Il Cronografo del 354

Negli ultimi mesi del 353 un facoltoso cittadino romano di nome Valentino ricevette un codice illustrato contenente un calendario per l’anno successivo; si trattava di un’opera di raffinata fattura, compilata e decorata nientemeno che dal famoso calligrafo Furio Dionigi Filocalo. L’identità dell’autore è facilmente deducibile grazie alla dedica posta all’inizio dell’opera: Valentine, floreas in Deo. Valentine, vivas, floreas. Valentine, vivas, gaudeas. Valentine, lege feliciter. Furius Dionysius Filocalus titolavit («Valentino, prospera in Dio! Valentino, lunga vita e buona fortuna [a te]! Valentino, lunga vita [a te] e sii felice! Valentino, buona lettura! Firmato da Furio Dionigi Filocalo»).

Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Codex Vaticanus Barberini latinus 2154 (Romanus 1, R1, c. 1620), Cronografo del 354, f. 1r. Dedica a Valentino.

Quanto al dedicatario, gli studiosi sono divisi se identificarlo con Marco Aurelio Valerio Valentino, consolare in Numidia nel 330 e zio dell’oratore Simmaco (PLRE I, 936, n. 12), o con Aviano Valentino, consolare in Campania sotto Valentiniano I e fratello di Simmaco (PLRE I 936, n. 7).

Le belle illustrazioni inserite nel testo, anch’esse di mano del celebre calligrafo, sarebbero state le più antiche immagini a pagina intera della storia dell’arte occidentale. A parte l’eleganza esteriore, il codice era di grande utilità per un patrizio romano di epoca tardoantica. Il calendario illustrato scandiva gli eventi importanti che sarebbero stati celebrati nell’anno 354, tra cui feste tradizionali, anniversari imperiali, commemorazioni storiche e fenomeni astrologici: si trattava, insomma, del calendario pubblico dell’Urbe. Pertanto, le annotazioni e le raffigurazioni concepite per il Cronografo forniscono una preziosa fonte di informazioni storico-artistiche sulla religiosità e sulla vita pubblica nella Roma del IV secolo.

Eppure, il calendario era solo una parte di un codice manoscritto molto più ampio, compilato come un unico testo per Valentino. Evidentemente per garantire la massima praticità l’autore del dono aveva aggiunto diversi elenchi illustrati, contenenti un’ampia gamma di materiali cronologici e storici. Data la diversa natura dei contenuti, un titolo più accurato per questo codice miscellaneo sarebbe Almanacco illustrato del 354.

Berlin, Staatsbibliothek Preussischer Kulturbesitz. Codex Berlinensis Ms. lat. 61 (ante 1604), Cronografo del 354, f. 236r. Allegoria del mese di Novembre.

Dopo l’intestazione al dedicatario, l’opera forniva le quattro Τύχαι (Fortunae), ovvero le personificazioni, delle città di Roma, Costantinopoli, Treviri e Alessandria; seguiva una dedicazione imperiale (salvis Augustis) con un elenco dei natales Caesarum, per commemorare le nascite dei principes romani. Dopodiché si aprivano tre sezioni relative all’astrologia, con i sette pianeti e le loro leggende, l’effectus XII signorum (cioè i segni zodiacali e l’oroscopo dell’anno) e il calendario vero e proprio, con le allegorie dei mesi, l’elenco dei giorni e brevi componimenti in versi (distici e tetrastici). Seguivano i ritratti a piena pagina dell’Augustus Costanzo II e del Caesar Costanzo Gallo (o Giuliano?) e i fasti consulares dal 508 a.C. al 354 d.C.; una chiave per il calcolo dei cicli pasquali dal 312 al 358; la lista dei praefecti Urbi dal 254 a Vitrasio Orfito, entrato in carica l’8 dicembre 353; le deposizioni dei vescovi della città dal 255 al 352 (la lista termina con l’ultimo prelato defunto, Giulio); la memoria dei martiri cristiani e l’elenco dei vescovi romani (con l’ultimo in carica, Liberio). L’opera consta anche di una Notitia Urbis Romae, ovvero una descrizione dei quartieri (regiones) della città, una cronaca mondiale (Liber generationis) dal momento della creazione fino al 334 e una Chronica Urbis Romae dalla fondazione dell’Urbe alla morte di Licinio (324).

Il Cronografo del 354 godette di una certa fortuna nel tempo: quasi un secolo dopo, il funzionario Polemio Silvio lo consultò per predisporre un proprio calendario annotato per l’anno 449; nel 579 pare che un anonimo copista abbia utilizzato le illustrazioni di Filocalo per realizzare un planisfero; nel 602 il monaco bobbiese Colombano di Luxeuil si servì delle tavole contenute nel Cronografo per computare il ciclo pasquale. Anche una cronaca anglosassone del 689 fu esemplata dal modello romano.

È noto che la raccolta originale esisteva ancora fino al IX-X secolo, quando, per le sue associazioni con l’età costantiniana, ne fu realizzata una copia completa e fedele, l’ormai perduto manoscritto Luxemburgensis. Nello stesso periodo fu redatto un altro esemplare non illustrato, noto come Codex Sangallensis 878. Dopo l’epoca carolingia non si hanno più tracce dell’autografo tardoantico; di esso, però, sopravvivono complessivamente almeno venti copie di IV secolo.

Tübingen, Universitätsbibliothek. Manoscritto T, MS. Md2 (XV sec.), f. 320v. I pianeti Saturno, Giove e la Luna.

Nel Rinascimento, la scoperta del Luxemburgensis suscitò grande fermento, ispirando tra il Cinquecento e il Seicento una serie di nuove copie, la migliore delle quali, il Codex Romanus (oggi conservato dalla Biblioteca Apostolica Vaticana), venne eseguita sotto l’attenta supervisione dell’erudito Nicolas-Claude Fabri de Peiresc (1580-1637). La conoscenza del testo, dunque, proviene dalle copie rinascimentali superstiti.

Sebbene il Cronografo del 354 sia un documento unico del suo genere, è indubbio che in epoca tardoantica circolassero testi simili: come nessun altro reperto contemporaneo, lo studio dei contenuti e degli aspetti formali dell’opera offre preziose informazioni sulla vita quotidiana nella Roma del IV secolo, consentendo di addentrarsi nelle dinamiche sociali, politiche e religiose del mondo che l’ha prodotto.

L’opera mostra la transizione in atto dalla religiosità tradizionale romana alla progressiva cristianizzazione della classe senatoria e la tendenza all’adattamento e all’assimilazione tra la cultura classica e la nuova spiritualità.

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Riferimenti bibliografici:

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Sitografia:

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I primi documenti della lingua latina: i testi religiosi

Se la nascita della letteratura a Roma si deve inquadrare nel contesto più generale dell’influsso che la civiltà greca esercitò su quella latina, i suoi caratteri furono condizionati anche da alcune tradizioni culturali indigene, le cui tracce si possono riconoscere in generi pur sempre derivati dalla letteratura greca, come l’épos, l’oratoria, la storiografia ed il teatro.

Benché in Roma l’uso della scrittura fosse noto almeno dal VII secolo a.C., essa era in origine destinata esclusivamente a scopi non letterari, qual era, per esempio, la compilazione di inventari o archivi.

Le forme preletterarie erano dunque caratterizzate dall’oralità: erano infatti testi concepiti non per essere trascritti, ma per essere recitati e tramandati oralmente. Si trattava, inoltre, di composizioni anonime, poiché non sorgevano come prodotti e manifestazioni di singole individualità creative, ma come espressioni dell’intera comunità, al cui interno svolgevano una precisa funzione pratica, collegata con momenti importanti della vita sociale, politica, religiosa.

Sacerdote. Busto, marmo, c. 117-138. New York, Metropolitan Museum of Art.

In tal senso, particolarmente significativi erano i testi preletterari appartenenti alla sfera sacrale, dei riti e delle cerimonie religiose, che a Roma accompagnavano ogni situazione ed evento della vita pubblica.

Carmina è il nome dato fin dall’antichità a questi testi arcaici, formulati per pregare una divinità, per celebrare un sacrificio, per accompagnare le operazioni agricole o per sancire atti politici. Nel latino dell’età classica la parola carmen indica, in generale, una composizione in versi, ma riferito ai primi secoli della civiltà di Roma, il termine non implica necessariamente una struttura metrica.

Le particolarità del linguaggio rituale erano infatti tali da impedire una netta distinzione tra poesia e prosa; pertanto, le preghiere e le formule antichissime erano costruite secondo cadenze ritmiche chiaramente scandite, anche se non sempre riconducibili a schemi precisi e regolari: molte facevano ampio uso di procedimenti che le rendevano più suggestive all’ascolto e più facili all’apprendimento mnemonico (come parallelismi, ripetizioni, figure di suono).

In età arcaica non mancano però testi costruiti secondo specifiche strutture metriche. Il verso più antico e più importante, considerato il solo verso indigeno romano (rispetto agli altri, di derivazione greca), è il saturnio, formato dall’accostamento di due membri (detti cola), di varia lunghezza, separati da una pausa all’incirca centrale.

La struttura ritmica, variabilissima, del saturnio non è facilmente riconducibile alla metrica greca, anche se per comodità gli studiosi spesso usano la terminologia classica tradizionale per riferirsi ai singoli elementi di questo particolarissimo verso. Della vasta produzione di carmina religiosi si conoscono soltanto alcuni testi che sono stati messi per iscritto in età molto più tarda rispetto alla loro origine, dopo essere stati tramandati oralmente di generazione in generazione.

Sacerdote velato capite in atto di offrire una libagione. Statuetta , bronzo, c. II-III secolo, dalla Baviera.

Essi sono documenti preziosi delle cerimonie e dei riti più antichi e si inquadrano in una concezione pragmatica e utilitaristica della religione. Difatti, il culto romano primitivo concepiva le divinità come forze misteriose, incontrollabili, potenzialmente ostili e minacciose, che l’uomo doveva cercare di placare e di rendere propizie per mezzo della pietas, consistente nell’osservanza di precetti morali e soprattutto di norme rituali: preghiere, sacrifici, atti. I carmina dovevano dunque ottenere l’intervento di una divinità in vista di un bisogno pratico, invocandola nei modi prescritti e secondo il rituale prestabilito.

Alla vita agricola si collegava la precatio («preghiera propiziatoria») che il pater familias recitava durante la lustratio, cioè la processione espiatoria intorno a un terreno che mirava a ottenere dal dio Marte, protettore dei confini e dei poderi, la grazia di un raccolto abbondante. Essa viene riprodotta da Marco Porcio Catone il Censore nel De agri cultura (CL 141, 2-3); il testo trasmesso è sicuramente modernizzato per quanto riguarda la fonetica e la morfologia, ma conserva i caratteri originari nelle strutture sintattiche e ritmiche:

Mars pater, te precor           

quaesoque, uti sies uolens propitius mihi domo familiaeque   

nostrae: quoius rei ergo, agrum terram fundumque      

meum suouitaurilia circumagi iussi; uti tu morbos

uisos inuisosque, uiduertatem uastitudinemque, calami-         

tates intemperiasque prohibessis defendas auerrunces-            

que; utique tu fruges, frumenta, uineta uirgultaque gran-       

dire beneque euenire siris;

pastores pecuaque salua

seruassis duisque bonam salutem ualetudinemque mihi          

domo familiaeque nostrae. harunce rerum ergo, fundi

terrae agrique mei lustrandi lustrique faciendi ergo, sic-          

uti dixi, macte hisce suouitaurilibus lactentibus immo-

landis esto: Mars pater, eiusdem rei ergo, macte hisce 

suouitaurilibus lactentibus esto.

Scena sacrificale con suovetaurilia. Bassorilievo, marmo, c. I secolo. Paris, Musée du Louvre.

«O padre Marte, ti prego

e ti scongiuro, perché tu sia favorevole e propizio a me, alla casa

e alla mia famiglia; per questa grazia, dunque, intorno al mio campo,

alla mia terra, al mio fondo i suovetaurilia ho fatto condurre,

perché tu i mali visibili e invisibili, sciagura e desolazione, calamità e intemperie impedisca,

difenda e allontani, e perché messi, frumenti, viti, polloni

tu consenta di crescere e svilupparsi,

pastori e armenti conservi salvi,

dia buona salute e prosperità a me, alla casa e alla mia famiglia;

perché il mio fondo, la terra, il campo io possa purificare

e compiere il rito come ho detto: Padre Marte, sii onorato

con questi suovetaurilia di latte per te immolati».

La precatio rappresenta in modo esemplare la prosa ritmica, fortemente scandita, del carmen (e, infatti, il testo viene chiamato anche carmen lustrale). Il discorso è costruito su una successione di membri (cola) paralleli, con abbondanza di espressioni bimembri (precor quaesoque; visos invisosque) e trimembri (mihi domo familiaeque nostrae, agrum, terram fundumque meum) che creano parallelismi e ridondanze.

Scena di sacrificio. Bassorilievo, marmo, ante 79 d.C. Pompei, Vespasianeum.

Tali elementi conferiscono al discorso un ritmo scandito, cadenzato, con effetti di solennità che saranno poi ricercati con procedimenti analoghi nella poesia e nella prosa di epoca successiva.

Lo stile delle formule sacrali influenzò infatti in misura determinante la letteratura arcaica, soprattutto in contesti elevati e solenni (epica, tragedia), ma non soltanto: anche il linguaggio comico di Plauto che spesso vuole essere una parodia di quello alto e solenne, è ricchissimo di parallelismi sintattici e fonico-ritmici e di figure della ripetizione.

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Riferimenti bibliografici:

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M.D. Usher (ed.), How to Be a Farmer: An Ancient Guide to Life on the Land, Princeton 2021.

Il rotacismo: i “nomina gentilicia” e le trasformazioni della lingua

Le modificazioni fonologiche condizionate dal contesto morfologico sono descritte da particolari regole, che gli studiosi chiamano “regole di raggiustamento”.

La differenza tra una legge fonetica e una regola di riaggiustamento consiste nel fatto che la prima agisce indistintamente in tutte le parole che si presentano in un determinato contesto fonetico, mentre la seconda entra in azione solo in precise circostanze.

Una particolare forma di riaggiustamento in latino è costituita dal fenomeno detto “rotacismo”, attestato fin dal IV secolo a.C. (Cic. ad fam. IX 21, 2; Varr. LL. VII 26; Dig. 1, 2, 2, 36). Esso ha origine come una legge fonetica di sonorizzazione della sibilante 𝑠in un contesto intervocalico.

La regola fonologica è, cioè, la seguente: s r / Voc_Voc, e si legge: “Una s diventa r nel contesto tra due vocali”.

Come informa l’erudito Varrone (Varr. LL. VII 26-27), anticamente, i Romani dicevano plusima al posto di plurima, meliosem invece di meliorem, asenam anziché arenam.

A proposito dell’età del fenomeno, si è addirittura in grado di datarne esattamente la cronologia grazie a Cicerone (Cɪᴄ. ad fam. IX 21, 2), il quale in un noto passo della lettera all’amico Papirio Peto spiega che, come riportano i fasti consulares, Lucio Papirio Crasso, dittatore nel 340 e console nel 336 e nel 330, fu il primo della sua famiglia a cambiare il gentilizio da Papisius a Papirius.

Particolare del busto. «Togato Barberini». Statua, marmo, fine I secolo a.C. Roma, Musei Capitolini.

Fuerunt enim patricii minorum gentium, quorum princeps L. Papirius Mugillanus, qui censor cum L. Sempronio Atratino fuit, cum ante consul cum eodem fuisset, annis post Romam conditam CCCXII; sed tum Papisii dicebamini. Post hunc XIII fuerunt sella curuli ante L. Papirium Crassum, qui primum Papi‹s›ius est vocari desitus. Is dictator cum L. Papirio Cursore magistro equitum factus est annis post Romam conditam CCCCXV, et quadriennio post consul cum K. Duilio.

Essi furono, in effetti, patrizi di secondo rango, dei quali il capostipite fu Lucio Papirio Mugillano, censore insieme con Lucio Sempronio Atratino, dopo essere stato console con lui [444 a.C.], 312 anni dopo la fondazione di Roma [443 a.C.]; ma a quell’epoca vi chiamavate Papisii. Dopo di lui ne sedettero ben tredici sulla sedia curule prima di Lucio Papirio Crasso, il primo a non essere più chiamato Papisius. Egli fu nominato dittatore con Lucio Papirio Cursore a capo della cavalleria, 415 anni dopo la fondazione di Roma [340 a.C.], e quattro anni più tardi divenne console insieme con Cesone Duilio [336 a.C.].

(Cɪᴄ. ad fam. IX 21, 2)

Inoltre, si apprende da un passo del giurista Sesto Pomponio (Dig. 1, 2, 2, 36) che si dovette ad Appio Claudio Cieco, censore nel 312, l’uso del grafema -r- nell’ortografia dei nomi Valerii e Furii, in precedenza scritti Valesii e Fusii.

Insomma, il rotacismo fu un fenomeno storico puntuale, che esercitò la propria azione nel corso del IV secolo, anche se è probabile che fosse già in uso prima di entrare nei documenti ufficiale. Dopo tale epoca, la legge fonetica cessò di agire: ciò è dimostrato dal fatto che i prestiti entrati in latino dal greco, posteriormente a quella data, non mostrino l’effetto del rotacismo (p. es., basis, crisis, ecc.).

Accanto a questo tipo di rotacismo, detto “diacronico”, ne esiste un altro noto come “sincronico”. Il fenomeno continuò a operare anche nel sistema linguistico latino classico, limitatamente però ad alcuni contesti morfologici.

La legge fonetica si trasformò, dunque, in una “regola di riaggiustamento”, che si può formalizzare così:  s r / Voc_+Voc, e si legge: “Una s diventa r nel contesto intervocalico, davanti a confine di morfema”. Questa regola si applica, insomma, nella flessione dei nomi il cui tema finisce in –s preceduta da vocale: p. es., aes, flos, honos, nomi dai temi consonantici che seguono la III declinazione.

Iscrizione onorifica per A. Claudio Cieco (CIL XI 1827 = ILS 54 = Iscrit.It. XIII 3, 79). Tabula, marmo, c. 2 a.C.-14 d.C. da Arezzo, presso P.ta Crucifera. Firenze, Museo Archeologico Nazionale.

Le desinenze degli altri casi creano il contesto morfo-fonologico adatto all’azione del rotacismo; ecco allora che il loro genitivo si formerà nel modo seguente: aes+is : aeris, flos+is : floris, honos+is : honoris.

In particolare, il rotacismo sincronico funziona all’interno del paradigma flessivo del tema flos- come regola di allomorfia, distinguendone una variante in flor-. Tra i derivati di flos, infatti, si hanno flos-culus e flor-idus.

Si pensi, poi, alle forme coniugate del verbo esse all’indicativo imperfetto (*esam, *esas, *esat,… > eram, eras, erat,…) e all’indicativo futuro (*eso, *esis, *esit,… > ero, eris, erit,…), o alle forme dell’infinito presente dei verbi: p. es., *ama-se > ama-re; *mone-se > mone-re; ecc.

Va ancora precisato che il rotacismo non è un fenomeno peculiare del latino, ma si può rintracciare anche in altre lingue antiche e moderne: p. es, in inglese esistono le forme verbali was e we-re.

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Riferimenti bibliografici:

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Erone di Alessandria

Erone di Alessandria (Ἥρων ὁ Ἀλεξανδρεύς) fu matematico, fisico e inventore di epoca tardo-ellenistica, vissuto ad Alessandria d’Egitto negli anni 10 e 85. Le notizie biografiche pervenute sono molto scarse; comunque, si sa sicuramente che visse dopo Archimede di Siracusa (c. 287-212 a.C.), autore da lui spesso citato, e prima di Pappo di Alessandria (c. 290-350), che ne riporta alcune teorie. Nel cap. 5 del suo trattato Περὶ διόπτρας [Sulla livella], Erone espone un metodo per determinare la distanza di tempo orario tra Roma e Alessandria tramite l’osservazione della medesima eclissi di Luna in entrambi i luoghi. È molto probabile che il fenomeno descritto si sia verificato il 13 marzo 62 e costituirebbe un elemento datante per stabilire la cronologia dello studioso (Neugebauer 1938, 21-24).

Dresden, SLUB. Bl., 158, 32, 54 S. (Bamberg, 1688), Heronis Alexandrini Buch Von Lufft- und Wasser-Künsten, f. 8. Allegoria di Erone di Alessandria.

Erone fu autore davvero prolifico: scrisse numerosi trattati di meccanica, pneumatica, progettazione e costruzione di macchine. La paternità di molti testi, tuttavia, è incerta e i filologi stimano che alcuni dei suoi libri possano essere stati rivisti e interpolati in epoca bizantina. Dal punto di vista gnoseologico, Erone non fu particolarmente originale: la sua importanza nella storia della scienza antica risiede nel modo in cui seppe riassumere e divulgare in modo manualistico le conoscenze già esistenti.

Il meccanismo di apertura automatica delle porte di un tempio. Illustrazione di Y. Minh. Per una ricostruzione animata del congegno, si vd. il video di artefacts-berlin.de [].

Erone compose un commentario agli Στοιχεῖα [Elementi] di Euclide, frammenti del quale sono stati tramandati da Proclo (In Eucl. I) e dall’esegesi del matematico persiano an-Nairīzī († 922/3). In questo lavoro, l’inventore alessandrino esaminava, tra le altre cose, il significato degli assiomi e proponeva dimostrazioni alternative ai teoremi (Heath 1921, 310-314). Gli  Ὅροι sono una raccolta di 133 definizioni geometriche, conservate come parte di una silloge bizantina di principi matematici. I tre libri dei Μετρικά [Principi di misurazione] contengono indicazioni su come misurare le superfici piane e curve, le definizioni dei corpi geometrici e i metodi per dividere superfici e corpi. Nell’esposizione regole aritmetiche pratiche con esempi si alternano a rigorose dimostrazioni geometriche. L’opera contiene anche la formula di Erone sull’area del triangolo (I 8), ma già nota ad Archimede. Sono giunte poi diverse raccolte “spurie”, tramandate sotto il nome dell’ingegnere alessandrino, ma probabilmente compilate posteriormente e che si basano sui Μετρικά: i Γεωμετρικά [Geometria], praticamente equivalenti, gli Στερεομετρικά [Geometria dei solidi], contenente una serie di problemi sull’argomento, un Περὶ μέτρων [Sulle misure], una succinta compilazione di regole geometriche,  e la Γεωδαισία [Ripartizione della Terra], un’altra raccolta di definizioni geometriche.

Venezia, Biblioteca Marciana. Cod. Marc. gr. 516 (XIV sec.), Erone di Alessandria, Automata 13, f. 202r. Diagramma di un automa, un Bacco che dispensa vino e latte in un tempietto.

Il Περὶ διόπτρας è un manuale nel quale è descritto con dovizia di dettagli un complesso strumento ottico (simile alla teodolite), utilizzabile in vari modi da geometri, astronomi e architetti, per rilievi del terreno, opere di canalizzazione, tracciamento di gallerie, determinazione di distanze nel cielo e misurazioni stradali. Altra opera di Erone sono i Κατοπτρικά [Teoria della riflessione], tramandati però sotto il nome di Claudio Tolemeo. L’opera, nota soltanto nella traduzione latina del vescovo fiammingo Guglielmo di Moerbeke (c. 1215-1286), espone i principi fondamentali della riflessione della luce su specchi piani, convessi e concavi, e pure deformanti.

Ricostruzione della eolipila [Bentley, 2007].

I Μηχανικά [Meccanica], in tre libri, pervenuti solo nella traduzione araba del siriano Quṣtā ibn Lūqā (820-912), erano rivolti a ingegneri e ad architetti. Nel libro I sono presentate le istruzioni per il montaggio di un argano a ingranaggio dentato (βαρουλκός) e sono esposti i principi geometrici per produrre strumenti in grado di rappresentare in scala figure piane e tridimensionali, nonché alcuni elementi di statica; il libro II contiene la teoria delle macchine semplici (argano, leva, bozzello e carrucola, dispositivi di sollevamento, cuneo e vite) e altri principi di statica. Infine, nel libro III si forniscono delle istruzioni sulla costruzione, l’impiego e il funzionamento delle macchine.

Dresden, SLUB. Bl., 158, 32, 54 S. (Bamberg, 1688), Heronis Alexandrini Buch Von Lufft- und Wasser-Künsten, f. 67. Progetto della pompa idraulica antincendio.

I due libri di Πνευματικά [Pneumatica] sono l’opera più completa mai pervenuta di Erone Alessandrino, la quale si apre con un’introduzione teorica seguita dalla descrizione di numerosi dispositivi azionati dalla pressione dell’acqua, del vapore, dell’aria compressa. Sono descritte macchine come l’eolipila e la fontana detta “di Erone”. Nella dissertazione iniziale l’autore spiega l’esistenza del vuoto e conduce l’intera trattazione tra le posizioni di Aristotele e quelle dei filosofi atomisti. Il Περὶ αὐτοματοποιητικῆς [Sulla fabbricazione di congegni automatici] è un manuale in due libri contenente alcune istruzioni sulla progettazione e la realizzazione di “automi”, utilizzati principalmente negli apparati scenografici di teatri, santuari e banchetti; queste macchine sono distinte nelle categorie di “mobili” e “fissi”. In entrambi i casi tali strumenti sono azionati da congegni con pesi e pulegge. La Βελοποιικά [Fabbricazione dei proiettili] tratta delle singole parti e della costruzione di macchine da guerra, strumenti ossidionali, armi pesanti a mano, catapulte e balestre per il lancio di proiettili. L’esposizione si conclude con formule di misurazione balistica, fondate sull’esperienza. Di altre opere, quali il Βαρουλκός [Il martinetto], che parla di meccanica, e la Χειροβαλίστρας κατασκευή [Descrizione della catapulta a mano], sono giunti solo frammenti. I manuali per la costruzione di orologi ad acqua e sulla realizzazione di gallerie sotterranee sono andate perdute.

Paris, Bibliothèque Nationale de France, Par. graec. 2442 (XI-XII sec.), Belopoiikà, di Erone di Alessandria, f. 76v – progetto per una macchina d’assedio.

Nella produzione eroniana si possono trovare numerose regole di calcolo delle superfici, dei volumi e dei solidi, che in realtà erano già note agli antichi Egizi e ai Babilonesi e che furono riprese dagli agri mensores romani. Attraverso i manuali e i trattati di questi ultimi, tali conoscenze passarono ai secoli successivi. Le opere dell’inventore alessandrino erano ben note anche ai dotti arabi, tra i quali an-Nairīzī, al-H̨wārizmī e molti altri. La formula di Erone per la determinazione dell’area del triangolo, tra le altre conoscenze, fu dischiusa di nuovo all’Occidente solo dal XII secolo (Clagett 1964, 635-657) grazie alle traduzioni arabe. Le opere eroniane furono molto in voga nel Rinascimento, in particolare gli Πνευματικά e il Περὶ αὐτοματοποιητικῆς, che servirono come fonte d’ispirazione per gli ingegneri e gli artisti di corte.

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Olimpo, medico di Cleopatra

«A seguito di così grande afflizione e dolore fisico — il suo petto, infatti, si era infiammato per i colpi che si era inferta e le piaghe suppuravano —, Cleopatra fu colta dalla febbre e si rallegrò di quel pretesto per astenersi dal cibo e liberarsi della vita senza che glielo impedissero. Ella aveva come medico il solito Olimpo; gli rivelò la verità ed egli la consigliò e l’aiutò a togliersi la vita, come lo stesso Olimpo ha riferito in una relazione che pubblicò su questi avvenimenti. Ma Cesare Ottaviano, sospettando delle sue intenzioni, le rivolse minacce e le ispirò timore sulla sorte dei figli; allora, ella si arrese, come sotto i colpi di macchine da guerra, e abbandonò il suo corpo a coloro che volevano prendersene cura e nutrirlo».

ἐκ δὲ λύπης ἅμα τοσαύτης καὶ ὀδύνης – ἀνεφλέγμηνε γὰρ αὐτῆς (sc. Κλεοπάτρας) τὰ στέρνα τυπτομένης καὶ ἥλκωτο – πυρετῶν ἐπιλαβόντων, ἠγάπησε τὴν πρόφασιν, ὡς ἀφεξομένη τροφῆς διὰ τοῦτο καὶ παραλύσουσα τοῦ ζῆν ἀκωλύτως ἑαυτήν. ἦν δ᾽ ἰατρὸς αὐτῆι συνήθης ῎Ολυμπος, ὧι φράσασα τἀληθὲς ἐχρῆτο συμβούλωι καὶ συνεργῶι τῆς καθαιρέσεως, ὡς αὐτὸς ὁ ῎Ολυμπος εἴρηκεν, ἱστορίαν τινὰ τῶν πραγμάτων τούτων ἐκδεδωκώς. ὑπονοήσας δὲ Καῖσαρ ἀπειλὰς μέν τινας αὐτῆι καὶ φόβους περὶ τῶν τέκνων προσέβαλλεν, οἷς ἐκείνη καθάπερ μηχανήμασιν ὑπηρείπετο καὶ παρεδίδου τὸ σῶμα θεραπεύειν καὶ τρέφειν τοῖς χρήιζουσιν.

(Pʟᴜᴛ. Ant. 82, 3-5 = Oʟʏᴍᴘ. FGrHist. 198 F 1)

Artemisia Gentileschi, Cleopatra. Olio su tela, c. 1633-1635.

Nonostante Cesare Ottaviano le avesse concesso di dare all’amato Antonio una sepoltura sontuosa e degna di un sovrano tolemaico (πολυτελῶς καὶ βασιλικῶς), facendolo imbalsamare secondo il costume egizio e tumulare in Alessandria (Pʟᴜᴛ. Ant. 82, 2; DCᴀss. LI 11, 5), Cleopatra provava ancora grande angoscia e afflizione poiché i suoi figli erano stati fatti ostaggio dei Romani e messi sotto sorveglianza speciale (Pʟᴜᴛ. Ant. 81, 3). Mentre soltanto Plutarco registra il vano tentativo della regina di darsi la morte, restano invece incerti i dettagli circa il suicidio effettivo, avvenuto il 10 o il 12 agosto 30 a.C., all’età di 39 anni.

Nel complesso, le fonti pervenute tramandano diverse versioni dello stesso episodio, ma tutte concordano sull’uso del veleno da parte della regina – sebbene non specifichino esattamente quale – e sul fatto che l’unico elemento sicuro sia la coppia di piccoli fori trovati sul braccio della donna. Quel che è certo è che Cleopatra morì avvelenata, ma non si sa se ciò avvenne per il morso di un serpente (un aspide o un cobra egiziano), oppure attraverso l’iniezione letale di un siero con un ago o uno spillone, oppure ancora tramite l’assunzione di un unguento tossico durante l’ultimo pasto (si vd. Roller 2010, 147-149; Goldsworthy 2010, 384-385; Tsoucalas, Sgantzos 2014).

In ogni caso, tuttavia, lo stesso resoconto plutarcheo non fornisce alcuna certezza che Cleopatra abbia fatto chiamare Olimpo per ottenerne un consulto sul da farsi. Quasi nulla si sa di Olimpo, tranne che fu medico personale della regina Cleopatra VII e che fu presente nel momento in cui ella si suicidò, nell’agosto 30 a.C.

Morte di Cleopatra. Affresco, ante 79 d.C. da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

A quanto sembra, su quel drammatico evento Olimpo lasciò una memoria, che Plutarco utilizzò come fonte autorevole per il proprio resoconto (cfr. Diller 1932; Becher 1966, 153-155; contra Roller 2010, 148). Ciononostante, c’è chi, tra gli interpreti moderni (Pelling 1988, 313), ha affermato con sicurezza che alcuni dei termini medici che compaiono nella descrizione plutarchea, quali ἀνεφλέγμηνε, ἥλκωτο, καθαιρέσεως, sarebbero stati ripresi pari pari da Olimpo (si vd. anche Pʟᴜᴛ. Ant. 71, 8; 78, 5-79, 6; 83, 4; 85-86; e Pelling 1988, 294). Siccome Plutarco (77, 3) non usa simili espressioni tecniche per narrare la fine di Antonio, si esclude che Olimpo vi abbia assistito, mentre, al contrario, sarebbe stato testimone oculare degli ultimi istanti di vita della sua regina (Pelling 1988, 307).

Nella Vita Antonii Plutarco menziona tra le sue fonti autorevoli anche un altro medico, Filota di Anfissa. Costui era un conoscente del nonno dell’autore e gli aveva raccontato alcune storie sulla sua giovinezza: Filota era ancora uno scolaro ad Alessandria, quando ebbe l’opportunità di osservare gli elaborati preparativi per uno dei banchetti di Cleopatra (Pʟᴜᴛ. Ant. 28, 3-7). Diversamente da Olimpo, Filota non aveva avuto alcun contatto diretto con la regina, tranne che con i cuochi reali (cfr. Fraser 1972, 369-376; Kudlien 1979, 17-40; 65-72).

Pittore della Clinica. Un medico esamina il paziente. Pittura vascolare su aryballos a figure rosse, V sec. a.C. Paris, Musée du Louvre.

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Bibliografia:

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