra. Affresco, ante 79 d.C. da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

A quanto sembra, su quel drammatico evento Olimpo lasciò una memoria, che Plutarco utilizzò come fonte autorevole per il proprio resoconto (cfr. Diller 1932; Becher 1966, 153-155; contra Roller 2010, 148). Ciononostante, c’è chi, tra gli interpreti moderni (Pelling 1988, 313), ha affermato con sicurezza che alcuni dei termini medici che compaiono nella descrizione plutarchea, quali ἀνεφλέγμηνε, ἥλκωτο, καθαιρέσεως, sarebbero stati ripresi pari pari da Olimpo (si vd. anche Pʟᴜᴛ. Ant. 71, 8; 78, 5-79, 6; 83, 4; 85-86; e Pelling 1988, 294). Siccome Plutarco (77, 3) non usa simili espressioni tecniche per narrare la fine di Antonio, si esclude che Olimpo vi abbia assistito, mentre, al contrario, sarebbe stato testimone oculare degli ultimi istanti di vita della sua regina (Pelling 1988, 307).

Nella Vita Antonii Plutarco menziona tra le sue fonti autorevoli anche un altro medico, Filota di Anfissa. Costui era un conoscente del nonno dell’autore e gli aveva raccontato alcune storie sulla sua giovinezza: Filota era ancora uno scolaro ad Alessandria, quando ebbe l’opportunità di osservare gli elaborati preparativi per uno dei banchetti di Cleopatra (Pʟᴜᴛ. Ant. 28, 3-7). Diversamente da Olimpo, Filota non aveva avuto alcun contatto diretto con la regina, tranne che con i cuochi reali (cfr. Fraser 1972, 369-376; Kudlien 1979, 17-40; 65-72).

Pittore della Clinica. Un medico esamina il paziente. Pittura vascolare su aryballos a figure rosse, V sec. a.C. Paris, Musée du Louvre.

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Bibliografia:

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H. Dɪʟʟᴇʀ, s.v. Olympos (32), RE 18, 1 (1932), 324.

P. Fʀᴀsᴇʀ, Ptolemaic Alexandria: I. Texts, Oxford 1972.

A.K. Gᴏʟᴅsᴡᴏʀᴛʜʏ, Antony and Cleopatra, London 2010.

F. Kᴜᴅʟɪᴇɴ, Der griechische Arzt im Zeitalter des Hellenismus: Seine Stellung in Staat und Gesellschaft, Stuttgart 1979.

C.B.R. Pᴇʟʟɪɴɢ (ed.), Plutarch, Life of Antony, Cambridge 1988.

D.W. Rᴏʟʟᴇʀ, Cleopatra: A Biography, Oxford 2010.

G. Tsᴏᴜᴄᴀʟᴀs, M. Sɢᴀɴᴛᴢᴏs, The Death of Cleopatra: Suicide by Snakebite or Poisoned by Her Enemies?, in P. Wᴇxʟᴇʀ (ed.), History of Toxicology and Environmetal Health: Toxicology in Antiquity, I, Waltham 2014, 11-20.

Q. Orazio Flacco

di G.B. Conte, E. Pianezzola, Lezioni di letteratura latina. Corso integrato. 2. L’età augustea, Milano 2010, 174-195.

1. Il più grande lirico dell’età augustea

Orazio è il più grande poeta lirico dell’età augustea e, insieme a Catullo, di tutta la letteratura latina. Pur provenendo da una famiglia umile (il padre era un liberto), grazie al suo talento poetico egli riuscì a risalire la scala sociale fino a entrare a corte, dove fu in stretti rapporti con Augusto e divenne il cantore “ufficiale” della romanità.

Orazio fu anche poeta di grande versatilità. Partito dall’esperienza giovanile della lirica aggressiva degli Epodi, in seguito raggiunse risultati straordinari sia nella composizione esametrica di carattere personale e discorsivo delle Satire e delle Epistole sia nella lirica sublime delle Odi, caratterizzate da una compattezza tematica, stilistica e metrica che fanno di lui il poeta “classico” per eccellenza. Inoltre, Orazio non si limitò a comporre poesia, ma anche a rifletter sul fatto poetico: la sua lettera-saggio in versi, l’Ars poetica, in cui espone ideali poetici di armonia e misura perfettamente in linea con il suo carattere, diventerà il progetto del classicismo di ogni epoca. Grazie a Orazio, la lirica latina raggiunse una maturità straordinaria, nutrendosi di modelli consolidati (Callimaco e Saffo, come era accaduto già per Catullo) e nuovi (Alceo, Anacreonte e Pindaro) e ottenendo risultati di grande originalità.

Giacomo Di Chirico, Ritratto di Q. Orazio Flacco. Olio su tela, 1871.

2. Il figlio del liberto alla corte del princeps

Quinto Orazio Flacco nacque l’8 dicembre del 65 a. C. a Venusia (od. Venosa), una colonia militare romana, al confine fra Apulia e Lucania. La sua famiglia era modesta: il padre era un libertus (forse un ex servo pubblico), che aveva fatto fortuna, entrando in possesso di una piccola proprietà: più tardi, trasferitosi a Roma, vi esercitò il mestiere di esattore nelle vendite all’asta. Nonostante la modesta condizione sociale, al giovane Orazio fu assicurata la migliore educazione: compiuti i primi studi nella scuola venusina, il padre lo portò con sé nell’Urbe, dove Orazio poté frequentare le lezioni del grammatico Orbilio, ammiratore dei poeti arcaici, che usava le nerbate per convincere i suoi alunni a studiare l’Odusia di Livio Andronico (per questo Orazio escogiterà per lui l’epiteto plagosus).

Attorno ai vent’anni, come facevano i giovani di buona condizione, Orazio si recò in Achaia a perfezionare gli studi. Ad Atene approfondì le sue conoscenze filosofiche, ascoltando le lezioni di maestri come il peripatetico Cratippo di Pergamo e dell’accademico Teomnesto. Ma la sua carriera di studente fu traumaticamente interrotta. La Grecia era allora teatro di storici avvenimenti: gli uccisori di Cesare ne avevano fatto la loro principale base di operazione e fu naturale che il giovane Orazio, fresco di studi filosofici, fosse attratto dagli ideali della libertas (nonché lusingato da brillanti prospettive di carriera!). Così egli si arruolò nell’armata di Marco Giunio Bruto, ricevendo il comando di una legione con il grado di tribunus militum, il che non era poco per il figlio di un liberto!

La rotta di Filippi (ottobre 42 a.C.), però, interruppe la sua carriera militare: con amara autoironia Orazio dirà poi di avervi abbandonato lo scudo per fuggire (relicta non bene parvula, Odi II 7, 10 – un motivo già presente nella lirica greca arcaica!).

Orazio poté rientrare in patria già l’anno successivo, nel 41 a.C., grazie a un’amnistia, ma siccome il fondo paterno a Venosa era stato confiscato dai triumviri, egli dovette impiegarsi come scriba quaestorius per guadagnarsi da vivere. A questo periodo risale probabilmente anche l’inizio della sua attività poetica. Si presume che attorno alla metà del 38 a.C. Virgilio e Vario l’abbiano presentato a Gaio Clinio Mecenate, collaboratore di Cesare Ottaviano, lui stesso uomo di lettere e protettore di artisti: fu così che nove mesi più tardi Mecenate lo ammise nella cerchia dei suoi amici.

Probabilmente nel 33 a.C. Mecenate gli donò un podere nella campagna sabina, fonte per Orazio di tranquillità economica e apprezzato rifugio dagli affanni e dalle scomodità della vita urbana.

Da quel momento, la sua vita scorse senza eventi significativi, scandita soltanto dalla pubblicazione delle sue opere sotto il patronato di Mecenate e più tardi del principe stesso. Con Augusto Orazio fu in relazione abbastanza stretta, fatta di devota cordialità, ma senza servilismi: quando il princeps gli chiese di diventare suo segretario personale, Orazio declinò l’offerta con garbo e fermezza. Nel settembre dell’8 a.C. Mecenate morì, raccomandando affettuosamente il poeta alla benevolenza di Augusto. Ma Orazio doveva seguirlo nella tomba solo due mesi più tardi, il 27 novembre.

La produzione poetica oraziana comprende un libro di Epodi, in metro giambico, due libri di Satire, in esametri, quattro libri di Odi (in latino Carmina), in metri lirici, e due libri di Epistole esametriche.

Anton von Werner, Ritratto immaginario di Quinto Orazio Flacco.

3. Gli Epodi

Il nome della prima raccolta di Orazio, Epodi, rimanda alla forma metrica: l’epodo è propriamente il verso più corto che segue a un verso più lungo, formando con esso un distico. Orazio li chiamava iambi («giambi»), facendo riferimento al ritmo che prevale nella raccolta e, insieme, alludendo al recupero di quel tono aggressivo che fin dalle origini era tradizionalmente associato alla poesia giambica greca.

Gli Epodi sono dunque caratterizzati da due aspetti: l’aggressività e la polimetria. Mentre la prima caratteristica, dovuta in parte alla difficile situazione personale del periodo in cui furono composti (il ritorno di Orazio dalla Grecia dopo la sconfitta a Filippi) e in parte al genere letterario che fungeva da modello (la poesia giambica greca), non ricorre nelle opere successive di Orazio, la seconda si ritroverà nelle Odi, contraddistinte da una grande varietà ritmica.

Gli Epodi sono diciassette componimenti, scritti in un arco di tempo fra il 41 e il 30 a.C. e pubblicati insieme al II libro delle Satire. La raccolta è ordinata secondo il criterio editoriale metrico invalso a partire dall’età alessandrina ed è caratterizzata da una varietà di argomenti.

Come Orazio stesso avrebbe dichiarato in seguito, gli Epodi sono legati alla fase “giovanile” della sua attività letteraria e alle difficili condizioni di vita successive all’esperienza di Filippi: «Ero a terra, le ali tarpate, privato della casa e del fondo di mio padre: sfacciata, la povertà mi spinse a fare versi» (decisis humilem pennis inopemque paterni / et laris et fundi, paupertas impulit audax / ut versus facerem, Epistole II 2, 50-51).

A questa situazione di disagio è quasi naturale collegare asprezze polemiche, toni carichi, linguaggio poetico violento. Ciò, per molti aspetti, fa degli Epodi un caso isolato nella produzione poetica oraziana e offre un’immagine del poeta molto diversa da quello stereotipo (carico di buon gusto, affabilità, umanità cordiale, distacco dalle passioni, senso della misura) cui è stata sempre collegata la fortuna di Orazio nella cultura successiva.

Parecchi interpreti oraziani esitano però giustamente a mettere in collegamento troppo immediato gli Epodi e l’esperienza autobiografica dell’autore: occorre anzitutto saper valutare quanto questo tono aggressivo e violento sia in un certo senso obbligato, ovvero affettato e simulato, perché dovuto alle regole del genere giambico e alla imitazione dei modelli greci (Archiloco e Ipponatte, in primis). Infatti, di questa posa letteraria Orazio appare certo consapevole e, in seguito, avrebbe affermato esplicitamente (Epistole I 19, 23-25):

… Parios ego primus iambos

ostendi Latio, numeros animosque secutus

Archilochi, non res et agentia verba Lycamben.

«… Io per primo trapiantai nel Lazio i giambi

del poeta di Paro, seguendo i ritmi e gli spiriti di Archiloco,

non gli argomenti e le parole che incalzavano Licambe».

È bene osservare come l’orgogliosa dichiarazione di aver trasferito in poesia latina i ritmi e gli spiriti di Archiloco», rivendichi certamente l’abilità versificatoria (in effetti, la maggior parte degli schemi epodici oraziani ha riscontro con quanto è testimoniato nei frammenti del poeta pario), ma anche i diritti dell’originalità: il poeta afferma, infatti, di aver mutuato da Archiloco l’ispirazione aggressiva (animi), ma non i contenuti (res).

Orazio, probabilmente, vuol dire non soltanto che negli Epodi ha attinto a una realtà romana e personale, ma anche che la sua ispirazione archilochea è del tutto particolare. Se la sua situazione giovanile, disagiata e amara, poteva fargli sentire delle affinità con la passionalità accesa e il feroce spirito polemico archilocheo, non dovevano sfuggire neanche a lui le differenze. Archiloco dava voce agli odi e ai rancori, alle passioni civili e alle tristezze di un aristocratico greco del VII secolo a.C., mentre Orazio scriveva nella Roma dominata dai triumviri e sarebbe entrato presto nell’entourage di Ottaviano, dopo essere appena uscito da una rischiosa esperienza politica.

Di conseguenza, l’aggressività di Orazio non può rivolgersi che contro bersagli “minori”: personaggi scoloriti, anonimi, o addirittura fittizi (un usuraio, un arricchito, una fattucchiera, una signora invecchiata). Tutto ciò, in effetti, ha contribuito a dare un’impressione di artificiosità letteraria e si è detto anche che talvolta Orazio riesca a ricreare proprio le res di Archiloco, ma non gli animi, al contrario di quanto aveva affermato!

Un esempio famoso è l’Epodo X. In una specie di προπεμπτικόν («carme di buon viaggio») a rovescio, Orazio augura a Mevio di fare naufragio (vv. 1-14):

Mala soluta navis exit alite             

  ferens olentem Mevium.   

ut horridis utrumque verberes latus,        

  Auster, memento fluctibus;            

niger rudentis Eurus inverso mari

  fractosque remos differat;             

insurgat Aquilo, quantus altis montibus

  frangit trementis ilices;     

nec sidus atra nocte amicum adpareat, 

  qua tristis Orion cadit;

quietiore nec feratur aequore        

  quam Graia victorum manus,     

cum Pallas usto vertit iram ab Ilio             

  in inpiam Aiacis ratem.  

[…]

Sciolti gli ormeggi, salpa sotto sinistri auspici

la nave su cui viaggia il fetido Mevio.

Tu, Austro, ricordati di percuoterne

l’uno e l’altro fianco con spaventosi flutti;

il nero Euro, rovesciando il mare,

disperda le gomene e i remi infranti;

sorga Aquilone nello stesso modo in cui sugli alti

monti schianta i lecci che tremano;

non una stella amica gli appaia nella cupa notte,

 dove tramonta il triste Orione;

non navighi un mare più pacato

di quello che navigò l’esercito vittorioso dei Greci,

quando da Ilio in cenere Pallade la sua collera

dirottò sull’empia nave di Aiace.

[…]

Il modello è qui il cosiddetto Epodo di Strasburgo di Archiloco, di cui fortunatamente è giunto un significativo frammento. Ma dal modello Orazio risulta abbastanza lontano: il poeta latino non riesce a riprodurre la serietà e la ferocia dell’invettiva archilochea perché lascia in sordina proprio il carattere personale della rampogna; a differenza di Archiloco, il cui nemico è un ex amico che lo ha offeso e tradito, Orazio non dice chi sia Mevio né spiega perché ce l’abbia con lui. In questo, come in altri casi, la violenza delle minacce e delle maledizioni suona un po’ a vuoto e talvolta può sembrare addirittura giocosa (come è chiaramente nell’Epodo III, in cui Orazio critica affettuosamente Mecenate per avergli fatto mangiare dell’aglio!).

In ogni caso, lo spirito archilocheo doveva sembrare a Orazio opportuno per esprimere le ansie e le passioni, le paure e le indignazioni di tutta una generazione: si pensi per esempio all’Epodo IV, in cui si reagisce ai repentini rivolgimenti sociali connessi alla «rivoluzione romana» insultando un servo arricchito, o alle inquietudini espresse negli epodi relativi alle guerre civili (VII e XVI).

Anche per influsso dei Giambi di Callimaco Orazio, in ogni modo, doveva sentire connaturata a una raccolta giambica l’esigenza della varietas (ποικιλία). Lavorando contemporaneamente a Satire ed Epodi, egli sembra riservare a questi ultimi quella molteplicità di temi, di toni e di livelli stilistici che la tradizione romana assegnava piuttosto all’ambito della satira. Un gruppo ben individuato è costituito, per esempio, dagli epodi “erotici” (XI, XIV e XV), poesie d’amore che svolgono motivi e situazioni della lirica erotica ellenistica e ne riproducono anche il linguaggio e l’intonazione patetica. La tradizione dell’idillio rustico (insieme a motivi ideologici più specificamente romani) è invece presente dietro l’elogio della campagna e della vita semplice dell’Epodo II, tanto più ambiguo in quanto pronunciato da un sordido usuraio.

Anche dal punto di vista dell’espressione, nonostante resti caratteristico degli Epodi un linguaggio teso e carico, che indugia sugli aspetti più crudi e talvolta ripugnanti della realtà, la poesia giambica di Orazio può ospitare una dizione più sorvegliata: accanto al poeta degli eccessi, si intravede il poeta della misura (mediocritas).

4. Le Satire

Cimentandosi nel genere satirico, che a differenza di quello giambico aveva una tradizione interamente romana, Orazio diede vita a una poesia di tono discorsivo e di argomento morale. Tuttavia, in questa produzione egli non si erge a giudice severo o a maestro pedante, ma preferisce affrontare la tematica morale con un tono non aggressivo ma benevolmente ironico (e spesso autoironico). In questo modo, Orazio comincia a costruire quell’io lirico riflessivo, realistico e moderato che si ritroverà, con profondità ancora maggiore, nelle Odi e nelle Epistole.

Un primo libro di dieci satire (lunghe da un minimo di 35 esametri a un massimo di 143), dedicato a Mecenate, fu pubblicato forse nel 35, e comunque entro il 33. Nel 30, insieme agli Epodi, apparve il II libro (otto satire soltanto, ma la terza, considerevolmente più lunga del solito, conta ben 326 versi!). In totale le Satire (lat. Sermones)contano più di 2000 versi. Le tematiche affrontate sono varie.

Quintiliano (X 1, 93) avrebbe recisamente affermato che satura quidem tota nostra est, «la satira è certamente un genere tutto nostro», ovvero genuinamente romano: egli non riusciva cioè a indicare autori greci che fossero serviti come punto di riferimento ai poeti satirici latini, di cui indicava il capostipite in Lucilio. E anche Orazio stesso, nei componimenti programmatici che forniscono le coordinate della sua poesia satirica, indicò in Lucilio l’inventore del genere (mentre non fa cenno alla satira di Ennio, che pure praticò il genere). Agli occhi di Orazio Lucilio era colui che aveva fissato due tratti fondamentali della poesia satirica: la scelta dell’esametro come forma metrica e, soprattutto, l’uso della satira come strumento dell’aggressione personale, della critica mordace. L’aggressività pareva a Orazio un elemento tanto caratteristico che si sentiva di mettere Lucilio in collegamento (piuttosto che con Ennio) con i tre grandi poeti della commedia greca antica del V secolo a. C. (Sermones I 4, 1-6):

Eupolis atque Cratinus Aristophanesque poetae             

atque alii, quorum comoedia prisca virorum est,            

siquis erat dignus describi, quod malus ac fur,  

quod moechus foret aut sicarius aut alioqui       

famosus, multa cum libertate notabant.

hinc omnis pendet Lucilius…

Eupoli, Cratino e Aristofane, i tre poeti,

e altri, che furono gli autori della commedia antica,

se c’era uno che meritava d’essere messo in berlina,

perché furfante o ladro o adultero o sicario o altrimenti

famigerato, lo bollavano senza tanti riguardi.

Da qui Lucilio dipende tutto…

Questo, dunque, era il tono con cui Lucilio rappresentava la società contemporanea, soprattutto il ceto dirigente (del quale derideva e colpiva i vizi, piuttosto che le singole personalità; dunque, non praticava l’ὀνομαστὶ κωμῳδεῖν dei commediografi greci).

Lawrence Alma-Tadema, Il poeta preferito. Olio su tela, 1888.

Del resto, Lucilio aveva posto nella propria produzione una grande varietà di temi e di interessi: c’erano polemiche letterarie, discussioni filosofiche, questioni linguistiche o grammaticali o lettere, conversazioni. Più importante di tutti era l’elemento autobiografico. La satira luciliana ospitava fatti, personaggi e osservazioni connesse alla vita personale del poeta. Anche in questo Orazio fu consapevole di raccogliere l’eredità del maestro (Sermones II 1, 30-34):

Ille velut fidis arcana sodalibus olim

credebat libris neque, si male cesserat, usquam

decurrens alio neque, si bene; quo fit ut omnis   

votiva pateat veluti descripta tabella       

vita senis…

Come a fedeli compagni, ai libri egli soleva affidare

i suoi segreti, né altrove ricorreva se le cose gli andavano male,

né se gli andavano bene: perciò, avviene che tutta la vita

di questo vecchio ci sta davanti agli occhi, come fosse dipinta

su un quadretto votivo…

Nella coscienza letteraria di Orazio, dunque, la sua satira era “luciliana” perché da Lucilio ereditava i due segni distintivi dell’aggressività e dell’autobiografia. Ma Orazio stesso non sottovalutava le differenze che lo separavano dall’inventor del genere; sottolineava però principalmente quelle relative allo stile, criticando in Lucilio la sciatta e abbondante facilità soprattutto nelle satire I 4 e I 10.

Importanti differenze tra Orazio e Lucilio c’erano però anche dal punto di vista della forma dei contenuti. Lucilio dedicava attenzione ai temi della riflessione morale e perciò riallacciava alla diàtriba (διατριβή), quel genere di letteratura filosofica popolare in cui l’argomento morale era illustrato da dialoghi e aneddoti; ma non era chiaro il rapporto che intercorreva tra diàtriba e aggressività, che dalla diàtriba era assente.

Caratteristico della satira di Orazio è proprio un collegamento stabile e organico di queste due componenti: l’attacco personale è sempre collegato con l’intenzione di ricerca morale. Al piacere gratuito dell’aggressione, ancora vivace in Lucilio (in cui sembrava rivivere lo spirito della commedia aristofanea), Orazio sostituisce l’esigenza di analizzare e indagare i vizi mediante l’osservazione critica e la rappresentazione comica delle persone.

Questa ricerca morale empirica non si propone il proselitismo, non cerca di convertire gli altri a un modello prefabbricato di virtù né di riformare il mondo, ma soltanto di individuare una strada per pochi (per il poeta stesso e un gruppo illuminato di amici) attraverso le storture di una società in crisi.

In questo senso la satira oraziana è intimamente collegata (più ancora della lirica) al circolo di poeti, letterati e uomini politici che si raccoglievano intorno all’intelligente guida di Mecenate.

Lucilio attaccava con virulenza i cittadini eminenti, avversari di cui condivideva la condizione. Ciò non sarebbe stato possibile al figlio di un liberto: ma, quel che più conta, per trarre insegnamento dalla condotta dei propri simili criticandone gli errori non era necessario scegliere bersagli di elevato livello sociale. Orazio guardava piuttosto a un piccolo mondo di irregolari (cortigiane, parassiti, artisti, imbroglioni, filosofi di strada, affaristi, ecc.). Come gli aveva insegnato suo padre, imparava da chi gli stava vicino, da quelli che incontrava per strada (Sermones I 4, 105-106):

… insuevit pater optimus hoc me,

ut fugerem exemplis vitiorum quaeque notando.

«… quel galantuomo di mio padre me l’ha insegnato,

a fuggire i vizi, facendomeli conoscere uno a uno con gli esempi».

La morale oraziana, dunque, pur essendo costruita con materiali elaborati dalle filosofie ellenistiche filtrati dalla diatriba, è fortemente radicata nel buon senso tradizionale, di cui Orazio rivendica con orgoglio la componente italica e contadina.

Gli obiettivi fondamentali della sua ricerca sono l’αὐτάρκεια (l’«autosufficienza interiore») e la μετριότης (la «moderazione», il «giusto mezzo»). Questi concetti accomunavano diverse scuole filosofiche, impegnate a proteggere l’individuo dalla schiavitù dei beni esterni e dai contraccolpi della fortuna. L’importanza dell’αὐτάρκεια era stata sostenuta da molti sapienti ed era presente anche nell’Epicureismo, di cui Orazio si professava seguace, che limitava i diritti della voluptas alla soddisfazione di pochi bisogni naturali. Anche la μετριότης, presente già nella saggezza greca arcaica (che la sintetizzava nel motto μηδὲν ἄγαν, («nulla di troppo») e formulata nel modo più coerente da Aristotele, era un concetto condiviso da Epicuro, per il quale la ricerca del piacere non doveva essere confusa con una pratica degli eccessi.

Stefan Bakałowicz, L’atrio della casa di Mecenate. Olio su tela, 1890. Moskov, Galleria Tret’jakov.

Si insiste sull’Epicureismo perché è caso mai questa la scuola di pensiero più presente nella satira oraziana. Era invece inevitabile che l’empirismo e il realismo della sua morale, che conferiscono ai Sermones quella bonaria ragionevolezza apprezzata in ogni epoca, entrassero in conflitto con l’astrattezza e con il rigorismo degli stoici (con i quali il poeta latino polemizza in Sermones I 3).

Direttamente all’Epicureismo si collegano Sermones I 2 contro l’adulterio e le sue inutili follie (si raccomanda il soddisfacimento naturale del bisogno sessuale) e soprattutto il rilievo che nell’opera hanno i problemi dell’amicizia e la rappresentazione della cerchia di sodali. L’affinità intellettuale, l’indulgenza, la dedizione, la comunanza di vita, la compattezza nei confronti dell’esterno: tutto ciò risente delle teorie epicuree e richiama il valore che la φιλία aveva nel sistema di pensiero di Epicuro e dei suoi seguaci.

La ricerca morale non caratterizza soltanto le satire che si potrebbero chiamare “diatribiche”, quelle cioè in cui è sviluppata una discussione su uno specifico problema morale, vivacizzata da argomenti, obiezioni, esempi, aneddoti (come in Sermones I 1-3), ma anche quelle in cui il poeta – sul modello luciliano “autobiografico” – rappresenta una scena, racconta un episodio, descrive una situazione.

Scena di vita quotidiana nel foro. Affresco, ante 79 d.C. dalla Casa di Giulia Felice (Pompei). Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

In questi casi, la rappresentazione stessa è come la lente attraverso cui Orazio osserva i fatti e i personaggi; gli esempi più felici sono la satira del viaggio (Sermones I 5) e la satira del seccatore (I 9). E non manca qualche caso in cui diatriba e rappresentazione sono coniugate in un medesimo componimento: Sermones I 6, per esempio, passa dall’autobiografia (origine del poeta e presentazione a Mecenate) all’argomentazione sul valore della nascita e sull’ambizione, per tornare di nuovo alla rappresentazione autobiografica (rievocazione dell’infanzia e del padre, diario di una giornata romana).

Il meccanismo fondamentale del genere satirico nella prima raccolta oraziana consiste nel confronto fra un modello positivo (l’obiettivo della ricerca morale del poeta e dei suoi amici) e tanti modelli negativi (i tipi della società romana che sono bersaglio di aggressione comica).

Ora, questo assetto si rivela estremamente precario, tanto che già la seconda raccolta di Satire mostra dei mutamenti sostanziali. Si registra anzitutto un brusco regresso della componente rappresentativo-autobiografica, presente solamente nel proemio e in Sermones II 6.

Nelle satire argomentative risulta poi dominante la forma del dialogo (ben sei componimenti su otto) e per di più, nella distribuzione delle parti, il ruolo dominante non spetta al poeta, bensì all’interlocutore; anzi, in Sermones II 2 le riflessioni sulla temperanza e la semplicità della vita sono condotte interamente da un certo Ofello di Venosa, di cui Orazio si limita a riportare le parole senza intervenire.

La coincidenza fra il poeta e la “voce satirica” (quella che argomenta e confuta) aveva assicurato un punto di riferimento alla ricerca morale del I libro. Ora che il poeta si ritira in secondo piano non resta più la possibilità di estrarre un senso unitario dalle contraddizioni del mondo reale: tutti gli interlocutori sono depositari di una loro verità, anche se non tutte le verità sono equivalenti e parecchi discorsi si confutano da soli in una involontaria ironia. Ma il poeta non sembra ritenere più che la satira possa essere il luogo di una ricerca morale capace di individuare empiricamente un sistema di condotta soddisfacente.

L’equilibrio fra αὐτάρκεια e μετριότης, che assicurava un buon punto di osservazione del reale, sembra perduto: il poeta non rappresenta ormai la propria capacità di vivere fra la gente senza perdere la propria identità morale, ma permette piuttosto ai suoi interlocutori di denunciare (anche ingiustamente) le debolezze e le incoerenze delle sue scelte. L’unico rifugio è ormai la villa sabina (Sermones II 6), dove l’αὐτάρκεια si giova dell’isolamento e non deve continuamente fare i conti con le contraddizioni della vita cittadina.

Apollo Musagete. Statua, marmo, II sec. d.C. dalla Villa di Cassio (Tivoli). Città del Vaticano, Museo Pio-Clementino.

5. Le Odi

Con le Odi (Carmina) Orazio fornisce alla letteratura latina il capolavoro della poesia lirica, destinato a diventare un modello per ogni epoca di classicismo. La straordinaria maturità della lirica oraziana è dovuta sia ai temi trattati sia alla forma: l’espressione dell’io lirico oraziano – un poeta saggio e orgoglioso, ma anche malinconico e umano – non può essere disgiunta da uno stile calibratissimo ed elegante, che riprende e supera la lezione della brevitas neoterica, né dalla grande varietà di strutture metriche ereditate dalla tradizione lirica greca.

Una raccolta di tre libri (il primo di 38 carmi, il secondo di 20 e il terzo di 30) venne pubblicata nel 23 a.C. Orazio vi aveva lavorato per circa sette anni, conclusa l’esperienza delle Satire e degli Epodi, il più antico componimento databile è il Carmen I 37, un canto di gioia per la morte di Cleopatra, avvenuta nel 30 a.C.

Alla poesia lirica Orazio doveva tornare sei anni più tardi (17 a.C.), per comporre su incarico di Augusto l’inno che un coro di ventisette ragazze e altrettanti ragazzi avrebbe eseguito nelle celebrazioni dei ludi saeculares: è il cosiddetto Carmen saeculare, in metro saffico, un’invocazione agli dèi, soprattutto Apollo e Diana, perché assicurino prosperità a Roma e al principato augusteo.

Il poeta si dedicò poi ancora alla poesia lirica e aggiunse ai precedenti un quarto libro di Odi (15 componimenti): l’ultimo, il Carmen IV 5, fa riferimento al ritorno di Augusto dal Settentrione (luglio del 13 a.C.).

La lirica oraziana sperimenta metri differenti: dominanti sono la strofe alcaica (37 componimenti su 103), la strofe saffica minore (25 componimenti), la strofe asclepiadea nelle sue varie forme (34 componimenti). Gli altri metri sono per lo più rappresentati in esempi isolati. In totale, i quattro libri delle Odi contano 3.034 versi, cui i si aggiungono i 76 versi del Carmen saeculare. Ci sono carmina brevissimi (la famosa I 11 e I 38 hanno per esempio solo 8 versi), odi brevi (di 16, 20 o 24 versi); ci sono odi più lunghe, fino a un massimo di 80 versi (l’ode III 4).

Merita attenzione la disposizione dei componimenti all’interno della raccolta che, come nella tradizione alessandrina, obbedisce a intenti artistici e strutturali. Le odi di apertura e di chiusura sono indirizzate a personaggi di riguardo (I 1 e II 20 a Mecenate; II 1 a Pollione, IV 1 a Paolo Fabio Massimo e IV 15 ad Augusto) e spesso, secondo una tradizione consolidata, mostrano l’orgogliosa consapevolezza del poeta (i casi più noti sono I 1, II 20 e III 30).

Anche il secondo posto, il penultimo e quello centrale sono sedi privilegiate. Talvolta il poeta giustappone carmi di contenuto simile (per esempio Carmen IV 8 e IV 9 sul l’immortalità assicurata dalla poesia), e in un caso costituisce un vero e proprio ciclo (III 1-6), quello delle cosiddette «odi romane», segnalato da un proemio (III 1) e da un proemio mediano (III 4) e dedicato ai temi del mos maiorum ripresi da Augusto. Ma il criterio favorito di organizzazione del libro sembra essere quello della variatio: sia dal punto di vista metrico-formale (i primi nove componimenti del I libro sono in nove differenti metri e in un altro metro ancora è l’ode I 11: quasi un’esposizione in catalogo delle possibilità metriche oraziane!), sia da quello del tono e del contenuto (alternanza di temi politici e temi privati, stile alto e stile leggero).

A differenza della lirica moderna, le odi di Orazio raramente danno voce a libere meditazioni o introspezioni: quasi sempre hanno un’impostazione dialogica, sono rivolte a un “tu” che può essere un personaggio reale (è il caso più frequente), immaginario (sono considerati tali le figure femminili e i personaggi maschili di nome greco), una divinità o la Musa, una collettività, perfino un oggetto inanimato (la lira, strumento della poesia).

La lirica oraziana, così come gran parte della poesia latina, soprattutto augustea, non può essere intesa a prescindere dal rapporto organico con la tradizione greca. La coscienza della dipendenza dai Greci è talmente viva da essere esibita in esplicite dichiarazioni di poetica: se negli Epodi Orazio si dichiarava erede di Archiloco, per quel che riguarda la sua produzione lirica rivendica orgogliosamente il titolo di “Alceo romano” (Carmina I 1, 34; I 26, 11; I 32, 5).

Simili dichiarazioni non implicano però una dipendenza pedissequa e priva di originalità, ma un rapporto di imitatio che significa soprattutto obbedienza alla lex operis (le regole che organizzano il genere letterario in cui il poeta vuole operare), rispetto del decorum letterario e creazione di un coerente sistema di attese nel destinatario. La imitatio è insomma una componente del linguaggio poetico e non un ostacolo all’originalità della creazione.

Del resto, gli stessi poeti romani, e Orazio più degli altri, così come erano consapevoli della loro “genealogia letteraria”, erano altrettanto gelosi del loro originale contributo creativo e non mancavano di farsene vanto (Epistolae I 19, 21-22):

libera per vacuum posui vestigia princeps,

non aliena meo pressi pede.

«Io per primo posi i miei liberi passi per libero suolo,

non calcai col mio piede le orme altrui».

Orazio si dice fiero di aver divulgato per primo la poesia di Alceo, malgrado le difficoltà tecniche del trasferire da una lingua all’altra strutture metriche ed espressive; e da queste orgogliose rivendicazioni nacque un vero e proprio tópos della poesia augustea, quello del et primus ego («e io per primo»). Ma nei confronti del suo modello greco Orazio si comporta con molta liberta, unendo a temi e occasioni tradizionali un’ambientazione e una sensibilità tipicamente romane, nonché un linguaggio poetico personale.

Questa ricerca di originalità all’interno dell’imitazione è visibile soprattutto nella ripresa dello spunto iniziale di un componimento. Diverse odi di Orazio, infatti, partono con una ripresa evidente (a volte quasi una citazione che funziona da motto): poi, però, il poeta procede in maniera sua propria e il modello viene quasi dimenticato (i casi più noti sono Carmina I 9; 10; 14; 18; 37; II 12).

Lawrence Alma-Tadema, Saffo e Alceo. Olio su tela, 1881. Walters Art Museum.

La famosa ode a Taliarco (I 9) si apre, per esempio, con un paesaggio invernale che ricorda un frammento alcaico: a esso, come in Alceo, è connesso un invito a bere. Poi, però, il componimento si sviluppa in riflessioni gnomiche, per finire in un quadro di vita galante cittadina vicino al gusto del realismo alessandrino.

Alceo fu il modello prediletto di Orazio, anche perché in lui poteva trovare contemporaneamente l’attenzione per le vicende della comunità e un canto più legato alla sfera privata (l’amore, l’amicizia, il convito). Questo aspetto è chiaro soprattutto nell’invocazione alla cetra colica, simbolo della lirica del poeta lesbio, in Carmina I 32, 3-12:

… age dic Latinum,

  barbite, carmen,    

Lesbio primum modulate civi,

qui ferox bello tamen inter arma,

sive iactatam religarat udo             

  litore navim,            

Liberum et Musas Veneremque et illi        

semper haerentem puerum canebat         

et Lycum nigris oculis nigroque    

  crine decorum…

«… Intona, suvvia, un carme

latino, o lira

modulata per la prima volta dal cittadino di Lesbo,

che, valoroso guerriero, tuttavia tra una battaglia e l’altra,

o se aveva legato all’umida riva

la nave sbattuta,

cantava Libero e le Muse e Venere

e il fanciullo che sempre

le è accanto, e Lico bello di neri occhi

e neri capelli…».

Del resto, se importanti sono i tratti che accomunano Orazio e Alceo, certo non meno significative sono le differenze: il poeta lesbio era un aristocratico impegnato in prima persona nelle aspre lotte politiche della sua città; in Orazio invece l’interesse per la res publica è poco più che un’immagine letteraria, ovvero l’interesse di un intellettuale, che, dopo un effimero coinvolgimento nelle tempeste civili, vive al riparo dei potenti signori di Roma, alla ricerca della felicità interiore che era stata l’insegnamento principale delle filosofie ellenistiche. Inoltre, mentre Alceo componeva le sue odi per l’esecuzione cantata durante i simposi, la lirica oraziana è scritta per la lettura: di conseguenza, la sua evocazione del simposio è puramente immaginaria e stilizzata, e il suo stile può permettersi raffinatezze e sofisticazioni che Alceo evitava per rendere meglio eseguibili i suoi carmi.

L’altra grande rappresentante della lirica eolica, Saffo, ha lasciato una traccia minore nella poesia di Orazio. In un’ode famosa (II 13) egli immagina Saffo e Alceo che affascinano con il loro canto uno stupito mondo infernale, in cui le ombre sembrano preferire Alceo, cantore delle tempeste civili, agli appassionati lamenti amorosi di Saffo.

Orazio certamente condivideva questo giudizio, e la poetessa dell’amore e della passione gli suggerì spunti poetici solo episodicamente: la cosiddetta «ode della gelosia» (F 31 Voigt), già “tradotta” da Catullo (Carmina 51), si risente in I 13, mentre in IV 9, 10 ss. sono rievocate le «passioni» (calores) della poetessa (si vd. anche I 22, 23-24). Ben più profonda impronta Saffo lascerà nella poesia elegiaca latina.

Un ruolo notevole è svolto anche dalla lirica corale, rappresentata da Stesicoro, Simonide e in misura maggiore Bacchilide. Ma non c’è dubbio che il posto d’onore fra gli auctores di Orazio spetti a Pindaro. Nel riconoscerne la grandezza, Orazio avverte tutti i pericoli cui si espone l’aemulatio di un poeta tanto audace e difficile (Carmina IV 2, 1-4):

Pindarum quisquis studet aemulari,

Iulle, ceratis ope Daedalea              

nititur pinnis, vitreo daturus          

  nomina ponto.

Chi vuol emulare Pindaro,

o Iullo, si affida come Dedalo     

ad ali di cera, per donare il proprio nome       

  a un mare di cristallo.

Orazio tenta una lirica “pindarica” soprattutto nel IV libro, rispondendo anche a sollecitazioni culturali augustee, ma anche nei libri precedenti (si vd., per esempio, il motto di I 12 o III 4, la «IV ode romana») la sua ricerca del sublime si nutre di suggestioni “pindariche”: periodi ampi, solenne gravità delle sentenze, ammonimenti improvvisi, transizioni audaci. E dal poeta tebano vengono a Orazio idee importanti, come la coscienza dell’alta funzione della poesia, la capacità del poeta di conferire l’immortalità, l’apprezzamento della saggezza etico-politica.

Frederic Leighton, Dedalo e Icaro. Olio su tela, 1869.

Il richiamarsi di Orazio alla lirica greca arcaica era dovuto a una precisa scelta programmatica ed esprimeva la volontà di distinguersi dall’alessandrinismo dei neoteroi. Ciò, però, non significa che Orazio ignorasse l’esperienza della poesia ellenistica, da cui anzi derivava un vasto repertorio di temi, immagini, situazioni (relative soprattutto alla sfera dell’amore, della relazione galante, ma anche a quella di feste e cerimonie pubbliche, del convito, del paesaggio) nonché alcuni aspetti fondamentali della sua cultura e della sua poetica, primo tra tutti la cura formale, il labor limae.

È consolidata l’immagine di Orazio poeta dell’equilibrio sereno, del distacco dalle passioni, della moderazione: e l’immagine tradizionale è, in questo come in altri casi, abbastanza rispettosa della realtà. Essa fa intuire, prima di tutto, il ruolo centrale che nella lirica oraziana è svolto dalla meditazione e dalla cultura filosofica: una meditazione già presente nella lirica greca arcaica, ma che in Orazio è sostanzialmente diversa in quanto discendente dalle filosofie ellenistiche attraverso la mediazione della diatriba.

Diversamente dalle Satire, però, nelle Odi non si vede una ricerca morale fondata sull’osservarione critica degli altri, ma una raccolta meditazione su poche fondamentali conquiste della saggezza (soprattutto epicurea); perciò, in un certo senso, si può dire che le Odi cominciano dove le Satire finiscono. A queste nozioni elementari, che devono parecchio anche al buon senso comune, Orazio ha saputo dare una formulazione tanto nitida e incisiva da consegnarle all’eredità della cultura europea.

Il punto centrale è la coscienza della brevità della vita, che comporta la necessità di appropriarsi delle gioie del momento, senza perdersi nell’inutile gioco delle speranze, dei progetti o delle paure. Più famosa di tutte è l’esortazione a Leuconoe (Carmina I 11, 6-8):

… sapias, vina liques, et spatio brevi         

spem longam reseces. dum loquimur, fugerit invida      

aetas: carpe diem quam minimum credula postero.

«… sii saggia, mesci il vino, e in un breve spazio

taglia la tua lunga speranza. Mentre parliamo, già sarà fuggito, maligno,

il tempo che ci è concesso: strappagli il giorno e non fidarti troppo del domani».

Aveva detto Epicuro (Gnomologio Vaticano, 14): «Si nasce una volta sola, due volte non è concesso, in eterno non saremo più. Tu, pur non essendo padrone del tuo domani, rimandi la gioia: la vita così trascorre in questo indugiare e ciascuno di noi muore senza aver goduto della quiete». Il saggio affronterà gli eventi, quali che siano, e saprà accettarli: egli conta solo sul presente, che cerca di cogliere nella sua fugacità, e si comporta come se ogni giorno della sua vita fosse l’ultimo. Il carpe diem non va, quindi, frainteso come un banale invito al godimento: in Orazio (come era anche in Epicuro) l’invito al piacere non è separato dalla consapevolezza acuta che quel piacere stesso è caduco, come caduca è la vita dell’uomo. Non resta che fabbricarsi, di fronte all’incalzare della morte o della sventura, la solida protezione dei beni già goduti, della felicità già vissuta (Carmina III 29, 41-48):

ille potens sui    

laetusque deget, cui licet in diem         

  dixisse “vixi”. cras vel atra          

    nube polum pater occupato   

vel sole puro; non tamen inritum         

quodcumque retro est efficiet neque   

  diffinget infectumque reddet   

    quod fugiens semel hora vexit.

… avrà pieno dominio di sé        

e felice vivrà colui che tutti i giorni      

  potrà dire: “Ho vissuto”. Domani invada pure

    Giove padre con neri nembi il cielo  

o con la pura luce del Sole; non cancellerà certo       

ciò che ci sta dietro e non potrà mutare          

  o far sì che non esista ciò che l’ora      

    fuggente una volta per tutte ci ha portato.

Questa meditazione può talvolta tradursi in canto della propria serenità: la felicità dell’αὐτάρκεια, la condizione del poeta-saggio, libero dai tormenti della follia umana e benedetto dalla protezione degli dèi. Il favore divino si manifesta trasfigurando in miracolo circostanze dell’esistenza quotidiana (vari episodi di scampato pericolo, dall’infanzia all’attualità) ed è sempre intimamente connesso con la vocazione di poeta: gli dèi e le Muse hanno salvato Orazio per riservarlo a quel destino.

Pittore di Achille. Una Musa che suona la lira. Pittura vascolare da una λήκυθος attica a sfondo bianco, 440-430 a.C. ca.

Eppure, saggezza, serenità, equilibrio, padronanza di sé e l’aurea mediocritas («preziosa medietà») di chi sa fuggire tutti gli eccessi e adattarsi a tutte le fortune, niente di tutto ciò è un possesso sicuro, acquisito una volta per sempre. Il poeta non ignora la forza insidiosa delle passioni, conosce le debolezze dell’animo, e sa che ciò cui egli aspira e che consiglia agli amici va conquistato e difeso in ogni momento. La saggezza si scontra così con i dati immutabili della condizione dell’uomo nel mondo: la fugacità del tempo, la vecchiaia, la morte. Nessuna saggezza ha la capacità di eliminare tanto peso negativo: contro le angosce e contro il dolore della vita si può soltanto ingaggiare una lotta virile che richiede energia e conosce qualche eroismo, per trasformare l’inquietudine e l’amarezza in accettazione del destino (Carmina IV 7, 7-16 passim):

inmortalia ne speres, monet annus et almum    

  quae rapit hora diem. […]

damna tamen celeres reparant caelestia lunae:              

  nos ubi decidimus 

quo pius Aeneas, quo dives Tullus et Ancus,

  pulvis et umbra sumus.

«A non nutrire speranze immortali ti ammonisce l’anno    

  e l’ora che trascina via il vivifico giorno. […]

Eppure, in cielo rapide lune ripristinano ciò che hanno perso:      

  quanto a noi, invece, una volta caduti

dove il pio Enea, dove il potente Tullo e Anco,

  siamo polvere e ombra».

Orazio non è però un asceta separato dal mondo. Egli mostra di conoscere bene i sentimenti e le relazioni umane e non ignora la passione: ne conosce la crudeltà, la rievoca con malinconia, la sente inopinatamente risorgere. Ma la saggezza faticosamente conquistata e gelosamente conservata vanno di pari passo con una pratica di vita fatta di pochi amici sicuri, pochi luoghi protetti e sentimenti da guardare con il necessario distacco.

Si tratta di un sistema coerente e unitario di ideali, sentimenti e luoghi che si adattano perfettamente tra di loro.

Quasi un quarto delle Odi possono essere classificate come «erotiche». La poesia amorosa di Orazio, a differenza di quella di Catullo e degli elegiaci, sembra nutrirsi del distacco ironico dalla passione. A parte qualche eccezione, l’amore viene analizzato come un rituale il cui canovaccio è piuttosto scontato: serenate, incontri, giuramenti, schermaglie, vita galante, banchetti. Spesso il poeta osserva con un sorriso la credulità del giovane amante, la serietà con cui ciascuno interpreta la sua parte, giura l’esclusività e l’eternità del proprio sentimento.

Anche l’amicizia, nelle Odi, come, del resto, in tutte le opere del poeta, ha un ruolo fondamentale e fornisce ai singoli componimento un ampio ventaglio di destinatari, ciascuno con la sua specificità di amico; e a ciascuno viene dedicata un’attenzione affettuosa.

La campagna è il luogo di elezione dell’equilibrio oraziano. Di solito è stilizzata secondo il modulo del locus amoenus, un gradevole paesaggio italico che ospita il convito, il riposo, la semplice vita rustica; ma Orazio conosce anche il fascino del paesaggio “dionisiaco”: una natura montana, selvaggia e aspra, fatta di rupi, boschi e fonti, non ancora domata dall’uomo.

Ma i luoghi più propriamente oraziani sono quelli individuati dallo spazio limitato e racchiuso del piccolo podere personale – spazio caro perché noto e sicuro, inattaccabile perché appartato e volutamente modesto (Carmina I 17, 17 hic in reducta valle); ma per ritrovarsi al poeta basta qualche volta un qualunque pezzo di quieta campagna o una solitaria spiaggia sul mare.

Questo spazio privilegiato funziona nel testo come una figura simbolica sia dell’esistenza dell’autore (è la forma dei suoi affetti, pochi ma sicuri) sia della sua esperienza poetica (ne è la forma estetica, in quanto spazio che vuole rappresentare un ordine e un senso).

Orazio chiama questo luogo-simbolo angulus (Ille terrarum mihi praeter omnis / angulus ridet, «Quell’angolo di mondo più d’ogni altro mi sorride», Carmina II 6, 13), il luogo deputato al canto, al vino e alla saggezza. E per quanto il tema possa apparire convenzionale, è pur vero che esso trova in Orazio nuove funzioni in quanto si associa a due altri grandi temi: quello della morte (il cui pensiero, in questo spazio privilegiato, si fa meno amaro e si attenua in malinconia) e soprattutto quello dell’amicizia.

L’altro polo della lirica oraziana, la poesia impegnata sui temi civili, con la celebrazione di personaggi, avvenimenti e miti del regime di Augusto, risulta per molti versi lontano dagli argomenti privati; pur se in Orazio, con una differenza importante rispetto alla lirica neoterica, tutta la sfera privata aspira sempre a una validità generale, a esprimere la condizione complessiva dell’uomo. La lirica civile, molto discussa nei suoi risultati, non manca certo di originalità. La poesia celebrativa legata ai monarchi ellenistici non fornisce più che qualche tratto esteriore: su questo tronco (e naturalmente su quello della lirica greca arcaica) Orazio ha saputo innestare spunti nazionali, suggestioni provenienti dall’epica e dalla storiografia. L’operazione era ambiziosa e rispondeva anche a profonde esigenze personali, ben radicate in una generazione, che, dopo le lacerazioni delle guerre civili, guardava con speranza, entusiasmo, e qualche angoscia mal sopita, al princeps vincitore e garante della pace. Non bisogna perciò pensare soltanto alle pressioni energiche della politica culturale augustea.

L’immagine di Orazio cantore della grandezza di Roma e dei valori eterni dell’impero, esaltata e poi caduta in sospetto durante il XX secolo per la retorica della romanità, può essere oggi finalmente valutata in modo più equilibrato.

La lirica civile di Orazio conosce la celebrazione, l’encomio, l’ufficialità, ma non può essere liquidata come propaganda in versi. Anzitutto perché, anche dove riflette con fedeltà i temi e le successive fasi dell’ideologia del principato, sa evitare chiusure dogmatiche ed esaltare il sublime della magnanimità: per esempio, la lealtà verso la causa tradizionalista e i suoi eroi sventurati (Carmina II 7; I 12; II 1) o l’ammirazione per la virtus anche nel più odioso dei nemici (celebre il quadro di Cleopatra che affronta impavidamente la morte in I 37). E poi perché Orazio sa spesso farsi interprete di incertezze e timori, di scoraggiamenti e poi di improvvise gioie liberatrici – insomma, dei sentimenti e delle aspirazioni profonde della comunità. Anche la lode del principe in genere sfugge alle movenze cortigiane dell’encomio ellenistico, per dar voce alla sincera ansiosa gratitudine nei confronti del pacificatore dell’Impero.

Giovanni Battista Tiepolo, Mecenate presenta ad Augusto le Arti Liberali. Olio su tela, 1743.

Dell’ideologia augustea, la lirica civile oraziana condivide l’impostazione moralistica: la crisi era derivata dalla decadenza degli antiqui mores, dall’abbandono di quel coerente sistema di valori etico-politici e religiosi che aveva fatto la grandezza di Roma.

Questa poesia moralistica può incontrare a tratti la ricerca oraziana e convivere con essa, perché la critica del lusso e delle stravaganze, l’ammirazione per l’autosufficienza della virtus e l’apprezzamento della razionalità contro le forze del caos erano temi comuni alle filosofie ellenistiche. La pubblica ricorrenza può essere anche occasione di gioia privata: il poeta festeggia con un convito, con un incontro galante. Orazio inaugura così una maniera che sarà importante per altri poeti dell’età di Augusto (per Properzio e, soprattutto, per Ovidio).

Nelle odi di argomento civile risalta più che altrove il motivo della vocazione poetica, che d’altra parte è una presenza ricorrente in tutti i carmi. Il vates si sente in rapporto con le Muse le altre divinità ispiratrici (Mercurio, Bacco, Apollo): attraverso la topica ellenistica Orazio esprime entusiasmo per la sua missione fin dalla prima ode (I 1), dedicata a Mecenate, dove la scelta della poesia è rivendicata con orgoglio. E se l’ode conclusiva del primo libro (I 38) privilegia ancora la dimensione intimistica del simposio, quelle del II e del III libro professano apertamente l’orgoglio della missione letteraria. Per esempio, in II 20 il poeta immagina addirittura di trasformarsi in un cigno, animale sacro ad Apollo, e afferma che l’immortalità conferitagli dall’arte rende inutili i pianti al suo funerale (riprendendo l’epigramma funebre di Ennio); analogamente in III 30 Orazio afferma con sicurezza: «Non morirò del tutto» (non omnis moriar, v. 6), perché con la sua opera ha innalzato «un monumento più duraturo del bronzo» (v. 1).

La polarità tra dimensione intima e dimensione pubblica è naturalmente una semplificazione, che finisce per oscurare la varietà e la vitalità tematica della poesia lirica di Orazio. Questa varietà è spesso dovuta alle diverse categorie in cui si articolava l’antica lirica greca (il suo modello di partenza) a seconda delle “occasioni” cui era destinata.

Ben rappresentati sono i carmi conviviali, che rimandano ai συμποτικά («canti da simposio») alcaici per quel che riguarda la descrizione del paesaggio e l’invito a bere per vincere la malinconia dell’esistenza, ma devono molto anche all’epigramma ellenistico negli inviti e nelle descrizioni dei preparativi, con il tradizionale apparato del simposio ellenistico-romano (vino, fiori, musica).

Ben rappresentato nella lirica oraziana è anche l’inno. Qui naturalmente le differenze con la lirica arcaica sono cospicue, anche perché la lirica religiosa oraziana è priva del legame con un’occasione e un’esecuzione rituale (a parte il Carmen saeculare). Dell’inno Orazio conserva spesso il formulario e l’andamento (l’invocazione in seconda persona, gli epiteti cultuali del dio, l’illustrazione di prerogative e sedi del culto, gli inviti alla presenza, le richieste), ma poi lo intesse di riferimenti e sviluppi di carattere letterario.

Non sempre però è facile collocare un’ode oraziana in un tipo ben definito, anche perché il poeta ama spesso contaminare in un medesimo componimento categorie liriche diverse (secondo il procedimento alessandrino dell’incrocio fra i generi»). Per esempio, in III 37 Orazio contamina il προπεμπτικόν («carme di buon viaggio») e il carme mitologico; in III 11 un inno e un carme mitologico; in III 14 l’encomio per Augusto e il carme simposiale; in I 4 un epigramma sulla primavera e una poesia conviviale.

Charles Jalabert, Orazio, Virgilio e Vario nella casa di Mecenate. Olio su tela, 1777. Nimes, Musée des Beaux-Arts.

6. Le Epistole

Dopo la grande stagione della poesia lirica, Orazio ritorna, con le Epistolae, all’esametro della “conversazione”: appunto sermones è il nome che Orazio dà anche alle sue “lettere in versi”, lo stesso usato per le Satire, che come quelle trattano di argomenti morali.

Il I libro delle Epistole fu pubblicato nel 20 a.C.: Orazio vi lavorò tre anni, dopo la pubblicazione dei primi tre libri delle Odi. La raccolta comprende 20 componimenti in esametri: si va dai 16 versi della IV epistola ai 112 di I 18. I versi sono in totale poco più di mille.

II II libro, forse pubblicato postumo, fu composto negli anni fra il 19 e il 13 a.C. Contiene due lunghe epistole di argomento letterario: la prima, dedicata ad Augusto, critica l’ammirazione per i poeti arcaici ed esamina lo sviluppo della letteratura romana; la seconda, indirizzata a Giulio Floro, più personale, è una specie di congedo dalla poesia, con un quadro memorabile della vita quotidiana del letterato romano e un’ampia riflessione sulla ricerca della saggezza filosofica.

Sebbene la tradizione manoscritta non la includa nella raccolta delle Epistole, fin dal XVI secolo l’epistola ai Pisoni, detta Ars poetica, è stampata dopo le due epistole del libro II, a cui la accomunano la forma epistolare e l’argomento letterario. La datazione è molto discussa: probabilmente è posteriore al 13, data dell’epistola ad Augusto, ma alcuni la collocano tra il I libro delle Epistole (20 a.C.) e il Carmen saeculare (17 a.C.). L’Ars poetica è un trattato di 476 esametri, che espone teorie peripatetiche sulla poesia, soprattutto drammatica. Con una certa difficoltà è stata rintracciata una struttura interna dell’opera: i vv. 1-294 parlano dell’ars, i vv. 295-476 dell’artifex; a sua volta, la prima sezione sembra bipartita tra la trattazione della poesia (il contenuto dell’opera, vv. 1-41) e la trattazione del poema (lo stile, vv. 42-294).

La sensibilità oraziana per il trascorrere inesorabile del tempo, acuita dall’impressione di una precoce vecchiaia, fa sentire la conquista della saggezza come urgente, improcrastinabile. Ma, al tempo stesso, Orazio non sembra più in grado di costruire (né per gli altri né per sé) un modello di vita soddisfacente.

La rinuncia alla vita sociale e all’ottimismo etico è simboleggiata dalla fuga da Roma verso il raccoglimento della campagna sabina: un ritiro inquieto, ma per lo meno lontano da impegni, sollecitazioni, passioni, nei confronti delle quali il poeta si sente adesso indifeso.

L’esigenza dell’αὐτάρκεια è ora più vivace che mai, ma neanche questa sembra garantire al poeta un atteggiamento coerente e costante. Orazio sembra oscillare, senza individuare mai davvero un punto di plausibile equilibrio, tra un rigore morale che lo attrae ma lo spaventa e un edonismo di cui avverte insieme concretezza e fragilità. Nella epistola che fa da proemio, il poeta si dichiara indipendente da ogni ortodossia filosofica (Epistolae I 1, 13-19):

ac ne forte roges, quo me duce, quo lare tuter:   

nullius addictus iurare in verba magistri,            

quo me cumque rapit tempestas, deferor hospes.

nunc agilis fio et mersor civilibus undis  

virtutis verae custos rigidusque satelles, 

nunc in Aristippi furtim praecepta relabor          

et mihi res, non me rebus subiungere conor.

Non mi domandare chi mi conduca, sotto quale tetto mi sia rifugiato:

non mi impegnai a giurare per le parole d’un maestro,

ovunque il tempo mi porti, mi ritrovo essere ospite.

A volte mi pare di destarmi, mi immergo tra i marosi della vita civile,

mi sento soldato della virtù verace, suo difensore inflessibile;

poi, senza sapere come, scivolo nelle dottrine d’Aristippo,

riprovo a dominare la realtà, invece di esserne dominato.

Non si tratta qui tanto di rivendicare un’originale mediazione fra concetti e posizioni attinte a tradizioni filosofiche diverse o alla predicazione diatribica, che tendeva all’eclettismo. Orazio parla, programmaticamente, delle oscillazioni che caratterizzano la morale delle Epistole, che contempla, per esempio, la possibilità di accostare l’epistola 16, di impronta più chiaramente stoica, centrata sul tema della libertà interiore e sul vero ideale del vir bonus, alla coppia costituita dalle epistole 17 e 18, che presentano didascalicamente una serie di consigli e di riflessioni sulla maniera di vivere accanto ai potenti e di assicurarsene il favore.

Alle aporie della ricerca morale oraziana sembra da collegare lo spazio notevole ora accordato al tema diatribico (già mirabilmente svolto da Lucrezio e affiorato nel II libro delle Satire) dell’insoddisfazione di sé, dell’incostanza, della noia angosciosa e impaziente. L’inquietudine è presentata come una specie di male del secolo (Epistole I 11, 27-30):

caelum non animum mutant qui trans mare currunt.

strenua nos exerces inertia: navibus atque

quadrigis petimus bene vivere. quod petis, hic est,

est Ulubris, animus si te non deficit aequus.

«Cambia cielo, non animo, chi corre di là dal mare.

Un torpore smanioso ci logora: noi che cerchiamo con navi

e quadrighe la vita felice. Ciò che cerchi è qui,

è ad Ulubre, se non ti manca l’equilibrio dell’animo».

Ma il poeta non si sente affatto al riparo, né i propositi di saggezza sembrano capaci di assicurargli la guarigione dall’insidiosa e tenace malattia (Epistole, I 8, 3-12):

si quaeret quid agam, dic multa et pulcra minantem   

vivere nec recte nec suaviter, haud quia grando

contuderit vitis oleamve momorderit aestus,      

nec quia longinquis armentum aegrotet in agris;           

sed quia mente minus validus quam corpore toto          

nil audire velim, nil discere, quod levet aegrum,              

fidis offendar medicis, irascar amicis,      

cur me funesto properent arcere veterno,             

quae nocuere sequar, fugiam quae profore credam,      

Romae Tibur amem, ventosus Tibure Romam.

«Se ti chiederà cosa faccio, digli così: io, che molte e belle cose minacciavo,

non vivo né secondo virtù né piacere; non perché la grandine

m’ha ammaccato le viti o la calura ha morso le olive,

né perché il bestiame s’è ammalato in pascoli lontani;

ma perché, infermo nell’animo più che nel corpo tutto,

non voglio ascoltare né sapere ciò che potrebbe guarirmi,

m’arrabbio con medici fidati, m’adiro con gli amici,

perché s’affannano a liberarmi dal mortale torpore;

inseguo ciò che mi fa male, fuggo ciò da cui m’aspetto giovamento;

come il vento, a Roma mi piace Tivoli, a Tivoli mi piace Roma».

All’esibita debolezza della propria posizione etico-filosofica fa riscontro – quasi paradossalmente – un’accresciuta impostazione didascalica del discorso oraziano. La forma epistolare stessa, infatti, corrisponde in qualche modo alla posizione di un intellettuale eminente e rispettato, che è interlocutore e anche punto di riferimento dell’élite sociale del suo tempo.

Nel rapporto a due che è proprio di una lettera c’è spazio per confessare, ma anche per ammonire e insegnare, soprattutto se la persona di un destinatario inesperto (molte delle epistole sono indirizzate a giovani amici) sembra in qualche maniera richiederlo (Epistole I 17, 3-5):

disce, docendus adhuc quae censet amiculus, ut si

caecus iter monstrare velit, tamen adspice, siquid

et nos quod cures proprium fecisse, loquamur.

«Impara quello che sentenzia il tuo amichetto, che avrebbe bisogno lui,

ancora, di insegnamenti; è come se un cieco volesse mostrare la via:

bada, però, se anch’io non dico qualcosa che potresti avere interesse a far tuo».

L’aspetto didascalico si accentua nelle epistole del II libro e soprattutto nell’Ars poetica. La società augustea è anche una società di letterati e di amanti delle arti: i problemi di critica letteraria, di poetica e di politica culturale sono fra quelli di più viva attualità. Orazio interviene nel dibattito con l’autorità che gli è garantita da un sicuro prestigio e anche dal suo personale rapporto con il princeps. Anzi, è proprio Augusto l’interlocutore primario di questi discorsi sull’arte e la letteratura.

Per assicurare una più ampia base ideologica e culturale al difficile compromesso sociale del principato, Augusto vedeva con favore una produzione letteraria romana e popolare, ma l’Eneide aveva dato una risposta solo parziale alla richiesta da parte di Ottaviano di un poema epico-storico che interpretasse l’austera ideologia dei maiores e cantasse il destino imperiale di Roma.

Restava aperta (e urgente agli occhi del principe) la questione del teatro latino: la generosa ricompensa concessa al Tieste di Vario dimostra quanta importanza venisse annessa a una forma d’arte cui si accreditavano le più larghe possibilità di penetrazione ideologica, in quanto più capace di rappresentare valori e modelli culturali.

La questione del teatro è centrale nelle epistole letterarie di Orazio: nell’epistola ad Augusto (II 1) il poeta polemizza contro il favore indiscriminato nei confronti dei poeti del teatro arcaico. In una specie di disputa «degli antichi e dei moderni», Orazio si schiera decisamente dalla parte di questi ultimi, in nome del principio callimacheo dell’arte colta e raffinata. Egli resiste, su questo punto importante, alle preferenze di Augusto stesso e raccomanda soprattutto al princeps un’attenzione benevola per la poesia destinata alla lettura, l’unica che possa raggiungere, secondo lui, i livelli di eccellenza formale che la cultura e il prestigio stesso della Roma augustea richiedono necessariamente.

Orazio non mostra di nutrire fiducia in una vera rinascita del teatro, anche perché un pubblico meno selezionato e raffinato di quello cui si rivolge la letteratura scritta non sembra disposto ad apprezare una produzione drammatica di qualità e predilige invece il fasto spettacolare o le dozzinali buffonerie di mimi e acrobati.

L’Ars poetica (II 3) sembra tuttavia orientare la sua analisi dell’arte e della poesia sui problemi della letteratura drammatica (non solo la tragedia e la commedia, ma addirittura il dramma satiresco, della cui vitalità a Roma non è rimasta traccia). Questo dovrà essere messo in rapporto con il posto privilegiato che il dramma aveva nelle trattazioni di ascendenza peripatetica (a partire proprio dalla Poetica di Aristotele), a cui Orazio si riconnette direttamente, sebbene in modo personale. Non bisogna però pensare alla ricezione passiva di una fonte greca: dopo le perplessità e le resistenze espresse nell’epistola ad Augusto, Orazio accetta di offrire con l’Ars poetica il proprio contributo di teorico, se non di poeta militante, alla questione del teatro.

Egli comunque resta fedele nell’Ars ai suoi principi, predicando un’arte raffinata (v. 291: si raccomanda di perfezionare con il labor limae il proprio prodotto), paziente (vv. 388-389: è meglio tenere i propri scritti nel cassetto per nove anni, prima di renderli pubblici – un precetto già neoterico!), colta (v. 268: bisogna leggere e rileggere i grandi modelli greci), attenta (i principi fondamentali sono quelli della coerenza e della convenienza o decorum).

Nel quadro di queste riflessioni Orazio ha occasione tra l’altro di disegnare preziosi tracciati di storia della cultura e della letteratura sia greca sia romana, nonché di aprire interessanti squarci sulla “vita quotidiana” del letterato romano e dei circoli letterari dell’Urbe (II 2).

Malgrado le somiglianze tra Epistole e Satire, già i commentatori antichi sentirono l’esigenza di distinguere la nuova raccolta da quella satirica: sembrano diverse solo in questo, che ora Orazio parla ad assenti, mentre là, nelle Satire, è come se parlasse sempre a gente che sta davanti a lui. La specifica identità delle Epistole è anzitutto assicurata proprio dalla forma epistolare: tutti i componimenti hanno un destinatario e della lettera vengono spesso esibiti i segnali caratteristici (le formule di saluto e di commiato).

Oltre al rapporto con le Satire, si discute anche del carattere “reale” di queste lettere: nessuno crede naturalmente a una vera e propria funzione privata, ma non si può neppure escludere che singole lettere, pur pensate come opera di letteratura e destinate al pubblico dei lettori, siano state di volta in volta inviate, come omaggio letterario, ai rispettivi destinatari.

A ogni modo, la componente epistolare assicura al sermo oraziano una intonazione più personale, nonché la varietà di modi e atteggiamenti che è richiesta dall’attenzione nei confronti del destinatario.

Dal punto di vista formale, le Epistole erano quasi certamente una novità: in quello che è rimasto (o di cui si ha notizia precisa) della letteratura greca e latina, non c’è niente di davvero simile. Si sa di epistole in versi (ce n’erano, per esempio, nelle satire di Lucilio e sono dichiaratamente lettere alcune poesie di Catullo, come il Carmen 68), ma non trattavano temi filosofici; viceversa, erano ben note trattazioni filosofiche sotto forma epistoalre (basti pensare alle lettere di Platone e più ancora a quelle di Epicuro ai suoi discepoli), ma in prosa.

Una raccolta sistematica di lettere in versi come quella di Orazio è probabilmente sperimentazione originale, tanto più che in questo caso il poeta non si richiama ad alcun primus inventor del genere, come invece fa altre volte.

Ma le novità delle Epistole e la loro differenza rispetto alle Satire sono ben visibili soprattutto a livello di contenuti: manca, per esempio, alle Epistole quell’aggressività comica che, ancora per Orazio, era la marca evidente del genere satirico. La riflessione morale non procede ora attraverso una osservazione critica della società contemporanea: sembra prendere coscienza sempre più netta delle proprie debolezze e contraddizioni; l’equilibrio fra αὐτάρκεια e μετριότης, su cui si reggeva la possibilità stessa della satira, appare ormai irrecuperabile, e non si intravede nessun equilibrio diverso.

Cornelia, la madre dei Gracchi

Cornelia, nata intorno al 190 a.C., era la minore delle due figlie di Publio Cornelio Scipione Africano Maggiore (coss. 205; 194) e di Emilia Terzia. Dopo la morte del padre nel 184, verso il 176/5 ella fu data in sposa a Tiberio Sempronio Gracco (cos. 177), parecchio più anziano di lei (Polyb. XXXI 27, 1; Plut. Ti. Gr. 4, 3; contra Liv. XXXVIII 57). Il padre, morendo, aveva lasciato a lei e alla sorella una dote di cinquanta talenti a testa (Polyb. ibid.; contra Sen. cons. ad Helv. 12, 6; nat. quaes. I 17, 8). Dall’unione con Gracco Cornelia ebbe dodici figli, maschi e femmine (Plin. NH VII 11, 13), dei quali solo tre sopravvissero oltre l’infanzia: Tiberio, Gaio (CIL VI 10043) e Sempronia, che andò sposa a Scipione Emiliano.

Iscrizione onorifica a Cornelia, madre dei Gracchi (CIL VI 10043: Opus Tisicratis // Cornelia Africani f(ilia) / Gracchorum). Base di statua (cm 80 x 112 x 135), marmo, c. 123-100 a.C., da Roma, via S. Angelo in Peschiera. Roma, Musei Capitolini.

Moglie fecunda e pudica, rimasta vedova intorno al 153, Cornelia rifiutò di passare a nuove nozze, sebbene fra i pretendenti ci fosse perfino il futuro re d’Egitto, Tolemeo VIII Evergete (Plut. Tib. 1, 7), e si dedicò completamente all’educazione dei figli superstiti, che fece istruire dai migliori maestri greci (Plut. Gai. 19, 1-3; Sen. cons. ad Helv. 16, 6; ad Marc. 16, 3). Cornelia era una donna raffinata e particolarmente colta, interessata all’arte e assai affabile (Cic. Brut. 211; Quint. I 1, 6; Plut. Gai. 13, 1; 19, 1-3).

È assai celebre l’aneddoto (Val. Max. IV 4) della matrona campana che mostrava i propri gioielli a Cornelia, la quale, traendo a lungo la conversazione, attese che i figli tornassero dal maestro ed esclamò: “Haec ornamenta sunt mea!”.

Elizabeth Jane Gardner Bouguereau, Cornelia e i suoi gioielli. Olio su tela, 1870.

Da certa tradizione storiografica sembra che Cornelia abbia assecondato e addirittura pubblicamente sostenuto i progetti e le azioni politiche dei figli tribuni, dei quali morti parlava con sereno orgoglio materno (Plut. Tib. 8, 4; Gai. 4, 1-3; 13, 2; Diod. Sic. XXXIV 25, 2). Altre fonti, invece, parlano di un’influenza moderatrice, addirittura di netto rifiuto verso alcune iniziative di Gaio (Plut. Gai. 13, 2). Questo atteggiamento sarebbe testimoniata da due frammenti di lettere, attribuite a Cornelia, riportati da Cornelio Nepote (F 1-2): nei messaggi la donna avrebbe tentato di dissuadere il figlio più giovane dal riprendere i propositi del fratello nei modi estremi che stava intraprendendo. Sulla genuinità dei frammenti, tuttavia, sono stati giustamente sollevati dei dubbi.

Dopo l’assassinio di Tiberio, la donna si ritirò a Misenum, dove visse con grande indipendenza rispetto alla società del tempo, circondata da amici e letterati, ossequiata persino da re. Non è noto quando sia scomparsa, ma in suo onore le sarebbe stata eretta una statua con iscrizione nella porticus Metelli.

Jules Cavelier, Cornelia, madre dei Gracchi. Gruppo scultoreo, marmo, 1855. Paris, Musée d’Orsay.

Le fonti antiche sono unanimi nel considerare Cornelia come matrona romana dallo stile di vita esemplare (Tac. Dial. 28, 1-3; Val. Max. IV 4). L’ideale della virtù muliebre incarnato dalla madre dei Gracchi ha attraversato i secoli e rappresenta significativamente un modello di comportamento da imitare persino in età tardoantica e nel Medioevo. Girolamo riutilizzò anacronisticamente l’esempio di Cornelia per il gruppo di donne dell’aristocrazia senatoria cui intendeva proporre il valore della verginità e della vedovanza perpetua (Hier. Iovin. I 49; ep. 54, 5; Soph. prol.).

Dante menzionerà ben due volte «Corniglia» nella Commedia: in If. IV 127-129, ella compare fra quattro figure emblematiche della virtù romana e tra gli «spiriti magni» che popolano il «nobile castello» del Limbo; in Pd. XV 127-129, l’anima di Cacciaguida sostiene che una donna dagli illibati costumi come «Corniglia» avrebbe destato un certo stupore nella Firenze contemporanea a Dante, ormai moralmente corrotta e politicamente disonesta.

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Omero, il primo aedo

I due più celebri poemi epici del mondo antico, l’Iliade e l’Odissea, appaiono indissolubilmente legati al nome di Omero. Ma gli antichi, in realtà, non sapevano niente di questo personaggio. Infatti, la grande quantità di dati biografici e di aneddoti esistenti su di lui, sottoposta a un più attento esame, si è rivelata per lo più frutto di fantasia. Tali dati, volti ad appagare la curiosità del pubblico nei confronti di un poeta così famoso, si trasmisero nel tempo senza subire sostanziali alterazioni; ma la loro scarsa attendibilità è dimostrata dal fatto che biografie omeriche relativamente recenti, come la Vita falsamente attribuita a Erodoto, o il racconto di una gara poetica che sarebbe avvenuta fra Omero ed Esiodo, hanno utilizzato materiale più antico, risalente almeno al VI secolo a.C. senza apportarvi cambiamenti.

Perfino il nome del poeta era oggetto di interpretazioni diverse: appellandosi alla tradizione che faceva di lui un cantore cieco e girovago – infatti, in età arcaica, la condizione di cecità conferiva a un aedo un’aura sacrale, per il fatto che si attribuiva ai non vedenti capacità profetiche, una forma di conoscenza superiore – il suo nome fu fatto derivare dall’espressione ὁ μὴ ὁρῶν, «colui che non vede», mentre il reale significato di ὅμηρος è «ostaggio», parola che non contiene nessun riferimento né all’attività poetica né alla cecità, sebbene quest’ultima caratteristica fosse considerata tipica, appunto, dei cantori e dei veggenti; ne è un esempio, nell’Odissea, proprio Demòdoco, l’aedo che vive alla corte di Alcinoo, re dei Feaci.

William-Adolphe Bouguereau, Omero e la sua guida. Olio su tela, 1874. Milwaukee, Art Museum.

Studi più recenti hanno ricollegato il nome del poeta al verbo ὀμηρεῖν, «incontrarsi», «andare insieme», alludendo così al carattere agonale della poesia epica, che prevedeva, in particolari solennità, l’incontro di cantori provenienti da varie parti dell’Ellade, per gareggiar fra loro. Tale ipotesi troverebbe conferma in un appellativo di Zeus, Ἁμάριος, così chiamato in quanto protettore di Hamarion, una località dell’Acaia in cui avvenivano le riunioni federali di tutti gli Achei, in occasione di grandi festività religiose.

Pertanto, agli antichi fu ignoto il vero nome di Omero e ignota anche la patria; secondo un celebre epigramma dell’Anthologia Palatina (XVI 295-298), raccolta composta probabilmente nell’XI secolo d.C., ben sette città – Smirne, Chio, Colofone, Itaca, Pilo, Argo e Atene – si contendevano l’onore di aver dato i natali al famoso poeta; ma anche l’accostamento dei nomi risulta però del tutto arbitrario e solo quelli di Smirne e di Chio sembrerebbero offrire una qualche attendibilità: Smirne era infatti colonia degli Eoli, ai quali si sovrapposero poi popoli di stirpe ionica; e ciò spiegherebbe il linguaggio usato nei poemi epici, di base ionica, ma arricchito di molti eolismi; a Chio, invece, esisteva una corporazione di rapsodi a ordinamento gentilizio, gli Omeridi (Ὁμηρίδαι), che si vantavano di discendere direttamente dal poeta; ma la validità di questa affermazione si fonda sulla fragile base rappresentata dalle parole dell’Inno ad Apollo (v. 172), attribuito a Omero, il cui compositore (in realtà, sconosciuto) si definiva «il cieco che abita nella rocciosa Chio» (τυφλὸς ἀνήρ, οἰκεῖ δὲ Χίῳ ἔνι παιπαλοέσσῃ).

Anche le Vite di Omero (ben sette, tutte di età post-classica, fra quelle anonime e quelle attribuite a un preciso autore) non forniscono alcun dato attendibile; si tratta di racconti favolosi, che presentano situazioni assai lontane dai dati che si possono ricavare dai poemi stessi. Nell’Iliade e nell’Odissea, infatti, l’aedo frequenta ambienti aristocratici o addirittura vive nella reggia, mentre le Vite pongono di fronte alla ben diversa figura di un poeta di umili origini, che vive ed esercita la sua arte in mezzo al popolo, in un contesto sociale in cui gli antichi palazzi regali, di cui il cantore era ospite rispettato e gradito, non sono più che un remoto ricordo. Altrettanto incerta è la cronologia che riguarda Omero: le oscillazioni sono talora di centinaia d’anni, dal periodo della guerra di Troia, intorno al 1184 a.C., a molto prima, intorno al 1250, fino a quattro secoli dopo. L’unico dato attendibile potrebbe essere quello fornito da Erodoto (II 53), secondo cui Omero sarebbe vissuto circa quattrocento anni prima dello storico, cioè verso l’850 a.C. e sarebbe stato contemporaneo di Esiodo.

Omero. Statua, marmo, c. II secolo a.C. dalla Villa dei Papiri, Ercolano. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

La «questione omerica»

Nonostante l’incertezza della sua figura storica, per gli antichi Omero rimase pur sempre un personaggio reale, oggetto della più profonda venerazione o, molto più raramente, di polemica. Quest’ultimo atteggiamento fu proprio dell’età ellenistica, quando Callimaco di Cirene (315/10-244 a.C.) e i suoi seguaci contrapposero una poesia di breve estensione e di grande accuratezza formale alla vasta mole del «poema uno e continuo, di molte migliaia di versi».

I poemi omerici si collocano a cavallo tra oralità e scrittura: da un lato, essi sono il prodotto di una lunga e stratificata produzione orale, durante la quale intere generazioni di aedi elaborarono il materiale narrativo; dall’altro, mostrano i caratteri di un’elaborazione unitaria, che presuppone l’utilizzo di materiale scritto.

Secondo la tradizione classica, il passaggio probabilmente decisivo per la redazione dei poemi omerici fu costituito dall’edizione voluta da Ipparco, figlio di Pisistrato e tiranno di Atene, alla fine del VI secolo a.C.. In occasione dei festival poetici che si svolgevano all’interno delle Panatenee (luglio-agosto, in onore di Atena), i cantori che volevano esibirsi dovevano attenersi alla redazione ufficiale. Il controllo esercitato dal potere politico confermerebbe così la funzione educativa riconosciuta alla poesia epica e l’influenza che la performance dei cantori aveva sulla mentalità collettiva.

Ma le vere e proprie edizioni critiche dei due poemi si ebbero solo a partire dal III secolo a.C. per opera dei filologi alessandrini, che lavoravano nell’ambito di istituzioni culturali come la Biblioteca e il Museo, sorte ad Alessandria d’Egitto per volontà dei sovrani della dinastia Tolemaica. Fra questi studiosi si possono ricordare Zenodoto di Efeso (330-260 a.C.), Aristofane di Bisanzio (257-180 a.C.) e Aristarco di Samotracia (216-144 a.C.), che operarono in un arco di tempo compreso fra il 300 e il 150 a.C. Costoro suddivisero Iliade e Odissea in ventiquattro libri ciascuno, tanti quanti erano le lettere del nuovo alfabeto attico, usando le maiuscole per il primo e le minuscole per il secondo. Il lavoro di questi studiosi fu rigorosamente conservatore, tanto da mantenere nel testo anche parti di dubbia autenticità, che contrassegnarono tuttavia con un segno grafico speciale, l’ὀβελός, «spiedo» (÷).

Benemeriti per la conservazione del testo omerico, i filologi alessandrini contribuirono però a distruggerne definitivamente il carattere originario di poesia destinata alla recitazione. Questa contraddizione fu notata già in età antica, tanto che Cicerone (De oratore III 137) espresse un giudizio favorevole nei confronti della redazione pisistratea, mentre a Giuseppe Flavio (Adv. Apion. I 12) la stesura scritta apparve in contrasto con l’intenzione originaria del poeta, che aveva concepito la propria opera come una serie di canti destinati alla trasmissione orale. Dalla coesistenza di questi due elementi, redazione pisistratea e composizione orale, oltre che dall’incertezza dei dati sulla stesura e sull’autore dei due poemi, nacque e si sviluppò nel tempo la cosiddetta «questione omerica», che rimane, malgrado l’opera di molti studiosi, un problema tuttora insoluto.

Senza addentrarsi troppo nei meandri dell’omerologia, si riassumeranno le linee essenziali di sviluppo della vexata quaestio. In età antica il problema fu affrontato nel III secolo a.C. da due grammatici, Xenone ed Ellanico, detti poi χωρίζοντες («separatisti»), perché attribuirono l’Iliade a Omero e l’Odissea a un aedo più tardo, fondandosi solo sull’analisi interna dei poemi e sulle differenze di contenuto e di stile. Per gli stessi motivi, nel I secolo d.C. l’anonimo autore del trattato Sul sublime propose, con una certa ingenuità, di attribuire l’Iliade all’età giovanile del poeta e l’Odissea alla sua tarda maturità.

Più di mille anni dopo, e precisamente nella seconda metà de XVII secolo, François Hédelin (1604-1676), abate d’Aubignac, in un suo scritto, le Conjectures académiques ou Dissertation sur l’Iliade, pubblicato soltanto nel 1715, sostenne una tesi che fu fin da subito considerata clamorosamente innovativa e rivoluzionaria: Omero non era mai esistito e, poiché in quell’epoca (che egli però non determinò) non esisteva ancora la scrittura, l’Iliade non sarebbe stata altro che una raccolta di canti composti in momenti diversi, riuniti poi nella redazione scritta attribuita a Pisistrato.

Rembrandt van Rijn, Omero. Olio su tela, 1663. Den Haag, Mauritshuis.

A distanza di circa trent’anni, nel 1744, il filosofo italiano Giambattista Vico (1668-1744) dedicò alla questione omerica il III capitolo dei suoi Principii di una Scienza nuova. In esso, sotto il programmatico titolo di Discoverta del vero Omero, negava anch’egli consistenza storica alla figura del celebre poeta, sostenendo che le opere a lui attribuite dovevano essere considerate solo espressione del patrimonio collettivo dei ricordi del popolo greco «nel suo tempo favoloso». Questo aspetto gli appariva più evidente nell’Iliade, mentre l’Odissea era da considerarsi espressione di una civiltà meno antica.

In tempi più recenti, la «critica antiunitaria» trasse origine dagli studi del filologo tedesco Friedrich August Wolf (1759-1824), il quale approfondì gli spunti offerti dai suoi predecessori e, con un’accurata analisi testuale dei due poemi, giunse nei suoi Prolegomena ad Homerum, pubblicati nel 1795, a conclusioni simili a quelle del D’Aubignac. Wolf illustrò con chiarezza di argomentazioni l’impossibilità che i testi omerici fossero opera di un solo poeta e sostenne, al contrario, che canti separati, recitati da aedi, fossero stati definitivamente fissati e riuniti nel VI secolo a.C. Queste teorie ebbero diffusione e fortuna nel corso dell’Ottocento e altri studiosi condivisero l’idea dell’esistenza di un vasto e antico materiale trasmesso oralmente, al quale avrebbero attinto i compositori dell’Iliade e dell’Odissea. In base a tale convinzione, ebbe quindi origine la cosiddetta «teoria del nucleo ampliato», secondo cui la matrice dell’Iliade sarebbe stato un canto dedicato alla contesa fra Achille e Agamennone, mentre l’Odissea si sarebbe sviluppata dal racconto del lungo e travagliato ritorno di Odisseo: entrambi sarebbero stati ampliati nel corso dei secoli dall’opera di generazioni di rapsodi, fino a raggiungere l’ampiezza attuale.

Un altro studioso tedesco, Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff (1848-1931), avanzò l’ipotesi dell’esistenza di un poeta di lingua ionica, unico autore del nucleo fondamentale dell’Iliade; la sua opera, databile all’VIII secolo a.C., sarebbe stata poi ampliata da altri.

Il primo quarto del Novecento fu caratterizzato da una vivace ripresa delle teorie unitaristiche, secondo le quali non vi sarebbe stato che un solo autore per entrambi i poemi; tuttavia, tali conclusioni appaiono sostenute più da un’entusiastica ammirazione per Omero che da un’attenta analisi critica dei testi, condotta con metodi rigorosi e scientifici.

Una svolta decisiva negli studi omerici arrivò solo nei primi decenni del XX secolo, grazie alle ricerche dell’americano Milman Parry (1902-1935). Attraverso il contributo dato dagli studi di comparatistica e di antropologia culturale sulle modalità di comunicazione orale delle civiltà tribali, e analizzando il linguaggio dell’Iliade, riuscì a dimostrare che l’unità compositiva di base della poesia epica non fosse la singola parola (come sarebbe avvenuto per una civiltà fondata sulla scrittura), bensì gli elementi formulari: la ripetizione di parole o frasi che compaiono molte volte, come epiteti umani e divini, inizio e conclusione di discorsi, modi di interpellare e di rispondere, indicazioni temporali, formule di transizione del discorso.

La tesi di Parry, secondo il quale Omero era un cantore di oral poetry, ebbe il pregio di allargare l’indagine dalla filologia all’antropologia, in quanto egli cercò sostegno alle proprie teorie confrontando l’ἔπος greco con le composizioni di cantori popolari, numerosi e attivi fino alla prima metà del Novecento soprattutto nell’Europa orientale.

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L’Historia Augusta

L’Historia Augusta, secondo il filologo svizzero Isaac Casaubon (1559-1614), o Vita diversorum principum et tyrannorum, secondo il titolo tràdito dai manoscritti, è una raccolta di trenta biografie di imperatori dal II al III secolo, da Adriano a Numeriano (117-284), con lacune per gli anni 244-260. L’opera non comprende solo i profili degli Augusti, ma anche quelle che gli studiosi hanno definito «vite sussidiarie», brevi biografie o di eredi designati o di usurpatori (tyranni): una serie di notizie che rende l’Historia Augusta un testo di importanza fondamentale per le attuali conoscenze del periodo fra il II e il III secolo, su cui scarso è l’apporto di altre fonti. In effetti, si tratta di una delle opere tra le più curiose della tarda antichità tanto per il suo carattere di enigma letterario quanto per il suo peculiare contenuto, che mescola spudoratamente verità e invenzione.

Un letterato nel suo studio. Rilievo, marmo, III-IV sec. d.C. Roma, Museo della Civiltà romana.

L’Historia Augusta presenta, infatti, una serie di problemi assai intricati, in modo particolare in merito ad attribuzione e a datazione, tutte questioni che secoli di dibattito critico non hanno risolto e che ancora giacciono sostanzialmente aperte (Johne 1976). Per quanto riguarda la datazione, nel suo insieme la raccolta si presenta composta tra la fine del III e gli inizi del IV secolo, se non altro per la serie di dediche e apostrofi rivolte in più luoghi a imperatori da Diocleziano a Costantino (cfr. S.H.A. Clod. 1, 1; 3, 1; Aurel. 44, 5). L’altra vexata quaestio filologica riguarda la paternità della raccolta, perché le varie biografie figurano scritte da sei distinti autori, non altrimenti noti: Elio Sparziano, Giulio Capitolino, Volcacio Gallicano, Trebellio Pollione, Elio Lampridio, Flavio Vopisco. Non pochi indizi hanno fatto supporre che la redazione appartenga a un’età successiva, in quanto i presunti biografi rivelano conoscenze inconciliabili con l’epoca alla quale dichiarano di appartenere. Per questo e per altre contraddizioni, si è fatta strada nel tempo l’ipotesi che i sei nomi siano del tutto fittizi e che l’opera sia stata composta in epoca più tarda, probabilmente da un unico autore, un falsario che grazie all’anonimato sperava di rendere più attraenti i suoi scritti. Altri hanno preferito un’ipotesi intermedia e cioè che qualcuno, nella seconda metà del IV secolo, abbia ripreso e rielaborato biografie originariamente redatte in età dioclezianea e costantiniana (Dessau 1889; contra Mommsen 1890; Lippold 1991; 1998). L’orientamento tradizionalista e anticristiano dell’opera ha fatto comunque propendere per una datazione agli anni di Giuliano (361-363) o ai primi anni d’impero di Teodosio (379-395), momenti in cui si ebbe una breve ma intensa ripresa pagana; altri ancora hanno pensato addirittura al V o al VI secolo (cfr. Baynes 1926; Hartke 1940; 1951; Straub 1963).

P. Licinio Egnazio Gallieno. Busto, marmo, 261 d.C. ca. Bruxelles, Musée Royal

Dal punto di vista ideologico, chi ha composto le biografie doveva essere di estrazione senatoria: infatti, gli imperatori sono valutati positivamente o negativamente in base alla loro condotta nei confronti del venerando consesso. Così, per esempio, Massimino Trace (235-238), che si oppose al latifondo e si batté contro l’evasione fiscale dell’élite senatoria africana, è raffigurato come una «belva crudelissima», brutale, ignorante e ingorda, solo muscoli e niente cervello; Gallieno (253-268), invece, che escluse i senatori dalla carriera militare, è presentato come un lussurioso, un uomo disonesto e incapace: «Regge lo Stato con la competenza dei bambini quando giocano a fare gli imperatori» (S.H.A. Gall. 10, 2). Diversamente, il filosenatorio Severo Alessandro (222-235) è descritto come un principe modello, idealizzato al punto che il suo profilo apparve ad Edward Gibbon una «goffa imitazione della Ciropedia». Al contrario, le biografie di Commodo, Caracalla, Elagabalo sono un vero e proprio «museo degli orrori».

Dal punto di vista stilistico, la narrazione è condotta in modo piano e monotono, «giornalistico» e sciattamente cronachistico. Sul piano contenutistico, l’opera è piena di incongruenze, esagerazioni macroscopiche su particolari secondari, che fanno perdere il punto di vista sui maggiori problemi storici; presenta molte profezie post eventum, fastidiosi pettegolezzi e notizie certamente false, al punto che qualcuno l’ha intesa come una parodia della storiografia ufficiale. Inclini alla curiosità aneddotica, queste biografie sono state considerate la degenerazione del modello svetoniano, al quale intendono riallacciarsi (forse sono andati perduti la prefazione e i ritratti di Nerva e di Traiano, che avrebbero continuato il De vita Caesarum; cfr. (S.H.A. Max. Balb. 4, 5; Prob. 2, 7; Quatt. tyr. 1, 1-2). Anche lo schema compositivo è lo stesso dei ritratti di Svetonio: esposizione cronologica fino all’assunzione del potere imperiale e, nella fase successiva, per categorie tematiche (per species).

C. Vibio Treboniano Gallo. Statua, bronzo, III sec. da Roma. New York, Metropolitan Museum of Art.

Fine prevalente dell’opera, a onta delle dichiarazioni di documentazione rigorosa (conscientia, fidelitas, diligentia), è l’intrattenimento del lettore, ma anche il suo ammaestramento morale, presentando modelli positivi da emulare e modelli negativi da evitare. D’altronde, in tutta la raccolta si avverte fortissima la tendenza all’inserimento, accanto a dati storici, di elementi di pura invenzione. Questo, tuttavia, non accade in maniera sistematica, ma in misura crescente a mano a mano che l’opera procede; le informazioni contenute nella prima serie di biografie (fino circa a quella di Caracalla), infatti, sono in larga parte accettabili, ma dalla vita di Macrino in poi iniziano a prendere il sopravvento gli elementi fantasiosi: riferimento a documenti falsi, personaggi totalmente inventati, notizie strampalate, il tutto narrato con un aplomb degno di un grande biografo.

Per esempio, Giulio Capitolino informa che i genitori di Massimino Trace si chiamavano, rispettivamente, Micca e Ababa. Sembrerebbe un’encomiabile completezza di informazione, se non fosse che non solo la notizia è palesemente inventata, ma per di più si tratta di una storpiatura delle parole che compongono la notizia dello storico greco Erodiano, che aveva definito l’imperatore un μιξοβάρβαρος, «mezzo barbaro» (Hdn. VI 8, 1): da qui il padre Micca e la madre Ababa. C’è poi una costante passione per i giochi di parole: Caracalla che si sarebbe potuto fregiare anche del titolo di Geticus Maximus, e non perché avesse trionfato sui Geti/Goti, ma perché aveva fatto assassinare il fratello Geta. Talvolta, all’interno delle singole biografie amplissimo spazio è concesso ai particolari più curiosi e insoliti, come mostra questo brano tratto dalla vita di Elagabalo, che si sofferma a lungo sulle sue assurde stravaganze: «Aveva anche l’abitudine di invitare a cena otto persone tutte calve, oppure otto persone strabiche, otto sofferenti di podagra o anche otto sordi, otto individui tutti di carnagione scura, oppure otto spilungoni o otto grassoni, divertendosi, nel caso di questi ultimi, a osservare gli equilibrismi cui dovevano ricorrere per prendere posto intorno alla tavola (S.H.A. Helag. 25, 1).

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