Considerazioni sull’arte greca

di R. Bianchi Bandinelli, s.v. “Arte greca“, in Enciclopedia dell’Arte Antica, 1960 [].

[…] All’arte greca compete una posizione eccezionale nella storia della cultura e dell’arte in generale, perché essa ha avuto a più riprese influenza determinante per lo sviluppo dell’arte europea, cioè, concretamente, dell’arte figurativa nel mondo moderno. Tale posizione eccezionale ha, tuttavia, sovente impedito l’esatta valutazione storica del suo sviluppo e del suo contenuto. L’arte europea ha ripreso e sviluppato per secoli le fondamentali caratteristiche per le quali l’arte greca si differenziò dalle altre civiltà artistiche dell’antichità: la scoperta della prospettiva, la esatta osservazione dell’anatomia al fine di una costruzione organica delle forme umane nello spazio e della formazione di un canone di proporzioni; nel disegno, la linea plastica (linea “funzionale”) che descrive e modella la forma anziché solo delimitarla; nella pittura, il colore tonale e il conseguente volume, che supera lo stadio del disegno colorato proprio a tutte le civiltà primitive.

«Dama di Auxerre». Statua, calcare, VII secolo a.C. Paris, Musée du Louvre.
«Dama di Auxerre». Statua, calcare, VII secolo a.C. Paris, Musée du Louvre.

L’arte greca, raggiungendo un eccezionale equilibrio tra intuizione, sentimento e razionalità, ha segnato un salto qualitativo di immensa portata nella conoscenza artistica dell’umanità: dalla barbarie alla cultura. L’arte figurativa, inconsapevole mezzo di liberazione dei sentimenti, di evocazione magica, di manifestazione di speranza nell’aiuto di forze misteriose, quale la scorgiamo presso i popoli primitivi, e anche nella Grecia primitiva, diviene, con la piena civiltà classica, una forza controllata, una espressione di affermazione dell’uomo nel mondo. Tale è, infatti, il suo contenuto, quale risulta dallo studio non tanto delle tarde e retoriche fonti letterarie, quanto della cultura coeva alle più grandi esperienze artistiche. È in tal modo che l’arte greca esprime, almeno sino a tutta l’età classica, il suo profondo contenuto etico: superando il contenuto magico della immagine primitiva, l’idolo diventa statua. Alla costruzione dell’immagine a blocchi sovrapposti, ancora seguita, da modelli orientali, nella prima età arcaica (statuetta di Auxerre, vd.) si sostituisce la connessione organica, funzionale, delle varie parti dell’immagine. La nostra indagine storica deve rendersi conto di questo e di come ciò sia avvenuto.

Tutte queste caratteristiche, che sono indubbiamente le più determinanti dell’arte greca, tendono a fermare nell’immagine artistica quanto più sia possibile di elementi vitali delle forme esistenti in natura. Con la vitalità guizzante delle sue forme l’arte greca si contrappone nettamente alla essenza impenetrabile delle opere dell’arte del vicino Oriente (mesopotamica ed egiziana). L’arte greca, e in ciò sta la sua grandezza e il suo rischio, è pertanto la più potentemente realistica fra le civiltà artistiche del mondo antico. Ma lo è anche rispetto a tutte quelle venute di poi nella civiltà occidentale, per la minore concessione che in essa si riscontra a tendenze simboliche o puramente ornamentali e formalistiche. L’arte greca fu celebrata dalla critica neoclassica come la più “ideale” e la più lontana da ogni verismo. Tale giudizio (a parte la distinzione da farsi tra verismo e realismo) era fondato su premesse teoriche legate a un particolare momento della cultura europea e anche, in parte, a un fondamentale equivoco su ciò che fosse in effetto arte greca, poiché le opere di statuaria allora note erano quasi esclusivamente copie di età romana e non originali greci. La polemica che è stata sollevata nell’arte moderna e contemporanea contro la pretesa sopravvalutazione dell’arte greca, in realtà era diretta contro la accennata interpretazione, e non risulta applicabile all’arte greca nei suoi effettivi valori.

Tra immagine artistica e realtà di natura non vi è un necessario rapporto di identità; generalmente l’immagine artistica è però una riduzione dell’immagine di natura, di per sé infinitamente più complessa, che può esser frutto di una sintesi dei suoi elementi espressivi principali (e perciò acquista una efficacia più intensa che non l’immagine di natura) o una semplificazione effettuata (specialmente nella scultura) sotto l’impulso di una prevalenza dell’interesse strutturale, architettonico, dell’immagine. Ma può essere nient’altro che una composizione di linee e di masse, ridotte a una specie di ideogramma, la cui originaria derivazione da una forma di natura è così lontana da non essere più avvertita dagli artefici che ripetono la composizione di forme schematiche. Queste hanno, per essi come per il loro pubblico, un valore assoluto, con un significato preciso, che non sarebbe più compreso, se la forma schematica venisse improvvisamente sostituita da un’altra, più naturalistica.

Mirone, Discobolo. Statua, copia romana in marmo da un originale bronzeo di V secolo a.C. Roma, Museo Nazionale Romano di P.zzo Massimo alle Terme.
Mirone, Discobolo. Statua, copia romana in marmo da un originale bronzeo di V secolo a.C. Roma, Museo Nazionale Romano di P.zzo Massimo alle Terme.

Esempi di questi tre diversi modi di esprimere la forma artistica (sintesi espressiva, semplificazione strutturale, schematizzazione astratta) si trovano in tutte le civiltà dell’antico Oriente. In esse, e particolarmente nella civiltà egiziana prima e in quella assira poi, si trovano anche rappresentazioni nelle quali ci si pone l’obiettivo di raggiungere la vivezza della forma di natura; ma si deve osservare che tale ricerca è limitata a determinati temi e a un determinato fine. I temi sono quelli, espressi in rilievo molto basso, equivalente a un disegno, e avvivati dal colore, che trattano soggetti narrativi: le imprese di guerra del sovrano, con il loro contorno di narrazioni collaterali, o le cacce del sovrano (specialmente in Assiria, a Ninive, sotto Assurbanipal attorno alla metà del VII sec. a. C.). E un fine perseguito è anche quello della facilità di lettura della narrazione; ma soprattutto della espressività dei singoli episodi. Il naturalismo della rappresentazione, spesso di sorprendente esattezza nelle figure di animali, ancora assai vivo nelle figure dei servi o del popolo minuto, si arresta dinanzi alla figura del sovrano e degli alti funzionari, le cui forme corporee tendono ad avere quella certa astrazione dalla realtà, quella genericità tipologica, che si trova inevitabilmente nelle figure delle divinità. Il realismo non esce, inoltre, dai temi narrativi ed esula quindi dalle sculture monumentali.

Ora è accaduto, invece, che i Greci vollero affrontare in pieno la traduzione della forma di natura in forma d’arte, senza limitazioni di temi o di situazioni, ivi compresa la figura della divinità: una prova terribile, perché dinanzi alla ricchezza infinita e alla complessità dell’immagine di natura, la forma artistica rischia di essere distrutta e ridotta a una trasposizione quasi meccanica, nella quale viene a mancare, insieme all’elemento di selezione espressiva, ogni partecipazione di sentimento e di razionalità, e quindi ogni qualità artistica. E d’altra parte il contenuto, il più elevato, rischia di venir banalizzato e abbassato a un valore contingente.

Perché i Greci affrontarono questa prova? Essa non è che un aspetto, coerente agli altri, della civiltà particolare che i Greci andarono costruendo, nella quale, a differenza di ogni altra civiltà precedente, per una lucidità logica che spinge alla indagine razionale della natura e che ha la sua radice nella particolare struttura della società greca, nella quale agirono a lungo le conseguenze della primitiva struttura tribale, l’uomo è posto a misura dell’universo, è posto al centro della vita sul mondo, con la sua facoltà di ragionamento come con le sue passioni, e quindi con il suo giudizio etico: conseguentemente anche con la sua forma reale. (Perciò noi possiamo parlare per la prima volta, per i Greci, di una concezione “umanistica” della vita, della cultura, della scienza, dell’arte). Nel mito, nella poesia altissima del dramma, i temi centrali non sono le imprese meravigliose di un dio o quelle quasi divine di un sovrano invincibile; ma sono le passioni umane, le lotte degli uomini contro le divinità avverse, nelle quali l’uomo viene distrutto, ma afferma la sua persona e la sua grandezza. Mito e arte sono l’espressione di una continua conquista della interiorità umana. Perciò la conquista della forma naturalistica nella sua pienezza e complessità va considerata la più alta che l’arte greca abbia compiuto.

Anche se a certo nostro evasivo gusto attuale le semplificazioni stilistiche dell’età arcaica, cariche di grande forza vitale e dominate da una squisita sensibilità epidermica, lineare e coloristica, possono apparire più congeniali e perciò più facilmente comprensibili, da una più matura considerazione critica va riconosciuto che l’età fra il 460 e il 430 a.C., che comprende la maturità dell’opera di Mirone, di Policleto e di Fidia e con quest’ultimo lo “stile partenonico” che a lui si collega, rappresenta il momento più alto raggiunto dalla scultura greca e dalla sua concezione rivoluzionaria della forma artistica, che affronta in pieno il realismo. Con ciò non si vuol affatto ridar valore alla antistorica concezione classicistica che vedeva in questo momento artistico il modello unico, dal quale non era lecito derogare senza condanna, della forma artistica in assoluto. Certo è che la conquista di questa forma fu decisiva per l’umanità, molto al di là del solo interesse in seno alla storia dell’arte.

Prima lezione di archeologia

di D. Mancorda, Prima lezione di archeologia, Roma-Bari 2012(6) pp. 3-40.

 

Documenti, oggetti, contesti: i fossili del comportamento umano

Quando nel parlare comune usiamo la parola «archeologico» ci figuriamo un oggetto, una situazione, un comportamento che attribuiamo a un passato lontano da noi nel tempo e nei sentimenti. Ma il passato ormai non coincide più con l’antico, anche se l’archeologia è nata innanzitutto come riconquista dell’antico, per poi diventare strumento di conoscenza in sé, castello di concetti e procedure che interrogano e portano a sintesi i più tradizionali e insieme i più nuovi sistemi di fonti.

Non esiste più un’età per l’archeologia e un’età per la storia. L’una e l’altra si occupano delle stesse epoche, delle stesse civiltà, curiose di tutto ciò che è stato in ogni epoca, anche ieri, anche oggi. La distinzione fra archeologia e storia riguarda fondamentalmente il tipo di documenti che sono oggetto di studio dell’archeologo e dello storico, e quindi i metodi che si applicano per ricavarne informazioni.

Un documento ci dà testimonianza volontaria o involontaria, diretta o indiretta, di una realtà, di un evento, di un’idea; può riguardare un semplice dettaglio o coinvolgere un’intera cultura, una mentalità, il gusto di un’epoca. Letteralmente in grado di insegnarci qualcosa, arricchisce il nostro sistema di sapere, mediante la parola, lo scritto, l’immagine, il gesto.

L’archeologo fa continuo uso di documenti, che si presentano alla sua attenzione in genere sotto forma di cose, cioè di manufatti (prodotti dal lavoro dell’uomo) e di ecofatti (risultato del rapporto che s’instaura tra natura e uomo). I manufatti acquistano talvolta le dimensioni di monumenti, ma il più delle volte si configurano come semplici reperti, cioè documenti ritrovati, […] che l’archeologia va a cercare nell’infinita estensione degli insediamenti umani. […]

Il reperto implica un’attività di reperimento: presuppone dunque un metodo di ricerca. Molti oggetti sono potenziali reperti, perché possono essere riscoperti, e molti reperti sono potenziali documenti, perché possono ampliare il nostro sistema di conoscenze. Ma per assurgere allo stato di documento il reperto esige un’attività di studio: richiede dunque un metodo di analisi. Ogni documento va a sua volta spiegato: richiede dunque un metodo di interpretazione, che dia senso al suo messaggio, esplicito o implicito. […]

Anche i monumenti e gli oggetti, anche i contesti sono come “libri”, elementi di comunicazione non verbale che hanno svolto un ruolo tutt’altro che secondario – e qualche volta esclusivo – nei contatti umani, tanto che gli archeologi da tempo ragionano come se esistesse un linguaggio dei reperti, peculiare ai diversi aspetti delle cose, che occorre innanzitutto riconoscerlo per trasferirlo in un linguaggio comprensibile. Il lavoro dell’archeologo è in questo senso assimilabile a quello di un traduttore, che deve conoscere le forme attraverso le quali le singole componenti della lingua su cui opera esprimono i loro significati. […]

Diciamo oggetti, ma meglio parleremo di contesti, cioè di quelle situazioni in cui uno o più oggetti o le tracce (materiali o immateriali) di una o più azioni si presentano in un sistema coerente nel quale le diverse componenti si collocano in un rapporto reciproco nello spazio e nel tempo sulla base di relazioni di carattere funzionale (e culturale). La comprensione di queste relazioni non è irrilevante o accessoria. […] Ogni componente di un contesto, dal più semplice al più complesso, ha un senso in sé e un senso acquisito, un valore aggiunto che è dettato dalle sue relazioni contestuali. Ogni componente può essere analizzata nelle caratteristiche che le sono proprie e al tempo stesso nelle relazioni che definiscono la sua funzione nel contesto cui appartiene.

L’archeologo opera, in genere, sulle stratificazioni, cioè su depositi tridimensionali che una quarta dimensione, il tempo, ordina secondo una sequenza stratigrafica che va ricostruita, distinguendo le componenti materiali e immateriali, che non per questo sono fisicamente e concettualmente meno significative. […] L’archeologia si occupa delle società passate e delle relazioni che queste hanno avuto tra di loro e con l’ambiente, a partire dai resti materiali, cioè dalle tracce che hanno lasciato di sé. Attraverso un processo di recupero, analisi ed interpretazione, queste tracce ci aiutano a ricostruire i modi di vita e la loro evoluzione nel tempo. […]

Scavi della missione archeologica tedesca a Olimpia, in Grecia (1875-1881).

 

I metodi: minimo comun denominatore

L’indagine sui resti materiali, sparsi nel territorio o custoditi negli archivi del sottosuolo, richiede un percorso scandito dalle tappe dell’individuazione, della raccolta, della descrizione de dell’organizzazione dei dati, che possono favorire il raggiungimento di un’interpretazione storicamente valida. Buona parte della storia dell’archeologia, dell’antiquaria rinascimentale a oggi, si è sviluppata attorno alle domande che orientano la ricerca e i metodi necessari per conseguire le risposte. Dalla madre di tutte le domande, cioè “Che cosa cerco?” a quella che ne rappresenta il principale corollario, ovvero “Come lo trovo?”; dalle procedure della raccolta, cioè “Come seleziono ciò che trovo? Come lo inserisco nel suo contesto? Come ne evito il degrado?” a quelle che ne guidano la descrizione e ne permettono un’organizzazione significativa: “Come distinguo ciò che trovo e come lo metto in condizione di essere confrontato?”.

Un ventaglio di metodi ci permette, attraverso procedure guidate da ragionamenti, di tradurre il linguaggio dei contesti a partire dai paesaggi che ci circondano per giungere fin dentro la costituzione molecolare della materia delle cose:

 

  • Il metodo della ricognizione topografica, cioè quell’insieme di procedure e di tecniche che, senza intaccare il terreno, registrano quantità e qualità delle tracce visibili in superficie e percepibili nel sottosuolo, ordinandole nel tempo e interpretandole sulla base dello studio culturale dei manufatti recuperati al suolo e delle analisi di carattere spaziale derivate in parte dalla geografia contemporanea;
  • Il metodo della stratigrafia, cioè la procedura di scavo che studia la stratificazione prodotta nel terreno dagli agenti umani e naturali, scomponendola nell’ordine inverso rispetto a quello in cui si era formata e recuperando il massimo di informazioni disposte in una sequenza che racconta una storia inizialmente calata nel tempo relativo e poi inserita nel tempo assoluto, sulla base dei dati culturali presenti nella sequenza e delle tecniche scientifiche di datazione;
  • Il metodo della tipologia, che analizza i manufatti nelle loro forme e funzioni, in base ai diversi attributi che li caratterizzano, disponendoli in serie cronologicamente significative, verificate costantemente nello scavo di nuove stratificazioni e nella redazione di seriazioni;
  • Il metodo dell’iconografia, che studia le forme figurate descrivendo le immagini e distinguendole a seconda delle caratteristiche proprie degli attributi di ciascuna di esse;
  • Il metodo stilistico, che analizza le forme dal punto di vista del modo, tecnico ed estetico, secondo il quale sono state realizzate;
  • I metodi delle scienze naturali, attraverso i quali si elaborano le classificazioni dei reperti botanici, zoologici e antropologici (ecofatti) o si analizzano le componenti geologiche dei manufatti come dei paesaggi;
  • I metodi archeometrici, che con indagini di natura prevalentemente fisica e chimica osservano la materia dal suo interno, attraverso misure e caratterizzazioni che individuano la presenza di resti nel sottosuolo, l’origine e l’età dei manufatti, le tecnologie mediante le quali la materia prima è stata trasformata e quelle necessarie per garantirne la conservazione.

 

Nel corso di una ricerca non ogni metodo porterà le risposte desiderate, né porterà risposte univoche; il percorso di indagine incontra frequentemente nel suo cammino un bivio di fronte al quale occorre cambiare metodo. In questo continuo passaggio – purché ogni metodo operi secondo la sua logica interna e le sue procedure e non si utilizzi un metodo per giustificare la carenza di un altro – è possibile avvicinarsi a una verità, che non sarà mai definitiva, ma che si misura nella sua capacità di aprire nuovi orizzonti e di dar vita a nuove domande, eliminando le risposte contraddittorie. Come le scienze della natura, a maggior ragione anche l’archeologia, che è una scienza dell’uomo, non pretende infatti di svelare la verità, ma «cerca disperatamente di argomentare con plausibilità crescente» (C. Bernardini).

Esempio di diagramma stratigrafico, o “Matrix di Herris”.

Il ragionamento interpretativo in archeologia progredisce spesso per esclusioni, mettendo in dubbio e alla fine scartando l’ipotesi appena fatta o l’ipotesi antica, che abbia assunto un’aura di verità. È questo scarto continuo, in seguito a verifica negativa, delle ipotesi via via formulate che restringe il campo di quelle possibili e ci avvicina a una realtà che sarà comunque sempre arduo raggiungere, sia perché oggettivamente celata nel linguaggio degli oggetti sia perché velata dall’inevitabile filtro culturale frapposto dall’opinione del ricercatore.

Il momento dell’osservazione costituisce una fase descrittiva della ricerca, che viene talora riassunta sotto il nome di archeografia, intesa come una tappa posta in sequenza con quella della archeometria, in cui i dati vengono misurati, e dell’archeologia, che raggiunge l’obiettivo della loro interpretazione. È evidente che si tratta solo di una sequenza logica, dal momento che dal punto di vista operativo l’indagine prevede un continuo ritorno critico ai suoi diversi stati di avanzamento.

È pur vero che la pratica della descrizione viene a volte sentita come il momento principale del lavoro dell’archeologo, quasi a identificarsi con esso, in una visione limitativa dell’archeologia che lascia ad altre competenze la ricerca della sintesi interpretativa. Di qui pagine e pagine analiticamente mirate a descrivere nelle loro minuzie i dettagli di manufatti che possono spesso esser meglio affidati alla chiarezza del disegno scientifico o di codificazioni condivise. Ma occorre tenere presente che nessuna descrizione scientifica può fare a meno di un protocollo prestabilito, che detti le regole secondo le quali si pratica la descrizione e si istituiscono i confronti che ne derivano: descrizioni e confronti resi possibili da una selezione degli elementi che l’archeologo ritiene di volta in volta significativi al fine dell’organizzazione del materiale che sta studiando. Sono scelte tutt’altro che scontate, poiché la realtà può essere legittimamente osservata sotto diversi punti di vista; delicate, perché i principi secondo cui si descrive la realtà sono stabiliti in base agli obiettivi che si intende raggiungere; e decisive, perché nessuna interpretazione potrà mai fondarsi su valutazioni impressionistiche e occasionali che non facciano riferimento a un corpo organizzato di categorie descrittive, tanto più necessario quanto più oggi l’archeologia usa e sviluppa le tecnologie informatiche. […]

 

«Kórē di Nikandre». Statua, marmo, 650 a.C. ca. dal santuario di Artemide Delia. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

Archeologia e antiquaria: alla ricerca della totalità

Il termine “archeologia storica” viene oggi usato più correttamente che nel passato, per indicare lo studio archeologico di quelle civiltà che hanno lasciato di sé anche più o meno cospicue testimonianze scritte. In quella definizione rientra dunque anche l’antichità classica. Ma l’archeologia classica non nasce dalla storia, bensì dall’antiquaria e dalla storia dell’arte. È la più antica delle archeologie, e quella che più ha risentito dei cambiamenti e ha dovuto ripensare la propria definizione.

Gli storici antichi non ignoravano l’uso, sia pur episodico, delle testimonianze archeologiche: è notissimo il ragionamento di Tucidide (Storie, I 8, 1) che, analizzando le antiche tombe di Delo con criteri tipologici e comparativi, ricostruiva la più antica storia di quell’isola muovendosi a tutti gli effetti su un piano archeologico, in sintonia con l’impostazione generale della sua opera storica, attento a trarre spunti di conoscenza da tekmḗria e sēmeía, noi diremmo da indizi, tracce, segni.

Tucidide non usa comunque mai il termine archaiología, che incontriamo per la prima volta in un dialogo di Platone (Ippia maggiore, 285d), per indicare – non senza una sfumatura ironica – le genealogie degli eroi e della loro discendenza umana, le storie relative alle antiche fondazioni di città, insomma «ogni racconto che riguarda il passato remoto». L’archeologo era dunque un esperto di storia antica e di cose antichissime, tanto che il nome passò a indicare gli attori specializzati nelle parodie di Omero e dei suoi eroi.

La strada seguita da chi scriveva di storia nel mondo antico e medievale fu tuttavia assai diversa da quella intravista da Tucidide: era infatti del tutto naturale la convinzione che la storia si fondasse sui testi. I primi antiquari, che alle soglie del Rinascimento gettavano le fondamenta di una nuova scienza degli oggetti antichi, non erano mossi da temi storiografici precisi. Le loro osservazioni partivano sì dalla raccolta di manufatti e dalla descrizione di monumenti, ma si limitavano a forme di catalogazione poco sistematiche. Le testimonianze materiali, quando investivano una tematica storica, venivano comunque subordinate a quelle scritte. Nei monumenti si cercavano i modelli cui ispirare la nuova arte rinascimentale oppure, con qualche scorciatoia, si cercava l’illustrazione delle opere descritte dagli autori antichi, tentando di identificare nel territorio i siti e i monumenti di cui era rimasta memoria scritta nel naufragio della letteratura antica. Non appariva evidente che i resti materiali potessero schiudere nuovi orizzonti del sapere.

La ricerca storica – in particolare quella sulle origini dell’umanità – si trovava peraltro bloccata da una fede acritica nell’Antico Testamento. Era comunemente accettata l’idea che il primo uomo fosse stato creato da Dio nel giardino dell’Eden, da dove l’umanità si sarebbe poi sparsa nel mondo, dopo il Diluvio, e ancora dopo la distruzione divina della Torre di Babele. Questi avvenimenti venivano fatti risalire a poche migliaia di anni prima. […] Questa prospettiva del tempo storico così schiacciata non favoriva lo studio dei resti materiali di un passato che non si percepiva come remoto. La tradizione giudaico-cristiana, calata nel tempo biblico, si sentiva partecipe di una storia ancora in atto, che non coglieva le differenze culturali prodotte dal divenire storico. La fede nel mito bollava come blasfema, o addirittura eretica, ogni sia pur timida ipotesi sull’esistenza di un mondo preadamitico e l’oscurantismo religioso fungeva come un macigno che solo l’Ottocento sarebbe riuscito a scrollarsi faticosamente di dosso.

L’antiquaria prese comunque, col tempo, maggiore coscienza dell’originalità del suo approccio alle fonti materiali dell’antichità. I manufatti conquistavano una posizione via via più autonoma nei confronti dei testi, e addirittura un certo qual primato. […] Il termine “archeologia” fu introdotto da Jacques Spon, un antiquario di religione protestante costretto all’esilio dalla Francia del Re Sole. «È mia opinione – scriveva – che gli oggetti antichi non siano altro che libri, le cui pagine di pietra e di marmo sono state scritte con il ferro e lo scalpello». L’archeologo doveva andare in cerca di quel tipo di testo, diversi da quelli tramandati dai codici, per “leggerli” e “tradurli”. La grande antiquaria del XVII e del XVIII secolo comincerà così a porsi le prime domande su alcuni dei metodi dell’archeologia, quali la perlustrazione del terreno e la ricerca del confronto fra le forme delle cose e le immagini, creando così le premesse per il suo stesso superamento, da forme di conoscenza rivolta agli oggetti e agli edifici in sé a studio delle loro relazioni contestuali e delle loro trasformazioni nel tempo. L’antiquario – come suggerisce A. Carandini – «coglie l’intreccio fra arte e vita […] il suo atteggiamento verso l’antichità è un amore spontaneo, intuitivo, senza sistema. La totalità è un presupposto per lui e non un risultato da raggiungere con pena». Ciononostante, studia i monumenti attraverso rilievi e descrizioni, valuta le condizioni in cui sono giunti i resti materiali del passato, tenta collegamenti tra fonti scritte e fonti materiali: topografia, storia dell’arte, epigrafia si sviluppano come campi di ricerca attigui, dove si instaura un dialogo sempre meno subordinato tra monumenti e testi. In particolare la numismatica svolse un ruolo di scienza “pilota”, applicata a oggetti ricchi di informazioni sia testuali che figurate, le cui caratteristiche materiali si prestavano anche a classificazioni e ordinamenti. Si favorivano così i primi passi della tipologia, che trovava una sponda anche nei metodi delle scienze storiche, come quello paleografico, che già all’inizio del XVIII secolo cominciò a essere usato come strumento capace di ordinare nel tempo i cambiamenti della scrittura, intesi come riflesso dell’evoluzione culturale.

Leon Cogniet, Ritratto di Jean-François Champollion. Olio su tela, 1831.

 

Un triangolo virtuoso: tipologia, tecnologia, stratigrafia 

Il passaggio storico dal Settecento all’Ottocento ha segnato il punto di svolta per la nascita dell’archeologia moderna, quando la crescita degli studi preistorici (stimolata dall’assenza della tradizione scritta e dallo sviluppo delle scienze naturali) pose, quasi paradossalmente, le basi per il riconoscimento delle finalità storiche dell’indagine archeologica. Dal miglior frutto dell’eredità antiquaria nacque allora quel triangolo virtuoso che ancor oggi sostiene l’impalcatura dell’archeologia. Un triangolo che attraverso l’analisi tipologica, tecnologica e stratigrafica supporta e guida l’interpretazione di oggetti e contesti, sulla base anche delle condizioni del loro seppellimento e del loro recupero attraverso lo scavo, che, da mero strumento di estrazione acritica di vestigia dal suolo, è divenuto il pilastro della costruzione della fonte archeologica. Già nel XVIII secolo il conte di Caylus aveva sviluppato un metodo di classificazione dei materiali antichi che consentiva di disporli in un ordine cronologico a partire dalle loro caratteristiche intrinseche e aveva teorizzato la “pratica del confronto” […]. È tuttavia negli anni della Restaurazione che si verifica la svolta. La prima cattedra di Archeologia, classica e preistorica, fu creata in Olanda all’Università di Leida nel 1818; la prima cattedra di Archeologia classica fu istituita a Berlino nel 1823. In quegli stessi anni Champollion apriva le porte all’orientalistica con la sua fantastica decifrazione della scrittura geroglifica egizia (1822-1824). Ma è nel mondo scandinavo che si sviluppa un approccio ai materiali che permette di uscire da quel «cumulo di dati incoerenti» (D.L. Clarke) che aveva sino ad allora tarpato le ali del lavoro antiquario per costruire uno schema interpretativo capace di instaurare confronti validi che fossero al tempo stesso di carattere sia tipologico che tecnologico. Classificando la collezione di antichità danesi del Museo di Copenaghen, Christian Jürgensen Thomsen divise i manufatti in diverse categorie e forme (asce, coltelli, fibule, collane, vasi…) raggruppandoli a seconda del materiale di cui erano fatti e valorizzando al massimo le associazioni di quegli oggetti che, per essere stati rinvenuti in una stessa tomba o ripostiglio, si poteva presumere che fossero coevi o almeno che fossero stati sepolti nello stesso momento. Quando nel 1819 le sale del museo furono aperte al pubblico prese corpo per la prima volta quel paradigma di successione delle culture (età della pietra, del bronzo e poi del ferro), che sarebbe divenuto canonico per la preistoria di tutto il continente.

Un modello delle tre età dello sviluppo delle più antiche culture umane – sia pur non ancora ridotto a sistema – era stato già intuito nel mondo antico, partecipe di una suggestiva tradizione che aveva trovato espressione nella filosofia e nella poesia (in particolare negli splendidi versi di Lucrezio, De rerum natura, V 1281-1296); ed era stato in seguito intravisto nell’opera di Michele Mercati (1541-1593), un naturalista che aveva saputo fondere l’osservazione della natura con un’ampia conoscenza delle fonti letterarie antiche e dei manufatti delle culture primitive scoperte nel nuovo mondo coloniale. Ma l’idea di Thomsen si sviluppava ora come uno strumento di conoscenza scientifica, applicato all’interno del primo museo di archeologia comparata, che vedeva la luce in un’Europa che aveva fin lì conosciuto solo gabinetti di curiosità antiquarie o collezioni d’arte.

L’ordine tipologico e tecnologico che Thomsen assegnava ai manufatti preistorici traeva giustificazione dalla descrizione non di singoli oggetti, ma di complessi unitari, verificati poi sperimentalmente nelle sequenze stratigrafiche, che Jens Jacob Worsaae avrebbe esteso non solo ai siti danesi, ma anche ad altri contesti europei. Quel confronto – non più solo descrittivo degli aspetti formali – avrebbe investito anche gli aspetti funzionali dei reperti allargando il campo della comparazione degli oggetti archeologici con quelli etnografici.

Poche righe di uno dei padri della paletnologia, Jacques Boucher de Perthes, definiscono meglio di altre perifrasi l’intuizione di fondo, che coinvolgeva i diversi approcci metodologici, alimentati da una visione contestuale che legava intimamente gli oggetti agli strati che li contenevano: «Non soltanto la forma e la materia che servono a stabilire se un oggetto è molto antico […] ma anche il luogo in cui si trova, la distanza dalla superficie; inoltre la natura del terreno e degli strati sovrapposti e dei frammenti che li compongono; e infine la certezza che quello è il suolo originario, la terra calpestata dall’operaio che lo ha fabbricato».

Una disciplina che restava umanistica nei suoi fini, ma che già si serviva delle scienze naturali, trovava dunque i suoi fondamenti scientifici operando con procedure di raccolta e di classificazione sperimentali e verificabili alla luce di un triangolo di rapporti reciproci fra diversi approcci metodologici, che cooperavano per organizzare i resti materiali del passato. Quell’approccio è tuttora vitale, anche se oggi, in una visione unitaria delle metodologie archeologiche, il paniere dell’archeologo si presenta più ricco, o forse solo più ordinato.

Johan Vilhelm Gertner, Ritratto di Christian Jürgensen Thomsen. Olio su tela 1849.

 

Storia dell’arte e cultura materiale 

Mentre l’antiquaria faticava a superare i limiti di un’erudizione che poteva spesso risultare fine a se stessa, Johann Joachim Winckelmann (1717-1768) percorreva una strada nuova indicando le prospettive che si aprivano innestando nello studio dei resti dell’arte classica il filtro dell’analisi stilistica calata in una prospettiva cronologica. Winckelmann apriva così le porte all’identificazione dell’archeologia classica con la storia dell’arte antica: un assioma che per lungo tempo avrebbe impedito alle generazioni successive di sviluppare le potenzialità storiche dell’approccio ai resti materiali del mondo classico, che restava ancora subordinato alla filologia, cioè alla conoscenza dei testi antichi. La nuova archeologia dell’arte ragionava peraltro su concetti sostanzialmente estranei alla cultura del mondo che aveva prodotto quelle stesse opere che poneva al centro del proprio interesse. È noto, infatti, che il mondo greco – anche se l’età classica e quella ellenistica avevano conosciuto l’opera di grandi personalità artistiche – non aveva elaborato un termine specifico per indicare il concetto di arte né tanto meno un termine che definisse l’artista (né pittura e scultura avevano trovato una rappresentante tra le nove Muse). Nelle società antiche l’arte non fu percepita come una sfera autonoma e, come non erano chiari i confini tra mondo religioso e mondo laico, così non lo erano quelli che distinguevano la funzione pratica dell’arte da quella estetica, che era a sua volta intrisa di eticità.

Anton R. Mengs, Ritratto di Johann Joachim Winckelmann. Olio su tela, 1755.

L’introduzione di un’ottica stilistica calata in una prospettiva cronologica (sia pur condizionata da un’impostazione rigidamente classicistica e da una concezione formalistica del “bello”) aiutava comunque l’antiquaria a collocare nel tempo le opere d’arte antiche. L’introduzione di strumenti critici che avevano finalità di ordine estetico preparava tuttavia quella divaricazione fra arte e storia e scienze che solo l’archeologia contemporanea si sarebbe posta l’obiettivo di ricomporre.

Nonostante la presenza di personalità di rilievo, come Ennio Quirino Visconti, in Italia l’archeologia si trovò impacciata a muoversi non tanto sul piano della lettura dell’opera d’arte, indicato da Winckelmann, quanto su quello dell’intervento sul terreno, che si sviluppava semmai in ambito preistorico e protostorico. Questo impaccio non permetteva di superare la divaricazione sempre più ampia tra approccio naturalistico e antiquario, con conseguente mortificazione dell’interpretazione storica. La concezione “ancillare” dell’archeologia segnò tutto il XIX secolo: un secolo cruciale durante il quale gli studi archeologici si costituirono definitivamente come disciplina autonoma, dotata di proprie istituzioni, sedi e strumenti di comunicazione, al centro di un sistema internazionale di ricerche sul campo, nel Mediterraneo e nel Vicino Oriente, che accompagnava l’espansione coloniale delle grandi nazioni europee.

Le difficoltà di affrontare i grandi temi storici con ottiche archeologiche furono acute anche in Italia, specie dopo la crisi della cultura positivistica, che aveva cercato di condividere strumenti più scientifici di analisi del dato archeologico. La conquista di una dimensione più propriamente storica della disciplina prese avvio negli anni centrali del Novecento, paradossalmente proprio sul versante della storia dell’arte, grazie in particolare all’opera di Ranuccio Bianchi Bandinelli (1900-1975) […]. La sua opera – superata una fase iniziale di rigida impostazione idealistica, ostile a ogni confusione fra storia dell’arte e storia della cultura – non mirava certo a ridurre l’importanza del fenomeno artistico all’interno dell’archeologia classica, quanto piuttosto a ridefinire il ruolo, inserendolo in una visione più complessiva della società che lo aveva prodotto. Si trattava cioè di cogliere meglio i nessi che legano la produzione artistica con il contesto storico e in particolar modo con la sua articolazione sociale, recuperando all’archeologia l’obiettivo di una ricostruzione storica più compiuta effettuata sulla base tanto delle fonti scritte, quando esistenti, quanto «dei dati materiali che una civiltà produce, accumula e lascia dietro di sé». In questa frase, tratta da uno degli scritti di Bianchi Bandinelli, il richiamo alla centralità del dato materiale non va inteso come un abbandono delle peculiarità metodologiche dell’analisi storico-artistica, quanto come l’apertura a una visione più moderna della disciplina. Ancor oggi ciò non significa che lo stile non sia da ritenere uno degli indicatori fondamentali per l’interpretazione dell’opera d’arte, e spesso una delle tracce principali per la datazione di oggetti e strutture, ma c’è più consapevolezza circa il fatto che il metodo stilistico, essendo sorretto da un approccio fortemente soggettivo, ancorato alla sensibilità critica di chi lo adotta, sia un metodo anche piuttosto insidioso. E tanto più in quei settori dell’archeologia, come appunto l’archeologia classica, dove non sono a disposizione serie più o meno complete di prodotti di determinati generi o ambienti o addirittura di determinati artisti. Se la conoscenza attuale di una gran parte della produzione pittorica rinascimentale consente, attraverso l’analisi comparata degli originali, di ricostruire lo stile di ciascun artista e la sua evoluzione, e di ricondurre in tal modo a quello stesso artista opere non altrimenti attribuite, l’applicazione di questo metodo nell’arte antica è molto più ardua. Non possediamo “la” produzione di Polignoto o di Prassitele, ma quasi esclusivamente copie (di copie di copie…), echi più o meno pallidi di immagini riprodotte in materie e dimensioni assai diverse dai prototipi: le opere attribuibili (cioè di cui si riconosce il modello) non sono originali, gli originali disponibili (per lo più frammentari) il più delle volte non sono attribuibili, come dimostra la discussione che ha accompagnato i tentativi di attribuzione dei celeberrimi bronzi di Riace.

Il riconoscimento di uno stile è operazione complessa, tanto che gli storici dell’arte antica più avvertiti mettono in guardia dalla fragilità di un metodo cui possono mancare gli strumenti critici fondamentali. Il che non vuol dire che non esistano stili cronologicamente definiti, che – ad esempio nello sviluppo storico dell’arte greca – caratterizzano l’età arcaica, classica o ellenistica, come nel caso, ad esempio, della ceramografia attica di età tardo-arcaica e classica.

L’accento posto sulla storicizzazione dell’opera d’arte ha comunque creato – non da ora e non solo in campo archeologico – le condizioni per la maturazione di una storia dell’arte più comprensiva anche negli aspetti sociali e culturali e, dal punto di vista del metodo, anche di quelli archeologici.

Koûros con vitello, detto appunto Moschóphoros. Statua, marmo dell’Imetto, 570-560 a.C., dall’Acropoli di Atene. Museo dell’Acropoli di Atene.

Una storia sociale dell’arte è più attenta alle condizioni della produzione artistica, cioè alla posizione dell’artista nella comunità in cui opera, agli aspetti pubblici o privati della committenza, alle motivazioni che stanno dietro alla nascita di un’opera d’arte e al modo con cui il pubblico ne fruisce. I primi due aspetti sono storicamente determinati e quindi fondamentali per capire la genesi di un prodotto artistico, l’ultimo invece non è un suo carattere permanente, mutando nel tempo ruolo e forme d’uso dell’opera d’arte. […]

Una storia dell’arte più propriamente culturale è rivolta alla modalità di formazione e trasmissione dei modelli e dei repertori decorativi e iconografici, insomma di quel patrimonio di immagini  e segni, attraverso il quale un’opera d’arte si caratterizza come distintiva di una cultura e denuncia affinità e differenze rispetto ad altre nel tempo e nello spazio. L’iconografia, che potremmo definire una sorta di tipologia delle immagini, occupa in quest’ambito un posto di rilievo, perché il messaggio delle scene figurate – immensamente più complesso di una semplice decorazione – ha volti, ha gesti, ha storie da raccontare. Anche se, paradossalmente, l’approccio iconografico è stato a volte accusato di “astoricità”, perché apparentemente meno attento al contesto produttivo, e comunque – agli occhi della critica di matrice idealistica – più interessato all’analisi del soggetto raffigurato, cioè del suo contenuto (le immagini illustrano idee e i dipinti vanno sono solo guardati, ma “letti”), che non a quella della forma (composizione, uso del colore, maniera di esecuzione…).

Una storia archeologica dell’arte opera integrando i metodi tradizionali dello storico dell’arte con l’insieme delle procedure proprie dell’archeologia. Non parliamo tanto delle ricadute dell’osservazione contestuale sulle nostre conoscenze storico-artistiche: esemplare, in questo caso, è la vicenda della “colmata persiana” sull’Acropoli di Atene, dove furono seppellite con i resti dell’incendio persiano del 480 a.C. anche le statue che adornavano il santuario (quell’osservazione ha creato un caposaldo cronologico fondamentale per l’interpretazione stilistica della statuaria di stile tardo-arcaico e severo). Pensiamo piuttosto all’applicazione dei metodi archeologici allo studio delle opere d’arte in sé.

Esiste infatti anche un approccio stratigrafico al manufatto artistico. È schiettamente stratigrafica l’osservazione che permette di riconoscere la sequenza delle giornate di stesura di un affresco o, su una qualsiasi opera di pittura, la presenza di “pentimenti” dell’artista. Questi ripensamenti possono essere dettati dalle più varie esigenze (interne o esterne alla volontà dell’artista) e sono quindi a volte basilari per l’interpretazione della forma finale dell’opera d’arte o delle sue vicissitudini. La sovrapposizione di più strati di colore può celare successivi avanzamenti nel processo creativo, che si manifestano per mezzo di quelle che l’archeologo chiamerebbe “unità stratigrafiche positive”. Qualcosa di analogo può accadere nelle opere di scultura, dove il ripensamento si manifesta piuttosto per “unità stratigrafiche negative” […]. Il manufatto artistico viene interrogato anche mediante diagnostiche archeometriche, possibilmente non distruttive, che attraverso le analisi dei pigmenti o delle malte costitutive degli intonaci possono dare risposte che nessun approccio stilistico o formale potrà mai sostituire. Ma archeologico, anzi propriamente archeografico, è anche il semplice metodo descrittivo che, prima di operare un esame critico dell’opera, ne definisce i caratteri materiali, a partire, ad esempio, dalle dimensioni. Perché, se la qualità è la premessa stessa affinché si possa parlare di un’opera d’arte (altro discorso sono i criteri di giudizio che la certificano), non si dà qualità senza quantità. Una stessa scena, che dal punto di vista compositivo può derivare da un comune modello, richiede tecniche e stili be diversi se riprodotta dall’artista nella vastità di una parete da affrescare o nel dettaglio di una miniatura. Ci si può domandare perché mai nei manuali di storia dell’arte risulti ancora bizzarra la sola idea di riprodurre le opere affiancate da una scala metrica (come si è soliti fare per i manufatti archeologici), quasi che la comunicazione dei dati dimensionali danneggi il godimento dell’opera. ma i manufatti artistici sono a tutti gli effetti prodotti del lavoro. La “quantità” dell’opera ne è un aspetto costituivo […]. L’archeologia ci aiuta dunque a vedere l’arte come prodotto del lavoro. Di conseguenza, anche il restauro appare come un’attività di conoscenza fondamentalmente archeologica. […]

Insomma, l’approccio archeologico alle opere d’arte non analizza solo tecniche produttive e qualità dei materiali, ma inserisce la cultura artistica, compresa quella figurativa, nell’alveo della cultura materiale, cioè dei saperi e dei «saper fare» relativi alle forme di approvvigionamento, scelta, manipolazione, trasformazione, uso, riuso e scarto della materia. Si tratta di conoscenze che sono tuttora tramandate dalla migliore tradizione antiquaria e che riguardano il più umile come il più eccelso dei prodotti del lavoro umano e scardinano le gabbie dei generi artistici e delle loro gerarchie.

La cultura materiale non può essere opposta alla cultura artistica o figurativa. Questa non si esaurisce nella storia delle forme, come quella non si identifica nello studio delle tecniche inventate dall’uomo, ma semmai concerne – secondo la bella definizione di André Leroi-Gourhan – «lo studio dell’uomo che pensa e agisce tecnicamente». L’infinita serie dei manufatti incorporano infatti la fatica dell’uomo, ma anche le sue conoscenze, i suoi comportamenti, i valori culturali condivisi da intere società o da gruppi sociali comunque significativi. Prestando attenzione ai fenomeni che si ripetono più che all’avvertimento irripetibile, all’analogia più che all’anomalia, allo «sfondo» più che alle emergenze, la storia della cultura materiale rintraccia donne e uomini e i loro rapporti sociali. L’archeologia studia infatti le cose, ma per capire gli aspetti materiali e spirituali del mondo che le produce.

È del tutto evidente che la qualità artistica data alla materia attraverso una forma e uno stile consente di esprimere messaggi che vanno ben al di là della dimensione materiale. Ma è per tale via, ricercando il sostrato comune che lo lega alla cultura materiale del suo tempo, che il fenomeno artistico può ritrovare legami più forti con il contesto d’origine, non negando il valore universale che può esprimersi nel suo messaggio, ma piuttosto riportandolo alla sua natura di fenomeno storico calato nel tempo e nello spazio. Collocando l’analisi della personalità artistica e l’unicità dell’opera d’arte nel quadro dell’evoluzione storica si riduce – come già auspicava alla metà del XX secolo  Frederik Antal – «quel supremo interesse e quell’eccessivo rilievo che vengono loro attribuiti da una storia dell’arte informata al criterio dell’‘arte per l’arte’», e sottoposta a una «tirannia […] che isola l’arte dalle idee del tempo esaltandone i valori puramente formali», ma non si toglie nulla alla “qualità” e alla funzione trainante dell’attività creatrice.

La concezione “braudeliana” dei due tempi della storia ci fa intuire anche i due tempi dell’arte: da un lato l’evento che fa voltare pagina alla storia culturale, l’intervento delle grandi personalità artistiche che marca un prima e un dopo, in cui tutto è o comincia a essere diverso e, dall’altro, il ritmo lento delle trasformazioni prodotte da un intreccio di fenomeni che apprezziamo appieno solo in una prospettiva di lungo periodo. Se ciò vale per l’invenzione dell’agricoltura, della polvere da sparo o della stampa, vale anche le nuove conquiste nel campo dell’arte: per una nuova tecnica, un nuovo genere, un nuovo stile, che spesso è una nuova invenzione destinata – se di successo – a tramutarsi in convenzione e a dare il tono a un ambiente, a un’epoca, a una cultura.

L’archeologia classica, nata in buona misura dalla storia dell’arte, ha corso il rischio di ridurre lo studio delle società antiche a quello delle loro élites, e se ne è in seguito emancipata. […] Sono ormai maturi i tempi per una ricomposizione vantaggiosa della dicotomia troppo severa che ha separato archeologia e storia dell’arte o almeno per affrontare su basi paritarie un dialogo necessario all’una e all’altra e per ragioni diverse interrotto o mai avviato.

La storia dell’arte – anche quella più intrisa di archeologia – in quanto disciplina ha una sua storia, ha procedure e finalità, che non coincidono con quelle dell’archeologia, ma questa autonomia della storia dell’arte nello studio dei prodotti artistici delle società passate non implica un’autonomia dell’arte nei confronti delle società che li ha prodotti. È proprio questo il filo che è stato spezzato e che occorre riannodare. È importante che riemerga il concetto di contesto, che anche nella riflessione storico-artistica, come in quella archeologica, dovrebbe diventare una sorta di riflesso condizionato, che può aiutare a riequilibrare l’attenzione della ricerca e della tutela da ciò che è unico ed eccezionale a ciò che è appunto “contestuale”. […]

 

Archeologia e storia

Un’archeologia senza confini (de-periodizzata) non è un’archeologia fuori dalla storia (de-storicizzata). E infatti definiamo l’archeologia come una disciplina storica e umanistica poiché pone al centro del proprio interesse la conoscenza del passato dell’umanità. Differisce tuttavia, come si è visto, dalla storia intesa in senso tradizionale (una storia fatta sui testi) per il fatto che consegue i suoi risultati a partire dalle testimonianze materiali. Le fonti archeologiche sono “testi” prodotti dallo scalpello dello scultore, dalla cazzuola del muratore, dalla ruota del vasaio o dall’aratro del contadino. La differenza tra fonti materiali e fonti scritte è dunque chiara, anche se è evidente la loro complementarietà e a volte la loro intrinseca interdipendenza, come nel caso delle iscrizioni o delle monete, dove il testo scritto è intimamente associato al supporto materiale. Un testo epigrafico può conservarsi anche solo attraverso la tradizione manoscritta, ma la conoscenza del supporto può cambiarne radicalmente l’interpretazione. Spesso anche una memoria grafica del supporto perduto può essere decisiva […]. Il valore documentario delle immagini è in genere sottovalutato dalla storiografia tradizionale e anche dagli studi di carattere filologico-letterario, nei quali l’acribia applicata alla storia del testo e delle parole non si accompagna a un interesse per le loro rappresentazioni figurate: uno sguardo anche alle migliori edizioni commentate di Omero, Livio o Plinio, può dare l’impressione che le discipline storico-filologiche e quelle archeologiche abitino su due diversi pianeti. […] Nello studio del mondo antico archeologia classica e storia antica operano in una situazione di bilanciamento tra fonti scritte e fonti materiali, ma queste ultime – a differenza delle prime – sono in via di continuo accrescimento e illuminano aree del sapere dove la luce delle fonti tradizionali non era potuta arrivare. Il problema si sposta quindi su quale sia il rapporto tra questi due sistemi di fonti, ciascuno dei quali costituisce un sistema in sé organico: essi propongono infatti informazioni di tipo diverso, non sempre comparabili, e non possono essere utilizzati in modo indifferenziato, come in un bricolage archeo/storiografico, né possono ignorarsi reciprocamente (anche se ciò è stato più spesso la norma che l’eccezione).

Kore. Statua, marmo bianco insulare, 530 a.C. ca. Atene, Museo dell’Acropoli.

Nonostante l’ampiezza della documentazione disponibile, non è così evidente la possibilità di trasformare i dati offerti dai resti materiali in conoscenze storiche relative agli assetti sociali o istituzionali di una comunità, ai comportamenti o alle convinzioni dei suoi membri o, più semplicemente, a eventi che abbiano coinvolto singole personalità. Ci si domanda fino a che punto l’una disciplina possa contribuire all’altra senza istituire correlazioni frettolose e senza forzare i dati, evitando di cercare riscontri archeologici a ogni singola testimonianza letteraria e viceversa. I due tipi di fonti possono certamente stimolarsi e sorvegliarsi reciprocamente, ma è bene tenere presente che registrano serie di dati che possono collocarsi in prospettive temporali non omogenee. I resti materiali, in particolare, documentano situazioni puntuali che tuttavia illuminano spesso processi di lunga durata, che riflettono le strutture profonde delle società: si pensi all’evoluzione degli insediamenti messa in luce dalla lettura stratigrafica o alle forme di distribuzione dei manufatti. Le loro scansioni cronologiche sono effetto dei più diversi fenomeni culturali, in cui anche l’ambiente gioca la sua parte e la cui percezione talora sfugge ai loro stessi protagonisti, e non ricalcano necessariamente le scansioni indotte dagli eventi di natura politico-istituzionale e militare (le cui tracce possono essere tanto evidenti quanto evanescenti) e non conoscono, in genere, gli stessi confini.

Le cesure dell’archeologia non coincidono quindi con quelle della storia raccontata dalle fonti scritte. Queste ultime convergono talora sulla descrizione dettagliata di un evento (ad esempio, la seconda guerra punica o le idi di marzo), che le fonti archeologiche possono sperare di cogliere in qualche manifestazione parziale, o possono non cogliere affatto. Il caso gigantesco di Pompei, dove la monumentalità archeologica del sito trova riscontro letterario nel drammatico racconto di Plinio il Giovane, non si ripete nelle centinaia di siti urbani la cui “morte” fra tarda Antichità e Medioevo non può essere quasi mai “spiegata” con il frettoloso ricorso a scarne fonti che registrino generici episodi bellici o eventi sismici.

Tucidide (Storie, II 13-17) ci parla dello spopolamento dell’Attica all’inizio della guerra del Peloponneso, quando gli abitanti furono portati dentro le mura di Atene. L’abbandono delle campagne è un episodio epocale nella storia di una comunità, che tuttavia può aver lasciato sul terreno tracce non facilmente visibili con i metodi dell’archeologia. Insomma, la certezza del dato storico non implica la sua visibilità archeologica e, viceversa, la presunta “oggettività” del dato archeologico non implica la “certezza” della sua spiegazione, che è comunque affidata alla capacità da parte del ricercatore di individuare, classificare e interpretare gli indizi nel loro contesto e di confrontarli in un sistema di conoscenze più ampio. Ciò considerato, è quindi ozioso dibattere sul fatto se le fonti archeologiche contribuiscano o no alla scrittura della storia. Si tratta semmai di interrogarsi se esse servano, tutt’al più, da verifica di quello che ci dicono le fonti letterarie, nel senso quindi di una dipendenza ancillare dell’archeologia dal testo scritto, o se piuttosto le une e le altre non vadano interrogate sapendo quel che possono eventualmente dirci e quello che non possono dirci.

Già alla fine dell’Ottocento le imprese romantiche di Heinrich Schliemann a Troia e a Micene aprirono la strada a una riflessione nuova sul valore del patrimonio di miti e leggende attinto alla tradizione letteraria antica e dettero la misura delle potenzialità dell’archeologia per la conoscenza non solo delle civiltà preistoriche, ma anche delle radici della stessa classicità, le cui origini trovavano impensate conferme nella concretezza dei siti, dei monumenti, degli oggetti. Il rapporto tra storia e archeologia cominciava allora – indipendentemente dal metodo di scavo ancora primitivo – ad assumere una dimensione più moderna, il cui sviluppo fu parzialmente inficiato dalla crisi della grande stagione positivistica: la gerarchizzazione dei saperi presente nel pensiero di matrice idealistica avrebbe infatti assegnato un primato alle forme dell’espressione artistica a tutto svantaggio delle scienze, delle tecniche e delle metodologie. A differenza delle archeologie del Vicino Oriente, come l’egittologia e l’assiriologia, che dipendevano solo indirettamente dal patrimonio di studi classici, visto che la maggior parte delle loro fonti scritte doveva essere estratta dal suolo con pratica archeologica, fu proprio l’archeologia classica – nonostante i suoi successi – che si trovò più disarmata di fronte alla gran massa di nuovi dati che giungevano dai primi grandi scavi mediterranei.

Ciò non impedì che la natura peculiare delle testimonianze archeologiche venisse magistralmente valorizzata in un campo nel quale i dati della tradizione letteraria si rivelarono più deboli o addirittura assenti, cioè nello studio dei fenomeni economici e sociali dell’antichità. Dobbiamo a un grande storico della prima metà del Novecento, Michail Rostovzev, la dimostrazione di quanto fosse fruttuoso l’uso sistematico delle testimonianze archeologiche per la comprensione del mondo ellenistico e romano.

I migliori storici del secolo passato, e in primo luogo la scuola degli Annales, dimostreranno poi quanto fossero maturi i tempi per ampliare il concetto di “documento” ben al di là delle frontiere del testo scritto, allargando i territori dello storico a tutto lo spettro della società e del comportamento umano, aprendo così indirettamente la strada al riscatto delle fonti archeologiche. Non stupisce quindi che un involontario manifesto dell’archeologia del XX secolo sia stato paradossalmente scritto da uno storico dell’età moderna, Lucien Febvre:

 

La storia si fa senza dubbio con documenti scritti. Quando ce n’è. Ma si può fare, si deve fare senza documenti scritti, se non esistono […]. Con le forme del campo e delle erbacce. Con le eclissi di luna e gli attacchi dei cavalli da tiro […]. Non è forse vero che una parte, e quella più appassionante senza dubbio, del nostro lavoro di storici consiste nello sforzo costante di far parlare le cose mute, far dire loro quel che da sole non dicono sugli uomini e sulle società che le hanno prodotte, fino a costituire fra loro quella vasta trama di solidarietà e di ausili reciproci, capace di supplire all’assenza del documento scritto?

 

L’accento era dunque posto sulle lacune della documentazione scritta e sugli ambiti di ricerca che si spalancano all’archeologia quando essa voglia farsi scienza storica introducendo nuovi protagonisti e allargando l’indagine a territori meno esplorati. Eppure, tra archeologi e storici le liti in famiglia ogni tanto si riaccendono. Anche studiosi di altissimo livello hanno ripetutamente espresso scetticismo sulla qualità dei dati archeologici e sulla possibilità di trarre implicazioni macro-economiche e di lungo periodo dai dati quantitativi offerti dalle testimonianze materiali, ritenute non utilizzabili quali indicatori significativi dei fenomeni economici e dei relativi risvolti demografici e sociali. In sostanza, si è negata validità a quei “messaggi preterintenzionali” che alcune categorie di documenti archeologici possono inviare, se adeguatamente interpretati.

I progressi compiuti dall’archeologia degli insediamenti e gli studi sulla cultura materiale costituiscono in realtà la smentita migliore a una chiusura storiografica un po’ apodittica, che si è talvolta accompagnata, nello studio delle società antiche, alle forme più estreme del pensiero primitivista. Che l’archeologia non possa coprire alcuni aspetti centrali della ricerca storica è indubbiamente vero, ma è vero anche che per la storia della cultura materiale le fonti letterarie offrono in genere informazioni molto parziali, anche se apparentemente sistematiche: si pensi, a titolo d’esempio, agli scritti degli agronomi d’età romana (scriptores rei rusticae) che hanno trovato illustrazione compiuta e commento solo dalla prima indagine archeologica analitica di una grande azienda agricola schiavistica di età romana condotta su base stratigrafica nella villa di Settefinestre, in Etruria.

Se fenomeni connessi alla tecnologia, alle forme di sussistenza e di scambio sono più facilmente accessibili tramite l’archeologia, la scala delle difficoltà cresce a mano a mano che si vogliano attingere archeologicamente gli aspetti dell’organizzazione politica e sociale, della mentalità e dell’ideologia. Un sistema politico è qualcosa di molto elusivo in termini materiali. Tuttavia, a guardar bene, fenomeni essenzialmente politici connessi alla fondazione di un centro,  […] possono essere indagati anche attraverso le testimonianze archeologiche, e talvolta solo a partire da esse. è proprio dagli indicatori archeologici delle società più primitive che è stato possibile elaborare modelli di organizzazione sociale e politica utilizzabili anche per la comprensione delle società di piena età storica. In parallelo con l’uso delle fonti scritte (quando disponibili) è possibile analizzare:

 

  • I rapporti gerarchici esistenti fra diversi siti, identificando i centri dominanti nei vari periodi e le aree sottoposte al loro controllo, anche mediante l’applicazione di modelli geografici e di archeologia spaziale che investono uno dei grandi temi della storia tradizionale, come il rapporto fra città e campagna;
  • I diversi modelli d’insediamento, classificando gli abitati in base alla loro estensione e investigando la stratificazione sociale di una comunità attraverso lo studio delle residenze, analizzando le architetture degli edifici, la tipologia degli spazi, la qualità dei materiali impiegati e della loro posa in opera;
  • L’articolazione degli status sociali, che si palesa nelle tipologia delle sepolture (dalla fossa comune al mausoleo) e dei loro corredi, specchio della complessità delle relazioni che s’instaurano tra gerarchia sociale e gerarchia sepolcrale […];
  • Le strutture produttive e la rete degli scambi attraverso lo studio degli impianti di produzione e di quanto materialmente sopravvive delle merci nei luoghi del consumo: la loro presenza (o assenza), la loro abbondanza (o scarsità), certificate dalle carte di distribuzione, sono un punto di riferimento per la ricostruzione delle forme di interazione non solo economica ma politica e militare, e per la comprensione dei fenomeni di acculturazione.

 

Tutto ciò può costituire la premessa per una storia della cultura e della mentalità delle società passate. E ciò vale anche nel campo della storia dell’arte, dove lo studio delle iconografie può restituire messaggi che nessuna fonte scritta è in grado di trasmettere. C’è semmai da rammaricarsi che lo sviluppo troppo  precoce delle grandi imprese di scavo rispetto alla maturazione dei metodi d’indagine abbia comportato a questo riguardo tra XIX e XX secolo la dispersione di una quantità incalcolabile di informazioni archeologiche basilari, ad esempio nello sterro dei grandi santuari antichi, di cui sono andati in gran parte perduti i caratteri della loro organizzazione contestuale e del loro sviluppo nel tempo.

Ciò non toglie che anche le fonti materiali non sia per più versi parziali e spesso frutto di casualità. Questo limite può rappresentare tuttavia anche un elemento da cui trarre vantaggio, purché si valuti criticamente il grado di rappresentatività dei resti archeologici, e in particolare del campione esaminato, specie quando dai dati della cultura materiale si tenti di risalire agli aspetti sociali, economici e culturali della comunità che li ha prodotti […].

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Negli ultimi tre decenni del V secolo il sistema di forze in se stesso conchiuso dell’arte della piena classicità, risolto nella cerchia di Fidia e di Policleto, fu posto in discussione, compromesso e infine spezzato. Questo sviluppo è in connessione con i profondi mutamenti verificatisi nell’ambito della vita pubblica e privata, intellettuale e religiosa; senza dubbio la guerra contribuì a rafforzarlo, ma certamente non fu essa sola a portarlo alla ribalta.

Ancora una volta fu da Atene che le arti figurative ricevettero impulsi decisivi: un segno delle straordinarie capacità creative di questa città nonostante la pesante situazione interna ed esterna a causa della guerra. I committenti più importanti erano sempre le istituzioni pubbliche, la pólis e i santuari, la cui configurazione collettiva determina per molti versi temi e forme dell’arte figurativa. Tuttavia, accanto ad esse si fa strada in misura sempre crescente l’iniziativa privata, soprattutto nei rilievi sepolcrali e votivi.

I grandiosi progetti dell’età periclea avevano reso disponibile una vasta schiera di scultori, educati da Fidia a uno stile altissimo e relativamente unitario: un formidabile potenziale artistico, ma anche un notevole impegno economico.

Le difficoltà finanziarie a causa della guerra avevano fortemente ostacolato le imprese di maggior mole nell’epoca successiva, com’è attestato soprattutto dalla storia della costruzione dell’Eretteo; ed era perciò scomparsa una delle ragioni più importanti del mantenimento di un così numeroso team di artigiani. Inoltre, anche la situazione storica favoriva il sorgere delle forze centrifughe, cioè di una molteplicità di correnti stilistiche. Il carattere eterogeneo di quest’epoca rende difficile il più delle volte datazioni precise su basi stilistiche. Ci atterremo qui piuttosto, per la statuaria, a determinate tendenze di fondo.

Hephaisteîon di Atene. Tempio periptero, esastilo, in ordine dorico. 450-420 a.C. ca.

SCULTURA ARCHITETTONICA.

In Attica, una volta portato a termine il Partenone, le botteghe scultoree furono impegnate nell’erezione di una serie di templi dei quali alcuni votati ex novo, altri rimasti interrotti, ripresi secondo il programma edilizio pericleo. Il più delle volte la decorazione plastica di questi edifici è conservata così frammentariamente, che è a mala pena riconoscibile il contesto tematico e formale, soprattutto nel tempio di Ares il cui programma figurativo, evidentemente assai complesso, avrebbe dovuto contenere elementi chiave per la comprensione di quest’epoca: una grave perdita. Negli altri monumenti, laddove si possono ancora ravvisare i temi, questi sono in larga misura in relazione con Atene; la situazione politica poneva questa tematica in una posizione di particolare rilievo.

L’Hephaisteîon, il tempio di Efesto, fu iniziato nel 450 a.C. circa e già in questa prima fase possedeva sulla fronte un ciclo di metope con le imprese di Eracle e all’estremità orientale di entrambi i lati lunghi un ciclo con le imprese di Teseo. Le altre sculture sono più recenti e continuano lo stile del fregio e dei frontoni del Partenone. Il fregio orientale sembra raffiguri la vittoria di Teseo sui figli di Pallante, che volevano disputargli la signoria sull’Attica. Come nel fregio del Partenone l’episodio muove da entrambi i lati per confluire verso il centro; e ugualmente la scena centrale è incorniciata dalle figure degli dèi. Al centro sta Teseo, campione isolato con i quattro figli di Pallante, che come giganti lottano scagliando enormi massi. La sua figura ripete quella dell’Aristogitone del gruppo dei tirannicidi di Crizio e Nesiote, la sua vittoria contro la ribelle brutalità è intesa come mitico esempio della presente vittoria dell’ordinata vita civile che era stata ristabilita dopo l’uccisione dei tiranni. Il fregio più corto sopra l’opistodomo raffigura la battaglia dei Lapiti contro i Centauri; singoli gruppi si riallacciano strettamente alle metope meridionali del Partenone. Al centro compare nuovamente Teseo, secondo lo schema dell’Armodio del gruppo dei tirannicidi (il personaggio più giovane, giacché si tratta di un’impresa giovanile di Teseo); anche in questo caso egli, come soccorritore dei suoi amici e come difensore del diritto vigente, incarna l’ideale della politica attica del tempo. La composizione di entrambi i fregi è chiaramente simmetrica, singoli gruppi come quelli di Teseo e dei figli di Pallante presentano una sorprendente spazialità; i corpi sono resi in forte tensione e realisticamente, il loro movimento è più violento che nell’età di Fidia.

Per le statue frontonali e acroteriali attribuzioni e interpretazioni sono allo stato attuale delle cose ipotetiche. Un gruppo di due fanciulle che giocano all’ephedrismós, che sembra appartenere alla decorazione del tempio, è più tardo del fregio e segna il passaggio alle statue cultuali di Efesto e di Atena, che furono eseguite nel 421-415 a.C.

«Efesto Chiaramonti». Busto, copia romana in marmo di un originale di Alcamene (fine V sec. a.C.). Città del Vaticano, Musei Vaticani.

L’Efesto, opera di Alcamene, secondo Cicerone (De natura deorum, I 30, 83) stava ritto con entrambe le piante poggiate al suolo e la sua infermità doveva essere ben visibile anche se non sgradevole: un modo contenuto di esprimersi tipicamente classico, che però non rifugge completamente dal deforme. A quel che pare si sono conservate copie della testa e del corpo e inoltre dell’intera figura nelle arti minori. Il peso del corpo riposa tutto sulla gamba destra e su uno scettro (che caratterizzava il dio come antenato dei re di Atene) sorretto dalla mano sinistra; pur non avendo funzione portante, anche la gamba sinistra era pienamente appoggiata, segno della grave infermità. Sulla testa il dio porta il pílos, copricapo caratteristico degli artigiani.

L’Atena pertinente al gruppo scultoreo non è attestata finora con sicurezza. I rilievi della base erano lavorati a giorno: figure bianche su fondo scuro. Probabilmente la scena è conservata in copie: Gaia consegna Erittonio bambino ad Atena, sullo sfondo, Efesto; un tema dell’arcaismo attico, al quale si ricollega la pretesa dell’autoctonia, espressione del crescente sentimento patriottico del tempo. Efesto, il dio degli artigiani, attraverso la decorazione scultorea del suo tempio è inteso come il protettore di Atene e del suo tradizionale ordinato viver civile.

Le diverse tendenze della decorazione del tempio, da un lato i richiami nel contenuto al tirannicidio, a Teseo e all’arcaismo attico, l’adesione formale al Partenone sentito come “classico”, la composizione simmetrica di entrambi i fregi, dall’altro la libera spazialità di singole figure e gruppi, l’accresciuta tensione e il movimento dei corpi, delineano un quadro caratteristico di un’epoca di trapasso divisa tra vecchio e nuovo, fra rispetto e rifiuto dell’antico “ordine”.

Il tempio ionico di Atena Nike sull’Acropoli di Atene è per la tematica e lo stile della sua decorazione scultorea uno dei monumenti più caratteristici dell’epoca della guerra peloponnesiaca. L’edificio fu votato poco prima della pace di Callia (449 a.C.), ma subito dopo la sua realizzazione nel corso del nuovo ordinamento pericleo dell’Acropoli fu rinviata; la costruzione fu iniziata dopo i successi conseguiti negli anni venti del secolo, ancora durante il conflitto archidamico.

Una Nike si slaccia un sandalo. Bassorilievo, marmo, 420-410 a.C. ca. dalla balaustra del tempio di Atena Nike. Atene, Museo dell’Acropoli.

Il fregio sul lato orientale presenta un’accolta di dèi ed eroi, il cui significato è tuttora da chiarire, dove al centro sono riconoscibili Zeus, Atena e Poseidone. La scena deve aver a che fare con le battaglie che sono rappresentate sui tre restanti fregi: a sud la vittoria sui Persiani, a ovest e a nord la vittoria di Atene contro avversari greci, probabilmente all’inizio delle ostilità interne al continente greco negli anni cinquanta del secolo. È difficile spiegare singolarmente gli episodi; non si tratta tanto di una precisa descrizione storica quanto di una generica esaltazione delle famose imprese ateniesi del passato, che qui sono chiamate a far da modello alla guerra del momento. Così, in un certo senso, il tempio di Atena Nike continua il ciclo figurativo del Partenone sulle cui metope era raffigurato in che modo dèi ed eroi avevano difeso gli ordinamenti civili greci (e in particolare ateniesi) contro le minacce esterne. Similmente anche i frontoni del tempio di Atena Nike presentavano ed est, con ogni probabilità, la battaglia degli dèi contro i Giganti, a ovest quella degli Ateniesi contro le Amazzoni. Inoltre, sopra il timpano quali acroteri si trovavano ai lati due Níkai e al centro forse Bellerofonte, che aveva sconfitto in Licia la Chimera: anche questo episodio è un mitico precedente delle battaglie di età storica contro l’Oriente. Come nel ciclo figurativo di questo tempio, così nelle orazioni funebri ufficiali per i soldati caduti, le vittorie del passato storico erano esaltate in connessioni con quelle dei tempi mitici. E come in queste orazioni così nei fregi figurati non sono poste in risalto personalità storiche e le loro imprese individuali; si raffigurano battaglie generiche di singoli e piccoli gruppi, senza un capo, ognuno a sé stante: la democrazia non celebra l’individuo, ma il popolo tutt’intero. La tematica storica, del resto inusitata sugli edifici religiosi, ha acquisito qui la forma adeguata per un monumento della pólis.

Combattimento fra Ateniesi e altri Greci. Bassorilievo, marmo, fine V secolo a.C. Dal fregio occidentale del Tempio di Atena Nike.

Appena ultimato l’edificio templare, il santuario fu circondato sui tre lati lungo la pendice scoscesa dell’acropoli da una balaustrata decorata a rilievo. Su ogni lato siede Atena e sorveglia una schiera di Níkai celebranti una vittoria: vengono trascinati tori al sacrificio; si erigono trofei con armi greche e persiane e una Nike si slaccia i sandali, come talvolta si usa fare in un santuario. Anche se in parte i motivi sono decorativi, sarebbe sbagliato interpretarli come vuoti formalismi. Le numerose Níkai e i vari trofei sottintendono ancora una volta le molte vittorie del passato ateniese, quali sono descritte nel fregio del tempio; fregio e balaustra formano un’unità tematica. Il sacrificio tuttavia non riguarda Atena, alla quale non s’immolano tori. L’affinità di contenuti con le orazioni funebri ufficiali potrebbe piuttosto indicarci che in questo caso l’offerta è intesa per i caduti ateniesi sulle loro tombe comuni erette dallo Stato. Atena rappresenterebbe allora la città, la cui popolazione assisteva a tali solennità.

Questi rilievi vanno annoverati fra gli esempi più compiuti dello “stile ricco” in scultura. Con ogni probabilità provengono dalla medesima bottega che ha eseguito i fregi e nella quale dovettero operare scultori di chiara fama: la Nike che fugge spaventata dinanzi al toro è strettamente imparentata con una delle Menadi danzanti di Callimaco; quella che doma l’animale ricorda la scuola di Agoracrito; per quella che si slaccia il sandalo, non si ha ancora un’attribuzione sicura, ma fu certamente scolpita da uno dei maestri più importanti dell’epoca. I committenti dell’opera sono sconosciuti, ma in ogni caso si sono avvalsi per celebrare la vittoria degli artisti più all’avanguardia del loro tempo. La solennità tradizionale si ritrova soltanto nell’accolta di divinità del fregio orientale, dove le figure sono isolate e allineate simmetricamente come sulle basi delle statue cultuali di Fidia. Ma già i fregi di battaglia con la veemenza delle loro azioni, la complessità del movimento, il veloce trapassare dei motivi, l’interdipendenza a largo respiro dei vari gruppi, lo scaglionamento in profondità delle figure e il loro distacco dal piano di fondo spezzano la disciplina raccolta della forma della piena classicità. E infine, nella balaustrata, la violenza del movimento e – soprattutto nel gruppo con il toro – l’indipendenza dal piano di fondo delle figure, poste obliquamente rispetto a esso, vengono accresciute dai panneggi svolazzanti: questi servono da sfondo alle figure e al loro movimento, ne segnano i contorni con ombre profonde, vengono improvvisamente gonfiati dal vento, esaltano la sensualità dei corpi con un delicato e trasparente gioco di pieghe. In scultori meno vitali da tutto ciò scaturirà facilmente un astratto schema di linee, una maniera.

Nel fregio della balaustrata il movimento violento è articolato dai rigidi trofei, che con esso contrastano fortemente, e da una serie di Níkai stanti del pari rigide a guisa di pilastri. L’effetto maggiore si raggiunge qui grazie al contrasto dei mezzi stilistici e alla raffinatezza virtuosa del lavoro scultoreo. La pregnanza delle azioni, al pari della delicatezza delle superfici è espressione di quegli anni travagliati e stimolanti, nei quali, in maniera così lontana dalla norma, si osò decorare un edificio sacro della città con temi che celebravano in modo tanto diretto successi politici quasi contemporanei.

Durante la pace di Nicia (421-415 a.C.), sulla scia di una rinnovata sensibilità conservatrice per le antiche tradizioni religiose locali, fu iniziato l’Eretteo, che con un complicato progetto riuniva una serie di venerandi culti prevalentemente a carattere ctonio. Ricco, in particolare, è l’atrio annesso a sud, sopra la tomba di Cecrope, il cui architrave ionico è sostenuto da sei statue di fanciulle: le iscrizioni dell’edificio le definiscono kórai; probabilmente si tratta di un insieme di semi-divinità, forse Ninfe. In sostanza sono figure classiche poco adatte ad assolvere alla funzione di sostegni in un contesto architettonico: lo schema statico del V secolo è un principio costruttivo assai labile, il sistema di forze di queste statue è in se stesso conchiuso e autosufficiente. Ciò nonostante, agli occhi di chi guarda, non è messa in pericolo la stabilità della costruzione e il peso dell’architrave appare sostenuto con elastica leggerezza. Inoltre sono significative, da un lato, la severa simmetria della disposizione con la gamba portante di volta in volta posta all’esterno a mo’ di colonna e, dall’altro, la struttura stessa delle figure. Poiché la testa non prosegue la curva del corpo inclinandosi, ma al contrario è del tutto eretta, la figura non si conclude in se stessa, ma entra a far parte di un insieme più vasto. Al tempo stesso il portamento conserva un tratto più severo e arcaicizzante, accentuato dai rigidi boccoli che ricadono sulle spalle (e del resto l’idea delle Cariatidi è chiaramente mutuata dai thēsauroí ionici arcaici).

Lato meridionale del tempio di Atena Poliade, detto Eréchtheion. Colonne in ordine ionico, 421-406 a.C. ca.

La costruzione dell’Eretteo fu interrotta poco prima di essere portata a termine a causa della sconfitta in Sicilia (413 a.C.); la sua ultimazione nel 410-406 a.C. servì poi ad impiegare manodopera nella precaria situazione economica verificatasi. Attorno alla cella e al portico settentrionale furono posti fregi, le cui figure vennero scolpite una per una nel chiaro marmo pentelico e poste su un piano di fondo di marmo scuro eleusino. Questa tecnica inusitata fornì di una preziosa fascia decorativa questo tempio già sovrabbondantemente ornato. Non si possono più ravvisare la composizione e i temi del fregio; lo stile è più avanzato rispetto a quello della balaustrata delle Níkai per la plasticità del modellato dei corpi i cui contorni sono segnati dal contrasto creato da forti ombre, per lo svincolamento delle figure dalla costruzione del piano del rilievo, ma anche per la calligrafia del disegno dei panneggi.

Che lo “stile ricco” non sia rimasto circoscritto ad Atene, è attestato da un monumento situato notevolmente lontano, quello delle Nereidi di Xanthos, ma anche, in particolare, dal tempio di Apollo a Phigaleia. Già la collocazione di un fregio all’interno della cella rappresenta una sorprendente novità; del pari è ardita la forma in cui vengono rappresentati i temi tradizionali della Amazzonomachia e della Centauromachia. Tipica è la figura di un Centauro morto, della cui testa si vede ancora soltanto la parte posteriore, un’immagine fortemente incisiva dello spegnersi della vita; ma, accanto ad esso, quasi spettrale, la maschera leonina, in visione completamente frontale, della leontéē, offre allo spettatore in certo senso il vero volto della rabbia dell’essere ucciso. Sopra il Centauro morto si erge saltando un altro Centauro, che con gli zoccoli posteriori mena un colpo sonoro sullo scudo che un Lapita sorregge con entrambe le mani innanzi a sé per ripararsi, mentre ancora a mezz’aria addenta a fauci spalancate il collo di un altro Lapita. L’espressione della morte, la rabbia e la violenza del combattimento, la transitorietà delle azioni: tutto questo viene qui esaltato ed esasperato con motivi completamente inusitati e lungi dall’equilibrio della piena classicità. Vi si aggiungono in altre lastre componenti patetiche, come bambini posti a repentaglio, o la pietà per i morti e i feriti; ed inoltre elementi che interrompono bruscamente l’andamento delle forme, come le pieghe esasperate fra le gambe ampiamente divaricate, e ancora i forti effetti ottici creati col contrasto fra luce e ombra e dall’alternarsi di un rilievo ora alto ora bassissimo fino a scomparire. Il fregio deve essere stato eseguito verso la fine del secolo da scultori che non si collocano nell’ambito della tradizione attica, ma che tuttavia hanno esaurito fino in fondo le possibilità dello “stile ricco”.

Scena di Centauromachia. Bassorilievo in marmo dalla cella interna del tempio di Apollo a Bassae-Phigaleia, della fine del V secolo a.C. ca. London, British Museum.

Quest’epoca dispiega un’incredibile ricchezza d’idee nell’inventare tipi di acroteri, per lo più figure che anche tematicamente richiedono una collocazione a grande altezza e nel libero spazio: scene di ratto, come Eos e Cefalo, Borea e Orizia; e inoltre Bellerofonte e la Chimera, Teseo che scagli giù dalle rocce Sciro, fanciulle che giocano all’ephedrismós, Níkai e altre figure alate o in corsa. Esiste qui una precisa concezione spaziale che prende alla lettera la collocazione in alto delle figure e le conferisce un significato concreto. Il volo e l’annullamento del peso materiale diventano una delle principali tematiche formali dell’arte di quest’epoca.

L’esempio migliore si coglie negli acroteri del tempio di Apollo eretto a Delo dagli Ateniesi con ogni probabilità tra il 425 e il 417 a.C. Al di sopra del frontone orientale, Borea e Orizia, assieme ad un sottostante animale in atto di saltare, formano un gruppo dal movimento esplosivo, che tuttavia, al contempo, dovendo assolvere alla funzione di coronamento del tempio, è rigidamente racchiuso in un triangolo; come acroteri laterali si innalzano ai due lati del gruppo due compagne di giochi di Orizia, figlie del re Cecrope. Al di sopra del frontone occidentale Eos, volando leggera, rapisce portandoselo alto sulle spalle il suo giovane amato, Cefalo, e dal basso ancora si slancia verso quest’ultimo il suo cane da caccia; ai due lati Ninfe spaventate fanno da cornice all’evento.

Gruppo statuario acroteriale: Borea rapisce Orizia. Marmo, 425-417 a.C. Frontone orientale del tempio di Apollo a Delo. Museo Archeologico di Delo.

Le sculture si collocano chiaramente nella tradizione dei frontoni del Partenone; ma in luogo della veemenza contenuta dei movimenti e della chiara articolazione dei corpi, qui si fa strada una tensione verso l’alto che tutto investe. La felice connessione fra il potente dio tracio del vento e la figlia del re ateniese, fra la dea del mattino e il giovane e bel cacciatore si manifesta una leggerezza con la quale i rapiti vengono portati via, una connessione che, una volta felicemente istituita, è valida anche per il presente: Borea aveva mandato una terribile tempesta in aiuto dei suoi “cognati”, gli Ateniesi, già contro i Persiani e durante la guerra del Peloponneso Atene aveva stretto una lega importante con la sua patria, la Tracia; Cefalo, un eroe attico, come eponimo di Cefalonia attestava gli antichi legami di Atene con i Greci del mare di Occidente.

Più conservatore appare l’acroterio centrale del tempio di Ares, giunto fino a noi: una figura femminile, frontale, che arriva in volo e si posa, con un panneggio sorprendentemente semplice e simmetrico, anche se a destra, sul petto, la stoffa appare drappeggiata con raffinata sensibilità e la mano solleva con grazia un lembo del peplo. Questo gesto, prediletto in epoca tardo arcaica, è un sintomo dell’affiorare in questi decenni di forme di vita volutamente stilizzate.

Un motivo tradizionale è ripreso in maniera del tutto diversa in una Nike che proviene probabilmente dalla stoà di Zeus Eleuterio. In essa lo schema arcaico della corsa, pur conservando la sua disposizione piana, è trasformato in uno strabordante vortice di pieghe che ora procedono parallele, ora corrono contrapposte, un movimento circolare che sembra sottrarre del tutto la figura alla forza di gravità. La ricchezza formale della Nike consiste nel fatto che il motivo tradizionale viene reso integralmente in uno stile estremamente moderno, cosa possibile, com’è ovvio, solo a patto che questa modernità di stile non modificasse radicalmente e sotto più punti di vista le strutture di fondo dello schema formale.

Ancora diversa è una figura poco più tarda dell’agorà di Atene, non si sa con certezza se statua acroteriale, ma in ogni caso proveniente da un complesso architettonico: una fanciulla che avanza con passo concitato, con la testa gettata da una parte; il corpo traspare con sensualità dalla veste leggera come un soffio, ma quest’ultima è bruscamente interrotta di traverso al petto e alla parte inferiore del corpo da spessi fasci di pieghe, che tradiscono un principio compositivo chiastico. La struttura consapevolmente articolata dall’Afrodite del Louvre-Napoli è trasformata qui in un movimento violento di tensioni contrapposte: un misto di riflessione e vitalità, tipico per quest’epoca di esasperato razionalismo.

Nike alata. Statua acroteriale, marmo, 415 a.C. ca. Atene, Stoà di Zeus Eleuterio.

Qualora vi si aggiunga la Nike di Peonio, strutturata in modo ancora diverso, apparirà sorprendente il numero delle figure volanti che nella virtuosistica assenza di peso devono aver sortito l’effetto di apparizioni miracolose, così poste in alto in piena aria aperta. Nella scultura attica del tardo V secolo si ripetono due divinità: Atena e Afrodite. Anche se entrambe le dee non venivano più connesse a funzioni eccessivamente limitate, tuttavia due sono le tematiche che ricorrono con maggior frequenza, tematiche che in questo periodo rivestono un ruolo dominante, non soltanto nell’arte, ma nella vita in generale: il patriottismo in politica e la felicità nella vita privata.

Atena incarna soprattutto la fama e lo splendore della sua città, Atene. Le grandi statue di Atena in armi e con tutti i suoi attributi dell’età di Pericle, particolarmente la Prómachos e la Parthénos di Fidia, avevano mostrato a tutti, all’interno di un complesso programma figurativo, la grandezza e la potenza di Atene. Nel periodo successivo la dea appare spesso in gruppi di statue cultuali collegata con importanti divinità: ad esempio, con Efesto o con Ares che in tal modo acquistano legami singolarmente stretti con la città.

Fra le statue rimaste l’Atena Hope-Farnese con l’ampia egida e l’elmo ricco di decorazioni, segue la concezione fidiaca; la mancanza dello scudo attenua il suo carattere guerriero, mentre il manto gettato di traverso le conferisce una solennità tradizionale, alla quale corrisponde anche la patera che certo va supplita nella destra. La figura, con il suo accentuato contrasto fra le parti laterali del corpo, appartiene forse già al primo periodo della guerra: essa attesta la sopravvivenza di quell’orgogliosa sicurezza propria dell’età periclea.

«Atena Farnese». Statua, copia romana dall’originale di Pirro, della scuola fidiaca, V secolo a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Al contrario, l’Atena di Velletri, malgrado il suo formato monumentale, segna il trapasso ad una concezione più in sordina. L’egida è diventata una piccola fascia decorativa, la testa è inclinata verso l’attributo sorretto dalla mano sinistra, forse una Nike. In molte statue di Atena di quest’epoca si può osservare una maggiore accentuazione dei tratti umanamente pensosi, che è poi il sintomo di un mutamento nella temperie generale della città stessa.

Questo processo ha coinvolto persino l’immagine del dio della guerra. Dalle opprimenti esperienze dei primi anni della guerra peloponnesiaca è scaturita una famosa statua di Ares, la cui copia migliore è l’Ares Borghese. Probabilmente ripete la statua di Alcamene che, insieme all’Atena Areia dello scultore Locro di Paro, formava il gruppo culturale del tempio di Ares nell’agorà di Atene. La figura mostra una marcata ponderazione, la gamba in riposo è decisamente avanzata e la testa è accentuatamente inclinata nella stessa direzione di essa: in tal modo è infranto l’intimo equilibrio dello schema chiastico; la disposizione lungo il medesimo asse della testa e della gamba destra fa affiorare pesanti disarmonie. Non è più un dio animato da spirito guerresco, da furia travolgente, ma un dio ben conscio del dolore e della crudeltà di questa guerra: una consapevolezza che traspare anche dalle coeve raffigurazioni di battaglia. la divinità appare dunque piena di discordanze, inserendosi in tal modo in quel clima di instabilità e di contrasti che è tipico di questa generazione inquieta.

Lo Zeus di Dresda mostra il padre degli dèi in una posa volutamente imponente. Muovendo dalla solida compagine del lato relativo alla gamba stante, la figura è costruita tutta aperta e avanza nella medesima direzione grazie alla posizione del piede destro e alla torsione della testa. Quest’ultima, di chiara tradizione fidiaca, s’inserisce in un nuovo periodo non solo per il complesso intrecciarsi dei capelli, ma anche per la perdita di quella sublime lontananza delle opere della piena classicità; ad onta della sua aria regale, lo stesso Zeus è qui riportato in una sfera più prossima agli uomini.

Si comprende dunque come non soltanto i bisogni dei singoli, ma anche il generale senso religioso pubblico si articolassero nella venerazione di dèi ed eroi più vicini alla terra. Nell’Efesto di Alcamene, il dio artigiano come archēgétēs dell’industriosità artistica dell’uomo, era divenuto uno dei progenitori di Atene. Forse intorno al 430 a.C. un gruppo statuario dei dieci eroi delle phylaí fu posto nell’agorà di Atene, come monumento dell’ordine dello stato attico. Una testa di Napoli, aggrondata da una pesante, primordiale capigliatura di riccioli scomposti, e che si ricollega agli eroi delle tribù del fregio partenonico, può darci un’idea di questi eroi dei tempi remoti. Affine è una testa di Codro, copiata su una pasta vitrea romana, che stilisticamente richiama la testa dello Zeus fidiaco, ma per il ricco intrecciarsi della capigliatura è certamente un po’ più recente; è ripresa forse da una statua del santuario di Codro, Neleo e Basile, che fu completamente rinnovato nel 417 a.C. In tale considerazione per gli eroi delle proprie origini si rispecchia l’importanza crescente dei sentimenti patriottici del tempo.

«Zeus di Dresda». Statua, copia di età adrianea-antonina in marmo da un originale di scuola fidiaca del 440-430 a.C. ca. Dresden, Staatlichen Kunstsammlungen.

Inoltre in quest’epoca si sviluppa una chiara predilezione per divinità con risvolti concettuali. Il capolavoro di Agoracrito di Paro era la statua cultuale del tempio della Nemesi di Ramnunte del 430 a.C. circa. Qui la dea era venerata da un lato come signora di piane e animali e la sua immagine la mostrava con un ramo di melo in mano e i cervi sulla corona; ma dall’altro ella era anche la vendicatrice dei diritti umani e la sua potenza si era vista in atto nella non lontana battaglia di Maratona quando erano stati sbaragliati i Persiani; perciò le dee della vittoria erano contrassegnate dai cervi sulla corona. Nell’altra mano una phiálē con teste di negro attestava l’estendersi del potere di questa grande dea fino ai confini del mondo abitato. Di recente sono state identificate copie di questa famosa scultura: una figura dal chiaro carattere afrodisio, il cui corpo non è analizzato sotto il profilo della sua funzionalità organica tramite la ponderazione, ma è raffigurato in ampie masse volumetriche, sulle quali fluiscono ricchi panneggi.

La Nike che Messeni e Naupatti eressero a Olimpia in cima ad un alto pilastro triangolare dopo la vittoria su Sparta a Sfacteria (425 a.C.), ci riporta nel cuore degli eventi della guerra peloponnesiaca. Il momento è una risposta polemica allo scudo votivo appeso dagli Spartani sul culmine del tempio di Zeus ad Olimpia dopo la vittoria sugli Ateniesi a Tanagra (457 a.C.); assieme ad altri consimili anathḗmata esso fa parte di una fitta rete di monumenti che rispecchiano le costellazioni e i conflitti politici di quell’epoca. In questo senso l’arte, a partire dal V secolo, è diventata consapevolmente storica e politica.

Nella figura della Nike il volo è reso tangibile in una maniera del tutto nuova dal mantello che si gonfia come un paracadute. Tecnicamente la statua è un pezzo di bravura: l’impressione è accresciuta dal forte contrasto creato dalle rotondità chiare del corpo e dai solchi scuri del panneggio. Il corpo è posto in risalto sullo sfondo del manto, ed è chiaramente orientato secondo un preciso punto di vista, ribadito anche dal pilastro triangolare. In questo periodo per la prima volta l’osservatore è coinvolto nella rappresentazione come punto di riferimento dell’efficacia di quest’ultima.

Al pari della Nike di Peonio, molte opere dello “stile ricco” sono contrassegnate da una forte carica di sensualità. La cosa è quanto mai evidente nelle numerosissime raffigurazioni di Afrodite di quest’epoca, nelle quali questa generale componente stilistica è divenuta parte integrante del tema stesso della raffigurazione. E, al tempo stesso, è in esse visibile come mai in altre opere quale molteplicità di correnti stilistiche dominò l’arte di quel tempo.

«Afrodite Doria-Pamphili». Statua, copia romana in marmo di fine I secolo d.C. da un originale di Agoracrito di Paro. Paris, Musée du Louvre.

In questi anni si assiste a un grande rifiorire del culto di Afrodite “nei giardini” lungo l’Ilisso. La bellezza della sua statua cultuale, opera di Alcamene, era così straordinaria che si disse che Fidia stesso vi avesse posto mano. Probabilmente è tramandata nel tipo dell’Afrodite appoggiata, che già dal suo apparire, nel 430 a.C. circa, esercitò ampia influenza irradiandosi nei più svariati generi di produzione artistica. Appoggiata leggermente a un pilastro o a un tronco d’albero, la dea porta la gamba sinistra, che è quella in riposo, di fronte al piede destro che è quello portante, così che la figura appare caratterizzata proprio da questa posa elegante. La vibrante torsione del corpo, facendo perno sul fianco sinistro, teso diagonalmente, muove dal sostegno e dal fluente drappeggio che ricade pesantemente sopra di esso, con una grazia ricca di movimento che fa ben comprendere la fama di quest’opera dell’antichità. Più recente è un’Afrodite, che del pari sembra si trovasse in Atene e che rappresenta la più chiara testimonianza di come in Attica si stato recepito lo schema policleteo puro del chiasmo: è l’Afrodite del Louvre-Napoli. La veste leggera, che sembra quasi bagnata, fa trasparire il corpo quasi senza veli; lo solcano pieghe sottili come linee di forza. Lo scaricarsi del peso sulla gamba stante è reso evidente da lunghe linee slanciate a forma di S; in chiastico contrasto al di sopra e al di sotto di volta in volta l’un l’altro corpo è posto in risalto dalle linee aggiranti del panneggio, l’altro lato è ricacciato indietro a mo’ di sfondo. Schema costruttivo razionale e fascino sensuale si fondono qui in modo del tutto singolare. Ancora diversa l’Afrodite Doria-Pamphili: una figura le cui forme esuberanti s’innestano ad una struttura visibilmente allentata del corpo e delle membra in parte divergenti. Qui non è primario l’interesse per un’articolazione chiastica, ma quello per la ricchezza dei motivi del panneggio che ricoprono fluenti il corpo. In questa Afrodite Doria-Pamphili è evidente la dipendenza dall’Afrodite del frontone orientale del Partenone, ma anche un’accentuazione della ricchezza di contrasti. Ancora più innanzi in questa direzione si spinge l’Afrodite dell’agorà di Atene, nella quale il corpo a mala pena si avverte come coerente contesto funzionale e serve ormai solo come sostegno degli abiti che, nelle loro raffinate e sensuali trasparenze, nei loro contrasti di luce e di ombra, nel loro movimento espressivo ed ondeggiante, ma non più fondato su un motivo concreto, toccano il vertice dello stile virtuosistico nella lavorazione del marmo di quell’epoca.

In queste statue di Afrodite si coglie nella maniera più evidente quel che ha comportato questo stile delle vesti “bagnate”: la totale sovranità nella rappresentazione della materia, con lo scopo di trarre gli effetti più esasperati dai volumi corporei, dai sistemi di forze delle figure e, al tempo stesso, dalle capacità sensuali delle superfici.

Da parecchie delle sculture esaminate traspare un forte interesse per gli stati emozionali. Anche sotto questo profilo è stata l’arte partenonica ad aprire nuove strade, ma la generazione successiva è poi andata notevolmente più avanti. Un esempio tipico è il gruppo di Procne e Iti, opera originale di Alcamene del 430 a.C. circa, che lo stesso autore dedicò sull’Acropoli. La scultura è caratterizzata dai contrasti: il fanciullo, che con una forte torsione e con grande espressività stringe al grembo della madre il suo corpo snello e teneramente infantile, e, per contrapposto, la donna massiccia, dalle vesti pesanti, che poggia delicatamente la destra sulla spalla del figlio e al tempo stesso con la sinistra solleva la spada assassina. La composizione rende tangibile la tensione di un momento di profonda crisi emozionale con quell’intensità ben nota anche alla coeva tragedia. Tipico dell’epoca è che i moti dell’animo traspaiano soprattutto dall’atteggiarsi dei corpi. Certo i tratti del volto con la loro sensibilità possono potenzialmente assumersi il rendimento della situazione spirituale espressa nella tematica, ma di per loro tradiscono emozioni meno specifiche e perciò non si differenziano essenzialmente dalle teste di altre figure.

RILIEVI SEPOLCRALI.

Intorno al 430 a.C. riprese in Atene la produzione di rilievi sepolcrali, interrotta all’inizio del V secolo evidentemente a causa di una legge suntuaria contro il lusso delle sepolture. Già a partire dalla metà del V secolo le lèkythoi a fondo bianco si trasformano da oggetti dell’effettivo culto dei morti in monumenti figurati e decorativi sempre più grandi e le scene che vi compaiono sono improntate sempre più ad una tematica funeraria. Questo processo portò di conseguenza alla creazione di monumenti figurati in pietra: stele, loutrophóroi, lèkythoi, che furono poste su terrazze funebri, disposte a mo’ di facciate. Vi si aggiunse la guerra del Peloponneso e la peste, eventi che forse non da soli provocarono la ripresa della produzione di rilievi sepolcrali in Attica, ma che sicuramente la incrementarono fortemente.

Stele funeraria di Eufero. Marmo, 420-410 a.C. ca. Opera di Crito. Un giovane atleta con strigile. Atene, Necropoli del Ceramico.

Uno dei fondamenti importanti di quest’arte sepolcrale attica fu lo stile dell’epoca partenonica, alla cui sensibile severità fu dischiuso il tema della morte con una nuova varietà di angolazioni.

Le forme delle stele che vengono adoperate furono in parte quelle dell’allora fiorente arte funeraria delle isole egee (trasmesse certo dagli scultori che erano stati attirati ad Atene dai programmi edilizi dell’età di Pericle). Il frammento della stele di una fanciulla mostra con chiarezza questa influenza isolana. Anche i committenti in un primo momento sembrano in buona parte essere degli immigrati. Lo sviluppo di questo tipo nel suo insieme va però visto solo nell’ambito della storia di Atene, dove nel V secolo venne elaborato un gran numero di forme diverse, finché all’inizio del IV secolo si creò un determinato canone.

La stele alta e stretta con una figura di profilo si trova ancora solo raramente; la figura del V secolo ha bisogno di uno spazio dove agire potenzialmente più ampio. Così il giovane Eufero, ad esempio, ha relativamente molto spazio dinanzi a sé, non soltanto per sorreggere lo strigile, ma soprattutto per spiegare lo sguardo, la cui intensa profondità non può essere motivata da un gesto concreto, ma che implica l’intero destino di questo giovane prematuramente scomparso; è lo spazio dinanzi alla figura a conferire questa “atmosfera” alla rappresentazione. Una migliore soluzione a questo problema (e pertanto adoperata più di frequente) è offerta dalle figure viste frontalmente o da quelle sedute di formato più ampio, come quella del calzolaio Santippo.

Stele funeraria di Santippo. Marmo, 420-410 a.C. ca. Il defunto nella sua bottega di calzolaio. Atene, Necropoli del Ceramico.
Stele funeraria di Santippo. Marmo, 420-410 a.C. ca. Il defunto nella sua bottega di calzolaio. Atene, Necropoli del Ceramico.

Ma il tema più ricco di sviluppi futuri dell’arte sepolcrale di quest’epoca è la rappresentazione con più personaggi, nella quale la figura trova modo di realizzarsi nel rapporto con un partner. Mentre nella stele di Santippo i bambini sono quasi solo degli attributi, la schiava è per Egesò una vera e propria antagonista. Il tipo è noto fin dall’epoca arcaica, ma qui è elaborato secondo un più severo rapporto di connessione fra le due donne. In entrambe le figure la curva a S dei dorsi (e della sedia) e il semicerchio delle braccia portano a risalire verso le teste, i cui sguardi muti e intenti s’incrociano al centro: un gioiello, tratto da uno scrigno dalla destra protesa, evoca la felicità della vita perduta.

L’evento luttuoso, che è accennato solo in modo assai contenuto sulla stele di Egesò, è invece chiaramente espresso su un rilievo da Egina. Il tipo con un giovane e il suo schiavo si rifà a stele di atleti dello stile severo note al di fuori dell’Attica; ma qui fra le due figure si è inserita la consapevolezza della morte; nessun gesto le unisce, il loro sguardo si perde nel vuoto; il pilastro, al quale si appoggia lo schiavo, deve essere inteso come la tomba stessa. Senza le conquiste dell’arte partenonica certo non sarebbe stato possibile un simile processo d’interiorizzazione privando la scena di qualsiasi azione.

Dall’inizio del V secolo gli uomini sui rilievi funerari ricevono la loro caratterizzazione soprattutto dalla contrapposizione ad altre figure: padrona e serva, genitori e figli, marito e moglie. Come conseguenza dell’adozione di questi temi, e con il favore della guerra peloponnesiaca, vi si aggiunge un nuovo tipo: il guerriero in duello. Esso s’incontra non solo su tombe di singoli, ma anche su fosse comuni, dove venivano sepolti i caduti ateniesi di ogni singolo anno. Il rilievo con cavaliere Albani deve essere appartenuto ad una tomba eretta dalla cavalleria attica per i suoi morti intorno al 430/420 a.C. In un aspro paesaggio roccioso (la cui raffigurazione in un rilievo è una delle più ardite anticipazioni dell’arte del tempo) è un cavaliere, saltato già da cavallo, solleva la spada fin dietro le spalle calando un fendente contro un nemico atterrato e privo di difesa. Tra l’animale che balza in avanti e l’avversario, si colloca il vincitore in un vortice d’impulsi contrapposti (evidenti soprattutto nelle braccia e nell’orlo svolazzante del mantello); al contrario gli sguardi sprofondano intensi l’uno nell’altro, certo legati dalla consapevolezza di un destino comune sul campo di battaglia. In un senso tutto democratico, l’anonimo cavaliere sta a rappresentare tutti i caduti; egli incarna il valore della collettività.

Stele funeraria di Egesò. Marmo, 420 a.C. ca. La donna e l’ancella. Atene, Necropoli del Dipylon.

I rilievi sepolcrali mostrano dunque gli aspetti e i rapporti fondamentali della vita precedente. Inoltre nelle raffigurazioni è inclusa spesso in modo stranamente irreale la consapevolezza della morte. Come sulle lèkythoi a fondo bianco le scene della vita sono sempre più fortemente impregnate di accenni alla morte e in tal modo acquistano una singolare molteplicità di aspetti, così sulla maggior parte dei rilievi funerari più statici il morto appare spesso sprofondato in se stesso o con gli occhi sbarrati nel vuoto, e i sopravvissuti sono più volte piombati nell’afflizione. E, come sulle lèkythoi, su alcuni monumenti qualitativamente superiori questo tratto è ancor più sottolineato con l’introduzione di oggetti del culto dei morti come la lèkythos, la benda o la tomba stessa. Tuttavia la morte non è contrapposta ai sopravvissuti come un’altra esistenza nell’aldilà, come spesso si è pensato. Il tema è la vita perduta.

Questa interpretazione vale perfino per un’apparente eccezione: l’inusitata lèkythos marmorea di Mirrine, un’opera eseguita secondo lo stile lineare della fine del V secolo. Hermes Psicopompo con mano delicata ma inesorabile porta la defunta lontano dai suoi familiari che la salutano per l’ultima volta. È impressionante il carattere irreale della scena: i parenti guardano soltanto la defunta; Hermes resta loro invisibile, si colloca in un rapporto spaziale e irrazionale fra i vivi e i morti ed è connesso alla sola Mirrine. Questa non vede né lui, né i suoi; è già di gran lunga rapita al mondo dei vivi e segue il dio con passo titubante, la mano rattrappita aggrappata al mantello, tutta compresa nel suo destino. Il tema della comunanza di vita brutalmente interrotta è qui portato fino ai confini della morte.

In luogo dell’arte relativamente omogenea della nobiltà arcaica con la sua qualità quasi sempre eccellente e i suoi temi dall’impronta aristocratica, qui si chiude un mondo assai stratificato. Accanto a pochi capolavori compare un’ampia produzione di qualità corrente, in parte con rilievi di modeste dimensioni, connessa con le fasce sociali inferiori; accanto a membri di buone famiglie, spesso giovani uomini e donne, s’incontrano il calzolaio, il fabbro e simili; non di rado i committenti sono meteci e molte pietre tombali sono state rinvenute presso il Pireo. La famiglia con le donne, i bambini e gli schiavi gioca il ruolo centrale: è un mondo “borghese” che si presenta in forme tipicizzate.

RILIEVI VOTIVI E UFFICIALI.

La religiosità privata determinò nel tardo V secolo una nuova fioritura di rilievi votivi, eretti in onore non solo delle grandi divinità olimpiche, ma soprattutto di quegli dèi ed eroi che assistevano gli uomini nei loro bisogni personali. Particolarmente ci è noto da numerose testimonianze figurative il culto di Asclepio, assai fiorente in quest’epoca. Un esemplare caratteristico, proveniente dal Pireo, mostra una guarigione miracolosa: la malata giace su un letto immersa nel sonno guaritore; Asclepio e Igea le si accostano, la dea in severo atteggiamento ieratico, il dio, al contrario, caritatevolmente curvo in avanti; e ancora, a rispettosa distanza, la famiglia raffigurata in dimensioni minori.

Asclepio, assistito da Igea, compie una guarigione taumaturgica. Bassorilievo, marmo, inizi IV secolo a.C. dal Pireo.

Circa contemporaneamente, verso il 400 a.C., un santuario campestre di Cefiso fu adornato di molti ex voto. Un rilievo particolarmente grane e di un certo livello qualitativo fu dedicato da una certa Senocratea per l’educazione di suo figlio: in primo piano Cefiso si china clemente verso i mortali raffigurati più piccoli e poggia i piedi su un altare dedicatogli da Senocratea; attorno a quest’ultima compaiono varie divinità ed eroi, che erano adorati nel medesimo santuario. La scena è chiaramente dedotta dal gruppo centrale del fregio orientale del Partenone; ma le figure divine sono qui più vicine ai mortali che non su quel monumento ufficiale dello stato del periodo pienamente classico.

Alcuni tratti di rilievi votivi richiamano da presso l’arte sepolcrale rifiorita in Atene nel medesimo torno di tempo: la profonda ed intima sensibilità per il dolore e la morte, il ruolo importante della famiglia, soprattutto delle donne e dei bambini, in breve un’intensità di sentire sono posti in primo piano assieme all’importanza che viene ad assumere il privato, il personale.

I rilievi con i quali più volte vengono decorate le iscrizioni ufficiali hanno avuto importanza fino ad oggi nell’ambito degli studi soprattutto come punti di riferimento per la cronologia storico-artistica perché offrono una datazione precisa. Si è fatta meno attenzione invece al loro contenuto, mentre questo aspetto è assai caratteristico per quest’epoca. Sono affini ai rilievi votivi sia nella loro forma esteriore che nella loro funzione di doni votivi; quanto al contenuto rappresentano invece una varietà a sé. Ad un trattato fra Atene e Samo (sottoscritto nel 403/2 a.C.) appartiene un rilievo nel quale compaiono Atena e l’Hera di Samo che si porgono la mano a ratifica del trattato: non si tratta di divinità fatte oggetto di un omaggio cultuale, come nei rilievi votivi, ma delle divinità rappresentanti dei due Stati. Vien qui tradotto in immagine un avvenimento politico. Proprio nella sfera politica si diffondono sempre più in quest’epoca le rappresentazioni concettuali, e non è certo un caso che questi rilievi legati a documenti ufficiali siano noti a partire dal V secolo e si facciano sempre più numerosi dalla fine del secolo in poi.

Bassorilievo votivo al fiume Cefiso. Dedicato da Senocratea. Marmo, fine V secolo a.C. Museo Archeologico Nazionale di Atene.

RILIEVI VARI.

L’estasi dionisiaca è il tema di un ciclo di Menadi, spesso poi ripetute nei rilievi neoattici. Il movimento non è tanto riposto nei corpi quanto nel vorticare delle vesti, i cui lembi in parte non seguono più neppure impulsi reali, ma suggeriscono l’ebbrezza della danza in maniera tutta formale (a volte si tratta di un ornato quasi astratto). Lo scultore, probabilmente Callimaco, ha sviluppato in queste figure una maniera calligrafica. Il tema dovette essere di una certa attualità all’epoca: nelle Baccanti di Euripide il thiásos dionisiaco sta a significare la speranza della liberazione dalle preoccupazioni quotidiane, al limite il desiderio nostalgico per un immaginario e lontano paese di sogno, sede della felicità (chiaramente un tipo diffuso di fuga dalla realtà, dall’oppressione degli eventi del momento).

Menade danzante. Bassorilievo, marmo pentelico, copia romana di età augustea dall’originale attribuito a Callimaco. New York, Metropolitan Museum of Art.

Del pari in copie romane è tramandato un gruppo di quattro famosi rilievi con scene mitiche, ognuna con tre figure, che partecipano assai da vicino all’atmosfera dei rilievi funerari. Su uno di essi è raffigurato il momento carico di tensioni in cui Orfeo porta fuori dagli Inferi Euridice, ma infrangendo il divieto la guarda in viso prima del tempo ed Hermes, il dio che guida i morti, la trattiene e inesorabile l’afferra per il polso per ricondurla indietro. La composizione, nel ristare e nel volgersi delle figure, nell’incrociarsi delle braccia e delle mani, descrive con grande efficacia numerosi nessi interni. La coppia mortale strettamente unita in contrapposizione al dio, i due uomini simmetricamente ai due punti opposti e nel mezzo la donna della quale si decide la sorte; Euridice già legata ad Hermes per la consonanza del movimento e separata da Orfeo: in questi rapporti è resa tangibile tutta la fatale odissea dei personaggi. La scena va vista nel contesto degli altri tre rilievi pertinenti: Medea e le Peliadi attorno alla pentola in cui Pelia doveva essere ringiovanito; Eracle che libera Teseo dagli Inferi, mentre Piritoo rimane indietro; Eracle fra le Esperidi. Finora non è stato ravvisato con sicurezza quale sia il nesso interno che lega il ciclo. È chiaro comunque che in esso i destini degli eroi sono in genere commisurati alle possibilità di superamento della morte: un tema che sembra aver interessato con rinnovata intensità quest’epoca.

SINGOLI ARTISTI.

Una delle particolarità di quest’epoca consiste nel fatto che ora le varie correnti artistiche divergono l’una dall’altra assai più di prima. È indubbiamente una conseguenza di un momento di maggiore riflessione dell’operare artistico, ma rispecchia anche le differenze sempre più profonde dei modi e delle concezioni di vita generali. In questi decenni si trovano l’una affiancata all’altra e nette come mai prima tendenze consapevolmente conservative, e questo sia in arte che in ogni altro campo dell’attività umana.

L’archeologia, sulla scia della tradizione del XIX secolo, ha più volte inteso la storia dell’arte come la storia degli artisti. Oggi non è più concepibile questo isolamento delle singole personalità artistiche. Ci si comincia ad accorgere che l’operare artistico – soprattutto in quest’epoca, quando tutta la grande arte era pubblica – germoglia da una situazione storica generale nella quale accanto all’artista rivestono un’importanza determinante anche il committente ed il corrispondente pubblico. In un’analisi del genere tuttavia non va dimenticato che anche il ruolo dell’artista in seno alla società muta e che, proprio nel V secolo, in particolare nella seconda metà, si è verificato un cambiamento significativo. Gli artisti, infatti, avevano sviluppato un’acuta consapevolezza sia dei loro mezzi formali sia del loro personale stile, avevano in parte elaborato teoricamente il modo di operare; il crescente individualismo di singole personalità andò a coincidere con una società disposta ad accogliere ammirata manifestazioni d’eccezione anche in quest’ambito. In quest’epoca perciò ha maggior senso che in altre epoche una ricerca delle singole personalità artistiche. Tuttavia, l’eccessiva tendenza delle passate generazioni a definire i “maestri” spesso ha portato a trasgredire alle regole di un rigoroso metodo di ricerca, al punto che oggi da più parti si è diffuso un senso di rinuncia e di scetticismo. D’altra parte, proprio in questi ultimi tempi, si è giunti a definire sulla base di criteri obiettivi alcune delle opere dei più famosi scultori di questi decenni, note alla tradizione scritta. Esse ci offrono nuovi punti di vista per l’impostazione della ricerca. Qui con la dovuta cautela verranno delineati i caratteri di due esponenti di questa generazione, non certo per dar vita alla vecchia “storia degli artisti”, ma per dare un esempio del ruolo che ebbero in quell’epoca le personalità artistiche.

ALCAMENE.

Questo artista è uno dei primi scolari di Fidia; raggiunse già fama autonoma quando il suo maestro era ancora in vita e fin verso la fine del secolo rimase lo scultore più importante in Atene. Qui lavorò, a quel che pare, soprattutto su commissione dello Stato alla decorazione figurata dei templi e in particolare ad una serie di statue cultuali. Sono state identificate con buona dose di probabilità numerose sue opere e possiamo farci un quadro relativamente ricco della sua attività.

Procne e Iti. Gruppo scultoreo, marmo, V sec, a.C. Opera di Alcamene. Paris, Musée du Louvre.

Si è conservata nell’originale la Procne, che egli stesso dedicò sull’Acropoli, una pesante figura con il peplo sulla scia delle figure femminili del Partenone, la cui modernità risiede soprattutto nel contrasto formale e, al tempo stesso, emozionale con il figlio Iti, che si rifugia nel suo seno con una torsione del corpo estremamente espressiva. Circa nel medesimo torno di tempo, verso il 430 a.C., deve essere stata creata la sua opera più famosa, l’Afrodite dei Giardini. Questa è stata ravvisata in maniera convincente in una figura morbidamente appoggiata che del pari rielabora forme partenoniche in una grazia vibrante. Durante la prima fase della guerra del Peloponneso, ad Alcamene dovette essere affidato l’incarico di eseguire la decorazione scultorea del tempio di Ares. L’immagine cultuale ci è tramandata probabilmente dall’Ares Borghese, che mostra nuove possibilità espressive nella sua voluta mancanza di ponderazione; invece i frammenti di un fregio provenienti dal tempio di Ares tradiscono legami sia con la Procne che con l’Afrodite. Le immagini cultuali dell’Hephaisteîon nell’agorà risalgono al periodo della pace di Nicia. La testa e il corpo dell’Efesto sono attestati da copie; il dio è rappresentato al tempo stesso come patrono degli artigiani e come il grande progenitore dei mitici re ateniesi. Il supposto rilievo della base con la nascita di Erittonio riprende in una figura il tipo dell’Afrodite. Vi si aggiungono due immagini divine arcaizzanti, entrambe appartenenti ai culti dell’ingresso dell’Acropoli ateniese. L’antica immagine tricorporea della dea riceve per la prima volta la sua forma poi rimasta canonica nell’Ecate Epipirgidia, posta presso il tempio di Atena Nike: tre figure uguali di fanciulla in abbigliamento arcaico, prive di ponderazione, disposte ordinatamente attorno a un palo. L’opera non è nota da copie, ma si può ravvisare in un gran numero di rielaborazioni nell’ambito della produzione artigianale.

A sinistra, accanto all’ingresso dei Propilei, doveva trovarsi l’Hermes Propileo, un’erma con una corona di grossi riccioli arcaizzanti e con una barba a punta e simmetrica attorno al volto pieno di dignità. L’opera, che deve essere stata creata in età periclea, è stata spesso copiata e designata come opera di Alcamene in una copia di Efeso. Dello scultore la tradizione scritta ricorda inoltre il Dioniso del santuario presso il teatro dedicato a questa divinità e la Hera di un tempio sulla strada del Falero. Mantinea gli affidò l’incarico di eseguire un Asclepio. La fama di Alcamene è legata a queste immagini divine.

«Ares Borghese». Statua, copia romana in marmo del I-II secolo d.C. da un originale di Alcamene.  Paris, Musée du Louvre.

Queste opere parlano un linguaggio tradizionale e di grande solennità ed è certo questa la ragione per cui ad Alcamene furono commissionate le immagini cultuali dei santuari più venerati. Vi corrisponde il sentire di una vasta corrente all’interno della popolazione ateniese dell’epoca che, tornando ai valori tradizionali, si riprometteva di ristabilire l’ordine pubblico. Ma non basta semplificare così le cose quando si voglia formulare un giudizio su Alcamene. Un ritorno al passato puro e semplice, senza riflettere sulla mutata situazione dei tempi, era impossibile e infatti in Alcamene le forme tradizionali appaiono rielaborate in conformità alle esperienze del presente.

Con chiara consapevolezza, come pochi altri artisti attici, Alcamene ha pienamente accolto lo schema della ponderazione chiastica di origine policletea. Ma lo scopo cui tende attraverso di essa è assai diverso da quello di Policleto, che nel suo sistema di contrapposizioni vuole rendere evidenti le funzioni fisiche del corpo e delle sue parti: Alcamene, in maniera assai più varia, adopera le possibilità offerte dalla ponderazione come un mezzo espressivo. Nell’Efesto la gamba completamente in riposo è avanzata con tutta la pianta del piede, per significare la pesantezza e l’incapacità a sorreggere effettivamente il corpo. L’Ares con la sua gamba portata in avanti e l’inclinazione della testa spezza completamente l’ordine chiuso del sistema chiastico, chiaramente per esprimere uno stato d’animo di oppressione e d’inquietudine. Nell’Afrodite, d’altro canto, l’insieme formato dal lato sinistro tutto teso diagonalmente con il fianco destro che torcendosi si porta in avanti, rappresenta una rielaborazione ampiamente riuscita del chiasmo policleteo che pone in risalto tutta la leggiadria della dea. Sia nell’Afrodite sia nell’Ares in luogo dello slancio contrapposto delle membra del corpo si realizza un movimento che corre quasi senza interruzioni lungo una diagonale dal piede avanzato fino alla spalla sinistra arretrata e che è tipico per il tardo V secolo. Infine, nel gruppo di Procne si crea nelle due figure una brusca contrapposizione fra la verticalità pesante dell’una e la fragile curva dell’altra – Iti sembra la gamba in riposo di Procne – e in tal modo vengono espressi lo stato d’animo della madre, carico del peso del destino, e la mancanza di difesa del figlio che si stringe a lei inerme.

Dunque, Alcamene fa sue, riempiendole di nuovi significati, le possibilità insite nella ponderazione e le rielabora giungendo a espressioni del tutto nuove. È determinante in questo processo che non si tenda più tanto ad un sistema di forze fisiche, cioè a seguire le leggi di natura, ma a delineare caratteri individuali o impulsi dell’animo che frantumano sempre più l’ordine che fino ad ora aveva dominato la struttura complessiva delle figure. Così Alcamene, in maniera quanto mai differenziata, ha destinato i mezzi espressivi del suo tempo alla rappresentazione di un’esperienza che certo allora dovette essere qualcosa di assai nuovo: l’importanza crescente di motivi e interessi personali in ogni sfera della vita.

Questo spostamento delle capacità espressive delle forme artistiche su un nuovo piano fu di grandissima importanza per il successivo sviluppo dell’arte. Sotto questo profilo, Alcamene, malgrado il suo atteggiamento di fondo tradizionalista, fu uno degli artisti che schiusero la via alle esperienze del IV secolo.

AGORACRITO.

La tradizione scritta ci dice che questo scultore era originario di Paro, che era lo scolaro prediletto di Fidia e – anche se ad un gradino più basso nel favore degli Ateniesi – il più importante concorrente di Alcamene. Solo dalla recente identificazione della Nemesi di Ramnunte possiamo farci un’idea fondata del suo stile. Si tratta di una statua nella quale la ponderazione non è adoperata come principale mezzo figurativo, né per analizzare il corpo e le sue funzioni, come in Policleto o nel maestro dell’Afrodite Fréjus, né per dare espressione a stati d’animo riposti; piuttosto il corpo trae sviluppo dall’accentuata verticalità del lato stante in tutta la sua ampia pienezza e rotondità ed è posto in risalto nelle sue qualità sensuali dalla ricchezza fluente dei panneggi.

«Afrodite Louvre-Napoli». Statua, copia romana in marmo di fine I sec. d.C. da un originale greco del V sec. a.C. Paris, Musée du Louvre.

Grazie alla Nemesi possiamo ravvisare in alcune copie la Madre di Agoracrito, che stava nell’agorà di Atene. Inoltre possiamo aggiungere lo Zeus di Dresda, che nell’atteggiamento del corpo e nell’andamento del panneggio è assai vicino alla Nemesi e presenta anche stretti nessi con i frammenti dei rilievi della base della Nemesi stessa. In tutte queste statue è chiaro il rapporto con l’arte partenonica nello Zeus con il Poseidone del fregio orientale, nella Nemesi e nella Madre con le figure K, L, M del frontone orientale. Inoltre, all’Afrodite giacente di questo gruppo frontonale si riallaccia l’Afrodite Doria-Pamphili, sia nella caratterizzazione del panneggio sia nella compagine allentata del corpo; anche questa scultura deve essere stata creata almeno nella cerchia di Agoracrito.

Questo scultore fu sicuramente uno dei più importanti artisti che dall’arte partenonica svilupparono la ricchezza virtuosistica del puro “stile ricco”. D’altro canto egli non fu l’unico artista canonico di questa corrente: Peonio di Mende e Callimaco si erano proposti i medesimi effetti, ma li raggiunsero con altri mezzi. Fino ad oggi non si sa quasi nulla dei committenti di Agoracrito, perciò sono possibili solo vaghe supposizioni su quale fosse la cerchia che apprezzava questo stile.

CARATTERI GENERALI DELLA SCULTURA IN ATENE ALLA FINE DEL V SECOLO.

Nella seconda metà del V secolo Atene, accanto ad Argo, acquista una posizione sempre più chiaramente preminente fra i centri produttori di opere d’arte in Grecia. L’arte di Fidia e dei suoi scolari ben presto andò imponendosi con sempre maggiore autorità anche al di fuori di Atene. Atene era predestinata a divenire il centro della Grecia, sia per le arti figurative sia per le altre sfere culturali, per la presenza di un pubblico largamente intellettuale che, con uno spiccato ottimismo razionale, discuteva animatamente anche i problemi dell’arte. Le manifestazioni di arte figurativa venivano osservate con occhi vigile e critico, sia per le questioni relative ai contenuti rappresentati, come per le ambiziose pitture fatte fare da Alcibiade per la sua vittoria sportiva e che suscitarono dispute fra i giovani e i benpensanti (Plutarco, Vita di Alcibiade, 16), sia per problemi squisitamente artistici, come per Callimaco del quale si criticò che per l’eccessiva accuratezza andasse perduta nelle sue opere la grazia (Plinio, Naturalis Historia, XXXIV 92), ed è tipico dell’epoca che fino a quel momento era stato uno degli indiscussi fondamenti dell’arte. Un’idea dei dibattiti di quei tempi ci è fornita dai dialoghi fra Socrate e Parrasio e lo scultore Clito, tramandati da Senofonte, nei quali trovano eco le leggi formali del chiasmo, il procedimento eclettico di un modo di rappresentare idealizzato e le possibilità di un tipo di raffigurazione psicologica (Senofonte, Memorabili, III 10, 1). In questo periodo furono soprattutto gli stessi artisti a cercare i presupposti per la creazione di una teoria artistica, presupposti già delineati da Policleto; in singoli casi si colgono collegamenti con la sofistica. La struttura razionale dell’Afrodite del Louvre-Napoli è chiaramente un segno di questa consapevolezza presente nell’operare artistico.

Questo era il clima spirituale nel quale alcuni degli artisti più notevoli furono esaltati al punto da divenire personalità celebrate. Toccò soprattutto a pittori come Zeusi e Parrasio, che con il loro comportamento stravagante, la loro autoesaltazione e non da ultimo il prezzo delle loro opere, attestano una posizione sociale simile a quella dei sofisti; ma questo processo, in maniera generale, deve aver investito anche la scultura. A quanto sembra, gli artisti più importanti assunsero un profilo individuale sotto aspetti quanto mai disparati. In questo periodo tendenze stilistiche contrapposte sono così pronunciate come solo di rado era accaduto per l’innanzi. L’antitesi fra stile “antico” e stile “nuovo”, che in generale corre per le commedie di Aristofane, si coglie anche nell’arte figurativa; alla corrente conservatrice di Alcamene si contrappongono opere come la Nike di Peonio, la balaustrata delle Níkai o le Menadi di Callimaco, che devono aver rappresentato il dernier cri in questo campo.

Peonio di Mende. Nike in volo. Statua acroteriale, marmo, fine V secolo a.C. ca. Olimpia, Museo Archeologico.

A tutt’oggi ben poco di certo si può dire sui gruppi sociali che sostennero l’una o l’altra corrente, sui fondamenti e la profondità della consapevolezza che era in gioco in quest’ambito. Mentre da alcune testimonianze Alcamene si può inquadrare come un esponente della democrazia tradizionale e delle sue concezioni religiose (Pausania, IX 11, 6), non sappiamo assolutamente nulla dei promotori delle correnti più virtuosistiche.

Uno dei motivi ricorrenti di quest’epoca è quello del volo. Tutte le figure volteggianti e sospese, come la Nike della stoà di Zeus o quella di Peonio, sono svincolate dalla forza di gravità con inaudita arditezza. Le statue di pietra diventano leggere figure dell’aria; la pesantezza della materia è superata dall’arte dell’uomo. Questa sensazione che tutto è “fattibile” corrisponde alla forte consapevolezza di progresso di quei decenni, radicata soprattutto nei sofisti; essa è orgogliosamente formulata dal pittore Parrasio quando dice di aver raggiunto i confini dell’arte (Ateneo, Deipnosofisti, XII 542e). L’immagine più rappresentativa di tale pretesa fu il motivo del volo. Così Aristofane trasferisce le sue idee fantastiche (e le sue speranze) in un utopico regno dell’aria (gli Uccelli, le Nuvole, la Pace); un’aspirazione ai “voli intellettuali” deve essere stata all’epoca un ideale senz’altro proverbiale (Uccelli, 1437 sgg.). L’arte figurativa con le sue immagini dell’aria perseguì le medesime tendenze.

Fu soprattutto il panneggio ad offrire i mezzi formali per il raggiungimento di questi effetti. Non si può valutare appieno lo stile di quest’epoca se lo si giudica alla stregua di un formalismo puramente calligrafico. La tendenza più importante è rappresentata dal fatto che nelle opere di questo periodo la stoffa degli abiti è spessissimo ampiamente svincolata dalle leggi di natura, dal peso della materia; che quest’ultima – nell’ambito del pensabile per quell’epoca – diventa plasmabile pressoché illimitatamente e che con tali mezzi formali si possono concepire i più arditi motivi figurativi. Come i motivi di danza o di volo senza peso, così anche la stilizzazione calligrafica, ornamentale risulta qui dall’intento di padroneggiare i problemi della materia. Questo proposito di plasmare sovranamente la realtà secondo le proprie concezioni ai fini di determinati effetti è strettamente imparentato all’idea di fondo dell’allora nascente retorica.

Quando però la materia è trasformabile con troppa facilità, quando le concezioni formali trovano in essa una realizzazione troppo priva di fatica, quando essa non deve essere più variata secondo la molteplicità di aspetti della realtà concreta, allora si affaccia il pericolo di formule che si possono ripetere con una certa leggerezza. Qui sta la causa di fondo della comparsa in quest’epoca di un manierismo che è in parte da ravvisare anche nelle opere più note e più pretenziose.

Inoltre spesso è chiamata in causa anche una buona dose di virtuosismo tecnico. Il superamento di difficoltà tecniche fuori dell’ordinario, per esempio nella Nike di Peonio, deve aver rappresentato l’orgoglio dell’artista esecutore né più né meno che la sensibilità raffinata della ricchezza di piani della Nike dal sandalo slacciato. Probabilmente è legato a queste tendenze il fatto che ora, a poco a poco, il marmo ridiventa rispetto al bronzo il materiale prediletto dagli scultori. Nell’opera di Peonio il brillante livello dell’esecuzione si sposa con l’elevata arditezza della concezione, la cui novità suscitò certo uno scalpore pari ai motivi sensazionali di alcuni pittori contemporanei.

La tendenza a voler far colpo sullo spettatore, che è evidente in queste opere, contribuì largamente a modificare l’insieme della struttura delle figure. Queste sono spesso dilatate dai lembi del mantello usati a mo’ di sfondo, che formano una specie di nicchia scura sulla quale risaltano chiari i corpi. Così le statue non sono più immagini autonome a tutto tondo nel senso antico, ma oggetti da guardare da un ben accentuato punto di vista, messi in scena per uno spettatore supposto in una ben precisa collocazione. È lo stesso rapporto con lo spettatore che si istituisce nella pittura di Parrasio, il quale cercò con la sua linea di contorno di rendere visibili anche le parti posteriori delle figure, cioè di porre sotto gli occhi dello spettatore in un solo sguardo d’insieme gli elementi essenziali delle immagini raffigurate. Ed è proprio per porre la figura volutamente in relazione con l’osservatore che Zeusi suscita l’impressione della tridimensionalità con la gradazione dei toni (skiagraphía): in tal modo la realtà oggettiva è subordinata alla visione ottica dello spettatore. Similmente in scultura si sviluppano forme che non raffigurano primariamente la concreta realtà corporea, ma innanzitutto intendono trasmettere un’impressione visiva: nelle Níkai della balaustrata o nell’Afrodite dell’agorà le vesti sono in parte accennate soltanto da segni graffiti e corpi e panneggi sono individuati da forti contrasti di luce ed ombra; nelle Menadi di Callimaco, come in numerose altre opere, il movimento delle vesti non è più causato dall’atteggiamento o dall’azione del corpo, ma al contrario si suscita nello spettatore l’impressione di un corpo in movimento attraverso il volteggiare dei panneggi. L’io dello spettatore è dunque riportato al centro dell’interesse al pari dell’io dell’artista figurativo. Questi sviluppi procedono di pari passo.

Rhamnous panosNemesi. Statua, copia romana in marmo del II secolo d.C. dall'originale di V secolo a.C. di Agoracrito a Ramnunte. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.undaki Pin
Nemesi. Statua, copia romana in marmo del II secolo d.C. dall’originale di V secolo a.C. di Agoracrito a Ramnunte. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Ma anche le correnti più conservatrici, come quella di Alcamene, non si fermano alla ripetizione di concezioni della piena classicità. Al di là delle acquisizioni dell’arte fidiaca l’arte del V secolo aveva elaborato in tutte le sue correnti nuovi modi di intendere la figura umana. Alcamene rielaborò tenacemente la ponderazione classica facendone un mezzo per caratterizzare le figure nella loro intima natura. Molte opere di quest’epoca attestano come la composizione a chiasmo perda sempre più la sua importanza fondamentale per la costruzione della figura. Certo non viene negata la forza di gravità, ma la dialettica fra peso e forze contrarie non caratterizza più le figure così totalmente come per il passato. Nelle kórai più moderne dell’Eretteo o nell’Afrodite Doria-Pamphili le singole parti della figura vengono a porsi in un più accentuato contrasto. Come le figure alate dello “stile ricco” tentano di vincere la forza di gravità, così qui è generalmente palese che si prescinde da quelle forze che determinano la figura dall’esterno e ci si concentra su un sistema di forze interne ad essa, svincolando la singola immagine da ordini super-imposti. A partire dalla fine del secolo il movimento dal ritmo più breve, spesso violento delle figure tradisce impulsi più individuali, più determinati da una ben precisa volontà.

Del pari le figure nei fregi di battaglia di quest’epoca agiscono con maggior veemenza e al tempo stesso vengono tenuti presenti con nuova intensità anche i moti emozionali. La fatica e il dolore dei combattenti sul fregio di Phigaleia, la tensione intima del gruppo di Procne, l’aria oppressa e triste dell’Ares Borghese, l’esperienza interiorizzata del destino di morte sui rilievi sepolcrali nascono tutti dalla medesima sensibilità per gli atteggiamenti dello spirito. La crescente predilezione in quest’epoca per temi afrodisiaci e dionisiaci rientra nel medesimo quadro. Inoltre i rilievi votivi attestano il ripiegamento su divinità come Asclepio che sono più vicine agli uomini e ai loro bisogni personali che non le grandi divinità olimpiche. Vi si aggiunge la penetrazione di culti stranieri che spesso coinvolgono emozionalmente i loro fedeli in una maniera ignota fino a quel momento.

Il significato sociologico di questo sviluppo è evidente soprattutto nei rilievi funerari. Questi si rifanno sempre più alla sfera privata della famiglia. Attraverso questo processo d’imborghesimento diventano anche per gli strati sociali più bassi un’adeguata forma espressiva di autorappresentazione.

Ma, sotto altri aspetti, anche le tematiche ufficiali sono portate innanzi con nuova intensità. Figure di dèi e di eroi evocano lo splendore dell’arcaismo attico e le origini autoctone della città e, cosa inaudita fino a questo momento, nel tempio di Atena Nike è celebrato in un edificio sacro persino un passato storico assai recente. Il generale accrescersi del sentimento patriottico si coglie particolarmente nel gran numero di statue di Atena di quest’epoca; e la Nike di Peonio ci fa intendere, oltre a ciò, come in questi monumenti pubblici la politica può essere introdotta come una sfera ampiamente autonoma.

Eracle combatte contro le Amazzoni. Bassorilievo, marmo, 400 a.C. c. dal fregio interno alla cella del Tempio di Apollo a Bassae-Phigaleia. London, British Museum.

Tutte queste manifestazioni non sono di poco peso per la storia dell’epoca. Nella polarizzazione di tendenze patriottiche e private si fa evidente un sintomo della crisi della pólis classica. La preminenza del tutto fuori dell’ordinario di alcuni artisti eccezionali corrisponde ad un processo generale che investe l’epoca e nel quale individui fuori della norma mettono sempre più in pericolo l’omogeneità della compagine sociale. La soggettivizzazione dell’arte è parte di una profonda trasformazione dell’intero modo di porsi dinanzi alla vita. Un accentuato entusiasmo, la ricerca di nuove, violente sensazioni e al tempo stesso un esaltato ottimismo razionale sono diffusi ovunque. Si usa far risalire questa evoluzione quasi esclusivamente all’influenza della guerra o forse della peste, e, per la verità, alcuni dei suoi fattori sono posti in connessione da Tucidide come queste esperienze. Le radici si possono però cogliere già prima in molti campi, anche in quello dell’arte; oggi difficilmente si dà credito alla possibilità di una simile puntuale influenza degli eventi storici sulle concezioni di vita, piuttosto si preferisce vedere all’opera più genericamente mutamenti storici. Tuttavia queste manifestazioni e in particolare queste opere d’arte appartengono all’epoca della guerra peloponnesiaca che senza dubbio favorì l’evoluzione e la portò alle estreme conseguenze. Le espressioni di quest’arte sono da intendere solo come la specifica risposta che i contemporanei diedero agli eventi della vita che li coinvolsero, eventi dai quali è impossibile escludere questa guerra.

Lo “stile ricco” culminò in ardite artistiche figure, come le Menadi di Callimaco, in un volo verso l’alto che sia tematicamente che stilisticamente rappresentò una fuga dalla realtà. Ma la via battuta da questo stile fu un vicolo cieco che si rivelò inutilizzabile per dominare la realtà. Questa esperienza non sarebbe stata comunque risparmiata a quell’epoca, ma senza dubbio fu fortemente incrementata dalla deludente chiusura del conflitto; la comparsa di un nuovo stile, pesante e realistico, cade, particolarmente in Atene, proprio negli anni del fallimento. Questo nuovo stile non si riallaccia alla corrente virtuosistica dello “stile ricco”, ma piuttosto a quella tendenza che aveva dischiuso il mondo privato e i suoi motivi individualistici e, come contrapposto a questo, aveva raffigurato gli dèi nella forma tradizionale.

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Theocr. Idyl. II – Le incantatrici (Φαρμακεύτριαι)

di B.M. Palumbo Stracca (ed.), Le incantatrici (Φαρμακεύτριαι), in Teocrito, Idilli e epigrammi, Milano 2004, pp. 79-95.

 

Nel cuore della notte una donna, Simeta, assistita dalla sua schiava, compie oscure pratiche magiche. Tradita dal suo uomo, e ondeggiante tra passione e desiderio di vendetta, alterna magia nera a magia bianca; da una parte, attraverso quegli incantesimi, si augura che l’amante muoia, dall’altra, contraddittoriamente, desidera che torni al suo amore. Il componimento è tutto un monologo della donna, la quale dapprima descrive minutamente i vari atti di magia, man mano che li va compiendo, e poi, volgendosi alla Luna scelta a confidente, rievoca i vari momenti della sua storia d’amore, dall’innamoramento al primo incontro, fino alla presente infelicità. Ma nella placida notte lunare la pena della donna pare quasi addolcirsi, e il carme si conclude in un’atmosfera di dolente rassegnazione: Simeta sa che, malgrado tutto, continuerà a portare anche nel futuro il suo fardello d’amore e di dolore.

Il tema, sentimentale e popolare, è svolto nella forma tradizionale del mimo, rivisitato nel più puro spirito alessandrino. Nel tratteggiare il personaggio di Simeta, nel cogliere in esso tutte le sottili complicazioni di un animo femminile, Teocrito rimane costantemente, e mirabilmente, in bilico tra adesione sentimentale e sorridente ironia: è questa la sua cifra stilistica e intellettuale, e non coglierebbe nel segno chi volesse accentuare un aspetto a detrimento dell’altro. L’attenta cura formale si rivela nella solita architettura della composizione: nella prima parte il refrain ripartisce in maniera regolare i vari momenti delle operazioni magiche; nella seconda parte, ancora un refrain scandisce le tappe della vicenda che Simeta va confidando alla Luna, quasi fossero le dolenti stazioni di una via crucis dell’amore.

John William Waterhouse, Il cerchio magico. Olio su tela, 1886.
John William Waterhouse, Il cerchio magico. Olio su tela, 1886.

 

       Πᾷ μοι ταὶ δάφναι; φέρε Θεστυλί· πᾷ δὲ τὰ φίλτρα;

στέψον τὰν κελέβαν φοινικέῳ οἰὸς ἀώτῳ,

ὡς τὸν ἐμὸν βαρὺν εὖντα φίλον καταθύσομαι ἄνδρα,

ὅς μοι δωδεκαταῖος ἀφ᾽ ὧ τάλας οὐδέποθ᾽ ἵκει,

5     οὐδ᾽ ἔγνω πότερον τεθνάκαμες ἢ ζοοὶ εἰμές.

οὐδὲ θύρας ἄραξεν ἀνάρσιος. ἦ ῥά οἱ ἀλλᾷ

ᾤχετ᾽ ἔχων ὅ τ᾽ ῎Ερως ταχινὰς φρένας ἅ τ᾽ ᾿Αφροδίτα;

βασεῦμαι ποτὶ τὰν Τιμαγήτοιο παλαίστραν

αὔριον, ὥς νιν ἴδω, καὶ μέμψομαι οἷά με ποιεῖ.

10   νῦν δέ νιν ἐκ θυέων καταθύσομαι. ἀλλὰ Σελάνα,

φαῖνε καλόν· τὶν γὰρ ποταείσομαι ἅσυχα, δαῖμον,

τᾷ χθονίᾳ θ᾽ ῾Εκάτα, τὰν καὶ σκύλακες τρομέοντι

ἐρχομέναν νεκύων ἀνά τ᾽ ἠρία καὶ μέλαν αἷμα.

χαῖρ᾽ ῾Εκάτα δασπλῆτι, καὶ ἐς τέλος ἄμμιν ὀπάδει.

15   φάρμακα ταῦτ᾽ ἔρδοισα χερείονα μήτέ τι Κίρκης

μήτέ τι Μηδείας μήτε ξανθᾶς Περιμήδας.

῏Ιυγξ, ἕλκε τὺ τῆνον ἐμὸν ποτὶ δῶμα τὸν ἄνδρα.

ἄλφιτά τοι πρᾶτον πυρὶ τάκεται· ἀλλ᾽ ἐπίπασσε

Θεστυλί. δειλαία, πᾷ τὰς φρένας ἐκπεπότασαι;

20   ἦ ῥά γε τρισμυσαρὰ καὶ τὶν ἐπίχαρμα τέτυγμαι;

πάσσ᾽ ἅμα καὶ λέγε ταῦτα· ‘τὰ Δέλφιδος ὀστία πάσσω.’

ἶυγξ, ἕλκε τὺ τῆνον ἐμὸν ποτὶ δῶμα τὸν ἄνδρα.

Δέλφις ἔμ᾽ ἀνίασεν· ἐγὼ δ᾽ ἐπὶ Δέλφιδι δάφναν

αἴθω· χὡς αὕτα λακεῖ μέγα καππυρίσασα

25   κἠξαπίνας ἅφθη, κοὐδὲ σποδὸν εἴδομες αὐτᾶς,

οὕτω τοι καὶ Δέλφις ἐνὶ φλογὶ σάρκ᾽ ἀμαθύνοι.

ἶυγξ, ἕλκε τὺ τῆνον ἐμὸν ποτὶ δῶμα τὸν ἄνδρα.

ὡς τοῦτον τὸν κηρὸν ἐγὼ σὺν δαίμονι τάκω,

ὣς τάκοιθ᾽ ὑπ᾽ ἔρωτος ὁ Μύνδιος αὐτίκα Δέλφις.

30   χὡς δινεῖθ᾽ ὅδε ῥόμβος ὁ χάλκεος ἐξ ᾿Αφροδίτας,

ὣς τῆνος δινοῖτο ποθ᾽ ἁμετέραισι θύραισιν.

ἶυγξ, ἕλκε τὺ τῆνον ἐμὸν ποτὶ δῶμα τὸν ἄνδρα.

νῦν θυσῶ τὰ πίτυρα. τὺ δ᾽ ῎Αρτεμι καὶ τὸν ἐν ῞Αιδα

κινήσαις ἀδάμαντα καὶ εἴ τί περ ἀσφαλὲς ἄλλο.

35   Θεστυλί, ταὶ κύνες ἄμμιν ἀνὰ πτόλιν ὠρύονται.

ἁ θεὸς ἐν τριόδοισι· τὸ χαλκίον ὡς τάχος ἄχει.

ἶυγξ, ἕλκε τὺ τῆνον ἐμὸν ποτὶ δῶμα τὸν ἄνδρα.

ἠνίδε σιγῇ μὲν πόντος, σιγῶντι δ᾽ ἀῆται·

ἁ δ᾽ ἐμὰ οὐ σιγῇ στέρνων ἔντοσθεν ἀνία,

40   ἀλλ᾽ ἐπὶ τήνῳ πᾶσα καταίθομαι, ὅς με τάλαιναν

ἀντὶ γυναικὸς ἔθηκε κακὰν καὶ ἀπάρθενον ἦμεν.

ἶυγξ, ἕλκε τὺ τῆνον ἐμὸν ποτὶ δῶμα τὸν ἄνδρα.

ἐς τρὶς ἀποσπένδω καὶ τρὶς τάδε πότνια φωνέω·

εἴτε γυνὰ τήνῳ παρακέκλιται εἴτε καὶ ἀνήρ,

45   τόσσον ἔχοι λάθας, ὅσσόν ποκα Θησέα φαντὶ

ἐν Δίᾳ λασθῆμεν ἐυπλοκάμω ᾿Αριάδνας.

ἶυγξ, ἕλκε τὺ τῆνον ἐμὸν ποτὶ δῶμα τὸν ἄνδρα.

ἱππομανὲς φυτόν ἐστι παρ᾽ ᾿Αρκάσι· τῷ δ᾽ ἐπὶ πᾶσαι

καὶ πῶλοι μαίνονται ἀν᾽ ὤρεα καὶ θοαὶ ἵπποι.

50   ὣς καὶ Δέλφιν ἴδοιμι, καὶ ἐς τόδε δῶμα περάσαι

μαινομένῳ ἴκελος λιπαρᾶς ἔκτοσθε παλαίστρας.

ἶυγξ, ἕλκε τὺ τῆνον ἐμὸν ποτὶ δῶμα τὸν ἄνδρα.

τοῦτ᾽ ἀπὸ τᾶς χλαίνας τὸ κράσπεδον ὤλεσε Δέλφις,

ὡγὼ νῦν τίλλοισα κατ᾽ ἀγρίῳ ἐν πυρὶ βάλλω.

55   αἰαῖ ῎Ερως ἀνιηρέ, τί μευ μέλαν ἐκ χροὸς αἷμα

ἐμφὺς ὡς λιμνᾶτις ἅπαν ἐκ βδέλλα πέπωκας;

ἶυγξ, ἕλκε τὺ τῆνον ἐμὸν ποτὶ δῶμα τὸν ἄνδρα.

σαύραν τοι τρίψασα ποτὸν κακὸν αὔριον οἰσῶ.

Θεστυλί, νῦν δὲ λαβοῖσα τὺ τὰ θρόνα ταῦθ᾽ ὑπόμαξον

60   τᾶς τήνω φλιᾶς καθ᾽ ὑπέρτερον, ἇς ἔτι καὶ νύξ,

καὶ λέγ᾽ ἐπιφθύζοισα· ‘τὰ Δέλφιδος ὀστία μάσσω.’

ἶυγξ, ἕλκε τὺ τῆνον ἐμὸν ποτὶ δῶμα τὸν ἄνδρα.

νῦν δὴ μώνα ἐοῖσα πόθεν τὸν ἔρωτα δακρύσω;

65   ἐκ τίνος ἄρξωμαι; τίς μοι κακὸν ἄγαγε τοῦτο;

ἦνθ᾽ ἁ τῶὐβούλοιο κανηφόρος ἄμμιν ᾿Αναξὼ

ἄλσος ἐς ᾿Αρτέμιδος, τᾷ δὴ τόκα πολλὰ μὲν ἄλλα

θηρία πομπεύεσκε περισταδόν, ἐν δὲ λέαινα.

φράζεό μευ τὸν ἔρωθ᾽ ὅθεν ἵκετο, πότνα Σελάνα.

70   καί μ᾽ ἁ Θευμαρίδα Θρᾷσσα τροφὸς ἁ μακαρῖτις

ἀγχίθυρος ναίοισα κατεύξατο καὶ λιτάνευσε

τὰν πομπὰν θάσασθαι· ἐγὼ δέ οἱ ἁ μεγάλοιτος

ὡμάρτευν βύσσοιο καλὸν σύροισα χιτῶνα,

κἀμφιστειλαμένα τὰν ξυστίδα τὰν Κλεαρίστας.

75   φράζεό μευ τὸν ἔρωθ᾽ ὅθεν ἵκετο, πότνα Σελάνα.

ἤδη δ᾽ εὖσα μέσον κατ᾽ ἀμαξιτόν, ᾇ τὰ Λύκωνος,

εἶδον ὁμοῦ Δέλφιν τε καὶ Εὐδάμιππον ἰόντας.

τοῖς δ᾽ ἦν ξανθοτέρα μὲν ἑλιχρύσοιο γενειάς,

στήθεα δὲ στίλβοντα πολὺ πλέον ἢ τὺ Σελάνα,

80   ὡς ἀπὸ γυμνασίοιο καλὸν πόνον ἄρτι λιπόντων.

φράζεό μευ τὸν ἔρωθ᾽ ὅθεν ἵκετο, πότνα Σελάνα.

χὡς ἴδον, ὡς ἐμάνην, ὥς μευ πέρι θυμὸς ἰάφθη

δειλαίας· τὸ δὲ κάλλος ἐτάκετο, κοὔτέ τι πομπᾶς

τήνας ἐφρασάμαν, οὐδ᾽ ὡς πάλιν οἴκαδ᾽ ἀπῆνθον

85   ἔγνων· ἀλλά μέ τις καπυρὰ νόσος ἐξεσάλαξε,

κείμαν δ᾽ ἐν κλιντῆρι δέκ᾽ ἄματα καὶ δέκα νύκτας.

φράζεό μευ τὸν ἔρωθ᾽ ὅθεν ἵκετο, πότνα Σελάνα.

καί μευ χρὼς μὲν ὁμοῖος ἐγίνετο πολλάκι θάψῳ,

ἔρρευν δ᾽ ἐκ κεφαλᾶς πᾶσαι τρίχες, αὐτὰ δὲ λοιπὰ

90   ὀστί᾽ ἔτ᾽ ἦς καὶ δέρμα. καὶ ἐς τίνος οὐκ ἐπέρασα

ἢ ποίας ἔλιπον γραίας δόμον, ἅτις ἐπᾷδεν;

ἀλλ᾽ ἦς οὐδὲν ἐλαφρόν· ὁ δέ χρόνος ἄνυτο φεύγων.

φράζεό μευ τὸν ἔρωθ᾽ ὅθεν ἵκετο, πότνα Σελάνα.

χοὕτω τᾷ δούλᾳ τὸν ἀλαθέα μῦθον ἔλεξα·

95   ‘εἰ δ᾽ ἄγε Θεστυλί μοι χαλεπᾶς νόσω εὑρέ τι μῆχος.

πᾶσαν ἔχει με τάλαιναν ὁ Μύνδιος: ἀλλὰ μολοῖσα

τήρησον ποτὶ τὰν Τιμαγήτοιο παλαίστραν·

τηνεῖ γὰρ φοιτῇ, τηνεῖ δέ οἱ ἁδὺ καθῆσθαι.’

φράζεό μευ τὸν ἔρωθ᾽ ὅθεν ἵκετο, πότνα Σελάνα.

100 ‘κἠπεί κά νιν ἐόντα μάθῃς μόνον, ἅσυχα νεῦσον,

κεἴφ᾽ ὅτι Σιμαίθα τυ καλεῖ, καὶ ὑφαγέο τᾷδε.’

ὣς ἐφάμαν· ἁ δ᾽ ἦνθε καὶ ἄγαγε τὸν λιπαρόχρων

εἰς ἐμὰ δώματα Δέλφιν· ἐγὼ δέ νιν ὡς ἐνόησα

ἄρτι θύρας ὑπὲρ οὐδὸν ἀμειβόμενον ποδὶ κούφῳ–

105 φράζεό μευ τὸν ἔρωθ᾽ ὅθεν ἵκετο, πότνα Σελάνα–

πᾶσα μὲν ἐψύχθην χιόνος πλέον, ἐν δὲ μετώπῳ

ἱδρώς μευ κοχύδεσκεν ἴσον νοτίαισιν ἐέρσαις,

οὐδέ τι φωνᾶσαι δυνάμαν, οὐδ᾽ ὅσσον ἐν ὕπνῳ

κνυζεῦνται φωνεῦντα φίλαν ποτὶ ματέρα τέκνα·

110 ἀλλ᾽ ἐπάγην δαγῦδι καλὸν χρόα πάντοθεν ἴσα.

φράζεό μευ τὸν ἔρωθ᾽ ὅθεν ἵκετο, πότνα Σελάνα.

καί μ᾽ ἐσιδὼν ὥστοργος, ἐπὶ χθονὸς ὄμματα πήξας

ἕξετ᾽ ἐπὶ κλιντῆρι καὶ ἑζόμενος φάτο μῦθον·

ἦ ῥά με Σιμαίθα τόσον ἔφθασας, ὅσσον ἐγώ θην

115 πρᾶν ποκα τὸν χαρίεντα τρέχων ἔφθασσα Φιλῖνον,

ἐς τὸ τεὸν καλέσασα τόδε στέγος ἤ με παρῆμεν.

φράζεό μευ τὸν ἔρωθ᾽ ὅθεν ἵκετο, πότνα Σελάνα.

ἦνθον γάρ κεν ἐγώ, ναὶ τὸν γλυκὺν ἦνθον ῎Ερωτα,

ἢ τρίτος ἠὲ τέταρτος ἐὼν φίλος αὐτίκα νυκτός,

120μᾶλα μὲν ἐν κόλποισι Διωνύσοιο φυλάσσων,

κρατὶ δ᾽ ἔχων λεύκαν, ῾Ηρακλέος ἱερὸν ἔρνος,

πάντοθε πορφυρέαισι περὶ ζώστραισιν ἑλικτάν.

φράζεό μευ τὸν ἔρωθ᾽ ὅθεν ἵκετο, πότνα Σελάνα.

καί μ᾽ εἰ μέν κ᾽ ἐδέχεσθε, τάδ᾽ ἦς φίλα: καὶ γὰρ ἐλαφρὸς

125 καὶ καλὸς πάντεσσι μετ᾽ ἠιθέοισι καλεῦμαι·

εὗδόν τ᾽, εἴ κε μόνον τὸ καλὸν στόμα τεῦς ἐφίλασα·

εἰ δ᾽ ἀλλᾷ μ᾽ ὠθεῖτε καὶ ἁ θύρα εἴχετο μοχλῷ,

πάντως καὶ πελέκεις καὶ λαμπάδες ἦνθον ἐφ᾽ ὑμέας.

φράζεό μευ τὸν ἔρωθ᾽ ὅθεν ἵκετο, πότνα Σελάνα.

130 νῦν δὲ χάριν μὲν ἔφαν τᾷ Κύπριδι πρᾶτον ὀφείλειν,

καὶ μετὰ τὰν Κύπριν τύ με δευτέρα ἐκ πυρὸς εἵλευ

ὦ γύναι ἐσκαλέσασα τεὸν ποτὶ τοῦτο μέλαθρον

αὔτως ἡμίφλεκτον· ῎Ερως δ᾽ ἄρα καὶ Λιπαραίω

πολλάκις ῾Ηφαίστοιο σέλας φλογερώτερον αἴθει.

135 φράζεό μευ τὸν ἔρωθ᾽ ὅθεν ἵκετο, πότνα Σελάνα.

‘σὺν δὲ κακαῖς μανίαις καὶ παρθένον ἐκ θαλάμοιο

καὶ νύμφαν ἐφόβησ᾽ ἔτι δέμνια θερμὰ λιποῖσαν

ἀνέρος.’ ὣς ὁ μὲν εἶπεν· ἐγὼ δέ οἱ ἁ ταχυπειθὴς

χειρὸς ἐφαψαμένα μαλακῶν ἔκλιν᾽ ἐπὶ λέκτρων.

140 καὶ ταχὺ χρὼς ἐπὶ χρωτὶ πεπαίνετο, καὶ τὰ πρόσωπα

θερμότερ᾽ ἦς ἢ πρόσθε, καὶ ἐψιθυρίσδομες ἁδύ·

χὥς κά τοι μὴ μακρὰ φίλα θρυλέοιμι Σελάνα,

ἐπράχθη τὰ μέγιστα, καὶ ἐς πόθον ἤνθομες ἄμφω.

κοὔτέ τι τῆνος ἐμὶν ἐπεμέμψατο μέσφα τό γ᾽ ἐχθές,

145 οὔτ᾽ ἐγὼ αὖ τήνῳ. ἀλλ᾽ ἦνθέ μοι ἅ τε Φιλίστας

μάτηρ τᾶς ἀλαᾶς αὐλητρίδος ἅ τε Μελιξοῦς

σάμερον, ἁνίκα πέρ τε ποτ᾽ ὠρανὸν ἔτρεχον ἵπποι

᾿Αῶ τὰν ῥοδόπαχυν ἀπ᾽ ᾿Ωκεανοῖο φέροισαι.

κεἶπέ μοι ἄλλά τε πολλὰ καὶ ὡς ἄρα Δέλφις ἐρᾶται,

150 κεἴτέ νιν αὖτε γυναικὸς ἔχει πόθος εἴτε καὶ ἀνδρός,

οὐκ ἔφατ᾽ ἀτρεκὲς ἴδμεν, ἀτὰρ τόσον· αἰὲν ῎Ερωτος

ἀκράτω ἐπεχεῖτο καὶ ἐς τέλος ᾤχετο φεύγων,

καὶ φάτο οἱ στεφάνοισι τὰ δώματα τῆνα πυκάσδειν.

ταῦτά μοι ἁ ξείνα μυθήσατο· ἔστι δ᾽ ἀλαθής·

155 ἦ γάρ μοι καὶ τρὶς καὶ τετράκις ἄλλοκ᾽ ἐφοίτη,

καὶ παρ᾽ ἐμὶν ἐτίθει τὰν Δωρίδα πολλάκις ὄλπαν·

νῦν δέ τε δωδεκαταῖος ἀφ᾽ ὧτέ νιν οὐδὲ ποτεῖδον.

ἦ ῥ᾽ οὐκ ἄλλό τι τερπνὸν ἔχει, ἁμῶν δὲ λέλασται;

νῦν μὲν τοῖς φίλτροις καταθύσομαι: αἰ δ᾽ ἔτι κἠμὲ

160 λυπῇ, τὰν ᾿Αίδαο πύλαν ναὶ Μοίρας ἀραξεῖ.

τοῖά οἱ ἐν κίστᾳ κακὰ φάρμακα φαμὶ φυλάσσειν,

᾿Ασσυρίω δέσποινα παρὰ ξείνοιο μαθοῖσα.

ἀλλὰ τὺ μὲν χαίροισα ποτ᾽ ᾿Ωκεανὸν τρέπε πώλους,

πότνι᾽· ἐγὼ δ᾽ οἰσῶ τὸν ἐμὸν πόνον ὥσπερ ὑπέσταν.

165 χαῖρε Σελαναία λιπαρόχροε, χαίρετε δ᾽ ἄλλοι

ἀστέρες, εὐκήλοιο κατ᾽ ἄντυγα Νυκτὸς ὀπαδοί.

 

John William Godward, Una sacerdotessa. Olio su tela, 1894.
John William Godward, Una sacerdotessa. Olio su tela, 1894.

 

       Dove sono i rami d’alloro? Portali, Testili[1]. Dove sono i filtri?

Con la benda di lana purpurea inghirlanda la coppa,

ch’io possa avvincere il mio amato che mi dà pena.

Sono dodici giorni, ahimè, che non viene,

5     e neanche sa se siamo vive o morte,

né bussa alla mia porta, l’indegno. Di certo Amore

e Afrodite hanno portato altrove il suo volubile cuore.

Domani andrò alla palestra di Timageto,

per vederlo, e gli rinfaccerò come mi tratta.

10   Ma ora con sacrifici voglio avvincerlo. Luna,

rifulgi bellamente: a te, o dea, volgerò il mio sommesso canto,

e a Ecate sotterranea, che atterrisce anche i cani,

quando avanza fra le tombe dei morti e il nero sangue[2].

Salve, tremenda Ecate; fino alla fine siimi compagna

15   nel preparare questi filtri, degni dei filtri di Circe,

o di Medea o della bionda Perimeda[3].

       Torquilla[4], attira tu alla mia casa quell’uomo.

Farina d’orzo anzitutto è consumata nel fuoco; su, spargila,

Testili. Sciagurata, dove te ne sei volata con la mente?

20   Dunque anche per te, maledetta, sono oggetto di spasso?[5]

Spargila, e insieme di’: «Io spargo le ossa di Delfi».

       Torquilla, attira tu alla mia casa quell’uomo.

Delfi mi ha dato tormento: io per Delfi brucio

l’alloro. E come l’alloro crepita forte, bruciando,

25   e subitamente divampa, e non se ne vede neanche la cenere,

così anche Delfi nella fiamma le sue carni distrugga.

       Torquilla, attira tu alla mia casa quell’uomo.

Ora offro la crusca. Tu, Artemide, anche l’adamante

dell’Ade[6] smuoveresti, e se altro c’è di più saldo.

30   Testili, le cagne latrano per la città;

la dea è nei trivii; presto, fa’ risuonare il bronzo[7].

       Torquilla, attira tu nella mia casa quell’uomo.

Ecco, tace il mare, tacciono i venti,

ma non tace la mia pena dentro il mio cuore;

35   tutta ardo per lui, che di me misera

ha fatto una donna perduta, non più vergine, invece che sposa.

       Torquilla, attira tu alla mia casa quell’uomo.

Come questa cera io struggo con il favore della dea,

così si strugga d’amore all’istante Delfi di Mindo[8].

40   E come gira vorticosamente questo rombo[9] di bronzo a opera di Afrodite,

così quello si aggiri presso la mia porta.

       Torquilla, attira tu alla mia casa quell’uomo.

Tre volte io libo, e tre volte, o veneranda, pronuncio queste parole:

che sia una donna a giacere al suo fianco, o sia anche un uomo,

45   egli tanto ne abbia di oblio, quanto dicono ne abbia avuto Teseo

un giorno a Dia[10] per Arianna dai riccioli belli.

       Torquilla, attira tu alla mia casa quell’uomo.

Ippomane è una pianta d’Arcadia: per essa tutte

le puledre sui monti infuriano, e le veloci cavalle.

50   Così possa vedere anche Delfi, ed entri egli in questa casa

simile ad un folle, fuori dalla nitida[11] palestra.

       Torquilla, attira tu alla mia casa quell’uomo.

Delfi ha perduto questa frangia del suo mantello,

ed io ora la sfilaccio e la getto nel fuoco selvaggio.

55   Ahimè, Amore tormentoso, perché nero sangue dal mio corpo

hai tutto bevuto, attaccandoti come palustre sanguisuga?

       Torquilla, attira tu alla mia casa quell’uomo.

Pesterò una salamandra e domani gli porterò un beveraggio funesto.

Ma ora, Testili, prendi queste erbe magiche e impastale

60   sopra la sua soglia, fintanto che è ancora notte,

………………………………………………

e di’ bisbigliando: «Impasto le ossa di Delfi».

       Torquilla, attira tu alla mia casa quell’uomo.

Ora che sono sola[12], donde piangerò il mio amore?

65   Da che cominciare? Chi mi portò questo malanno?

Andò canefora[13] al bosco di Artemide la figlia di Eubulo,

la nostra Anaxò; in onore della dea quel giorno molte fiere

erano condotte in processione tutto attorno, e tra loro una leonessa.

       Apprendi, veneranda Luna, donde venne il mio amore.

70   La nutrice tracia di Teumarida[14], buonanima,

che abitava porta a porta con me, mi pregò e mi supplicò

di andare a vedere la processione; e io, sventuratissima,

l’accompagnai, indossando una bella tunica di bisso,

e ravvolta nel mantello di Clearista[15].

75   Apprendi, veneranda Luna, donde venne il mio amore.

Ero già a metà della strada, dov’è la dimora di Licone,

quando vidi Delfi, e insieme con lui Eudamippo, che camminavano.

La barba l’avevano più bionda dell’elicriso,

e i loro petti rifulgevano molto più di te, o Luna,

80   perché avevano appena lasciato la bella fatica della palestra.

Apprendi, veneranda Luna, donde venne il mio amore.

Come lo vidi, all’istante impazzii, e di me misera il cuore

fu lacerato[16]. La bellezza svanì, e di quella processione

non m’importò più nulla, né so come a casa

85   sia ritornata; ma un ardente morbo mi devastava,

e giacevo nel letto per dieci giorni e dieci notti.

       Apprendi, veneranda Luna, donde venne il mio amore.

E spesso il mio corpo diventava del colore del tapso,

e dal capo mi cadevano tutti i capelli; non mi rimanevano

90   ormai più che la pelle e le ossa. E da chi non andai,

la casa di quale vecchia trascurai, che facesse incantesimi?

Ma nulla era di sollievo, e il tempo passava veloce.

       Apprendi, veneranda Luna, donde venne il mio amore.

E così alla schiava feci questo aperto discorso:

95   «Su, Testili, trovami un rimedio al malanno che m’opprime;

il Mindio tutta mi possiede, misera! Va’ dunque,

e tienilo d’occhio alla palestra di Timageto:

è quello il posto che frequenta, là gli è caro intrattenersi».

       Apprendi, veneranda Luna, donde venne il mio amore.

100 «E quando ti accorgi che è solo, fagli un cenno discreto,

e digli: “Simeta ti chiama”, e conducilo qui».

Così dissi, ed essa andò e condusse nella mia casa

Delfi dal corpo splendente; e io come lo sentii

che oltrepassava la soglia della porta con passo leggero,

105 apprendi, veneranda Luna, donde venne il mio amore[17],

tutta gelai più della neve, e dalla fronte

il sudore mi scorreva copioso, simile a molle rugiada,

né riuscivo a proferir parola, nemmeno quanto balbettano

i bambini nel sonno, chiamando la mamma,

110 ma mi irrigidii nel bel corpo come fossi una bambola.

Apprendi, veneranda Luna, donde venne il mio amore.

E dopo avermi guardata, il senz’amore, tenendo gli occhi piantati

per terra[18], si sedette sul letto, e stando così seduto disse:

«Davvero, o Simeta, di tanto mi hai preceduto, quanto io stesso

115 di recente ho preceduto nella corsa il bel Filino,

chiamandomi a questa tua casa prima che venissi io.

Apprendi, veneranda Luna, donde venne il mio amore.

Sarei venuto io, sì, per il dolce Amore, sarei venuto,

con due o tre amici, sul far della notte,

120 portando nel mantello pomi di Dioniso,

inghirlandato il capo di pioppo, pianta sacra di Eracle,

da ogni parte intrecciato con bende purpuree.

Apprendi, veneranda Luna, donde venne il mio amore.

E se mi aveste accolto, sarebbe stato piacevole, ché fine

125 e gentile sono stimato tra tutti i giovani;

e mi sarei contentato anche solo di baciare la tua bella bocca;

ma se mi aveste respinto, sbarrando la porta con il paletto,

scuri e fiaccole senza meno si sarebbero levate contro di voi[19].

Apprendi, veneranda Luna, donde venne il mio amore.

130 Ma ora dico di dovere riconoscenza anzitutto per Cipride,

e dopo Cipride, tu per seconda mi hai tratto nel fuoco,

o donna, chiamandomi a questo tuo tetto,

così semiarso. Davvero Amore accende una fiamma,

sovente, più temibile di Efesto Lipareo[20],

135 apprendi, veneranda Luna, donde venne il mio amore,

e con funeste follie la vergine allontana

dal talamo, e la sposa, che abbandona il letto ancora caldo

del marito». Così disse, e io, pronta a credergli,

gli presi la mano, e lo feci adagiare sul morbido letto,

140 e subito il corpo, al contatto con il corpo, si scaldava, e i volti

erano sempre più accesi, e sussurravamo dolcemente.

Per non farti lunghi discorsi, cara Luna,

si fece proprio il massimo, e raggiungemmo entrambi il nostro piacere.

E fino a ieri non ebbe a rimproverarmi alcunché,

145 né io a lui. Ma è venuta oggi da me la madre

di Filista, la nostra suonatrice di flauto, e di Melixò,

nell’ora in cui correvano i cavalli verso il cielo,

portando su dall’Oceano la rosea Aurora;

e tra molte altre cose mi ha detto che Delfi è innamorato.

150 Se questa volta lo tiene amore di donna, o anche di uomo,

diceva di non sapere precisamente, ma questo soltanto: più volte libava

vino puro all’Amore, e infine se ne andò in fretta,

e diceva di aver adornato di ghirlande quella casa.

Questo mi raccontava l’ospite, ed è veritiera:

155 in altri tempi tre o quattro volte al giorno veniva da me,

e lasciava spesso a casa mia la dorica ampolla;

ora sono dodici giorni che neppure l’ho visto.

Non avrà qualche altro diletto, e si è dimenticato di me?

Ora voglio avvincerlo con filtri; e se continua

160 a darmi pena, sì per le Moire, busserà alle porte di Ade;

tali funesti veleni posso dire di serbare per lui nella cesta,

avendoli appresi, o Signora, da un forestiero assiro.

Ma tu volgi lieta i tuoi destrieri verso l’Oceano,

o veneranda, e io sopporterò la mia pena così come l’ebbi.

165 Addio, Luna dal trono lucente, addio, voi altre

stelle, che fate corteggio al carro della Notte silente[21].

***

Artemide o Ecate phosphoros ('portatrice di torcia'), in atto di incoronare con fiori la giumenta vittoriosa ad una corsa. Bassorilievo votivo, marmo, fine IV sec. a.C., da Crannon (Thessalia). London, British Museum
Artemide o Ecate phosphoros (‘portatrice di torcia’), in atto di incoronare con fiori la giumenta vittoriosa ad una corsa. Bassorilievo votivo, marmo, fine IV sec. a.C., da Crannon (Thessalia). London, British Museum.

 

Note:

 

[1] Testili è la schiava che assiste Simeta; ha un ruolo solo di comparsa, e non pronunzia neanche una parola. I commentatori antichi ci informano che il personaggio era già in Sofrone.

[2] Simeta indirizza le sue preghiere e i suoi incantesimi a Selene e a Ecate, divinità connesse entrambe con il mondo della magia, e che non di rado appaiono sincretisticamente accomunate. Teocrito invece tiene le due figure ben distinte, e mentre raffigura Ecate con tratti tenebrosi, presenta Selene sotto un aspetto benevolo e rassicurante, al punto da farla diventare l’affettuosa confidente della donna innamorata e tradita. Nella sua chiara connotazione erotica, l’invocazione di Simeta alla Luna si inscrive, dunque, in quel filone “romantico”, che era un tratto caratteristico della Commedia Nuova (si veda, ad esempio, l’invocazione alla Notte da parte dell’exclusus amator nei primi versi del Misumenos di Menandro).

[3] Al contrario di Circe e di Medea, la maga Perimede (Perimeda con fonetica dorica) è un personaggio pressoché sconosciuto (Properzio che la menziona dipende verosimilmente da Teocrito); i commentatori antichi l’assimilano ad Agamede, «che tutti i veleni conosceva, quanti ne nutre la vasta terra» (Il., XI 740). Dobbiamo supporre una svista di Teocrito, che ricordava male il passo omerico? Oppure è un’imprecisione che Teocrito pone volutamente sulla bocca di Simeta? Così intende H. White (Studies in Theocritus and other Hellenistic Poets, Amsterdam 1979, pp. 21 sg.), che anche altrove, sulla scia di G. Giangrande, mette in luce taluni aspetti umoristici del personaggio (ad esempio il terrore che affretta Simeta, quando sente la presenza di Ecate, o la sua pretesa di esprimersi in un linguaggio epicheggiante, distante dal suo eloquio naturale). A mio parere, non è il caso di esasperare quella nuance di lieve ironia, che è presente in tutta l’opera di Teocrito, e che nel poeta alessandrino serve a marcare la distanza tra l’autore e i personaggi da lui creati.

[4] L’῏Ιυγξ (torcicollo, iynx torquilla) è un uccellino caratteristico per i rapidi movimenti di torsione del suo collo nella stagione degli accoppiamenti. Per l’appunto in ragione di tale sua particolarità, era utilizzato nella magia amorosa: inchiodato su una ruota che veniva fatta girare vorticosamente nei due sensi alternati, si riteneva che avesse la capacità di attirare la persona amata. Il termine, comunque, poteva indicare anche solo la ruota.

[5] I rimbrotti ai servi sono un motivo ricorrente nella commedia e nel mimo.

[6] Le porte dell’Ade. È un’Artemide infernale la divinità a cui ora Simeta si rivolge, assimilata a Ecate «che dischiude le porte d’adamante infrangibile (dell’Ade)» (Papyri Graecae Magicae, ed. Preisendanz, 4, 2334). L’adamante è il metallo durissimo di cui dispongono gli dèi, e non i comuni mortali; è menzionato per la prima volta da Esiodo (Theog., 161; 239. Op., 147).

[7] Si riteneva che il suono del metallo battuto servisse a stornare da sé gli effetti malefici delle forze infernali invocate (funzione apotropaica).

[8] Città della Caria, situata di fronte all’isola di Cos. È un elemento che induce a collocare a Cos la scena del carme; un altro indizio è costituito dalla menzione, più avanti, di Filino di Cos, che fu un celebre atleta, vincitore, tra l’altro, a Olimpia nel 264 e nel 260.

[9] Altro strumento magico. Per i commentatori antichi è la stessa cosa dell’ἴυγξ menzionato nel refrain.

[10] Forse un antico nome dell’isola di Nasso, ma potrebbe anche trattarsi di altra località, per noi sconosciuta. È il luogo in cui Teseo abbandonò Arianna, fuggita con lui da Creta dopo l’uccisione del Minotauro.

[11] Cioè luccicante di olio (quello che gli atleti si spalmavano sul corpo).

[12] Congedata la schiava con l’incarico di compiere pratiche magiche presso la casa di Delfi (espediente tecnico di stampo teatrale), Simeta rimane sola, ed è sopraffatta dai ricordi.

[13] Alle ragazze era affidato il compito di portare i canestri con le offerte durante le processioni sacre.

[14] Con Gow accolgo Θευμαρίδα che è lezione concorde dei codici e del papiro (τωὐμαρίδα Gallavotti). Si è sospettata una corruttela nell’antroponimo, perché non è testimoniato e appare in sé poco comprensibile, ma, come fa notare Gow, i nomi propri greci non sempre sono intellegibili.

[15] Il fatto che Simeta si faccia prestare l’abito della festa da un’amica è segno di condizione non elevata.

[16] È il classico coup de foudre, un motivo che ha alimentato tanta letteratura “romantica” di ogni tempo. Nella descrizione dei sintomi del mal d’amore Teocrito ha tenuto presente una celebre ode di Saffo (31 Lobel-Page), imitandola, ma anche differenziandosene (vd. R. PRETAGOSTINI, Teocrito e Saffo: forme allusive e contenuti nuovi, «Quad. Urb. Cult. Class.» n.s. 24, 1977, pp. 107-118).

[17] Il verso intercalare parenetico sottolinea un momento di particolare intensità emotiva.

[18] In segno di (ostentata) modestia. Delfi è un giovane vanesio e superficiale. Si noti che Teocrito lo fa parlare con un linguaggio affettato e intriso di retorica.

[19] La situazione che Delfi prospetta è quella tipica del κῶμος: era usanza dei giovani, dopo aver partecipato a un simposio, di recarsi davanti alla casa di amici (in particolare di donne), ornati di ghirlande e muniti di torce, chiedendo, con canti e con preghiere, di essere ammessi. In caso di diniego, l’innamorato poteva anche tentare di forzare la porta.

[20] Si riteneva che le isole Lipari fossero la sede delle fucine di Efesto.

[21] La pace della natura si proietta sull’animo di Simeta, che passa dalla disperazione alla dolente rassegnazione; diversa la scelta di Virgilio (Ecl. VIII), che prefigura un lieto fine.

***

 

Ecate. Statua, marmo, III sec. a.C. Nesebar Archaeological Museum
Ecate. Statua, marmo, III sec. a.C. Nesebar Archaeological Museum.

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