Insegnare Omero oggi: colloquio con Franco Ferrari

di R. Carnero, in Treccani, l’enciclopedia italiana.

Franco Ferrari è docente di Letteratura greca presso la Facoltà di Lettere dell’Università dell’Aquila, autore di importanti saggi e di un manuale di letteratura greca molto diffuso nei licei classici. Riflettiamo con lui sull’insegnamento di Omero, ma anche sui problemi legati all’attività di traduzione a scuola.

Exekias. Achille e Aiace giocano ai dadi. Pittura vascolare da un’anfora attica a figure nere (Lato A), da Vulci. 530 a.C. ca. Roma, Museo Gregoriano Etrusco.

Prima di parlare con Franco Ferrari, conviene dare una seppur rapida scorsa alla sua ricchissima bibliografia scientifica, all’interno della quale ricordiamo i volumi Ricerche sul testo di Sofocle (Pisa, Scuola Normale Superiore, 1983), Oralità ed espressione: ricognizioni omeriche (Pisa,Giardini, 1986), L’alfabeto delle Muse. Storia e testi della letteratura greca, I-III (Bologna, Cappelli, 1995), Una mitra per Kleis. Saffo e il suo pubblico (Pisa, Giardini, 2007), La fonte del cipresso bianco. Racconto e sapienza dall’Odissea alle lamine misteriche (Torino, UTET Libreria, 2007). Inoltre Ferrari ha curato l’edizione critica del Romanzo di Esopo (1997) e ha tradotto molti testi di letteratura greca fra cui AntigoneEdipo reEdipo a Colono di Sofocle (1982), PersianiSette contro Tebe e Supplici di Eschilo (1987), i frammenti di Saffo (1987), le Elegie di Teognide (1989), l’Anabasi e la Ciropedia di Senofonte (1985 e 1995), le Olimpiche di Pindaro (1998), Menandro e la commedia nuova (2001), l’Odissea (2001).

Professor Ferrari, quale spazio ritiene che sia bene venga riservato alle traduzioni dei poemi omerici di Monti e Pindemonte nell’insegnamento alla scuola superiore?
L’Omero delle traduzioni del Monti e del Pindemonte è l’Omero della tradizione classicistica italiana, rimasto nella memoria per locuzioni entrate nell’uso come “l’ira funesta” o “l’uom dal multiforme ingegno”. Ormai questo Omero è lontano dal nostro gusto, ma può conservare un suo spazio nella storia letteraria italiana come testimonianza della produzione di questi autori e di un modo di riappropriazione del passato in un determinato contesto storico.

Lei ha tradotto testi della letteratura greca in italiano. Quali sono state le sue principali preoccupazioni e difficoltà nello svolgere questo delicato lavoro?
Io ho tradotto numerosi testi greci sia di poesia (Omero, Saffo, Teognide, Pindaro, Eschilo, Sofocle, Euripide, Menandro) sia di prosa (Platone, Senofonte) in un arco di tempo che va dal 1982 al 2001. Inizialmente, traducendo la tragedia, cercavo l’energia, l’essenzialità, un certo ‘straniamento’. Negli anni ’70 erano di moda Brecht e Osborne, e sentivo la suggestione di Leopardi, non tanto per i suoi pur importanti ‘volgarizzamenti’, quanto per certe notazioni dello Zibaldone sul senso di ‘distanza’ che il traduttore deve avere per dare la sensazione che il testo provenga da un passato remoto e favoloso. Più tardi ho però maturato un più forte desiderio di comunicare, e quindi ho scelto un approccio più cordiale, più colloquiale: in particolare, le versioni del Simposio di Platone e della Ciropedia di Senofonte e anche quella dell’Odissea sono, credo, di fruizione più immediata. D’altra parte, credo che in una certa misura ogni testo tenda a suggerire esso stesso il modo migliore per essere trasposto in un altro sistema linguistico, stimolando il traduttore a cercare nella tradizione espressiva che gli è familiare i giacimenti più idonei, i ‘fondi’ più consentanei: sempre tenendo conto che il tradurre è un lavorio di approssimazione a una méta per sua natura irraggiungibile, un tentativo comunque vano di sanare la ferita conseguente al dramma di Babele: in chiave dolorosa questo mito biblico è al centro delle riflessioni di W. Benjamin sul ‘compito’ del traduttore, ma, secondo G. Steiner, appunto in Dopo Babele. Aspetti del linguaggio e della traduzione (Milano, Garzanti, 2004), può anche alludere in positivo alla scoperta del pluralismo e della diversità come risorse della specie umana. E ho trovato il maggior piacere proprio nel rimodellare più e più volte, alla ricerca di una resa soddisfacente, un abbozzo iniziale allestito per capire filologicamente il senso (e la polisemia) del testo originario.

Pittori di Cambridge 49. Priamo ucciso da Neottolemo, figlio di Achille. Pittura vascolare da un’anfora attica a figure nere, da Vulci. 520-510 a.C. ca. Paris, Musée du Louvre.

C’è un dibattito tra gli insegnanti di lettere classiche: è meglio leggere molto in traduzione o poco in lingua originale? Qual è la giusta misura tra le due parti dell’insegnamento?
Tradurre è anzitutto un modo per rendere accessibile un testo, del passato come del presente, a chi ignori la lingua in cui esso è stato originariamente composto, ma si traduce anche per chi, con maggiore o minore competenza, conosce la lingua di partenza. Ogni traduzione è un’interpretazione, un tentativo di cogliere almeno alcune delle connotazioni nascoste nel linguaggio. Così, analogamente, gli studenti possono usare le traduzioni, e confrontarle l’una con l’altra, per addentrarsi fra le pieghe dei testi, ma possono anche usarle per conoscere sezioni più ampie di un’opera di cui riescono a leggere nell’originale solo un numero limitato di versi o di pagine. Direi che le due attività del leggere in originale e del leggere in traduzione sono complementari, non antagonistiche. È chiaro, per esempio, che una lettura globale anche di uno solo dei poemi omerici nell’originale è improponibile non solo al liceo ma anche all’università, e tuttavia per comprendere il duello finale fra Achille e Ettore è necessario tener conto dei momenti di preparazione che il narratore ha dislocato in diverse zone del poema (momenti che possono essere recuperati anche solo in traduzione).

Spesso gli insegnanti delle scuole superiori per far capire i classici agli studenti di oggi si sforzano di ‘attualizzarli’. Quanto è lecita secondo lei un’operazione di questo tipo? E a quali condizioni una tale strada è praticabile?
Una ‘attualizzazione’ è giusta e quasi doverosa per far capire ai giovani che i grandi temi della vita e della morte, dell’eros e della violenza, della guerra e della pace e così via o istituzioni come la democrazia sono largamente presenti e dibattuti già nel mondo antico e, pertanto, ci avvicinano a uomini e donne vissuti in un remoto passato, ma altrettanto (e forse più) importante è l’attenzione a una prospettiva storica e antropologica: cogliere la diversità nella similarità, intravedere modi di vivere e di pensare che ci sono diventati sconosciuti.

Si dice spesso che sarebbe bello poter estendere la conoscenza delle letterature classiche anche agli studenti di scuole diverse dai licei. Secondo lei è possibile farlo? In che modo?
Questo è un grosso tema che riguarda la democrazia del nostro Paese, la conquista di un sapere condiviso. Sì, alcuni testi classici fondamentali dovrebbero essere letti (inevitabilmente in traduzioni moderne e fruibili) anche da studenti che non frequentino i licei classici o scientifici, così come alcuni aspetti della storia antica, soprattutto quelli relativi alle istituzioni politiche e ad alcuni snodi economici e sociali, dovrebbero essere oggetto di riflessione in ogni tipo di scuola.

Se lei dovesse parlare a un docente di Lettere di un liceo scientifico, quali testi e quali opere della letteratura greca direbbe che è giusto ed essenziale vengano fatte conoscere ai suoi studenti (naturalmente in traduzione)?
Non ci sono regole generali, non credo sia proponibile un ‘canone’ di autori e opere valido per tutti. Molto dipende dai gusti di quei particolari studenti e di quel particolare insegnante, dai percorsi culturali che essi compiono in un determinato lasso di tempo. Autori come Omero, Sofocle o Platone non sono ‘classici’ per caso, ma anche scrittori minori o minimi, o magari ‘anticlassici’ (penso per esempio all’anonimo Romanzo di Esopo), possono tornare utili nell’ambito di un certo itinerario e di un certa fase della formazione del gusto. I Greci inventarono la nozione di kairòs, di occasione o momento opportuno. Saper cogliere il kairòs è, credo, una grande qualità del bravo docente.

Pittore Cleofrade. Achille cura le ferite di Patroclo. Pittura vascolare dal tondo di una kylix attica a figure rosse, 500 a.C. ca. da Vulci. Antikensammlung Berlin.

E, analogamente, a un docente di un istituto tecnico cosa suggerirebbe di far leggere della letteratura greca e di quella latina?
Vale lo stesso discorso che per il docente di un liceo scientifico, magari con qualche ulteriore collegamento con i percorsi specifici di un determinato istituto tecnico. In fondo la scienza e la techne rappresentano un aspetto essenziale della cultura antica, e autori come Euclide o Archimede o Vitruvio sono riproponibili con selezioni di passi e adeguate spiegazioni (mi viene in mente Il grande Archimede di M. Geymonat, pubblicato da Teti Editore nel 2006, un agile volume che qualsiasi studente di scuola secondaria potrebbe leggere con interesse).

Un’ipotesi potrebbe essere quella di legare lo studio delle letterature classiche a quello della letteratura italiana?
La cultura antica è parte integrante della nostra letteratura. Determinate opere e determinati passi di autori greci o latini hanno agito come ‘ipotesti’. Gli esempi sono innumerevoli, alcuni macroscopici, altri più ambigui e sfuggenti. Qualche volta l’ipotesto ha prodotto una crescita di senso lungo una linea coerente, come nel caso del sonetto del Foscolo In morte del fratello Giovanni rispetto al carme 101 di Catullo, in altri casi ha invece innescato un rapporto critico, come per la vicenda di Orfeo e di Euridice, narrata da Virgilio alla fine del IV libro delle Georgiche, nelle riprese di Cesare Pavese nei Dialoghi con Leucò (1947) o di Gesualdo Bufalino nel Ritorno di Euridice (1986). Quale che sia il tipo di rapporto fra testo e ipotesto, non ha comunque senso, in alcun tipo di scuola, far leggere il brano più recente senza confrontarlo con il suo modello di riferimento. E il discorso può essere allargato al cinema, come per la Medea di Pasolini rispetto al dramma di Euripide o per il Satyricon di Petronio rivisitato da Fellini.

*Docente di Letteratura italiana contemporanea presso l’Università degli Studi di Milano

Pubblicato il 20/11/2007

Manio Valerio Massimo, dittatore e augure

di F. VALLOCCHIA, Manio Valerio Massimo, dittatore e augure, in Index, 35, 2007, 27-39.

Non placeo concordiae auctor. Optabitis, mediusfidius, propediem, ut mei similes Romana plebis patronos habeat. Quod ad me attinet, neque frustrabor ultra ciues meos neque ipse frustra dictator ero. Discordiae intestinae, bellum externum fecere ut hoc magistratu egeret res publica: pax foris parta est, domi impeditur; priuatus potius quam dictator seditioni interero (Livio, Ab Urbe condita II 31, 9-10).

Manio Valerio, dittatore nell’anno 494 a.C., dopo aver constatato di non essere riuscito ad imporsi quale concordiae auctor[1], in quanto il senato non aveva accettato le sue proposte per la liberazione dei plebei dai debiti, abdica dalla dittatura, «facendo al senato profezie» (Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane VI 43, 2)[2] sulla secessione della plebe.
Secondo la narrazione di Livio, Manio Valerio sembra così uscire dalla storia della secessione che, proprio in conseguenza della sua abdicazione dalla dittatura, la plebe attuerà in quello stesso anno. La storiografia contemporanea, fatte poche eccezioni (seppure di grande rilievo, come si vedrà), sembra voler trascurare l’importante ruolo che Manio Valerio ebbe anche per tutta la durata della secessione; ruolo che possiamo ricavare da un buon numero di fonti: un elogium epigrafico ed alcuni testi di Cicerone, di Dionigi di Alicarnasso, di Valerio Massimo e di Plutarco. Da queste si ricavano anche altre informazioni che mettono in luce la grande importanza di Manio Valerio nella storia di Roma. Per primo, egli ricoprì contemporaneamente la dittatura e l’augurato, come solo Quinto Fabio Massimo, Lucio Cornelio Silla e Gaio Giulio Cesare dopo di lui faranno[3]; e per primo egli ricevette l’onore della speciale denominazione di Maximus (Cicerone, Brutus 54; Plutarco, Vita di Pompeo, XIII 11), della quale solo molto tempo dopo sarà insignito anche Quinto Fabio.

Nicolas Poussin, Coriolano riceve le suppliche della sua famiglia. Olio su tela, 1652-53. Les Andelys, Musée Nicolas-Poussin.

La prima secessione della plebe nelle narrazioni di Livio e di Dionigi di Alicarnasso

Livio e Dionigi di Alicarnasso mostrano una particolare attenzione per gli avvenimenti relativi alla secessione plebea del 494 a.C.; a tale avvenimenti sono dedicati ben 46 titoli (dal 45 al 90) del libro sesto dell’opera dello storico greco contro una parte del titolo 31, l’intero titolo 32 ed una parte del titolo 33 del libro secondo dell’opera dello storico latino. Questa palese sperequazione si riflette soprattutto sulla quantità di notizie fornite dalle due narrazioni, le quali, quanto al contenuto, non fanno però emergere differenze tali per cui le si possa ritenere in contrapposizione tra loro.
Quanto alle possibili ragioni delle differenze tra le narrazioni di Livio e di Dionigi, Theodor Mommsen scrisse brevemente: «contra Livius solo opinor brevitatis studio ductus in his rebus narrandis et Valerii nomen plane suppressit et de fenore levato verbum nullum fecit»[4].
In effetti, ponendo a confronto il testo di Livio con quello di Dionigi sugli eventi collegati all’inizio ed alla fine della detta secessione, si ricava che: a) sia Livio (II 31, 11) sia Dionigi (VI 45, 1) evidenziano il nesso tra l’abdicazione di Manio Valerio dalla dittatura e l’inizio della secessione plebea; b) sia Livio (II 32, 12) sia Dionigi (VI 83, 2) evidenziano il nesso tra l’apologo di Menenio Agrippa e la fine della secessione; c) Livio (II 32, 8) mette in luce solo il ruolo svolto da Menenio Agrippa sul Monte Sacro; ma non lo fa in modo tale da escludere quanto rileva nel racconto di Dionigi (VI 69, 3), nel quale è detto che sul Monte Sacro erano stati inviati dieci présbeis[5], tra i quali Menenio Agrippa e Manio Valerio; d) Livio, pur avendo chiaramente indicato nel peso dei debiti la causa principale della secessione, evidenzia, tra le condizioni poste dai plebei per la fine della stessa, la sola istituzione del tribunato della plebe (Ab Urbe condita II 33, 1); nella sua narrazione, però, non vi sono elementi che possano escludere anche l’accoglimento di istanze relative ai debiti, come esposto da Dionigi (VI 88, 3).
Pertanto, come evidenziato da Mommsen, non vi è contrapposizione tra i testi dei due storici; le poche differenze sono dovute ad una minor quantità di notizie riferite dallo storico latino. Differenze più importanti, invece, vi sono tra Livio ed altre fonti.

B. Barloccini, La secessio plebis al Mons Sacer (494-93 a.C.). Incisione, 1849.

Manio Valerio in CIL VI 40920 e XI 1826, Cicerone, Valerio Massimo e Plutarco

In un’iscrizione marmorea di età augustea[6], rinvenuta ad Arezzo nel 1688, è riportato l’elogium di Manio Valerio:

M/ · Valerius
Volusi · f
Maximus
dictator · augur primus · quam
ullum · magistratum · gereret
dictator · dictus · est · triumphavit
de Sabinis · et · Medullinis · plebem
de sacro · monte · deduxit · gratiam
cum · patribus · reconciliavit · fae
nore · gravi · populum · senatus · hoc
eius · rei · auctore · liberavit · sellae
curulis · locus · ipsi · posterisque
ad Murciae · spectandi · caussa · datus
est · princeps · in senatum · semel
lectus · est.

Elogio di M’. Valerio Voluso Massimo, dittatore. Tabula, marmo, 19 a.C. c. (CIL XI, 1826 = Inscr.It. XIII 3, 78 = ILS 50). Arezzo, Museo Archeologico Nazionale ‘G.C. Mecenate’ [link].
Theodor Mommsen (in CIL I, 1, 186 ss.) affermava che questa iscrizione era stata posta da Augusto all’interno del Foro fatto da lui costruire a Roma e che una copia di essa era stata collocata anche ad Arezzo, unitamente ad altri sei elogia tratti da iscrizioni presenti in quel Foro. Un parziale riscontro di queste affermazioni è costituito dal rinvenimento, nel 1934 a Roma alle pendici del Campidoglio, dalla parte dell’Altare della Patria, di una epigrafe mutila riproducente parte della iscrizione già rinvenuta ad Arezzo; G. Alföldy e L. Chioffi (in CIL VI, 8, 4839 s.) affermano che questa iscrizione sarebbe stata collocata non nel Foro di Augusto, ma nel Foro Romano per ordine di Augusto stesso (per il testo dell’epigrafe rinvenuta a Roma, vedasi CIL VI, 8, 4920)[7].
In questo elogium è posto in risalto il ruolo di conciliatore avuto da Manio Valerio in occasione della prima secessione plebea; nelle linee 8 e 9 si legge: «gratiam / cum · patribus · reconciliavit». Questo ruolo di Manio Valerio è evidenziato anche in altre fonti, pur con vari intendimenti politici.

a)        In un passo di un’opera retorica di Cicerone, il Brutus, è posta in risalto l’attività fondamentale di Manio Valerio nella fine della secessione plebea; nel sottolinearne la capacità oratoria, l’Arpinate afferma che Manio Valerio «aveva sedato le discordie»:

Videmus item paucis annis post reges exactos, cum plebes prope ripam Anionis ad tertium miliarium consedisset eumque montem, qui Sacer appellatus est, occupavisset, M. Valerium dictatorem dicendo sedavisse discordias, eique ob eam rem honores amplissumos habitos et eum primum ob eam ipsam causam Maxumum esse appellatum (Cicerone, Brutus 54).

Nel passo, Cicerone sembra supporre esservi contemporaneità tra la carica di dittatore di Manio Valerio e la sua salita al Monte Sacro; invece, tanto Livio quanto Dionigi riferiscono dell’abdicazione di Manio Valerio dalla dittatura prima della secessione. Pertanto, o Cicerone è incorso in un errore, oppure egli ha voluto semplicemente richiamare l’attenzione sul fatto che Manio Valerio era stato dittatore. Del resto, la citazione di Manio Valerio non ha finalità di ricostruzione storica, ma esclusivamente di esaltazione della retorica. Vero è, comunque, che nei testi in cui Cicerone tratta di attività compiute da dittatori, è evidente che queste attività sono svolte in una stretta contestualità con la carica rivestita[8].

b)       Valerio Massimo, sottolineando l’eloquenza di Manio Valerio come già aveva fatto Cicerone, ne mette in luce l’attività di persuasione verso la plebe; Manio Valerio fu colui che “sottomise il popolo al Senato”:

Regibus exactis plebs dissidens a patribus iuxta ripam fluminis Anienis in colle, qui sacer appellatur, armata consedit, eratque non solum deformis, sed etiam miserrimus rei publicae status, a capite eius cetera parte corporis pestifera seditione diuisa. ac ni Valeri subuenisset eloquentia, spes tanti imperii in ipso paene ortu suo corruisset: is namque populum noua et insolita libertate temere gaudentem oratione ad meliora et saniora consilia reuocatum senatui subiecit, id est urbem urbi iunxit. uerbis ergo facundis ira, consternatio, arma cesserunt (Factorum et dictorum memorabilium libri IX, VIII 9,1).

Come nell’elogium epigrafico, così nel passo di Valerio Massimo, successivo di qualche anno, si passa da uno specifico riferimento al rapporto plebs-patres ad un generale riferimento al populus. Peraltro, Valerio Massimo (IV 4,2) riporta anche la tradizione di Menenio Agrippa, riferendo altresì alcuni particolari già oggetto della narrazione di Livio; egli infatti, dopo aver affermato che il senato e la plebe avrebbero scelto Menenio Agrippa come conciliatore, narra che il suo funerale sarebbe stato garantito con il denaro raccolto «a populo».
c)       Plutarco evidenzia l’opera di convincimento posta in essere da Manio Valerio; questi fu colui che «aveva riconciliato il senato e la plebe»:

Δύο γοῦν Μαξίμους, ὅπερ ἐστὶ μεγίστους, ἀνηγόρευσεν ὁ δῆμος· Οὐαλλέριον μὲν ἐπὶ τῷ διαλλάξαι στασιάζουσαν αὐτῷ τὴν σύγκλητον (Plutarco, Vita di Pompeo, XIII 11).

Dunque: mentre in Livio è narrata la mediazione del solo Menenio Agrippa, nell’elogium epigrafico, in Cicerone, in Valerio Massimo (che ricorda, però, anche Menenio Agrippa) ed in Plutarco è indicata la sola attività di convincimento posta in essere da Manio Valerio; in una posizione intermedia tra questi due gruppi di fonti si pone la narrazione di Dionigi di Alicarnasso, nella quale trovano spazio tanto Menenio Agrippa quanto Manio Valerio, pur se al primo è riservata un’attenzione maggiore. Tutto ciò conduce a pensare che esistano due tradizioni, nelle quali il merito della fine della secessione medesima è attribuito rispettivamente a Menenio Agrippa ovvero a Manio Valerio.

Guerriero con elmo calcidese. Testa fittile, terracotta policroma, V sec. a.C. da Albano.

Valerio Anziate e l’odierna storiografia. Mommsen aveva ragione

Le posizioni assunte dagli storici contemporanei circa queste tradizioni, sono sostanzialmente quattro. a) La grande maggioranza di essi raccoglie solo la tradizione di Menenio Agrippa; b) pochissimi riportano la sola tradizione di Manio Valerio[9]; c) alcuni riferiscono ambedue le tradizioni senza prendere posizione, oppure, più spesso, criticano la tradizione di Manio Valerio[10]; d) altri hanno una visione ipercritica di tutta la tradizione delle secessioni plebee[11].
Le accuse di non veridicità rivolte alla tradizione di Manio Valerio derivano da una più generale critica alle fonti annalistiche romane. Hirschfeld aveva sostenuto che il testo dell’elogium epigrafico di Manio Valerio non sarebbe dipeso da una antica tradizione annalistica, ma dagli Annali di Valerio Anziate[12]. Successivamente, altri studiosi affermarono, in riferimento alla prima secessione plebea, che Valerio Anziate avrebbe apportato ai dati più risalenti le «falsificazioni, di cui abbonda la pseudo-storia romana, a favore dei Valerii»[13]. Le «falsificazioni» dell’Anziate avrebbero influenzato fortemente, oltre il citato elogium, anche le opere di Dionigi, di Valerio Massimo (per di più anch’egli membro della gens Valeria) e di Plutarco[14]. Il ruolo di Manio Valerio sarebbe stato dunque “inventato” da Valerio Anziate che, così, avrebbe cercato di contrapporre questa sua ricostruzione alla tradizione antica[15], la quale attribuiva a Menenio Agrippa il merito della fine della prima secessione.
Contro le critiche alla veridicità della tradizione di Manio Valerio e, in particolare, contro le accuse di scarsa attendibilità mosse all’elogium epigrafico di questi, Mommsen affermava che il testo dell’elogium «pendere ab annalibus antiquis et optimis»[16]. Ritengo che Mommsen avesse ragione. Quattro osservazioni conducono a questa conclusione.

  • Innanzitutto, non abbiamo alcuna notizia certa sulla datazione degli Annali di Valerio Anziate; inoltre, è noto che di quest’opera sono pervenuti solo alcuni frammenti[17].
  • Non è possibile appurare se fossero già stati pubblicati gli Annali di Valerio Anziate nel 46 a.C., quando Cicerone scriveva il Brutus, opera nella quale appare il richiamo al ruolo di Manio Valerio nella conclusione della secessione plebea del 494 a.C.; inoltre, l’Arpinate in nessuno scritto menziona l’annalista Anziate[18]. È dunque molto probabile che il riferimento fatto da Cicerone a Manio Valerio nel Brutus sia dipeso da una fonte diversa dagli Annali di Valerio Anziate.
  • Non è possibile provare che il testo dell’elogium di Manio Valerio sia dipeso dagli Annali di Valerio Anziate. È quindi possibile che l’elogium sia stato ispirato da altra fonte, forse la stessa di cui si era avvalso Cicerone qualche decennio prima.
  • È possibile che lo stesso Valerio Anziate abbia tratto le informazioni riguardanti Manio Valerio da fonti più antiche[19]. Se così fosse, non avrebbe senso sostenere che il ruolo di Manio Valerio nella prima secessione plebea sia dipeso da una “invenzione” dell’Anziate; al più si potrebbe sostenere che questi abbia dato maggiore risonanza alle narrazioni che ponevano in risalto la figura di Manio Valerio[20].

È pertanto assai probabile che la tradizione di Manio Valerio sia stata fondata su narrazioni molto antiche, quanto quelle che riferivano dell’apologo di Menenio Agrippa. Gli annalisti successivi, ciascuno secondo le proprie idee ed i propri metodi, hanno basato le loro ricostruzioni su un nucleo originario che conteneva i tratti fondamentali di quelle vicende: a) il dittatore Manio Valerio e la questione dei nexi; b) la secessione della plebe; c) l’apologo di Menenio Agrippa; d) la nascita del tribunato della plebe; e) la discesa dei plebei dal Monte Sacro. Del resto, Cicerone, Dionigi e Livio attingevano le loro notizie da numerosi annalisti, dai più antichi ai più recenti; tutti e tre, per esempio, conoscevano gli scritti di Fabio Pittore, il più antico.

La questione dei nexi

Livio e Dionigi sono concordi nel riconoscere l’occasione della prima secessione plebea nella abdicazione di Manio Valerio dalla dittatura:

Namque Valerius post Vetusi consulis reditum omnium actionum in senatu primam habuit pro uictore populo, rettulitque quid de nexis fieri placeret. Quae cum reiecta relatio esset, «non placeo» inquit, «concordiae auctor. (…) priuatus potius quam dictator seditioni interero». Ita curia egressus dictatura se abdicauit. Apparuit causa plebi, suam uicem indignantem magistratu abisse; itaque uelut persoluta fide, quoniam per eum non stetisset quin praestaretur, decedentem domum cum fauore ac laudibus prosecuti sunt (Ab Urbe condita II 31, 8-11);

Εὐθὺς δὲ μετὰ τοῦτο τάδε ἐγίνετο· οἱ μὲν πένητες οὐκέτι κρύφα οὐδὲ νύκτωρ ὡς πρότερον, ἀλλ᾽ ἀναφανδὸν ἤδη συνιόντες ἐβούλευον ἀπόστασιν ἐκ τῶν πατρικίων (Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane VI 45,1).

Il dittatore Manio Valerio si dimette dalla carica perché il Senato rifiuta di approvare le sue proposte a favore dei nexi; il dittatore non riesce ad imporsi quale concordiae auctor. In conseguenza dell’abdicazione, la plebe attua la secessione.

È di tutta evidenza che sia per Livio sia per Dionigi la questione dei nexi ha un peso fondamentale sulle motivazioni che spingono la plebe alla secessione[21]; e non credo che il limitato sviluppo dell’economia monetaria nei primi decenni del V secolo a.C., possa costituire una prova della scarsa incidenza dell’indebitamento tra le cause della prima secessione plebea[22]. Peraltro il nexum, sicuramente antecedente alla legge delle XII Tavole, sarà abolito solo alla fine del IV secolo a.C.[23]

Tuttavia, se per Livio e Dionigi l’indebitamento dei plebei è una delle cause della secessione del 494 a.C., il solo Dionigi dice espressamente che la liberazione dai debiti sarà formalmente deliberata dal senato nel 493 a.C.; Livio non ne fa menzione, pur avendo chiaramente indicato il problema dei nexi tra i motivi della secessione e pur avendo scritto che il dittatore Manio Valerio si era dimesso dalla carica perché il senato non era voluto intervenire nella questione dell’usura[24].

Come in Dionigi, così nell’elogium epigrafico di Manio Valerio è richiamata la decisione del senato sulla liberazione dai debiti:

fae/nore · gravi · populum · senatus · hoc / eius · rei · auctore · liberavit.

Il Senato liberò il populus dai debiti, essendo Manio Valerio auctor della deliberazione senatoria. Orbene, circa questo aspetto, sono due i punti sui quali si confrontano l’elogium e Dionigi: a) la liberazione dai debiti ad opera del Senato; b) la persona cui attribuire il merito di questa iniziativa. Sul primo punto c’è totale concordanza; sul secondo, invece, potrebbe sembrare che vi sia contrasto; infatti, dal racconto dello storico greco parrebbe che il merito di tale liberazione debba essere attribuito a Menenio Agrippa. Questi, nella ricostruzione di Dionigi, si rivolge una volta al senato e quattro volte alla plebe secessionista[25]; al senato, per convincerlo ad inviare présbeis ai plebei con pieni poteri nelle trattative (Antichità romane VI 67,2), alla plebe, nella prima parte del suo primo discorso, per garantire espressamente la liberazione dai debiti, descrivendo nei dettagli il contenuto della deliberazione che il Senato avrebbe approvato una volta raggiunto l’accordo con i plebei secessionisti (Antichità romane VI 83,4-5). Il racconto di Dionigi, però, è complesso ed una sua attenta lettura ci permette di pervenire ad una conclusione più articolata.

Innanzitutto, è evidente che, prima ancora che avvenga la secessione, l’indebitamento è tra le principali preoccupazioni del dittatore Manio Valerio, tanto che lo stesso dittatore prevede la futura seditio cagionata dalla mancata risoluzione del problema dei nexi; e questo, come ho già avuto modo di osservare, è chiaro tanto per Livio quanto per Dionigi. Inoltre, con la secessione in corso e prima che Menenio Agrippa pronunci il suo primo discorso alla plebe, già Manio Valerio aveva assicurato che il senato era pronto ad accettare le condizioni dettate dai plebei (Antichità romane VI 71); infine, dopo l’apologo di Menenio Agrippa e l’assicurazione che tutti i présbeis saranno garanti degli accordi raggiunti, è Manio Valerio colui che ritorna a Roma per convincere il senato, contro l’accanita opposizione di Appio, ad accettare tutte le condizioni poste dalla plebe, compresa la “novità” dei tribuni (Antichità romane VI 88,2-3).

Pertanto, nella narrazione di Dionigi è evidente il doppio ruolo di Manio Valerio; questi: a) garantisce (insieme agli altri présbeis) l’accordo tra plebei e Senato; b) convince il senato ad accogliere le richieste dei plebei. Il termine auctor, con cui nell’elogium è qualificata l’attività di Manio Valerio nella liberazione dai debiti, può indicare ambedue i ruoli evidenziati.

La parola auctor, con riferimento all’attività del Senato, indica l’azione di colui che propone una deliberazione senatoria[26].

Peraltro, il termine è connesso all’istituto della mancipatio e della conseguente auctoritas da parte del mancipio dans, detto appunto auctor. Orbene, il mancipio dans-auctor, sulla base di una norma delle XII Tavole (Cicerone, Topica IV 23, usus auctoritas fundi biennium est; De officiis I 12, 37, adversus hostem aeterna auctoritas), «in caso di minacciata evizione avrebbe dovuto intervenire nella rivendica promossa dal terzo contro l’acquirente»[27]; in altri termini, in caso di trasferimento della res tramite mancipatio, l’auctoritas costituiva per il mancipio accipiens una garanzia per l’evizione[28].

Dunque, la parola auctor si addice al ruolo di Manio Valerio, come emerge dal racconto di Dionigi, tanto se interpretata secondo il significato di garante (per l’evizione), quanto se interpretata secondo il significato di proponente un senatoconsulto. La prima accezione è riconducibile al ruolo di garante[29] della non modificabilità (in peius) delle disposizioni relative alla liberazione dai debiti, che in uno dei discorsi di Menenio Agrippa è attribuito a tutti i présbeis (Antichità romane VI 84,2). La seconda accezione ha fondamento sul fatto che è Manio Valerio, sempre secondo il racconto di Dionigi, ad esporre per primo al Senato il suo parere favorevole all’approvazione di tutte le richieste avanzate dalla plebe (Antichità romane VI 88,3).

Guerriero ferito (dettaglio). Statua frontonale, terracotta, V sec. a.C. dal Tempio di Sassi Caduti. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.

La discesa dei plebei dal Monte Sacro ed il ruolo dell’augure Manio Valerio

Manio Valerio, secondo l’elogium, oltre che dittatore fu anche augure. Livio riporta la notizia della morte di un augure Manio Valerio nel 463 a.C. (Ab Urbe condita III 7,6: mortui et alii clari uiri, M. Valerius (…) augures). I due Valerii possono essere la stessa persona, anche se un passo di Dionigi rende problematica questa identificazione, in quanto lo storico greco riproduce un discorso (494 a.C.) del dittatore Manio Valerio, nel quale questi afferma di avere più di settanta anni (Antichità romane VI 44,3); ritenendo che l’augure del 463 sia lo stesso Manio Valerio del 494, questi sarebbe dunque morto ad un’età superiore a cento anni[30]; il che peraltro non è impossibile. Comunque, anche non accettando l’identificazione tra il dittatore ed augure Manio Valerio e l’augure morto nel 463, non v’è motivo di dubitare che il dittatore Manio Valerio fosse anche augure. Altro problema è stabilire se Manio Valerio fosse già augure nel 493, quando, secondo il racconto di Dionigi, fu inviato dal senato al Monte Sacro. In più punti delle sue storie Dionigi attira l’attenzione sull’età avanzata di Manio Valerio (Antichità romane VI 39,2; 41,2; 43,4; 71,1); in considerazione di ciò, è del tutto plausibile che Manio Valerio fosse augure già precedentemente[31]. Ora, occorre capire quale relazione vi possa essere tra l’augurato e la fine della secessione plebea. L’elogium epigrafico di Manio Valerio, sul punto specifico della fine della secessione plebea, recita:

plebem / de sacro · monte · deduxit;

L’elogio che Livio fa di Menenio Agrippa, sullo stesso punto riferisce:

Huic (Menenio Agrippa) … reductori plebis Romanae in urbem (Ab Urbe condita II 33,11).

Non vi è contraddizione tra i due elogi, perché Manio Valerio condusse la plebe giù dal Monte Sacro[32], mentre Menenio Agrippa ricondusse la plebe a Roma. Orbene, l’azione di Menenio Agrippa fu di natura politica; quella di Manio Valerio ebbe implicazioni giuridico-religiose ed almeno quattro sono le argomentazioni che lo chiariscono.

a) Il rapporto tra Iuppiter e l’augur. Gli auguri sono definiti da Cicerone, egli stesso augure, quali interpretes Iovis Optumi Maximi (Cicerone, De legibus II 8,20).

b) Il rapporto tra Iuppiter e la plebe sul Mons Sacer. Dionigi racconta che i plebei bōmòn kateskeúsan sulla cima del monte su cui si erano accampati, che chiamarono di Zeús Deimatíos (Iuppiter Territor)[33] (Antichità romane VI 90,1). In questa notizia, è implicito il nesso tra la secessione ed il timore di Iuppiter, diffuso tra i plebei sul Monte Sacro.

Nell’opera di Festo, sotto la voce Sacer mons, si legge che i plebei consacrarono il mons a Iuppiter:

Sacer mons appellatur trans Anienem, paullo ultra tertium miliarum: quod eum plebes, cum secessisset a patribus, creatis tribunis plebis, qui sibi essent auxilio, discendentes Iovi consecraverunt (Festo, v. Sacer mons, 422 e 424 – ed. Lindsay).

Nel passo di Festo è chiaramente detto che oggetto della consecratio fu il mons sul quale i plebei si erano ritirati dopo la secessione. Ora, nelle fonti sono indicate, quali oggetti di consecratio, res dai termini ben individuati e, soprattutto, agevolmente individuabili[34]; il mons, invece, si divide in più parti (radices, latera, iuga, vertices)[35], tanto da renderne problematica una precisa delimitazione ai fini della consecratio, per non parlare dell’evidente problema della estensione territoriale. Tutto ciò potrebbe far pensare ad una imprecisione terminologica di Festo, che, forse, intendeva indicare con il termine mons la parte della sommità, ove nell’antichità non era raro che fossero costruiti altari agli dèi[36]. Pertanto, è possibile che la consecratio di cui parla Festo abbia avuto ad oggetto non l’intero mons, ma la sua sommità (epì tēs akrōreías), dove era stato edificato il bōmòs di cui parla Dionigi. Peraltro, in altre due fonti si trova il riferimento alla consecratio di un mons; si tratta di un frammento delle orazioni perdute di Cicerone e di un passo di Valerio Massimo. Il testo di Cicerone (Oratio pro Gaio Cornelio, 49) è relativo proprio al mons sacer: «Montem illum trans Anienem, qui hodie Mons Sacer nominatur, in quo armati consederant, aeternae memoriae causa consecrarent». Il passo di Valerio Massimo (II 2,9) è invece riferito al monte Palatino: «Lupercalium enim mos a Romulo et Remo inchoatus est tunc, cum laetitia exultantes, quod his auus Numitor rex Albanorum eo loco, ubi educati erant, urbem condere permiserat sub monte Palatino, hortatu Faustuli educatoris sui, quem Euander Arcas consecrauerat». In ambedue i casi è dubbio se gli autori usino il verbo consecrare in un senso tecnico o lato; né è chiaro se oggetto di consecratio sia il mons nel suo complesso o sue parti. Certo è che lo stesso Cicerone usa consecrare anche in una accezione lata, come si può constatare nel seguente passo: «insulam Siciliam totam esse Cereri et Liberae consecratam» (In Verrem V 106).

c) Il rapporto tra l’augur e l’inaugurazione e consacrazione dei luoghi[37]. L’augure è il solo sacerdote che possa procedere alla inauguratio dei luoghi, pur se questo potere presuppone un’apposita richiesta del magistrato. Il luogo inaugurato è definito templum e può trovarsi sia all’interno del pomerio sia fuori; in ogni caso, esso è destinato allo svolgimento di attività magistratuali e sacerdotali. Per ciò che concerne il rapporto tra inauguratio e consecratio, le fonti testimoniano l’esistenza di luoghi inaugurati e non consacrati, ma anche di luoghi consacrati e non inaugurati. Comunque, la consecratio di un luogo deve avvenire in templo, cioè in un luogo inaugurato (si vedano Cicerone, De domo sua 53, 136-137; Servio, Ad Aeneidem I 446). Ora, occorre considerare che sul mons della prima secessione sono compiute, dai plebei o per i plebei, attività che, se compiute dal populus o pro populo in Roma, avrebbero dovuto essere generalmente effettuate in templo: riunione di un’assemblea di cives per eleggere i magistrati; riunione di un’assemblea di cives per deliberare un nómos; edificazione di un’ara; consacrazione di un luogo ad una divinità. Limiterò la mia attenzione agli ultimi due punti: i plebei bōmòn kateskeúsan[38] a Iuppiter (Antichità romane VI 90,1) ed alla stessa divinità consacrano il mons della secessione (Antichità romane VI 90,1; Festo, v. Sacer mons, 422 e 424, ed. Lindsay). Orbene, come ho già detto, gli atti di consecratio dovevano avvenire in un luogo inaugurato. È noto che la consecratio di un luogo era competenza dei pontefici; non si può, però, stabilire con certezza se sul Monte Sacro fosse presente anche un pontefice. È comunque possibile che vi fosse, considerato che sappiamo pochissimo sui nomi dei componenti i collegi sacerdotali di questo periodo e che tra i présbeis inviati dal Senato sul Monte Sacro, oltre all’augure Manio Valerio, vi era probabilmente almeno un altro sacerdote, Servio Sulpicio Camerino (Antichità romane VI 69,3), di cui Livio dice che era curio maximus nel 463 a.C., anno della sua morte (Ab Urbe condita III 7,6). In ogni caso, non vedo come i plebei avrebbero potuto effettuare una consecratio senza l’intervento dei pontefici.

d) Religio e plebe. L’auctoritas dell’augure Manio Valerio permette alla plebe di lasciare il mons della secessione senza aver turbato la pax deorum o, comunque, in pace con essi. Pur in un clima indubbiamente rivoluzionario, nel racconto di Dionigi è evidente la volontà dei plebei di seguire il più possibile il modello organizzativo della civitas di appartenenza, soprattutto per ciò che concerne l’osservanza delle caerimoniae. Iuppiter è al centro tra plebei e Senato: l’augure, interprete (patrizio) della volontà di Giove, pone le condizioni giuridico-religiose necessarie perché la plebe non violi la Romana religio. Sia nell’elogium di Manio Valerio sia nei passi di Dionigi e di Festo è evidente la posizione di Iuppiter in relazione alla fine della secessione: nell’elogium i plebei sono condotti giù dal Monte Sacro dall’interprete di Iuppiter (augur … plebem de sacro monte deduxit); in Dionigi i plebei dimostrano il loro timore per Iuppiter (bōmòn kateskeúsan… Diòs Deimatíou); in Festo i plebei scendono dal Monte dopo averlo consacrato a Iuppiter (eum plebes … discendentes Iovi consecraverunt). L’incontro tra i due ordines della civitas (plebs e gentes patriciae sono indicate quali ordines civitatis dal giurista dell’età augustea Ateio Capitone in Gellio, Noctes Atticae X 20,5) nel culto di Iuppiter è molto importante per la religio, tanto da richiedere l’intervento dei feziali (Antichità romane VI 6,89,1), segno evidente della unità del sistema giuridico-religioso romano: nella narrazione di Dionigi, tra senato e plebe vengono conclusi synthḗkai, parola greca che traduce il termine latino foedus[39]. La particolare attenzione da parte dei plebei per la religio apparirà evidente anche quarantaquattro anni dopo, in occasione della seconda secessione plebea, quando la riconciliazione con i patres sarà resa possibile, anche in questo caso, grazie all’opera di un sacerdote: il pontifex maximus. Da questi sarà infatti presieduta nel 449 a.C. l’assemblea plebea che, dopo l’esperienza del decemvirato legislativo, tornerà ad eleggere i tribuni della plebe (Asconio, In Cornelianam, 77 – ed. Clark; Ab Urbe condita III 54,11)[40].

 


[1] Sui «dittatori favorevoli alla plebe e al popolo» e sul «dictator quale concordiae auctor», vedasi G. Meloni, Dictatura popularis, in Dictatures. Actes de la table ronde, Paris 27-28/02/1984, Paris 1988, 79 ss. e 84 s.; cfr. ID., Dottrina romanistica, categorie giuridico-politiche contemporanee e natura del potere del “dictator”, in AA.VV., Dittatura degli antichi e dittatura dei moderni, a cura di G. Meloni (Biblioteca di Storia antica, Collana diretta da L. Capogrossi Colognesi e L. Labruna. A cura del Gruppo di ricerca sulla diffusione del diritto romano, 16), Roma 1983, 90; 108 nt. 84-85.

[2] Dionigi di Alicarnasso scrive che Manio Valerio fece delle profezie al senato che si rifiutava di accogliere le sue proposte in merito ai debiti; Dionigi utilizza il verbo apothespízein che, appunto, indica l’attività di chi fa profezie (vedasi H.G. Liddell – R. Scott, Greek-English Lexicon, I, Oxford 1940).

[3] Vedasi V. Spinazzola, Gli augures, Roma 1895, 85 s.

[4] Mommsen, in CIL I, 1, 1893, 190.

[5] La parola greca présbeis traduce il termine latino legati. Si vedano D. Magie, De Romanorum iuris publici sacrique vocabulis solemnibus in Graecum sermonem conversis, Lipsiae 1905, 87 s.; H.J. Mason, Greek Terms for Roman Institutions, Toronto 1974, 153. In E. Boisacq, Dictionnaire étymologique de la langue grecque, Heidelberg 1950, 811, la traduzione in francese è resa con «envoyés, députés, ambassadeurs».

[6] Per il testo dell’epigrafe e per un suo commento, si vedano CIL I, 1, 189 e XI 1826, Inscriptiones Italiae, XIII, 3 (Elogia), 57 ss.

[7] Il testo dell’iscrizione rinvenuta a Roma (CIL VI, 8, 4920) inizia dalla parola populum, presente nella linea 10 dell’iscrizione aretina (CIL XI 1826): populum · sen[atus] / hoc auctore [liberavit] / sellae curuli[s locus] / ipsi posteri[sque ad] / Murciae · s[pectandi] / caussa · pu[blice datus] / est · prin[ceps in senatum] / semel l[ectus est]. Le differenze tra i due testi sono solo due: nella iscrizione di Roma non appare eius rei che invece è presente nella linea 11 dell’epigrafe aretina ed in quest’ultima non appaiono le lettere pu, integrate in publice dal CIL, che sono invece incise nella linea 6 dell’iscrizione romana.

[8] Si vedano, ad esempio, Cicerone, Pro P. Quinctio 24, 76; De domo sua 79; De officiis 2, 29; Brutus 312; Brutus 328.

[9] Vd. Th. Mommsen, Storia di Roma antica, I, 2, Firenze 1960 (Römische Geschichte, Berlin 1888), 336 s., il quale dava spazio al solo Manio Valerio, affermando che questi convinse la plebe a tornare a Roma ed il senato ad accettare le richieste plebee sulla liberazione dai debiti e sulla creazione dei tribuni.

[10] Vd. E. Pais, Storia di Roma, III, Roma 1927, 21 s., il quale richiamava tanto Menenio Agrippa quanto Valerio Massimo (che lo studioso chiama Marco e non Manio) e poneva in evidenza il fatto che Dionigi «trova modo di fondere le diverse narrazioni e di assegnare una parte tanto a Manio Valerio quanto a Menenio Agrippa». Vedasi anche J.-C. Richard, Les origines de la plèbe romaine, Rome 1978, 542, il quale, pur riportando sia le fonti che tramandano la tradizione di Menenio Agrippa sia quelle che ricordano il ruolo di Manio Valerio, pone su queste ultime l’accusa di dipendere dall’opera di Valerio Anziate.

[11] Vedasi G. De Sanctis, Storia dei Romani, II, Milano-Torino-Roma 1907, 6 s.: «quali precisamente tra i moventi della lotta siano stati quelli che determinarono la secessione o le secessioni, che cosa per l’appunto si sia ottenuto per questa via dai patrizi, se la plebe si sia ritirata sull’Aventino soltanto una volta o più, quando esattamente ciò abbia avuto luogo, son quesiti a cui sarebbe pura illusione il credere che la tradizione, come a noi è pervenuta, possa dar modo di rispondere». Vedasi anche H.H. Scullard, Storia del mondo romano, I, Milano 1983 (A History of the Roman World 753-146 BC, London 1980), 108, il quale ricorda il ruolo di Menenio Agrippa, mettendo però in dubbio la veridicità stessa di tutta la tradizione relativa alla prima secessione plebea.

[12] O. Hirschfeld, Das Elogium des M. Valerius Maximus, in Philologus, 34, 1876, 85 ss.

[13] Così G. De Sanctis, v. Valerio Anziate, in Enciclopedia Italiana, XXXIV, Roma 1937, 916. Sulle falsificazioni di cui si sarebbe reso responsabile Valerio Anziate per dare lustro alla gens Valeria si vedano altresì H. Volkmann, v. Valerius Antias, in PWRE, VIII, A2, 1948, 2312 ss., e, più recentemente, F.X. Ryan, The subsequent magistracy of M’ Valerius Volusi f. Maximus, in Acta Antiqua Academiae Scientiarum Hungaricae, 38, 1998, 353 ss.

[14] G. De Sanctis, Storia dei Romani, I, cit., 41, sostiene che Dionigi, «non riuscendo a giudicare rettamente del valore delle fonti e ad avvertire quanto di menzognero era, per esempio, in Valerio Anziate, scelse a guida gli annalisti che meglio si prestavano a fornirgli gli elementi di un racconto prammatico, cioè i più mendaci e recenti, di cui appunto pel desiderio d’essere compiuto accolse assai di più di Livio le invenzioni». L’influenza dell’opera dell’Anziate in Dionigi, Livio e Plutarco è altresì evidenziata da L. Pareti, Storia di Roma e del mondo romano, I, Torino 1952, 37 s. La dottrina più recente, soprattutto i giuristi, è meno critica nei confronti della attendibilità dell’opera di Dionigi; si vedano S. Tondo, Profilo di storia costituzionale romana, Milano 1981, 10 ss.; L. Fascione, Il mondo nuovo. La costituzione romana nella ‘Storia di Roma arcaica di Dionigi di Alicarnasso, I, Napoli 1988, 7 ss.; F. Serrao, Diritto privato economia e società nella storia di Roma, I, Napoli 1999, 36 s.

[15] Sull’antichità della tradizione relativa a Menenio Agrippa e, allo stesso tempo, sulla impossibilità di stabilire con certezza l’epoca in cui essa sarebbe stata formata, vedasi la ricognizione delle opinioni espresse dalla dottrina contemporanea in J.-C. Richard, Les origines de la plèbe romaine, cit., 542 nt. 344.

[16] Th. Mommsen in CIL I, 1, 1893, 189 ss.

[17] H. Volkmann, v. Valerius Antias, cit., 2312 ss.

[18] Valerio Anziate non è mai menzionato, neppure indirettamente, da Cicerone (al riguardo, vedasi G. De Sanctis, v. Valerio Anziate, cit., 916). L. Pareti, Storia di Roma e del mondo romano, I, cit., 37, sostiene che «il fatto che vari autori lo (scilicet Valerio Anziate) dicono coevo di Sisenna, e che la sua storia si proponeva, a quanto sembra, di giungere fino alla morte di Silla, pare testimoniare che il silenzio di Cicerone su di lui non dipende dall’aver Valerio Anziate pubblicato i suoi Annali dopo il 43, in cui l’oratore morì; ma dal non averne voluto parlare».

[19] Si vd. O. Hirschfeld, Das Elogium des M. Valerius Maximus, cit., 85 ss., e H. Volkmann, v. Valerius Antias, cit., 2312 ss.

[20] Vd. L. Peppe, Studi sull’esecuzione personale, I, Milano 1981, 65 nt. 94, il quale non esclude che Valerio Anziate abbia ripreso ed ampliato una tradizione più antica.

[21] Vd. F. Serrao, Diritto privato economia e società nella storia di Roma, I, cit., 111 e 241, il quale insiste sulle motivazioni economiche della prima secessione plebea.

[22] Sulle motivazioni di natura economica della prima secessione plebea e, soprattutto, sulla monetazione e sulla natura dei debiti in età arcaica, vedasi F. De Martino, Storia economica di Roma antica, I, Firenze 1979, 13 ss.; 29 ss.; 45 ss. Per una ricognizione della dottrina sul problema dell’indebitamento in età arcaica, vedasi C. Gabrielli, Contributi alla storia economica di Roma repubblicana. Difficoltà politico-sociali, crisi finanziarie e debiti fra V e III sec. a.C., Como 2003, 11 ss.

[23] Per una precisa ricostruzione storico-giuridica nel nexum, vedasi F. Serrao, Diritto privato economia e società nella storia di Roma, I, cit., 230 ss. L’abolizione del nexum avviene tra il 326 ed il 313 a.C. con una legge Poetelia, o Poetelia Papiria.

[24] Riferendosi alla spiegazione data da Mommsen circa la differenza tra la narrazione di Livio e quella di Dionigi (per la quale vedasi supra, nel testo), L. Peppe, Studi sull’esecuzione personale, I, cit., 64, sostiene che «una tesi siffatta, a parte la sua indimostrabilità, è banale e in fondo gratuita». Tuttavia, lo stesso Peppe pretende di dimostrare che le omissioni di Livio sarebbero prove della inesistenza del problema dell’indebitamento nel V secolo a.C.

[25] Per pronunciare il famoso apologo (Antichità romane VI 83,3-5 e VI 84-86); per chiedere a Giunio Bruto di manifestare quale garanzia voglia la plebe (Antichità romane VI 6,87,3); per chiedere che una parte dei présbeis torni a Roma per presentare al senato le richieste plebee (Antichità romane VI 88,1-2); per consigliare ai plebei di inviare in città degli uomini per ricevere dal senato assicurazioni (Antichità romane VI 88,4).

[26] Vd. per esempio, Gaio, Istituzioni I 73: divus Hadrianus … auctor fuit senatusconsulti faciundi.

[27] M. Marrone, Istituzioni di diritto romano, Palermo 1994, 317 nt. 51.

[28] Nelle fonti giuridiche di età successiva alle XII Tavole, il termine auctor è impiegato anche nel significato più generale di dante causa; si veda il Vocabularium Iurisprudentiae Romanae, I, v. Auctor, 513 s. Su auctoritas ed auctor si vedano anche L. Amirante, Sul concetto unitario dell’auctoritas, in Studi in onore di S. Solazzi, Napoli 1948, 375 ss., e, soprattutto per ciò che concerne l’età arcaica, F. Serrao, Diritto privato economia e società nella storia di Roma, I, cit., 309 s.

[29] In H.G. Liddell – R. Scott, Greek-English Lexicon, I, cit., la parola anádochos, con specifico riferimento a Antichità romane VI 84, è tradotta con il termine inglese “surety”, che in italiano significa anche “garante”.

[30] Così G.J. Szemler, The Priests of the Roman Republic, Bruxelles 1972, 52 s., per le opinioni espresse in dottrina sulla identificazione tra i due Valerii. Szemler, seguendo Mommsen, propende a credere che l’augure morto nel 463 sia lo stesso Manio Valerio della prima secessione plebea.

[31] Secondo J. Rüpke – A. Glock, Fasti sacerdotum: die Mitglieder der Priesterschaften und das sakrale Funktionspersonal römischer, griechischer, orientalischer und judisch-christlicher Kulte in der Stadt Rom von 300 v. Chr. bis 499 n. Chr., II, Stuttgart 2005, 1351, Manio Valerio sarebbe già augure dal 495 a.C.

[32] Sul significato di deducere, vd. la voce Deduco, in Lexicon totius Latinitatis, II, 600, ed in Thesaurus linguae Latinae, V,1, 272 e 277.

[33] R. Bartoccini, v. Iuppiter, in Dizionario epigrafico di antichità romane, II, 2, rist. Roma 1961, 245, cita solo un’epigrafe che indica Territor come attributo di Iuppiter: sancto Iovi territori sacrum (CIL XIV 3559).

[34] Per una elencazione delle res consacratae indicate nelle fonti, si vd v. Consecro, Thesaurus linguae Latinae, IV, 379 ss. Si vedano anche E. Pottier, v. Consecratio, in Daremberg-Saglio, Dictionnaire des antiquités grecques et romaines, I, 2, rist. Graz 1969, 1448 ss.; G. Wissowa, v. Consecratio, in PWRE, IV, Stuttgart 1900, 896 ss.; E. De Ruggiero, v. Aedes, in Dizionario epigrafico di antichità romane, I, rist. Roma 1961; G. Luzzatto, v. Consecratio, in NNDI, IV, Torino 1959, 110; C. Frateantonio, v. Consecratio, in Der Neue Pauly, 3, Stuttgart-Weimar 1997, 128.

[35] Vd. la voce Mons nel Thesaurus linguae Latinae, VIII, 1431.

[36] Vd., infatti, F. Lenormant, v. Montes divini, in Daremberg-Saglio, Dictionnaire des antiquités grecques et romaines, III, 2, rist. Graz 1963, 1995.

[37] Sulla inauguratio dei luoghi e sul rapporto con la consecratio, si veda P. Catalano, Contributi allo studio del diritto augurale, I, Torino 1960, 248 ss.

[38] Il verbo kataskeúazein indica un’attività di edificazione. Il termine bōmós traduce il latino ara; vedasi E. Saglio, v. Ara, in Daremberg-Saglio, Dictionnaire des antiquités grecques et romaines, I, 1, rist. Graz 1969, 347.

[39] Vd. H.J. Mason, Greek Terms for Roman Institutions, cit., 90. Sul foedus tra Senato e plebei nel 493 a.C. e sulla «unicità virtualmente universale del sistema giuridico-religioso elaborato dai feziali», vd. P. Catalano, Linee del sistema sovrannazionale romano, I, Torino 1965, 199 s.

[40] Vedasi C.M.A. Rinolfi, Livio 1.20.5-7: pontefici, sacra, ius sacrum, in Diritto @ Storia, 4, 2005, 15 ss.

Le secessioni della plebe

di G. POMA, Le secessioni della plebe (in particolare quella del 494-493 a.C.) nella storiografia, in Diritto@Storia: Rivista Internazionale di Scienze giuridiche e Tradizione romana, N. 7 – 2008 – Memorie.

1. Considerazioni preliminari

Una premessa è d’obbligo, perché il tema è troppo vasto per poter essere racchiuso in una comunicazione, per cui toccherò solo alcuni dei tanti aspetti del problema “secessioni della plebe”, con particolare riferimento alla storiografia più recente, preferibilmente storica più che giuridica. Se tentiamo un bilancio critico della riflessione moderna su quel grumo di questioni che si addensano attorno alle secessioni, dobbiamo fronteggiare una serie impressionante di ipotesi, che spesso variamente si incrociano, e di questioni ancora aperte, come è ben noto a tutti. E in tutto questo, storici e giuristi colloquiano poco, con reciproco danno, io credo. Nella storiografia moderna, con le dovute eccezioni che vedremo, si sono venuti attenuando i dubbi sulla realtà storica di una o più secessioni della plebe, a partire da quella del 494 a.C.
Si è dissolta l’ipercritica di un Beloch[1] e di un Pais[2], e gli studiosi hanno assunto una posizione di relativa “confidenza” nei dati offerti dalla tradizione annalistica, ma certamente permangono intatte le difficoltà di uno studio di storia romana arcaica, terreno affascinante ma infido, che rende estremamente cauto il passo dello studioso moderno e che prevede scelte metodologiche precise.
Ad esemplificare, cito J.-Cl. Richard[3], che nella sua recensione al volume curato dal Serrao, Legge e società nella repubblica romana del 1981, scriveva: «La vulgata relativa alle lotte della plebe quale l’hanno fissata Tito Livio e Dionigi d’Alicarnasso, a partire dai dati dell’annalistica, è per il V e IV secolo degna di fede» e questa fiducia nella tradizione è alla base anche dei tanti contributi di Tim Cornell[4] o dei lavori del Tondo[5], dell’Amirante[6] o del Serrao stesso[7]. Ma negli stessi anni ‘80 (1985) D. Gutherlet[8] esprimeva già nel titolo di un suo saggio una tesi opposta: la prima decade di Livio è fonte essenziale per l’analisi dell’età graccana e sillana, riaffermando la totale anti-storicità della narrazione dei primi secoli della repubblica, costruiti per così dire a calco anticipatorio dei decenni graccani e sillani. È una tesi estrema, nella sua negatività, così come è estrema la tesi di chi accetta in toto il dato della tradizione.
Sappiamo bene che le nostre fonti su questi problemi sono storici romani e greci che scrivono in momenti e contesti molto diversi da quelli in cui si sono svolti gli avvenimenti e che aprono un colloquio con lettori contemporanei che misurano quanto leggono in rapporto ai tempi in cui si trovano a vivere, e questo, a maggior ragione, vale per il lettore moderno, che porta con sé il bagaglio delle proprie idee, dei propri interessi e anche, talora, delle proprie ferite. E però una cosa, a mio parere, va pur detta. Vanno bene tutte le cautele e tutte le consapevolezze della distanza tra l’annalistica e i tempi della prima repubblica e dei suoi forti legami con impostazioni ora ideologiche ora gentilizie, ma pensare che, in ogni modo, un romano colto dell’età graccana o sillana o della fine della repubblica, che viveva in una città e in un ambiente familiare ricco di tradizioni e di segni – i Romani, si sa, sono formidabili allestitori della memoria – non fosse in grado di orientarsi, come noi, tra plebe del V secolo a.C. e plebe della sportula, mi pare, quanto meno, un po’ presuntuoso. La memoria, si sa, può essere truccata, ma non è detto che non possano restare intatti i fatti strutturali.
E allora, considerato che, in linea generale, i tentativi di interpretazione della tradizione sulle secessioni, come del resto su ogni altra vicenda arcaica, tendono a salvare questo o quell’altro aspetto, in un difficile gioco d’equilibrio tra elementi ritenuti anacronistici ed elementi ritenuti autentici, è evidente che il risultato, nel tempo, è stato tutto un intrecciarsi di ipotesi dentro cui è facile smarrirsi.
La prima impressione che si ricava, scorrendo i lavori più o meno recenti, è una certa qual “marginalità” dell’interesse per le secessioni. Mi spiego. Nella intensa secolare riflessione sulla Roma della prima età repubblicana, la secessione non è assente, ma ha una scarsa evidenza in sé e per sé. Ciò che soprattutto interessa chiarire sono i suoi esiti (il tribunato, la caduta del decemvirato e le leges Valeriae e Horatiae, il conubium, la parificazione tra plebisciti e leggi), e, oltre a ciò, necessariamente, la fisionomia della plebe, la natura della sua lotta, lo spazio che si conquista dentro la civitas[9].
Tant’è che, pur nell’ampia bibliografia su questo periodo storico, non mi pare ci sia uno studio monografico dedicato alle secessioni, pochi sono i saggi che ne toccano qualche aspetto, e rarefatti gli accenni, soprattutto nelle più recenti Storie di Roma, per non dire che la monumentale opera del Richard[10] sull’origine del dualismo patrizio e plebeo termina là dove iniziano le secessioni, che appena sono sfiorate.

 

B. Barloccini, La secessio plebis al Mons Sacer (494-93 a.C.). Incisione, 1849.
B. Barloccini, La secessio plebis al Mons Sacer (494-93 a.C.). Incisione, 1849.

 

 

2. La tradizione annalistica

La tradizione antica ricorda alcune secessioni attuate (quattro nel quadro complessivo offerto da Floro e da Ampelio), altre minacciate, accanto ad un evento, quello del 342 a.C., che ondeggia tra seditio e secessio (paene secessio fuit, scrive Livio, VII 42, 4; 7)[11]. Ma anche sulla terza, del 445 a.C., (che sarebbe avvenuta in connessione coi contrasti provocati dalla richiesta del tribuno Canuleio di eliminazione del divieto di conubium) e sulla quarta, del 367 a.C., (a sostegno delle rogationes Liciniae-Sextiae) secessioni testimoniate unicamente da Floro (Epitome I 23, 26) e da Ampelio (Liber memorialis XL 25, 1) gravano le medesime incertezze. La tradizione liviana parla per questi anni solo di accesi contrasti (per il 445 a.C., di una indignatio plebis e di finis contentionumAb Urbe condita IV 6, 3-4 – per il 337 a.C., più esplicitamente Livio accenna ad una domi seditio e, più avanti, ad una prope secessionem plebis, Ab Urbe condita VI 42, 9-10).
La secessione del 287 a.C. appartiene ad un periodo di più sicura storicità (e non a caso per il Beloch è l’unica degna di fede[12]), viene registrata dalla Periocha liviana[13] come conclusione di gravi e lunghe sedizioni motivate dal risorgente problema dei debiti, e alla stessa tradizione si rifà anche Plinio (Naturalis Historia XVI 15, 37).
È l’ultimo atto di lotta della plebe e come tale è assunto anche dalla storiografia moderna, con le debite eccezioni: di un Mitchell[14], ad esempio, che affermando l’invenzione tutta moderna della lotta degli ordini, denuncia l’artificiosità anche di questa data finale.
Ma c’è subito da sottolineare che gli autori antichi, anche se più di una volta la plebe sembra aver fatto ricorso alle secessioni, fanno riferimento, quando richiamano le lotte plebee, solo alla prima o, più raramente, alle prime due, che, quindi assumono il valore di secessioni per eccellenza. È illuminante Sallustio: maiores vestri … bis per secessionem armati Aventinum occupavere (Bellum Iugurthinum, 31), e così pure autori tra loro assai lontani, come Cicerone (De re publica, II 58, 63) Plinio (Naturalis Historia XIX 19, 56) e Orosio (II 5, 5), ricordano come essenziali solo le prime. La storiografia moderna non ha avuto problemi ad individuarne la ragione nel fatto che entrambe si collegano al tribunato della plebe, avvertito, specie in età graccana e sillana, come il momento più significativo e gravido di conseguenze delle vittorie plebee.
Quanto alla storicità delle secessioni, se andiamo ad esaminare gli orientamenti storiografici, vediamo emergere due tendenze, più o meno articolate al loro interno, quella che fa capo al Beloch e ancor prima al Meyer[15], che considera le prime due come reduplicazioni di quella unica storica del 287 a.C., in forza della convinzione che l’esercito del V secolo a.C. altro non fosse che la cavalleria patrizia, per cui mai la plebe avrebbe potuto osare una rivolta, e la seconda, maggioritaria, che accetta la data del 494 a.C. per la prima secessione e nel 449 a.C. per la seconda (in cui pone la restaurazione del tribunato, Mommsen[16], Binder[17], Niccolini[18] ed altri).
Tutto nasce, secondo il solito, da una tradizione annalistica che accoglie diverse memorie, al punto che non ci indica neppure con chiarezza i luoghi della secessione[19], e che non colloquia con la tradizione erudito-antiquaria, in questo caso, di Varrone.
Tra le varie opzioni presentate dalle fonti, Monte Sacro-Aventino-Crustumerio, i moderni o non hanno scelto (come il Ridley[20]), o hanno scelto l’una o l’altra, preferibilmente il Monte Sacro per la liviana frequentior fama, ma anche l’Aventino per la sua vocazione plebea (Guarino[21]) o hanno supposto due concomitanti secessioni (Fabbrini)[22].

3. La secessione: un problema di definizione

Che cosa è una secessione? Livio e Dionigi, come è naturale, descrivono, raccontando tutta una serie di avvenimenti messi in rapporto con vari esiti; non definiscono, e del resto non c’è bisogno di definizione, il significato è perspicuo: una separazione (se-cedo).
Il Fluss[23], nella voce della Pauly Wissowa, la definisce Abtrenung (“separazione”) e subito la storicizza: «si intende con questo la triplice sovversiva partenza della plebe da Roma»; l’Oxford Latin Dictionary[24] segnala un primo valore, diciamo cesariano, di «appartarsi» e un secondo che qui ci interessa di ritiro (with drawal) in una posizione separata, «che implica una non partecipazione alla comunità», per cui “secessione”.
Nella sua Storia di Roma, il Mommsen interpreta la secessione come un abbandono della città da parte dell’esercito in rivolta e un’occupazione di un colle nella contrada di Crustumerio, dove – egli scrive – si accinse a fondare una nuova città di plebei[25]. E questa valutazione dei fini della secessione ritorna in De Martino[26], per cui la lotta scelta dalla plebe sembra essere stata quella della rottura dell’unità cittadina e della minaccia di costituire una nuova città autonoma, la «città impossibile» di Giulia Piccaluga[27].
Non mi pare sia questa la prospettiva in cui si colloca in genere la storiografia moderna. I moderni si innamorano subito, ed è un innamoramento che risale alla rivoluzione francese, dell’idea di secessione come sciopero[28], ed è un’assimilazione che, il Catalano insegna[29], molto è servita nella discussione sulla configurazione giuridica dello sciopero generale. In questa assimilazione senz’altro ha pesato l’apologo di Menenio Agrippa, col suo richiamo al ritorno alla collaborazione, dopo il rifiuto delle membra di portare cibo allo stomaco, e la successiva e ripetuta opposizione dei tribuni alla leva militare, presentata dalle fonti come strumento abituale e forte della lotta plebea.
Quest’immagine, che ritorna anche nei più recenti saggi (Mitchell[30], Eder[31], Cornell,[32] ecc.) rischia di ridurre lo spettro contenutistico di quest’antico concetto, mettendo in ombra l’elemento anche etimologicamente caratterizzante, che è quello della separazione, dell’allontanamento. In altre parole, se il valutare il fenomeno della secessione attraverso la categoria contemporanea dello sciopero valorizza il momento dinamico delle mobilitazioni, rischia però di attenuare il senso forte della secessione. Andiamo alle fonti.
Nella tradizione liviana sulla prima secessione[33], l’accento cade sul timore patrizio che questa moltitudine possa muoversi ostilmente contro la città. Nella elaborazione più ampia di Dionigi, invece, affiora il progetto di una apóstasis apò tōn patrikíōn e della ricerca di una nuova patria, quale che sia, nella quale poter godere della libertà. A ciò vien fatto corrispondere, da parte patrizia, il disegno di colmare i vuoti con altri apporti di popolazione straniera, una migrazione, che di per sé, per Roma e il Lazio, non è fatto insolito (Dionigi ha buon gioco a richiamare Enea, Romolo; ed era appena giunto Attus Clausus con i suoi, Ab Urbe condita VI 73, 2; 79, 1; VI 80, 1). C’è enfasi retorica, senza dubbio, nella pagina di Dionigi, ma forse c’è anche un frammento di verità, nel momento in cui indica come la sua fonte interpretasse l’azione della plebe.
Una secessione, che può tradursi in un migrare che rende definitiva la separazione, è l’alternativa che Dionigi ci presenta, ma poiché è la via che non viene imboccata, in nessuno dei momenti in cui si fece ricorso alla secessione, il valore di separazione si attenua e sparisce. Ma resta nella memoria (annalistica), se è vero che anche dopo la conquista di Veio la plebe minaccia un trasferimento in massa nella città conquistata (Ab Urbe condita V 24, 5).
La secessione è un’innovazione nel quadro politico romano della prima repubblica, è un esito della seditio che insistente lacera la città dopo la morte di Tarquinio, e da quel primo episodio permane, attiva o latente, fino al 287 a.C.
Nell’interpretazione storiografica contemporanea, non mancano gli accenni a questa capacità innovativa della plebe, soprattutto sulla scia del Momigliano[34] che vede le secessioni, al pari delle creazioni dei tribuni e delle assemblee proprie, come i tratti caratterizzanti un’organizzazione estremamente efficiente di una plebe che guarderebbe ai modelli greci (e su questo punto riflettono soprattutto i giuristi, in riferimento alle leggi delle XII Tabulae, e gli storici delle religioni per il culto di Cerere). In genere, però, si opera una sorta di presa d’atto del ricorso alla secessione, al più, sociologicamente, ci si chiede che cosa essa rappresenti e, con l’Ellul[35], si può rispondere che una secessione è in sé un segno di debolezza, un ripiegarsi su se stessi. Che è una bella debolezza, visti gli esiti sempre positivi.
Stupisce che l’elemento della continuità nel ricorso ad una forma di lotta tanto forte che spesso basta che venga minacciata perché si ottenga un risultato favorevole, non abbia ottenuto una sufficiente attenzione in chi è convinto della storicità delle secessioni; fa eccezione il Lobrano[36], che vede nella capacità della plebe «di continuare a prospettare una scissione duratura di sé stessa» dal resto delle strutture organizzative del populus romanus, la prova del perdurare di una «autonoma struttura sociale» della plebe, di una sua omogeneità interna, cui corrisponderebbe una formale condizione “giuridica” di plebità.
A parte la tesi di fondo, che si può condividere o non condividere, la posizione del Lobrano è significativa, nel momento in cui individua nel ricorso alle secessioni il segno della peculiarità della plebe arcaica, ben diversa dalla plebe degli ultimi secoli della repubblica. A raffronto, colpisce come il Raaflaub[37], in una visione del conflitto tra gli ordini che si spezza in più fasi, di diverso carattere e complessità, sia totalmente indifferente di fronte al ripetersi delle secessioni come strumento di lotta, sia che esse vadano considerate o no un fatto autentico.
Al Raaflaub poco interessa lo strumento, interessa che, o con una massiccia rivolta o dopo una graduale evoluzione, i plebei siano emersi con la loro separata organizzazione e coi loro leader. Al contrario, il problema non è minimale, poiché non si può scindere la specificità del metodo politico della secessione dall’altrettanta specificità del tribunato della plebe, istituto che dalla secessione nasce. Lo ha ben chiaro Livio, quando ripetutamente pone sui colli della secessione l’inizio della libertà per la plebe e nella potestas sacrosancta del tribunato l’auxilium libertatis (Ab Urbe condita III 54, 8; III 61, 5; IV 44, 5).

Il cosiddetto «Arringatore». Statua, bronzo, fine II-inizi I sec. a.C., da Perugia. Firenze, Museo Archeologico Nazionale.

 

4. I protagonisti della prima secessione

La riflessione moderna non ha dedicato molto interesse ai protagonisti di parte plebea e di parte patrizia, salvo che per Menenio Agrippa in virtù del suo apologo. Sul liviano Sicinio quodam auctore, l’anonimo Caio di Dione Cassio, il comandante del campo e presidente dell’assemblea della plebe secessionista in Dionigi, poco è stato detto e forse poco si può dire[38], eppure si tratta per la tradizione liviana dell’autore della secessione, colui che esce dalla massa e si pone alla testa del movimento collettivo.
È figura fantastica per il Pais[39], che vi vede l’anticipazione forse del tribuno del 76 a.C., C. Sicinio che aveva reclamato ed ottenuto la «restituzione al tribunato della pienezza della sua potestà imminuta da Silla» (e forse anche uno pseudo-antenato di quel tribuno T. Sicinio che al tempo di Camillo nel 395 con la sua proposta di migrazione di una parte dei cives a Veio (Ab Urbe condita V 24,7; Plutarco, Vita di Camillo, 7) aveva non poco agitato le acque in Roma).
Altri hanno supposto una confusione con la figura di Siccio Dentato, l’Achille romano, che divenuto tribuno citò in giudizio il console Romilio, storia minutamente raccontata da Dionigi (Antichità romane X 36-50) e mancante in Livio, ipotesi decisamente debole.
E il Richard[40], che riprende queste posizioni, ha pochi dubbi: Sicinio promotore della prima secessione e primo tribuno è figura priva di storicità, in quanto è il frutto di una manipolazione dei fasti tribunizi più antichi, favorita dal ricordo di più di un tribuno Sicinio storico. Che poi, se anche fosse al limite esistito, per il Richard resta irrecuperabile nella sua identità storica. E così Sicinio è spazzato via[41].
Sicinio muto in Livio, di poche parole in Dionigi, fa fatica, però, ad entrare anche nei fasti del primo tribunato, e questo è stato messo bene in luce già dalle ricerche del Niccolini[42] e in tempi più recenti ancora dal Richard[43]. Come sappiamo, la tradizione è tutt’altro che univoca sul numero dei primi tribuni, due o cinque. I nomi, per dirla con l’Ogilvie[44], sono fluidi e quello di Sicinio compare solo tra i cooptati in Livio; in Dionigi, invece, affianca Bruto, ai primi due posti[45].
Il testo di Dionigi presenta aspetti altrettanto problematici[46], quando, appunto, pone a fianco di Sicinio come capo della rivolta un L. Giunio Bruto, omonimo, specifica Dionigi, del Bruto liberatore del popolo dai Tarquini.
Su questa figura i moderni hanno assunto le più varie posizioni: Bruto è un patrizio in forza della gens Iunia patrizia (Mommsen[47], Ménager[48]), Bruto è plebeo[49], non è personaggio storico, ma “apocrifo”[50]. Per Mastrocinque[51], che ha dedicato notevoli sforzi a mettere ordine in tale controversa questione, Bruto è una sorta di doppio, il Bruto che in Dionigi guida i plebei alla prima secessione e tiene infuocati discorsi è la faccia plebea del Bruto fondatore della libertas repubblicana, patrizio[52].
La maggior parte degli studiosi moderni, quelli almeno che ne affermano la storicità, respinge invece la plebità di Bruto, che Mastrocinque salva, rimproverando ai moderni di essere caduti nella trappola delle falsificazioni annalistiche di fine II e inizi I secolo a.C., che avrebbe prodotto una sorta di epurazione delle presenze plebee. Una coincidenza di primo consolato e di primo tribunato nella stessa figura lascia però perplessi: salviamo il console e cancelliamo il tribuno?
A me pare che il problema dal piano storico vada passato al piano storiografico antico e possa essere letto in riferimento al tema ideologico della libertas: quella del popolo recuperata con la cacciata dei re, quella della plebe conquistata con la prima secessione. In entrambe le situazioni, per certi filoni di tradizione, che Dionigi accoglie, Bruto è presente.
Gli attori di parte patrizia occupano gran parte del campo nella vicenda della prima secessione, perché la tradizione sulle secessioni è stata gestita da chi plebeo non era.
E quindi giganteggia la figura di Menenio Agrippa[53], come risolutore della crisi, il vero eroe della secessione, il perpetuo exemplum della capacità di conciliazione, mentre un altro filone di tradizione, epigrafica e letteraria, pone in quel ruolo M. Valerio, il dittatore e l’augure. Gli studiosi moderni hanno dedicato il maggiore interesse alla figura di Menenio, intrigante per il suo essere oriundus dalla plebe, e, soprattutto, autore dell’apologo[54].
Gli studi del Ranouil[55] ripresi dal Richard[56] hanno cercato di chiarire l’appartenenza dei Menenii: per il Ranouil, sono una gens patrizia di origine etrusca, e i tribuni plebei potrebbero essere loro antichi clienti; per il Richard, Menenio Agrippa è un patrizio moderato, interpretato e sentito in quanto tale, da una certa parte della tradizione, come plebeo.
La storiografia antica ci presenta due chiavi interpretative delle secessioni, fides e concordia, e l’aver chiarito questo è uno dei risultati più interessanti, e direi anche più utili, della ricerca moderna. La fides, osserva il Bayet[57], indica una reciprocità totale e da essa dipendevano l’ordine e la stabilità della città. È il valore cardine dello Stato.

Ritratto virile di patrizio romano. Testa, marmo, metà I sec. a.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani

Tutto il racconto della prima secessione e della sua ricomposizione ruota attorno ad un rompersi e rinsaldarsi dei rapporti di fides. La colpa dei plebei, è una giusta osservazione della Piccaluga[58], è una colpa di perfidia: l’insolvenza dei plebei è un’infrazione della fides negoziale, cui corrisponde l’inadempiuta promessa dei patrizi dello scioglimento dei debiti. La rottura dell’equilibrio della fides spezza la comunità «in due metà ugualmente inservibili». Il superamento può avvenire solo attraverso il recupero della concordia.
Lo hanno messo bene in luce, in particolare, coloro (Nestle[59], Momigliano[60], Bertelli[61], Peppe[62]) che, analizzando l’apologo di Menenio Agrippa, hanno ricercato la genesi del criterio storiografico della concordia, individuando le ragioni del rimodellamento della narrazione della prima secessione, il Momigliano nell’esigenza di affermare l’ideale aristocratico in cui le diverse parti dello Stato sono subordinate ad un ordine superiore che garantisce l’equilibrio, il Bertelli, nelle tensioni ideologiche dell’età graccana che portano allo slogan politico della concordia ordinum, il Peppe nel formarsi di una più ampia concezione dello Stato e della convivenza civile. In Livio, la riscrittura in termini di concordia della prima secessione, coerentemente dalle battute iniziali con l’abdicazione del dittatore Valerio (Non placeo … concordiae auctor,  II 31, 9) alla conclusione (agi de concordia coeptum II 33, 1), porta ad edulcorare il fatto in sé, cancellando quegli aspetti di violenza[63] che poi trapelano sporadicamente (ad es. i campi saccheggiati di contro al rispetto per i raccolti[64]), al punto che Livio, recuperando dall’antica memoria degli annali il rito dittatoriale dell’infissione del chiodo, definisce le secessioni frutto di menti alienate dall’ira, che possono essere riportate a saggezza da un rito piaculatorio[65].
Nelle pagine di Dionigi[66] lo spazio di mediazione è condiviso da Manio Valerio, figura presente anche in Livio[67], ma limitatamente ai fatti che precedono la secessione, come dittatore filoplebeo, che abdica per protesta contro il rifiuto del Senato di deliberare de nexis. Da questo momento nelle pagine di Tito Livio sparisce; permane invece in quelle di Dionigi, come uno dei dieci ambasciatori inviati a mediare, anzi il più anziano e il più popolare, colui che torna a Roma a sancire l’accordo.
L’Elogium aretino di età augustea[68] (Inscr. Ital. 13, 78) lo indica come dittatore ed augure e lo celebra come colui che plebem de sacro monte deduxit / gratiam cum patribus reconciliavit / faenore gravi populum … liberavit.
Pesa su Manio Valerio una posizione molto diffusa nella storiografia contemporanea, quella di leggere i dati relativi ai Valerii nella tradizione annalistica come frutto di un intervento di rielaborazione operato da Valerio Anziate[69], così come la tradizione claudia, che ad essa si oppone, sarebbe debitrice a Claudio Quadrigario[70]. E nel caso di questo dittatore del V secolo a.C., nel suo ruolo di conciliatore, più di uno ha richiamato la preoccupante somiglianza con l’identico ruolo del dittatore Valerio per la sedizione/secessione del 342 a.C. Le quiete acque di un sostanziale disinteresse per questa figura sono state con buoni argomenti agitate da Vallocchia[71].
Ora il Vallocchia si rende conto benissimo della difficoltà che presenta questa associazione dittatura-augure (anche perché esiste un omonimo augure, ma le fonti lo pongono ben lontano dal tempo della secessione, nel 463 a.C.), ma ha senz’altro ragione di richiamare l’importanza degli atti che la plebe compie nel campo religioso (la consecratio del mons, l’erezione dell’ara a Iuppiter) e nell’insistere sulla figura di Valerio come garante della legalità e della regolarità delle procedure. Nella sua funzione di augure, egli avrebbe consentito «di porre le condizioni giuridico-religiose necessarie perché la plebe non violi la religio» e «possa lasciare il mons della secessione senza aver turbato la pax deorum»[72].

5. Le procedure di conciliazione. Aspetti giuridici rituali religiosi

Fin dall’inizio della riflessione storiografica moderna, si è posto il problema della verisimiglianza storica e giuridica del foedus che, a stare a Dionigi[73], e più velatamente a Livio[74], avrebbe sancito, per mezzo dei feziali, l’accordo finale della prima secessione.
E la questione è stata molto dibattuta[75] tra storici e giuristi, con varie argomentazioni ed anche con una ricerca di ipotesi conciliatorie tra le opposte posizioni[76] (poiché il problema che ne è al centro, ossia se uno strumento come il foedus che opera nei rapporti di carattere internazionale potesse essere stato legittimamente impiegato a regolare i rapporti tra patrizi e plebei, è problema che investe la natura della collettività plebea e il fondamento del tribunato della plebe[77]). Se la plebe costituiva una parte della cittadinanza e non una comunità autonoma[78], argomenta il De Martino[79], questo basta per impedire la conclusione del foedus e ancor di più l’ipotesi del foedus diventa insostenibile se si considera il carattere delle leggi sacrate, tipiche di un ordinamento in cui non vi erano sanzioni giuridiche riconosciute da una comunità come obbligatorie per tutti. Il trattato e le leggi sacrate costituirebbero categorie giuridiche incompatibili. La questione, direi, potrebbe dichiararsi chiarita dopo le ricerche del Catalano[80] sul cosiddetto “sistema sovrannazionale” romano, che hanno lucidamente mostrato come non sia corretto utilizzare le categorie moderne di diritto internazionale e diritto statuale rispetto alla nozione di foedus. Meglio ricondursi allo ius fetiale, uno ius percepito dai Romani come universale, che individua come suoi potenziali soggetti comunità che non corrispondono all’idea moderna di Stato. E su questa linea il Tondo[81] ritiene che l’accordo reso solenne dall’intervento dei feziali dovette consentire l’utilizzo, con qualche adattamento, del tipo di ius iurandum in uso per i trattati, quale strumento particolarmente idoneo a vincolare, nella maniera più efficace, l’intera comunità civica. Del tutto diversa la conclusione della secessione del 449 a.C. Piuttosto strano, così lo definisce il Bayet[82], lo schema che Livio propone del ritorno alla libera res publica dopo l’abdicazione dei decemviri, nient’altro avviene che la decisione senatoria di creare nuovi tribuni sotto la presidenza del pontefice massimo e di concedere l’amnistia per la secessione dei soldati e della plebe. Non c’è traccia di foedus, tutto avviene in comitiis e col recupero di quelle cerimonie sacrificali, di sapore magico per il Piganiol[83], che già avevano chiuso la prima secessione e che erano mirate a restituire ai tribuni quella sacrosanctitas il cui ricordo ormai era quasi svanito. Questo diverso andamento indica con chiarezza come già il movimento secessionistico del 449 a.C. avvenga in un contesto politico tanto mutato da portare ad una conclusione giuridicamente diversa, col riconoscimento del tribunato. Le secessioni, uguali nella dinamica, non possono essere considerate unitariamente quanto a motivazioni e conclusioni. Nella storiografia contemporanea, non trova molto spazio l’analisi degli aspetti rituali delle secessioni e delle ripercussioni che dovettero avere sul piano sacrale[84], anche se tutti sono consapevoli che, in una società come quella romana, politica e religione sono indissociabili, sono due facce della stessa realtà[85]. L’interesse si è facilmente focalizzato sull’istituzione del culto di Cerere, sia per quanto può testimoniare sulla situazione agraria del tempo, sia per il suo ruolo come centro degli tesori e degli archivi plebei, sia per l’incertezza della sua derivazione (greca per il Momigliano[86]) e, in particolare, per il suo supposto rappresentare, con la triade aventinese, un contraltare alla triade capitolina.
Sono restati in ombra quei risvolti religiosi della secessione, che ora in parte il Vallocchia recupera, cercando di chiarire la fondatezza o meno della qualificazione di augure che l’elogio epigrafico associa (ed è un unicum) alla dittatura di Manio Valerio. Dando il giusto rilievo agli atti rituali della plebe, giunge alla conclusione che la secessione non determina alcuna rottura sul piano religioso, anzi i plebei si pongono esplicitamente sotto la protezione degli dei della città e non affermano proprie scelte religiose. È anche la tesi del de Cazanove[87], che rilegge il modo con cui l’esercito si organizza al campo al tempo della prima secessione. I soldati, egli osserva, portano con sé le insegne militari, il cui valore sul piano religioso è ben colto da Dionigi, che le definisce statue divine, ídrymata theōn (VI 45, 2). Non praticano alcuna rottura in materia religiosa, anzi richiedono la presenza fisica degli dei di Roma; e soprattutto si pongono sotto la protezione di Iuppiter, facendo dell’altare votato sul Monte Sacro una replica di quello capitolino, solo che si tratta di Iuppiter Territor, a rammentare a tutti quale tremenda minaccia significhi una secessione.
Coerentemente con questa impostazione, il de Cazanove vede nel culto di Cerere non culto plebeo che si contrappone al culto capitolino, ma un culto integrato nel quadro dei culti civici. Solo attraverso un processo complesso il tempio di Cerere sarebbe divenuto il luogo privilegiato in cui si cristallizzano le istituzioni plebee, una sorta di contraltare rispetto al polo capitolino, non nel senso di una opposizione alla triade, ma piuttosto come complemento ad essa, poiché Iuppiter è garante della fides che regge il contratto sociale, ma quando la fides non basta più, ci vogliono anche gli archivi per conservare gli scritti che non mentono. Che cosa rappresenta la secessione nella storia della plebe del V secolo? Una suggestiva risposta è quella del Richard[88]: «Con la secessione la plebe entra nella storia», risposta che è giustificata dalla tesi che solo con le secessioni la plebe uscì da una condizione virtuale, divenendo forza politica.
Per la scuola che si rifà al Mommsen[89], la plebe entra con la secessione in uno stato di rivoluzione permanente. Di fronte allo stato di diritto, ossia alla res publica patrizia, la plebe incarna la forza illegale, che per due secoli resta ai margini della città, finché il tribunato e i concilia plebis furono assimilati al populus. Al Mommsen si ricollega espressamente il De Martino[90], che qualifica la plebe società rivoluzionaria dentro il comune. Ancora più deciso il Guarino[91], che intitola il suo saggio del 1975 alla rivoluzione della plebe, definita «grandiosa e fin oggi per più versi misteriosa, forse misconosciuta, l’unica sola vera rivoluzione registrata nella storia di Roma» (il saggio del Syme era già uscito da decenni). In realtà, nella storiografia moderna, la valutazione di rivoluzione/rivoluzionario ricorre frequentemente, ed è principalmente diretta a qualificare la natura del tribunato della plebe, spesso definito come tale, almeno nella sua genesi, e/o l’intero processo di formazione dello Stato patrizio-plebeo. Che sia dubbia la correttezza, per comprendere la realtà romana, dell’uso di concetti che appartengono ad esperienze moderne, ed anche ad ideologie ben precise, lo dimostrò quella riflessione importante condotta, da storici e giuristi, nell’incontro preparatorio del seminario cagliaritano del 1971, su “Stato e istituzioni rivoluzionarie in Roma antica”, in cui si fronteggiarono visioni opposte[92]. Le conclusioni di tale dibattito sono quelle enunciate, in particolare, dal Catalano[93]: «L’uso del concetto rivoluzione… è probabilmente utile per commisurarsi sul dato storico… ma non è certo sufficiente per afferrarlo nella sua interezza, …l’importante è cercare nell’esperienza e nei concetti antichi ciò che può essere utile al rinnovamento del pensiero e della società contemporanei», e su questo si può concordare.

 

 


[1] J. Beloch, Römische Geschichte bis zum Beginn der punischen Krieg, Berlin 1926, 283.

[2] E. Pais, Storia critica di Roma durante i primi cinque secoli, 1, Roma 1913, 492 ss.

[3] J.-Cl. Richard, rec. a F. Serrao (ed.), Legge e società nella repubblica romana, I, Napoli 1981, REL, 60, 1982, 438.

[4] T.J. Cornell, The Failure of the Plebs, in Tria Corda. Scritti in onore di A. Momigliano, Como 1983, 101-120; The Value of the Literary Tradition concerning Early Rome, in Social Struggles in Archaic Rome, Berkeley 1986, 52-76; The Beginnings of Rome, Italy and Rome from the Bronze Age to the Punic Wars (c. 1000-264 BC), London 1995.

[5] S. Tondo, Profilo di storia costituzionale romana, Milano 1981.

[6] L. Amirante, Una storia giuridica di Roma, I, Napoli 1985.

[7] F. Serrao (ed.), Legge e società nella repubblica romana, I, Napoli 1981.

[8] D. Gutberlet, Die erste Dekade des Livius als Quelle zur gracchischen und sullanischen Zeit, Hildesheim-Zürich 1985.

[9] Ancora aperto e dibattuto il tema dell’origine della distinzione tra patriziato e plebe. Rilevava il Momigliano, in un ben noto articolo del 1967 dedicato all’Ascesa della plebe nella storia arcaica di Roma (in RSI, 79, 1967, 297-312, ora in Quarto Contributo, 437-454), quel che definisce una stranezza, ossia il disinteresse che aveva colpito, negli ultimi 30 anni, uno dei temi classici, fin dall’800, della storiografia su Roma arcaica, quello delle lotte tra patrizi e plebei. Il Momigliano scriveva nel 1967 e l’unico lavoro originale che cita del trentennio è la Lex sacrata di F. Altheim (Amsterdam 1940). Ne attribuisce la causa non tanto e non solo al prevalente interesse per la ricerca archeologica che aveva visto la ripresa degli scavi a Roma Lavinio a Pyrgi a Veio e alle scoperte clamorose conseguenti, quanto soprattutto all’ingessatura che aveva subito la visione dei rapporti sociali arcaici, indotta dagli studi del Dumézil (ad es. Métiers et classes fonctionnelles chez diverses peuples indo-européennes, in AESC, 13, 1958, 716-724) sulla società indoeuropea (per cui Roma è erede del sistema tripartito delle caste indo-europee) e di Andreas Alföldi, con i suoi richiami alla comunanza tra Iranici e Latini o Latini Turchi (Der frührömische Reiteradel und seine Ehrenabzeichen, Baden-Baden 1952, Early Rome and the Latins, Ann Arbor s.d. (1965). In realtà l’insieme del lavori dedicati, tra le due guerre mondiali, alla plebe romana aveva visto il progressivo attenuarsi dell’interesse sul problema dell’origine (che tanto aveva appassionato dalla fine dell’800 e gli inizi del ‘900) e il prevalente concentrarsi dell’attenzione di storici e di giuristi sull’organizzazione che la plebe si era data dopo la prima secessione. Il lavoro dell’Altheim viene quasi a conclusione di un decennio assai fertile: basti pensare alle ricerche del Momigliano stesso sull’origine delle magistrature romane (il tribunato, 1932; l’edilità, 1933) e sugli ordinamenti centuriati (1938) o, sugli stessi temi, di G. De Sanctis sull’edilità plebea del 1932; sulle origini dell’ordinamento centuriato del 1933), del Niccolini (Il tribunato della plebe, 1932) del Siber (sulle magistrature plebee fino alla legge Ortensia del 1936), dell’Hoffman (sulla plebe, 1938), del Cornelius (sulla storia romana arcaica, 1940). In altre parole, non si ricerca più ciò che differenzia la plebe dai patrizi a partire da un passato più o meno lontano e quasi mitico, ma il problema della genesi della plebe diventa il problema della genesi degli istituti in cui si è venuta esprimendo la differenza tra patrizi e plebei. A questa svolta metodologica, alla metà degli anni ‘40 si aggiunge col lavoro del Last sulla riforma serviana (The Servian Reforms, in JRS, 35, 1945, 30-48) una forte svolta anche nei contenuti, con la decisa affermazione che la distinzione tra patrizi e plebei si sviluppò dopo la fine della monarchia, per effetto della sopraffazione politica di un gruppo di potenti famiglie che si chiusero in casta, tesi che sviluppava precedenti osservazioni del Soltau, Jordan, Meyer, Hulsen e che spazzava via (o tentava di farlo) il postulato niebhuriano praticato a lungo del privilegio patrizio di appartenenza alla cittadinanza (cfr. su ciò J.-Cl. Richard, Les origines cit., 76 s.).

Si riaccende un dibattito che è tuttora lontano dall’essersi concluso su quando e come si siano formati i privilegi patrizi (con le teorie sull’origine repubblicana del Last (op. cit.), del Magdelain (Auspicia ad patres redeunt, in Hommages à J. Bayet, Bruxelles 1964, 427-473), del Ranouil (Recherches sur le patriciat (509-366 avant J.-C.), Paris 1975), del Palmer (The archaic community of the Romans, Cambridge 1970), sul rapporto tra plebe e organizzazione centuriata (che vede contrapporsi la tesi del Momigliano – Osservazioni sulla distinzione fra patrizi e plebei, in Les origines de la République romaine, Gèneve 1966, 199-221, ripubblicato nel Quarto contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, 419-436 – di un’esclusione della plebe dalla classis, alle opinioni di chi vede proprio nella presenza della plebe nell’ordinamento oplitico la ragione della forza delle secessioni e accetta il dato della tradizione che ci presenta il rifiuto delle leve come uno degli strumenti della lotta plebea), sui contenuti delle tante opposizioni patres/conscripti, adsidui/proletari, maiores/minores gentes (dibattito sollecitato dal Momigliano, e che investe in pieno la problematica relativa alla fisionomia sociale del V secolo a.C.), sulla proprietà delle terre e la attendibilità della tradizione quando pone una questione agraria in tali tempi (attendibilità fortemente negata dal Gabba – ad es. in Problemi di metodo per la storia di Roma antica, in Bilancio critico su Roma arcaica fra monarchia e repubblica, Atti dei Convegni Licei, Roma 1993, 12-24 –, ma da altri sostenuta). Una forte esigenza fu espressa dal Richard alla fine degli anni ‘70 (Les origines cit.), quella di mettersi decisamente alle spalle il problema più o meno inafferrabile dei primordia del dualismo patrizio-plebeo, sostituendo, sulla scia del Pallottino, il concetto di formazione, anzi di creazione continua, a quello di origine. Seguendo l’indicazione della tradizione annalistica, che colloca l’inizio del conflitto all’indomani della morte di Tarquinio, il Richard va a verificare le condizioni politiche e sociali che portano la plebe a diventare gruppo di pressione e forza politica. È evidente che se l’origine del conflitto si sposta all’inizio dell’età repubblicana, la prima secessione viene ad assumere un rilievo fondamentale, rappresentando il momento di genesi di un’organizzazione binaria, al punto che in abbastanza fresco manuale (Storia di Roma, Milano 2000) di Adam Ziolkowski si legge che «in realtà questo dualismo fu il risultato di un’espansione di un’organizzazione nata nel 494 a.C., di carattere affine ad un sindacato o a un partito moderno», visione attualizzante che si giustifica con l’enfasi che lo Ziolkowski pone sulla solidarietà di gruppo dei plebei. In questi ultimi decenni, un’altra svolta si è avuta nella ricerca di nuove prospettive per analizzare e comprendere la lotta tra gli ordini, con i contributi del Raaflaub (Politics and Society in Fifth Century Rome, in Bilancio critico su Roma arcaica fra monarchia e repubblica, Atti dei Convegni Lincei, Roma 1993, 129-157) e di Eder (The Political Significance of the Codification of Law in Archaic Societies: an unconventional hypothesis, in K. Raaflaub (ed.), Social Struggles in Archaic Rome: new perspectives on the Conflict of the Orders, Berkeley 1986, 262-300), che hanno portato al centro del dibattito l’utilità di un’analisi comparativa tra le póleis greche arcaiche e Roma. Il Raaflaub cerca nel mondo greco modelli interpretativi utili e applicabili alla realtà economica e sociale romana, così come l’Eder propone interessanti analisi comparative sulle codificazioni aristocratiche, che portano alla non di poco innovativa ipotesi di vedere in esse l’esito di propositi auto-regolamentatori dei gruppi aristocratici. Tante ricerche, tante ipotesi, tanti diversi modelli interpretativi del conflitto, che lungi dall’aver trovato un ubi consistam abbastanza concorde, mi pare però abbiano portato a significative conclusioni: la conferma della centralità del ruolo delle secessioni come punto di genesi dell’organizzazione plebea, e una concezione meno rigida, più duttile, sia della fisionomia della plebe, intesa non più come corpo omogeneo e monolitico di tutti poveri, ma come un gruppo che presenta al proprio interno differenziazioni economiche e sociali, e quindi aspirazioni diverse, sia della natura e dell’articolazione del conflitto, che non resta immutato per quasi due secoli, ma si snoda in più momenti, di diverso carattere e complessità (cfr. i contributi in due importanti volumi, W. Eder (ed.), Staat und Staatlichkeit in der frühen römischen Republik, Stuttgart 1990; K. Raaflaub (ed.), Social Struggles, cit.; nonché Crise et transformation des sociétés archaïques de l’Italie antique au Ve siècle av. J.C., Rome 1990; Bilancio critico su Roma arcaica fra monarchia e repubblica, Atti dei Convegni Lincei, Roma 1993).

[10] J.-Cl. Richard, Les origines cit., 541 ss.

[11] Vedi G. Poma, Considerazioni sul processo di formazione della tradizione annalistica: Il caso della sedizione militare del 342 a.C., in W. Eder (ed.), Staat und Staatlichkeit cit., 139 ss.

[12] J. Beloch, Römische Geschichte cit., 283.

[13] Vd. n. 11.

[14] R.E. Mitchell, Patricians and Plebeians. The Origin of the Roman State, Ithaca 1990, 131 ss.

[15] Ed. Meyer, Der Ursprung des Tribunats und die Gemeinde der vier Tribus -Anhang: Die Secessionen von 494 und 449, in Hermes, XXX, 1895, 1-24, ora in Kleine Schriften, Halle 1924, 331-379.

[16] Th. Mommsen, Römische Staatsrecht, 2, 3a ed., 273-374, cfr. anche Storia di Roma antica, I, 1, Torino 1925 (a cura di E. Pais), 253 s.

[17] J. Binder, Die Plebs. Studien zur römischen Rechtsgeschichte, Leipzig 1909, 378.

[18] G. Niccolini, Il tribunato della plebe, Milano 1934, 30-31.

[19] Per la prima secessione, la descrizione liviana (II 32, 2) ci presenta una seditio che matura entro l’esercito reduce e vittorioso che, chiamato artatamente ad un nuovo impegno militare, prima medita l’uccisione dei consoli per sciogliersi dal giuramento; poi su iniziativa di un tal Sicinio iniussu consulum si ritira, e qui sta pacificamente, in un campo munito sul Monte Sacro o sull’Aventino (che è versione più antica, risalendo a Pisone fr. 22 (Peter 1, 129), mentre quella relativa al Monte Sacro per l’Ogilvie (A commentary on Livy, books 1-5, Oxford 1965, 311) sembrerebbe risalire a Sempronio Tuditano). Per Cicerone, invece, va sul Monte Sacro e sull’Aventino (De re publica II 58 e 63), per Dionigi (Antichità romane VI 45, 2; X 35, 1) sul solo Monte Sacro, mentre Dione Cassio parla genericamente e prudentemente solo di un colle (fr. 17. 9). Più complessa è la dinamica della seconda secessione, che si collega alla caduta dei decemviri. Per Livio (Ab Urbe condita III 50-54), che si abbandona ad un ampio racconto, lo sviluppo è complesso: due sono gli eserciti negli accampamenti, uno era in monte Vecilio e spinto da Virginio occupa in armi l’Aventino, l’altro in Sabinis, da dove per iniziativa di Icilio e Numitore si ricongiunge ad esso; a questo movimento degli armati verso Roma si aggiunge la plebs urbana, mogli e figli insieme si spostano sul Monte Sacro, abbandonando la città, poi di nuovo, fatto l’accordo, sull’Aventino. Per Cicerone gli armati vanno (De re publica II 63) prima sul Monte Sacro e poi sull’Aventino, parlano del solo Aventino Sallustio (Bellum Iugurthinum XXXI 17), Dionigi (IX 43), Diodoro (Antichità romane XII 24, 5) e altri ancora. Intanto, queste complicate manovre sono, per l’Ogilvie (op. cit., loc. cit.), il frutto dell’incrocio di due tradizioni che collocano la secessione su due colli diversi (en passant, la mancanza di chiarezza è in Livio stesso che a distanza di poche righe definisce l’Aventino come il locus felix dove ebbe inizio la libertà della plebe (Ab Urbe condita III 54, 9) e il Monte Sacro come il colle in cui fu eletto il primo tribuno della plebe). Resta isolata la testimonianza di Varrone (De lingua latina V 81, 52 Collart): in secessione Crustumerina, che però non può essere trascurata, data la bontà del suo lavoro antiquario. E poiché la citazione di Varrone è relativa alla derivazione del nome dei tribuni dai tribuni militum, può essere intesa in più modi, riferita alla prima secessione (in tal caso potrebbe indicare un terzo luogo o identificare in altro modo ancora il Monte Sacro, così il Niccolini e i più) o riferita alla seconda, e collocante la prima elezione dei tribuni nel 449 a.C. Il Mazzarino (Note sul tribunato della plebe nella storiografia romana, in Index, 3, 1972, 174-191) tra questi, che dà grande rilievo al fatto che per Varrone i tribuni della plebe sono ex tribunis militum primum … facti, per cui vi vede una conferma, non solo della natura originaria militare e rivoluzionaria del tribunato, ma anche del fatto che si tratti della seconda secessione scoppiata nell’esercito arroccato a difesa inter Fidenas Crustumeriamque, e poi passato in agrum sabinum (Ab Urbe condita III 43) – e non nella Sabina o sull’Algido, come è più diffusa tradizione – e che da questa secessione abbia avuto inizio il tribunato.

[20] R.T. Ridley, Notes on the Establishment of the Tribunate of the Plebs, in Latomus, 27, 1968, 535-554.

[21] A. Guarino, La rivoluzione della plebe, Napoli 1975.

[22] F. Fabbrini, v. Tribuni plebis, in NNDI, 1969, 778-822.

[23] Fluss, v. secessio, in PWRE, 2, A, 1, 1921, coll. 974-976.

[24] Oxford Latin Dictionary, v. secessio 2, ed. P.G.W. Glare, 1982, 17161; A. Forcellini, Lexicon totius latinitatis, t. IV, 1965 (ed. an.), 2711.

[25] Th. Mommsen, Storia di Roma antica cit., 242.

[26] F. De Martino, Storia della costituzione romana, I, Napoli 1972 (2a ed.), 260 ss.

[27] G. Piccaluga, La colpa di ‘perfidia’ sullo sfondo della prima secessione della plebe, in Le délit religieux dans la cité antique, Rome 1981, 21-25.

[28] Vedi P. Catalano, Tribunato e resistenza, Torino 1971, 21 ss. Si deve a G. Grosso la proposizione del rapporto tra il moderno diritto di sciopero e l’azione della plebe (Il diritto di sciopero e l’intercessio dei tribuni della plebe, in RISG, 89, 1952-1953, 397-401).

[29] P. Catalano, Tribunato e resistenza cit., 25.

[30] R.E. Mitchell, Patricians and Plebeians cit., 13.

[31] W. Eder, Zwischen Monarchie und Republik: das Volkstribunat in der Frühen Römischen Republik, in Bilancio critico su Roma arcaica fra monarchia e repubblica, Atti dei Convegni Lincei, Roma 1993, 97 s.

[32] T. Cornell, The Beginnings of Rome cit., 256 s.

[33] Ab Urbe condita II 32, 5.

[34] A. Momigliano, L’ascesa della plebe cit., 297 ss.

[35] J. Ellul, Réflexions sur la révolution, la plèbe et le tribunat de la plèbe, in Index, 3, 1972, 155-167.

[36] G. Lobrano, Il potere dei tribuni della plebe, Milano 1983, 199.

[37] K. Raaflaub, Politics and Society in Fifth Century Rome, in Bilancio critico su Roma arcaica fra monarchia e repubblica, Atti dei Convegni Lincei, Roma 1993, 129-157, 151.

[38] F. Münzer, v. Sicinius (4), in PWRE 2, A, 2, coll. 2195-2199. Nel 487 a.C. un T. Sicinio (o Siccio, per Dionigi), che forse ha il cognomen Sabinus, infatti, parrebbe essere console nel 487 a.C., trionfatore sui Volsci (Ab Urbe condita II 40,14). In realtà i Sicinii, insieme con i Cassii, i Cominii, i Tullii, i Minucii rappresentano uno dei problemi più ostici da affrontare, quello annoso dei nomi plebei nelle liste consolari in età anteriore all’istituzione del tribunato consolare. La storiografia moderna ha tentato varie vie d’uscita, a cui è sottesa l’accettazione o meno dell’assunto liviano (Ab Urbe condita IV 4, 1) che il consolato dalla sua nascita sia stato ricoperto solo da patrizi: nomi frutto di tarde interpolazioni plebee, nomi in età arcaica portati da patrizi poi decaduti, nomi di coscripti, nomi autenticamente plebei che attestano come in età arcaica il consolato non fosse monopolio patrizio, coesistenza in una medesima gens di due stirpes, una patrizia, una plebea. Per un punto su tale dibattito, cfr. J.-Cl. Richard, Les origines cit., 529; A. Mastrocinque, Lucio Giunio Bruto. Ricerche di storia, religione e diritto sulle origini della repubblica romana, Trento 1988, 96 ss.

[39] E. Pais, Storia critica di Roma cit., 126.

[40] J.-Cl. Richard, Les origines cit., 527.

[41] L. Sicinius Vellutus o Bellutus, destinato a diventare tribuno nel 493, edile della plebe nel 492 e forse ancora tribuno nel 491 a.C. dà l’avvio ad una serie di Sicinii presenti nei fasti dei tribuni e degli edili, che si intrecciano e confondono con i Siccii, e che si interrompono dopo il 387, quando un L. Sicinius è autore di una rogatio de agro Pomptino (Ab Urbe condita VI 6, 1), lasciano il passo ai Licinii e ai Sestii, per poi ricomparire appunto nel 76 a.C. con un Cn. Sicinius. Una gens debolissima, non presente in incarichi di rilievo dopo il IV secolo a.C., in cui, a quanto pare, ebbe a cuore la questione agraria. Cfr. G. Niccolini, I Fasti cit., 1 ss. Difficile pensare che questo ruolo di capofila di una dinastia di tribuni non sia una diretta conseguenza dell’altro ruolo di promotore della secessione che almeno Livio gli riconosce e altrettanto difficile pensare che non sia un plebeo. Semmai si potrebbe riflettere sul cognomen Sabinus che la tarda tradizione sembra attribuirgli e considerare che è appena avvenuta in Roma la migrazione di Attus Clausus con i suoi dalla Sabina.

[42] G. Niccolini, Il tribunato della plebe cit., 40.

[43] J.-Cl. Richard, Les origines cit., 563 ss.

[44] R.M. Ogilvie, A commentary cit., 311.

[45] Tutti i ragionamenti fatti hanno portato alla conclusione che si intrecciano e fiancheggiano due filoni di tradizione: una rappresentata da Pisone, Attico, Cicerone, Asconio, che Livio conosce, e una seconda rappresentata da Dionigi di un collegio a 5, che Livio accoglie attraverso l’escamotage della cooptazione. Vedi per le fonti in merito, G. Niccolini, I Fasti cit., 1 ss. C’è un certo accordo sulle posizioni dell’Ogilvie, che raccoglie gli esiti di una ricerca che parte dal Mommsen (Römische Staatsrecht cit., 2, 272-330) e dal Meyer (Der Ursprung cit., 353-373), nel ritenere che in origine i tribuni dovessero essere due, che la lista sia ristretta sia allargata sia stato campo di bene identificabili irruzioni gentilizie o politiche a favore dei Licinii, degli Icilii e forse degli Iunii (A Commentary cit., 311 ss.). C’è una certa probabilità che la coppia originaria possa essere stata costituita in effetti da Sicinius e da L. Albinus o Albinius, illustri ignoti, per il Richard, invece, accanto a L. Albinus o Albinius va collocato uno dei cinque di Dionigi, il C. Visellus o Viscellius Ruga (Les origines cit., 568 ss.).

[46] Tra l’altro, il fatto che sottolinea, per il tribunato della plebe del 456 a.C., che L. Icilius era figlio di quell’Icilius che era stato il primo tribuno della plebe, quando gli Icilii i loro titoli di nobiltà se li acquistano all’epoca della seconda secessione.

[47] Th. Mommsen, Römische Forschungen cit., I, 111.

[48] L.R. Ménager, Nature et mobiles de l’opposition entre la plèbe et le patriciat, in RIDA, ser. 3, 19, 1972, 367-97.

[49] Per il Niebhur, Römische Geschichte cit., I, 552, Bruto era il simbolo dell’accesso della plebe al potere.

[50] E. Pais, Storia di Roma, I, Torino 1988, 364, ampiamente seguito.

[51] A. Mastrocinque, Lucio Giunio Bruto cit., 107 ss., 142 ss.

[52] A. Mastrocinque, Lucio Giunio Bruto cit., 107 ss.

[53] Ab Urbe condita II 32, 8-12; Antichità Romane, VI 83-86; Cassio Dione fr. 17, 10; Zonaras 7, 14.

[54] Sul processo di formazione della tradizione su Menenio Agrippa, cfr. J.-Cl. Richard, Les origines cit., 542, nt. 344.

[55] P.C. Ranouil, Recherches cit., 209.

[56]  J.-CL. Richard, Les origines cit., 522 ss. e nt. 279.

[57]  J. Bayet, L’organisation plébéienne cit., 145 s.

[58] Piccaluga, La colpa di “perfidia” cit., 21-25.

[59] W. Nestle, Die Fabel des Menenius Agrippa, in Klio, 21, 1927, 350-360.

[60] A. Momigliano, Camillus and Concord, in CQ, 36, 1942, 111-120 (ripubblicato nel Secondo contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, Roma 1960, 99-104).

[61] L. Bertelli, L’apologo di Menenio Agrippa: incunabolo della “Homonoia” a Roma?, in Index, 3, 1972, 224-234. A suo parere, l’episodio potrebbe appartenere allo strato più antico delle secessioni della plebe, che poneva al centro il problema del nexum, conservata dalla tradizione gentilizia dei Menenii, sempre legati ai temi economici. Tradizione poi rimaneggiata alla fine del IV secolo a.C., con l’inserimento del motivo della concordia civium, quando al problema originario della soggezione economica della plebe si sarebbe sostituito il motivo ideologico. Nel liviano interpreti arbitroque concordiae civium/ legato patruum ad plebem reductori plebis romanae in urbem il Bertelli vede la spia di questo processo: i primi due termini sarebbero il frutto dell’attualizzazione, gli altri due si dovrebbero rifare al nucleo originario.

[62] L. Peppe, Studi sull’esecuzione personale. I. Debiti e debitori nei primi due secoli della repubblica romana, Milano 1981.

[63] Livio sottolinea il diverso comportamento della plebe di Ardea rispetto a quella romana: pulsa plebs, nihil Romanae plebi similis, …in agros optumatium cum ferro ignique excusiones facit (Ab Urbe condita IV 9, 8).

[64] Ab Urbe condita II 4, 1.

[65] Ab Urbe condita VII 3, 8. Mai, in ogni modo, i secessionisti subirono rappresaglie. Sul tema dell’amnistia, richiesta dai plebei, vedi da ultimo, M. Raimondi, L’amnistia tra patrizi e plebei nelle Antichità Romane di Dionigi di Alicarnasso, in Amnistia, perdono e vendetta nel mondo antico (a cura di M. Sordi), Milano 1997, 99-111.

[66] Antichità romane VI 69, 3.

[67] Ab Urbe condita II 31, 9-10.

[68] Sull’iscrizione aretina, vedi da ultimo, F. Vallocchia, Manio Valerio Massimo, dittatore e augure, in Index, 35, 2007, 27-39 (che riporta anche le altre fonti sul ruolo del dittatore).

[69] Cf. H. Volkmann, v. Valerius Antias, in PWRE, 8, A, 2, 1948, coll. 2312 ss.

[70]  S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, 2, Roma-Bari 1983, 281 ss.

[71] F. Vallocchia, Manio Valerio Massimo cit.

[72] F. Vallocchia, Manio Valerio Massimo cit., 36. Giustamente l’autore richiama il ruolo che, al termine della seconda secessione, avrà il pontefice massimo.

[73] Antichità romane VI 89, 1; 84, 3.

[74] Ab Urbe condita II 33, 1: agi deinde de concordia coeptum, concessumque in condiciones…, un accenno incidentale in IV 6, 7: foedere icto cum plebe.

[75] L’ipotesi del foedus è proposta dal Niebhur (Römische Geschichte, I, Berlin 1811), ma fortemente combattuta dal Mommsen (Römisches Staatsrecht cit.).

[76] Sulle varie posizioni su questa tradizione, cf. J.-Cl. Richard, Les origines cit., 551, nt. 370.

[77] Vedi, a proposito, G. Lobrano, Il potere dei tribuni cit., 27 ss.; e dello stesso, Fondamento e natura del potere tribunizio nella storiografia giuridica contemporanea, in Index, 3, 1972, 235-262.

[78] L’argomentazione in tal senso è sviluppata da G. De Sanctis, Storia dei Romani, 2, cit., 28 ss.

[79] F. De Martino, Storia della costituzione I, cit., 340 s., con riferimenti al dibattito in merito a ntt. 25 e 26.

[80] Sulla possibilità tecnica di un foedus tra i due ordini, P. Catalano, Linee del sistema sovrannazionale romano, Torino 1965, 189, nt. 99, 195 ss.

[81] S. Tondo, Storia costituzionale cit., 166.

[82] J. Bayet, L’organisation plébéienne cit., 145-153.

[83] A. Piganiol, Les attributions militaires et les attributions religieuses du tribunat de la plèbe, in JS, 1919, 237-248 (= Scripta varia, 2, Bruxelles 1973, 261-271).

[84] Considerazioni interessanti in D. Sabbatucci, Patrizi e plebei nello sviluppo della religione romana, in SMSR, 24-25, 1953-54, 76-92.

[85] J. Scheid, Religion et piétè à Rome, Paris 1985.

[86] A. Momigliano, L’ascesa della plebe cit., 239-256; sul culto in generale, H. Le Bonniec, Le culte de Cérès à Rome, Paris 1958.

[87] O. de Cazenove, Le sanctuaire de Cérès jusqu’à la deuxième sécession de la plèbe, in Crise et transformation, Roma 1980, 373-399.

[88] J.-Cl. Richard, Les origines cit., 541.

[89] Conosciamo tutti la posizione del Mommsen, se il populus ist der Staat ci fu forzatamente un’epoca in cui la plebe non era altra cosa che la rivoluzione in permanenza, posizione come è noto, che era debitrice ad una concezione statualistica del diritto; per il Mommsen, la plebe è «Gemeinde in der Gemeinde». Sul concetto di stato in Mommsen, e il dibattito successivo, vedi, tra gli altri, G. Lobrano, Fondamento e natura cit., 240 ss.

[90] F. De Martino, Storia della costituzione, I, cit., 338 s.

[91] A. Guarino, La rivoluzione della plebe cit., 15.

[92] I cui interventi sono in Index, 3, 1972. Si fronteggiarono visioni, almeno in apparenza, opposte: il Sabattucci (La censura: istituzione rivoluzionaria dell’antica Roma, 192 s.) che affermava che l’invenzione dei romani, rivoluzionaria rispetto all’ordinamento gentilizio, fu lo Stato, inteso quindi come il prodotto di una rivoluzione culturale, l’Ellul (Rèflexions sur la révolution cit., 55 ss.) per cui il movimento plebeo tendeva a trovare e affermare un proprio ruolo autonomo dentro una civitas dualistica in via di costruzione, in cui il tribunato non agiva in forma rivoluzionaria perché restava nel quadro della civitas («la creazione di uno Stato di tensione bipolare tra due gruppi della comunità»), il Sereni (Considerazioni di metodo su Stato, rivoluzione e schiavitù in Roma antica, 203 ss.), tutt’altro che propenso ad usare, anzi abusare del termine rivoluzione «più giornalistico che storiografico», e per il quale, in ogni modo, la rivoluzione è da intendersi fondamentalmente sul piano sociale; in sintonia con l’Ellul, il Sereni è disposto ad accettare un processo rivoluzionario, ma mai delle istituzioni rivoluzionarie. Gli storici, in tale dibattito, mi pare siano restati abbastanza defilati; basti pensare al Mazzarino, che nel 1966, in Pensiero storico classico, II, 2, 183, aveva a ragione sostenuta la non appartenenza del concetto di rivoluzione (revolutio) al mondo classico: «A indicare la nostra idea di rivoluzione Greci e Romani non scomodarono mai grandi concetti cosmici», e aveva precisato che per essi l’idea di rivoluzione non si allontanò mai dal campo strettamente politico: «…nel pensiero antico un fatto rivoluzionario ha sempre rapporto con una determinata situazione concreta contro la quale si è posto». Ricorda inoltre come i Romani definissero un fatto di tal genere: seditio,tumultus etc., non secessio. Per cui il Mazzarino (Note sul tribunato della plebe, cit., 174 ss.), in questo seminario, indaga sul momento graccano come momento in cui il tribunato riacquista «quel carattere rivoluzionario che il trapasso del tribunato a magistratura dello Stato aveva almeno per certi aspetti, attenuato» e sulla rielaborazione storiografica della tarda repubblica sul V secolo a.C.; in particolare per le secessioni, tende a rivalutare la posizione varroniana che afferma l’origine militare e rivoluzionaria del tribunato. Ne consegue che la secessione è un fatto rivoluzionario, ma non quella dei reduci del 494 a.C., quanto piuttosto quella varroniana, dei tribuni che derivano ex tribunis militum, e che il Mazzarino colloca nel 449 a.C. Sul tema, vedi anche Inchiesta: La rivoluzione romana, in Labeo, 26, 1980, 192-247; Stato e istituzioni rivoluzionarie in Roma antica, in Index, 7, 1977, 3-224.

[93] P. Catalano, A proposito dei concetti di ‘rivoluzione’ nella dottrina romanistica contemporanea (tra rivoluzione della plebe e dittature rivoluzionarie), in SDHJ, 43, 1977, 440-445.

Un nemico formidabile

Nel 432/1 a.C., mentre gli Ateniesi erano impegnati con 5000 opliti e 70 navi nell’assedio di Potidea, colonia corinzia e loro alleata riluttante, Corinto intervenne a difesa dei propri concittadini laggiù inviando un’ambasceria a Sparta, con l’istanza di convocare un’assemblea generale della Lega del Peloponneso e di votare la dichiarazione di guerra contro Atene, poiché con le sue azioni contro le colonie corinzie essa stava violando gli accordi della pace trentennale, siglata nel 446/5. Gli inviati corinzi nei loro interventi accusano gli Spartani di immobilismo politico, di esagerare in fatto di prudenza diplomatica e di reagire con lentezza; inoltre, essi – secondo i Corinzi – si crogiolano nella fama di essere “liberatori della Grecia”, dalla fine delle Guerre persiane, se ne stanno tranquilli, trascurando gli eventi esteri contingenti, cioè il fatto che i loro alleati subiscano torti da parte di Atene. Nel paragrafo che segue, Tucidide riporta il discorso di uno dei Corinzi, nel quale vengono esaltate le qualità degli Ateniesi per pungere nell’orgoglio gli Spartani e smuoverli dal loro torpore…

Oplita greco. Illustrazione di M. Churms
Oplita greco. Illustrazione di M. Churms

Tucidide, Storie I 70

«[1] Oltre a ciò, se mai altri hanno avuto il diritto di biasimare il proprio vicino, tale diritto pensiamo di averlo noi, soprattutto perché grandi sono gli interessi in gioco: interessi che ci sembra che voi non prendiate in considerazione, né ci sembra che voi abbiate mai considerato quale carattere abbiano gli Ateniesi, contro i quali ora voi dovete lottare, e quanto, anzi, quanto completamente siano diversi da voi. [2] Essi sono innovatori e rapidi a far progetti e a compiere le loro decisioni: voi siete paghi di conservare quello che possedete e di non prendere nuove deliberazioni e, nell’azione, di non compiere neppur ciò che è necessario. [3] Ancora, loro, audaci oltre le proprie forze, sfidano il pericolo senza riflettere e sono ottimisti nelle situazioni gravi: vostra caratteristica è di far di meno di quanto è in vostro potere, il non fidarvi neppure dei calcoli più attendibili del vostro ragionamento e il credere di non poter mai scampare dalle difficoltà. [4] Inoltre, decisi di fronte a voi esitanti, portati a lasciare il loro paese mentre voi non volete mai uscire dal vostro: giacché loro credono di poter acquistare qualcosa con la lontananza dalla patria, mentre voi con l’intraprendere qualcosa temete di perdere anche quello che possedete. [5] Vittoriosi dei nemici, seguono il loro vantaggio quanto più è possibile e, vinti, retrocedono del minimo. [6] Ancora, considerano il corpo come qualcosa che non appartiene minimamente a loro, se è per il vantaggio della città, mentre la mente è per loro la cosa più cara se debbono fare qualcosa per essa. [7] Se non possono dar compimento ai loro piani, pensano di essere privati di quello che a essi appartiene, mentre quello che ottengono in un’impresa lo considerano poco in paragone dell’aspettativa del futuro. Se anche in un tentativo falliscono sperando in qualcos’altro compensano la mancanza che li affligge. Essi soli sperano ed ottengono contemporaneamente quello che progettano, perché rapido è il compimento delle loro decisioni. [8] E così in tutte queste occupazioni per la durata della loro vita si affaticano tra prove e pericoli, e pochissimo godono di quello che hanno perché sempre acquistano, e considerano una festa solo il fare quello che si deve, e una sventura tanto una quiete tranquilla che un’attività penosa. [9] Sicché se, riassumendo, si dicesse che sono nati per non avere tranquillità loro stessi e per non concederla agli altri, si avrebbe ragione!».

«[1] Καὶ ἅμα, εἴπερ τινὲς καὶ ἄλλοι, ἄξιοι νομίζομεν εἶναι τοῖς πέλας ψόγον ἐπενεγκεῖν, ἄλλως τε καὶ μεγάλων τῶν διαφερόντων καθεστώτων, περὶ ὧν οὐκ αἰσθάνεσθαι ἡμῖν γε δοκεῖτε, οὐδ’ ἐκλογίσασθαι πώποτε πρὸς οἵους ὑμῖν Ἀθηναίους ὄντας καὶ ὅσον ὑμῶν καὶ ὡς πᾶν διαφέροντας ὁ ἀγὼν ἔσται. [2] οἱ μέν γε νεωτεροποιοὶ καὶ ἐπινοῆσαι ὀξεῖς καὶ ἐπιτελέσαι ἔργωι ἃ ἂν γνῶσιν· ὑμεῖς δὲ τὰ ὑπάρχοντά τε σώιζειν καὶ ἐπιγνῶναι μηδὲν καὶ ἔργωι οὐδὲ τἀναγκαῖα ἐξικέσθαι. [3] αὖθις δὲ οἱ μὲν καὶ παρὰ δύναμιν τολμηταὶ καὶ παρὰ γνώμην κινδυνευταὶ καὶ ἐν τοῖς δεινοῖς εὐέλπιδες· τὸ δὲ ὑμέτερον τῆς τε δυνάμεως ἐνδεᾶ πρᾶξαι τῆς τε γνώμης μηδὲ τοῖς βεβαίοις πιστεῦσαι τῶν τε δεινῶν μηδέποτε οἴεσθαι ἀπολυθήσεσθαι. [4] καὶ μὴν καὶ ἄοκνοι πρὸς ὑμᾶς μελλητὰς καὶ ἀποδημηταὶ πρὸς ἐνδημοτάτους· οἴονται γὰρ οἱ μὲν τῆι ἀπουσίαι ἄν τι κτᾶσθαι, ὑμεῖς δὲ τῶι ἐπελθεῖν καὶ τὰ ἑτοῖμα ἂν βλάψαι. [5] κρατοῦντές τε τῶν ἐχθρῶν ἐπὶ πλεῖστον ἐξέρχονται καὶ νικώμενοι ἐπ’ ἐλάχιστον ἀναπίπτουσιν. [6] ἔτι δὲ τοῖς μὲν σώμασιν ἀλλοτριωτάτοις ὑπὲρ τῆς πόλεως χρῶνται, τῆι δὲ γνώμηι οἰκειοτάτηι ἐς τὸ πράσσειν τι ὑπὲρ αὐτῆς. [7] καὶ ἃ μὲν ἂν ἐπινοήσαντες μὴ ἐπεξέλθωσιν, οἰκείων στέρεσθαι ἡγοῦνται, ἃ δ’ ἂν ἐπελθόντες κτήσωνται, ὀλίγα πρὸς τὰ μέλλοντα τυχεῖν πράξαντες. ἢν δ’ ἄρα του καὶ πείραι σφαλῶσιν, ἀντελπίσαντες ἄλλα ἐπλήρωσαν τὴν χρείαν· μόνοι γὰρ ἔχουσί τε ὁμοίως καὶ ἐλπίζουσιν ἃ ἂν ἐπινοήσωσι διὰ τὸ ταχεῖαν τὴν ἐπιχείρησιν ποιεῖσθαι ὧν ἂν γνῶσιν. [8] καὶ ταῦτα μετὰ πόνων πάντα καὶ κινδύνων δι’ ὅλου τοῦ αἰῶνος μοχθοῦσι, καὶ ἀπολαύουσιν ἐλάχιστα τῶν ὑπαρχόντων διὰ τὸ αἰεὶ κτᾶσθαι καὶ μήτε ἑορτὴν ἄλλο τι ἡγεῖσθαιτὸ τὰ δέοντα πρᾶξαι ξυμφοράν τε οὐχ ἧσσον ἡσυχίαν ἀπράγμονα ἢ ἀσχολίαν ἐπίπονον· [9] ὥστε εἴ τις αὐτοὺς ξυνελὼν φαίη πεφυκέναι ἐπὶ τῶι μήτε αὐτοὺς ἔχειν ἡσυχίαν μήτε τοὺς ἄλλους ἀνθρώπους ἐᾶν, ὀρθῶς ἂν εἴποι».

Democratici alla riscossa

di D. Mᴜsᴛɪ, Storia greca. Linee di sviluppo dall’età micenea all’età romana, Milano 2010, pp. 480 sgg.

L’esposizione che Senofonte fa degli episodi militari, che portano al rientro dei democratici, è ricca di dettagli per tutte le fasi del racconto; e questo, strutturalmente, dà alla narrazione senofontea un carattere diverso dai testi di Aristotele e Diodoro[1]. Questi ultimi, infatti, danno una particolare espansione alla prima fase del rientro. Il momento di File, come del resto anche quello del Pireo, ha estensione e ruolo particolari. Proprio il rilievo ideologico del rientro, le condizioni in cui se ne determina la possibilità, l’accorrere di varia gente che va ad ingrossare le file democratiche, sono l’elemento costitutivo del racconto di Aristotele e di Diodoro; più rapida invece l’esposizione dei fatti militari, che seguono agli scontri di File e del Pireo. Si può dire insomma che, nella parte finale, il racconto di Aristotele e quello di Diodoro siano molto contratti. In Senofonte più della metà del racconto riguarda il seguito dello scontro del Pireo, con particolari che si riferiscono soprattutto alla parte ateniese oligarchica, e alla parte spartana; il che può dare l’idea della posizione che in questo momento occupa l’autore. Dopo lo scontro del Pireo si raccolgono i morti, e un lungo discorso dell’araldo dei mýstai di Eleusi, Cleocrito, fa presente agli uomini dell’altra parte – anch’essi impegnati nell’opera pietosa – quanto sia folle il combattersi, quanto male abbiano fatto i Trenta che, per i loro vantaggi, in otto mesi hanno ucciso più Ateniesi di quanto i Peloponnesiaci abbiano fatto in dieci anni[2]. Questa indicazione è importante, perché permette di collocare cronologicamente gli eventi: gli otto mesi, secondo Beloch[3], vanno considerati dal momento della capitolazione e pace, avvenute nell’aprile del 404; e perciò aiuterebbero a collocare tutti questi fatti nel novembre-dicembre del 404. A rigore, potremmo scalare un paio di mesi ancora, perché la vera e propria installazione del regime dei Trenta tarda un paio di mesi ed è soltanto verso giugno: quindi noi dovremmo datare la battaglia del Pireo verso febbraio. Questo però si accorda male con il fatto che la prima spedizione dei Tiranni contro File fu scoraggiata da una nevicata imprevista; ora l’episodio di File, stando alla dinamica degli eventi, si colloca circa tre settimane prima della battaglia del Pireo, in cui cade Crizia; potrebbe perciò essere conveniente sistemare la battaglia del Pireo verso novembre-dicembre del 404, più che a febbraio del 403, quando la neve doveva essere qualcosa di prevedibile. Dobbiamo allora forse considerare gli otto mesi dal momento in cui non c’era ancora formalmente il regime dei Trenta Tiranni, ma, con la capitolazione di Atene, se ne erano create le premesse.

Atene. Tetradramma, Ar. 17,27 g. 454-404 a.C. ca. Recto: Testa paludata di Atena verso destra, con orecchino, collana ed elmo attico crestato decorato con foglie di olivo.

Lo scontro del Pireo rappresenta una svolta, perché ora i Trenta vengono indotti a rimettere il potere a un nuovo collegio di magistrati, i Dieci, che devono esperire le vie della pace; cosa che il collegio non fa, secondo Diodoro; segue un collegio di Dieci, che saranno fra i veri autori della riconciliazione[4].

Nel racconto senofonteo c’è un dato importante per la collocazione dell’autore. Senofonte afferma che il giorno dopo lo scontro del Pireo (intorno al novembre-dicembre, secondo Beloch, del 404), i Trenta residui, ormai privi delle loro guide, Crizia e Carmide, erano riuniti in sinedrio, soli e abbandonati, perché i Tremila, che avrebbero dovuto essere il loro naturale supporto, si riunivano in luoghi diversi, per discutere la situazione. «Quanti avevano commesso qualche violenza, e per questo avevano ragione di temere, dicevano con forza che non bisognava cedere a quelli del Pireo; ma quanti erano convinti di non aver commesso alcun torto, consideravano per sé, e agli altri facevano presente, che non c’era nessun bisogno di tutti questi mali, e dicevano ancora che non bisognava obbedire ai Trenta, né permettere che la città andasse in rovina. Da ultimo, decisero di metter fine al loro governo, e di eleggerne altri; e ne elessero dieci, uno per tribù» (Elleniche II 4, 23). Se veramente Senofonte avesse avuto qualcosa di grave sulla coscienza, egli non avrebbe in nessun modo parlato in questi termini; la cosa che più doveva passare sotto silenzio è che, intorno al dicembre del 404, ci fosse fra i Tremila qualcuno che aveva delle colpe, e qualcuno che non ne aveva. Egli avrebbe potuto semplicemente dire: «I Tremila decisero di metter fine al regime dei Trenta»; ma evidentemente egli ritiene di essere tra coloro che non avevano nulla di particolarmente grave da rimproverarsi.

Filosofo. Busto, marmo pario, II-III sec. d.C. Museo Archeologico di Delfi.

I Trenta, dopo la sconfitta del Pireo, si ritirarono ad Eleusi; i Dieci sono molto preoccupati, e Senofonte descrive la diuturna guardia esercitata dai cavalieri per il timore di attacchi da parte di quelli del Pireo. Anche quelli del Pireo, intanto, si vanno organizzando e vanno promettendo l’isotéleia agli stranieri, che continuino a combattere dalla parte dei democratici. L’isotéleia è la condizione di colui che si trova a partecipare di télē (obblighi fiscali in primo luogo) dei cittadini; si tratta di una categoria privilegiata di meteci. Esiste il problema se l’isotelia equivalga semplicemente a immunità dal pagamento del metoíkion, cioè della tassa, probabilmente mite, di dodici dracme, versata dai meteci, o se invece significhi un più sostanziale adeguamento, senza che ci sia identificazione totale, alla condizione di cittadini.

Segue l’intervento spartano, condotto da Lisandro, che protegge gli oligarchici, e dal re Pausania II, che, per ragioni personali, oltre che per intima convinzione, contrasta i disegni di Lisandro, e in un primo momento deve attaccare, e sconfigge, quelli del Pireo, insieme con gli alleati peloponnesiaci (esclusi Beoti e Corinzi). Poi Pausania invita segretamente i democratici del Pireo a mandargli ambascerie di pace, e fa opera di convincimento anche con “quelli della città”; ambascerie delle diverse parti ateniesi giungono a Sparta. La pace è fatta, con un’amnistia (è a questo punto che Aristotele, almeno come Diodoro, colloca l’adozione del principio del mḕ mnēsikakeîn, il «non recriminare»), che esclude solo i Trenta, gli Undici (di giustizia) e i Dieci del Pireo; gli oligarchi che non lo vogliano possono ritirarsi ad Eleusi[5]. Archino riduce il numero dei giorni della decisione per trattenere in città gli incerti: misura abile, che si pone apparentemente contro i candidati al cambiamento di domicilio, cioè contro gli oligarchi, ma ha invece l’effetto reale di trattenerli nella cittadinanza. È chiaro che il risultato è quello che si addice a un rappresentante del filone moderato della rinata democrazia. Non a caso Aristotele lo colloca fra i rappresentanti della pátrios politeía e gli attribuisce tre misure, tutte dello stesso tenore: 1) l’opposizione al decreto di Trasibulo che finiva col premiare, fra i combattenti per la restaurazione democratica, anche gli schiavi con la concessione della cittadinanza; 2) la fermezza nel volere la condanna a morte di un cittadino che aveva osato «recriminare», cioè contravvenire al principio dell’amnēstía, del mḕ mnēsikakeîn, nei riguardi di coloro che appartenessero ai collegi governanti nel periodo dei Trenta; 3) l’abile riduzione del tempo concesso per l’opzione della residenza ad Eleusi, come già si è detto. Agli occhi di Aristotele, egli è un campione dell’homónoia, l’ideale moderato della concordia, che ormai si afferma ad Atene e nel mondo greco[6]. Per Senofonte (Elleniche II 4, 43) un grave episodio turba e chiude la vita effimera di Eleusi nel 401: insospettiti per notizie di intenzioni aggressive, gli Ateniesi con Trasibulo attaccano Eleusi; in un colloquio vengono uccisi a tradimento i generali oligarchici; solo ora (401) ci sono, per Senofonte, la pace e l’amnistia.


[1] Senofonte, Elleniche II 4, 1-43; Aristotele, Costituzione degli Ateniesi 34-40; Diodoro, XIV 32-33.

[2] Senofonte, Elleniche II 4, 20 sgg., in part. 21 sugli “otto mesi”.

[3] GG2 III 2, pp. 209 sgg., e in generale 204-211.

[4] Sul secondo collegio di Dieci succeduto a quello dei Trenta, J.K. Beloch, GG2 III 1, p. 12 n. 1, in base ad Aristotele, Costituzione degli Ateniesi 38, 3; Androzione, FGrHist 324 F 10.

[5] Cfr. n. 1.

[6] Aristotele, Costituzione degli Ateniesi 40.