Il “pericolo” dell’esame

di G. MANZONI, Opulenta patrum. Versioni latine per il secondo biennio e il quinto anno, Bologna 2012, p. 171.

 

Fucina di un ramaio. Bassorilievo, ante 79 d.C., da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

 

Il fascino della parola, dei suoi significati, della musicalità che produce, dei passaggi logici che può suscitare, attira in genere anche nelle aule scolastiche. Quando si va a scavare l’origine della parola e si trovano i nessi e i collegamenti con altri vocaboli e magari con altre lingue, nasce lo stupore della scoperta, la curiosità dell’indagine: a volte, anche la passione per la linguistica.

Ricordo che, come studente di Glottologia, ero rimasto entusiasta dei primi confronti indoeuropei, che sentivo instaurare a lezione da un maestro come Vittore Pisani, quando si muoveva tra vocaboli latini, greci e sanscriti. Quando parlava del “padre”, per esempio, mi affascinava pensare all’accostamento non solo al latino pater e al greco πατήρ (fin qui siamo nel campo dell’ovvio), ma anche al sanscrito pitár, al gotico fadar, e quindi al tedesco Vater e all’inglese father. Insieme all’elenco delle isoglosse c’era la spiegazione relativa alla trasformazione della radice indoeuropea nelle diverse lingue, compresa la nostra. Oppure ricordo l’accostamento, che adesso mi sembra naturale, ma che allora mi aveva sorpreso, tra il latino amica e il sostantivo amor: in latino l’amica è soprattutto l’amante, e i due vocaboli contengono la stessa radice am-, che ora tendiamo a separare dal nostro concetto moderno di “amicizia”.

Oggi, non c’è lezione di pedagogia e di didattica che non si apra con l’etimologia del verbo “educare” e del concetto di “educazione”: e così si scopre che queste attività sono un educare alla latina, che è collegato all’infinito di educere, che significa “tirare fuori”, cioè “far crescere, allevare”. Chi ce lo ricorda, non lo fa per sfoggio di erudizione, ma ci porta a comprendere il significato stesso dell’attività educativa, attraverso la spiegazione linguistica.

Anche gli studenti odierni mostrano un certo interesse per l’etimologia e la scoperta delle radici linguistiche. Soprattutto quando la storia della parola porta ad accostamenti impensati, allora l’indagine si fa più interessante e chi ascolta segue con attenzione il dipanarsi dei passaggi.

Vorrei portare due esempi. Fa sempre una certa impressione agli studenti la spiegazione dell’etimologia della parola “esame”. Essa viene dal latino examen, che contiene la stessa radice del verbo exigere, e che indicava l’oscillazione della bilancia su cui era posato l’oggetto da pesare. Quindi, l’esame è una misurazione, una pesata: potremmo dire una valutazione ponderata, in questo caso, della preparazione scolastica dell’esaminato. La spiegazione linguistica peggiora ulteriormente il morale dell’esaminando, se poi si ricorda che la parola latina più corrispondente al nostro concetto di “esame” è periculum: che è il momento in cui si deve accertare la peritia dell’alunno. Ma siccome la cosa comincia a diventare un po’ malaugurante, è meglio smettere questo percorso.

Curioso è poi il caso del verbo “cancellare”, di cui comprendiamo il significato se non usiamo la gomma o la scolorina, ma se ci mettiamo a tracciare sui testi già scritti (ma che vogliamo eliminare) alcune righe incrociate a forma di cancelli, o di graticci, in modo da far sparire ciò che è scritto sotto. Questo atto di disegnare cancelli per annullare il testo è divenuto appunto il nostro “cancellare”.

L’etimologia ci porta naturalmente a risalire alle origini linguistiche, ma non solo a questo: attraverso le parole arriviamo al formarsi delle nostre abitudini, alla storia di chi ci ha preceduto, agli usi di un tempo remoto, che scopriamo a volte così uguali e a volte così diversi dai nostri. L’indagine linguistica è anche materia delicata, ma che spesso viene affrontata con una certa approssimazione, quando si accostano “a orecchio” espressioni che sembrano simili e che poi, indagate scientificamente, si rivelano non avere alcunché in comune. Perciò, l’etimologia deve essere sorretta da basi glottologiche e rifuggire dalle spiegazioni di fantasia.

Origini, natura e finalità del movimento sofistico

di G. REALE, I sofisti, in Il pensiero antico, Milano 2001, pp. 63-66.

Il significato del termine “sofista” – Prima di iniziare un discorso sulla sofistica, è indispensabile chiarire quale sia stato il significato originario e autentico del nome “sofista”. È noto, infatti, che sofista, nel linguaggio corrente, ha da tempo assunto un senso decisamente negativo: sofista vien detto colui che, facendo uso di ragionamenti capziosi, per un verso cerca di indebolire e di offuscare il vero e, per l’altro, tenta di rafforzare il falso rivestendolo delle apparenze del vero. Ma non è affatto questo il senso originario del termine, che significava semplicemente “sapiente”, “esperto del sapere”, “possessore del sapere” e, quindi, voleva dire non solo qualcosa di valido, ma qualcosa di altamente positivo. L’accezione negativa del termine sofista è diventata corrente a partire forse già da Socrate e certamente dai discepoli di questi – Platone e Senofonte – che radicalizzarono la battaglia contro i sofisti e poi con Aristotele, che codificò quanto Platone aveva detto nel modo seguente: «La sofistica è una sapienza apparente, non reale: il sofista è uno smerciatore di sapienza apparente, non reale» (79a 3 DK).

I capi d’accusa sono due e di diversa natura: a) la sofistica è un sapere apparente e non reale e, per giunta, essa b) è professata a scopo di lucro e nient’affatto per disinteressato amore di verità. A questi capi d’accusa addotti da filosofi dovettero poi aggiungersi anche quelli fatti valere dalla pubblica opinione. Questa vide nei sofisti un pericolo sia per la religione sia per il costume morale, dato che proprio su questo terreno i sofisti avevano spostato la propria attenzione. Gli aristocratici, in particolare, non perdonarono ai sofisti di aver contribuito alla loro perdita di potere e di aver dato un forte incentivo alla formazione di una nuova classe che non contava più sulla nobiltà di natali, bensì sulle doti e sulle abilità personali, che erano appunto quelle che i sofisti intendevano creare, o comunque sistematicamente educare. Resta, in ogni caso, il fatto che la responsabilità massima nello screditare i sofisti fu di Platone e lo fu, oltre che per quello che disse, per il modo particolarmente efficace in cui lo disse, con lo strumento della sua arte.

Ma vedremo subito che, se le ragioni che portarono al discredito dei sofisti agli occhi dei contemporanei e di Platone potevano apparire fondate e indiscutibili, non lo sono, invece (o lo sono solo in parte), per l’interprete che, storicamente educato, sappia porti al di sopra delle parti e giudicare in modo obiettivo. Gli studiosi sono oggi concordi nell’affermare che i sofisti furono un fenomeno storico necessario al pari di Socrate e di Platone; questi, anzi, senza i sofisti sarebbero impensabili.

Filosofo. Affresco, I sec. d.C., dalle Terme dei Sette Sapienti (Ostia).

Le ragioni del sorgere della sofistica – I sofisti hanno apportato qualcosa di totalmente nuovo e, in qualche modo, hanno operato una rivoluzione rispetto ai filosofi della φύσις: è questa rivoluzione, insieme alle ragioni che la produssero, che noi ora dobbiamo mettere in chiaro.

Il nuovo obiettivo fu appunto quello che i naturalisti avevano o del tutto trascurato, oppure solo marginalmente appena toccato, vale a dire l’uomo e tutto ciò che è tipicamente umano. E perciò ben si comprende come i temi dominanti della speculazione sofistica divenissero etica, politica, retorica, arte, lingua, religione, educazione – cioè tutto ciò che noi oggi chiamiamo cultura umanistica. Con i sofisti, insomma, iniziò quello che, con efficace espressione, è stato detto «periodo umanistico della filosofia antica».

Noi, però, non ci potremmo spiegare questo radicale spostamento dell’asse della filosofia, se ci limitassimo a rilevare questo fattore negativo, vale a dire l’esaurimento delle risorse della filosofia della natura. Oltre e accanto a esso, agirono, in modo decisivo, le nuove condizioni storiche che vennero via via maturando nel corso del V secolo a.C. e i nuovi fermenti sociali, culturali e anche economici, che, in parte, crearono e, in parte, furono creati dalle nuove condizioni storiche.

Ricordiamo, innanzitutto, la lenta, ma inesorabile, crisi dell’aristocrazia, che andò di pari passo con il potere sempre crescente del δῆμος (del «popolo»); l’afflusso nelle città, specie in Atene, sempre più massiccio di meteci; l’ampliarsi del commercio che, superando i ristretti limiti delle singole città, portava ciascuna di esse a contatto con un mondo più ampio; il diffondersi delle esperienze e conoscenze di viaggiatori che portarono all’inevitabile raffronto fra usi, costumi e leggi ellenici ed elementi totalmente differenti. Tutti questi fattori contribuirono fortemente al sorgere della problematica sofistica. La crisi dell’aristocrazia comportò anche quella dell’antica ἀρετή, dei valori tradizionali, che appunto erano quelli tenuti in pregio dall’aristocrazia. Il crescente affermarsi del potere democratico e l’allargamento a cerchie più vaste della possibilità di accedere alle cariche pubbliche fecero crollare la convinzione che l’ἀρετή fosse legata alla nascita, cioè che virtuosi si nascesse e non si diventasse, e pose in primo piano il problema del come si acquistasse la «virtù politica». La rottura del ristretto cerchio della polis e la conoscenza di opposti costumi, leggi ed usi dovettero costituire la premessa del relativismo, ingenerando la convinzione che ciò che era ritenuto eternamente valido fosse, invece, privo di valore in altri ambienti e in altre circostanze. I sofisti seppero cogliere in modo perfetto queste istanze dell’età travagliata in cui vissero, le seppero esplicitare, dando loro forma e voce.

«Testa del filosofo». Testa, bronzo, seconda metà del V sec. a.C. ca. da un relitto dalle acque di Ponticello, Villa S. Giovanni (RC). Reggio Calabria, Museo Nazionale della Magna Grecia.

Finalità pratiche della sofistica – Quanto abbiamo finora precisato ci permette di comprendere quegli aspetti della sofistica che in passato sono stati meno apprezzati, o che, addirittura, sono stati considerati del tutto negativi. Si è, per esempio, molto insistito sul fine pratico e non più puramente teoretico della sofistica e si è considerato questo come uno scadimento speculativo e morale. I filosofi della natura ricercavano la verità per se medesima, e il fatto di avere o meno allievi era, in certo senso, accidentale; viceversa, i sofisti non ricercavano la verità per se medesima, ma avevano per scopo l’insegnamento e il disporre di discepoli era, invece, per loro essenziale. Insomma, del loro sapere i sofisti facevano una vera e propria professione.

Ora, per quanto questi giudizi contengano del vero, portano peraltro fuori strada, se non si tiene ben presente quanto segue. È vero che i sofisti compromisero in parte l’aspetto teoretico della filosofia, ma è altrettanto vero che, poiché la tematica che essi trattarono non concerneva la φύσις, ma la vita umana e i concreti problemi etico-politici, contrariamente ai naturalisti, essi dovettero essere spinti dalla necessità delle cose a finalizzare praticamente le loro riflessioni.

Ma la finalizzazione pratica delle loro dottrine ebbe anche un più alto significato: con essi, il problema educativo e l’impegno pedagogico emersero in primo piano ed assunsero un nuovissimi significato. Contro la pretesa dell’aristocrazia, la quale riteneva che la virtù fosse una prerogativa del sangue e della nascita, i sofisti intesero far valere il principio che tutti potessero, invece, acquistare l’ἀρετή, e che questa, anziché fondarsi sulla nobiltà del sangue, si basasse sul sapere.

E alla luce di questo si spiega ancor meglio il fatto che i sofisti vollero essere dispensatori del sapere, e cioè non dei semplici indagatori, ma degli educatori. E se è vero che i sofisti non estesero a tutti il proprio insegnamento, ma solo a quella élite che doveva, o voleva, accedere alla guida dello Stato, resta pur vero che, con il loro principio, spezzarono almeno il pregiudizio che vedeva l’ἀρετή necessariamente legata all’aristocrazia.

Allievo e maestro. Rilievo su sarcofago, III sec. d.C. dalla Via Praenestina. Roma, Museo del Tabularium.

Il compenso in denaro preteso dai sofisti – Siamo così in grado di affrontare e risolvere anche la spinosa questione del compenso, che i sofisti esigevano per il loro insegnamento e per la loro opera di educazione. Platone e altri antichi bollarono la venalità dei sofisti e considerarono questo costume di far pagare gli insegnamenti come un indiscutibile segno di bassezza morale. Ma Platone era, in questo giudizio, vittima del pregiudizio aristocratico (in genere, la cultura era retaggio dei “migliori” e dei ricchi, che, avendo risolto tutti i problemi della vita, si davano alla cultura come a un sublime otium e la consideravano avulsa in larga misura da tutto ciò che avesse rapporto con il guadagno e con il denaro, ritenendola puro frutto di disinteressata comunione spirituale).

Ma i sofisti non avevano fissa dimora e non avevano cespiti di guadagno e, quindi, vendo impostato il loro sapere e la loro opera nel modo che abbiamo spiegato, dovevano necessariamente farne mestiere ed esigere un compenso in denaro per sostentarsi. E si potranno certamente biasimare gli abusi di cui essi si resero responsabili; ma bisogna, in ogni caso, essere assai guardinghi nel giudicarli troppo severamente.

Pittore Duride. Scuola di scrittura su tavoletta con stilo. Dettaglio dal lato B di una kylix attica a figure rosse, inizi V sec. Berlin, Staatliche Museen.

Spirito panellenico della sofistica – I sofisti furono, poi, rimproverati di essere dei girovaghi, di passare di città in città e, quindi, di infrangere la fedeltà alla propria patria e, pertanto, di rompere quel legame che il Greco riteneva infrangibile. Ebbene, se per l’uomo di allora il rimprovero ben si comprende, esso diventa merito, non appena lo si collochi in una più vasta prospettiva storica: i Greci, per salvarsi politicamente e uscire dalle mortali lotte fra città, avrebbero avuto bisogno di ancorarsi a un solido ideale panellenico; e i sofisti furono espressione di questo ideale: sentirono, cioè, che gli angusti limiti della polis non si giustificavano più, non avevano più ragion d’essere e più che cittadini di una data città si sentirono cittadini dell’Ellade.

Filosofo. Busto, marmo pario, II-III sec. d.C. Museo Archeologico di Delfi.

Le diverse correnti della sofistica – E, per concludere, dobbiamo chiarire un ultimo punto. Non esiste un sistema filosofico sofistico o una dottrina sofistica, nel senso che è impossibile ridurre il pensiero dei vari sofisti a proposizioni comuni. Ma non è nemmeno vero che le singole dottrine costituiscano quasi delle unità fra loro incommensurabili. È vero, invece – come è stato ben rilevato – che la sofistica del V secolo a.C. rappresenti una serie di soluzioni diverse di una gamma di problemi identici.

Dobbiamo, quindi, vedere i vari sforzi differenti compiuti dai singoli sofisti ed esaminare i metodi da essi escogitati. Ma, prima di procedere a questo esame, occorre ancora precisare che, per poter intendere e valutare correttamente i sofisti, bisogna distinguerli l’uno dall’altro, senza fare di ogni erba un fascio. La sofistica, infatti, subì un’evoluzione, anzi un’involuzione piuttosto marcata, e fra i maestri della prima generazione e i discepoli della seconda corse una differenza notevole, come in parte lo stesso Platone aveva già notato. È necessario, pertanto, discernere almeno tre gruppi di sofisti: 1) i grandi e famosi maestri della prima generazione, niente affatto privi di ritegni morali e, anzi, come lo stesso Platone riconobbe, sostanzialmente degni di rispetto; 2) gli “eristi”, cioè coloro che, sfruttando il metodo sofistico ed esaltandone l’aspetto formale senza alcun interesse per i contenuti e senza ritegno morale, trasformarono la dialettica sofistica in una sterile arte di contendere con i discorsi, in una vera e propria arte della λογομαχία; 3) infine, i sofisti “politici”, che furono uomini di Stato – o aspiranti tali – che, senza più alcun ritegno morale, abusarono di certi principi sofistici per teorizzare un vero e proprio immoralismo, che sfociò nel disprezzo della «cosiddetta giustizia», di ogni legge costituita, di ogni principio morale: ma costoro, più che lo spirito autentico della sofistica, ne rappresentavano l’escrescenza patologica.

Lucio Cecilio Firmiano Lattanzio

di G.B. CONTE, Letteratura latina. Manuale storico dalle origini alla fine dell’Impero romano, Milano 2011, pp. 537-539.

 

Lucio Cecilio Firmiano Lattanzio nacque intorno alla metà del III secolo in Africa, fu allievo di Arnobio e divenne anch’egli maestro di retorica. Insegnò retorica latina in Bitinia, a Nicomedia, dove si trovava all’epoca delle persecuzioni di Diocleziano, che lo costrinsero a lasciare l’insegnamento: a Nicomedia, infatti, Lattanzio si era convertito al Cristianesimo. Nel 317 fu scelto da Costantino come precettore per il figlio, Crispo, e si recò in Gallia per assolvere questo compito. Morì dopo il 324.

Sono completamente perduti gli scritti del periodo pagano, cioè un Symposium, un Hodoeporicum, con la descrizione in versi del viaggio dall’Africa alla Bitinia, ed un trattato grammaticale. Del periodo successivo sono perdute anche le Lettere, in otto libri, e ci rimangono invece sei opere. De opificio Dei, scritto fra il 303 e il 305, sulla perfetta armonia della natura e sull’immortalità dell’anima, che Lattanzio difende con convinzione. Divinae institutiones, in sette libri, dedicate a Costantino, che furono iniziate nel 304 e completate nel 314, ma con aggiunte degli anni fra il 322 e il 324: i primi due libri sono contro il paganesimo, il III contro la filosofia, il IV sul Cristo, il V e il VI sulla teologia cristiana, il VII sul giudizio universale e il destino delle anime. Del 314 è un’Epitome che riassume e rielabora le Divinae institutiones. Dello stesso anno è il De ira Dei, sulla necessità che Dio si adiri contro i malvagi per dimostrare il suo amore verso i buoni. De mortibus persecutorum, del 315, con aggiunte del 320, che ricorda le drammatiche morti di quanti hanno perseguitato i Cristiani. Il carme De ave phoenice è, infine, un’elegia sulla fenice, simbolo di Cristo, la cui attribuzione a Lattanzio resta incerta.

 

Ms. Schøyen 1369 (1420-1430). Pagina manoscritta miniata dalle Divinae institutiones I di Lattanzio.

 

Benché sia allievo di Arnobio, Lattanzio, soprattutto nelle sue prime e maggiori opere, è un pensatore sistematico, assai equilibrato, lontano dagli eccessi del maestro sia per l’argomentazione sia per lo stile: tradizionalmente paragonato a Cicerone, Lattanzio procede con periodi ampi e ben articolati, non ama le battute ad effetto, si affida ad un ragionamento coinvolgente e abbastanza pacato. Se il De opificio Dei risente ancora di un’impostazione filosofica che rinvia alle scuole di pensiero classiche, e soprattutto allo stoicismo, e mostra solo qua e là tratti più definitivi di Cristianesimo, le Divinae institutiones ambiscono invece ad essere un libro fondamentale di sistemazione della dottrina cristiana, così come le molte institutiones composte nella tarda antichità su vari argomenti, e soprattutto sul diritto. Altro problema è se Lattanzio sia riuscito o meno a delineare il quadro organico che si era proposto, e se l’acume della sua riflessione sia paragonabile a quello dei grandi pensatori cristiani greci o, tra i latini, di un Agostino. Non c’è dubbio che Lattanzio sia un attento filologo, uno studioso pieno di scrupolo, assai più che un filosofo originale o un creatore di teorie; ma si deve, in più, cogliere l’importanza dell’operazione da lui compiuta nel trasportare l’apologetica dal piano della disputa passionale a quello dell’analisi razionale. Lattanzio studia il politeismo cercandone le radici nella divinizzazione di grandi uomini defunti, esplorando una linea di continuità del sapere antico a quello moderno; tende quindi a ridurre le contrapposizioni ad un criterio di evoluzione, dall’errore alla verità, dalla filosofia alla fede.

Lattanzio rompe così con la tradizione apologetica di Tertulliano, ancora tanto presente in Arnobio, e, in coerenza col programma costantiniano, tende a presentare un Cristianesimo egemone perché capace di arricchirsi del meglio della cultura antica. Il Cristianesimo diventa quasi il frutto naturale della sapientia classica: non deve perciò incutere paura, e può senza troppi problemi divenire la nuova religione di Roma. La conferma degli antichi valori, riproposti senza eccessive modificazioni alla luce della nuova fede, un’ispirazione «liberale» profondamente coerente con il pacato classicismo dello stile, una prospettiva di salvezza che passa attraverso una fine del mondo non più catastrofica, ma descritta con i colori dell’età dell’oro, sono un chiaro segnale di quanto sia cambiato il mondo occidentale nei dieci anni che vanno dalle persecuzioni di Diocleziano all’editto di Costantino.

Ritratto (probabile) di Lattanzio. Affresco, IV sec. d.C.

Anche le due opere dal titolo più severo e vendicativo, il De ira Dei e il De mortibus persecutorum, non contraddicono questo quadro. Il primo testo conferma l’equilibrio del mondo, attraverso la punizione divina per i malfattori, e finisce in realtà con l’essere consolatorio più che minaccioso; il secondo, quello apparentemente più lontano dalle posizioni di Lattanzio, tanto che si è spesso dubitato della sua autenticità, si inserisce altrettanto bene nel programma costantiniano, ma da un altro punto di vista e secondo le linee di un altro genere letterario, quello storiografico. Gli imperatori si dividono in due categorie: quelli che hanno tollerato o aiutato il Cristianesimo e quelli che l’hanno perseguitato. Questi ultimi sono gli imperatori malvagi, che hanno fatto male allo Stato e hanno giustamente subito la punizione divina, mentre i primi sono gli imperatori buoni, e fra tutti il migliore è Costantino. Sono così poste le condizioni per il sorgere di una storiografia religiosa in lingua latina, e nello stesso tempo si fornisce un contributo alla creazione del mito di Costantino, simbolo del rapporto fra potere e Chiesa.

È interessante osservare che i due temi conduttori del De mortibus (trionfalismo della Chiesa ed esaltazione di Costantino) sono presenti, con assai più ampio respiro, nell’opera del contemporaneo di lingua greca Eusebio di Cesarea; in quegli stessi anni, con la sua Historia Ecclesiastica, egli apriva al genere storiografico una prospettiva nuova, nella quale la Chiesa e le sue vicende si facevano centro di interesse per la narrazione.

 

 

Grammatici e commentatori tardoantichi

di G.B. CONTE, Da Costantino al sacco di Roma (306-410), in Letteratura latina. Manuale storico dalle origini alla fine dell’Impero romano, Milano 2011, pp. 525-528.

I grammatici: Carisio, Diomede, Dositeo

La continuità con il passato fu […] assai forte nel mondo della scuola, che proseguì lungo le linee di crescita quantitativa e qualitativa già notate nel secolo precedente. Per la scuola passavano i figli dei senatori e i futuri burocrati, nella scuola si ponevano le basi dei futuri assetti ideologici dello Stato: di qui una grande attenzione verso di essa da parte dei Cristiani, ma anche del potere, con una copiosa legislazione in proposito, che divenne particolarmente precisa sotto Giuliano l’Apostata (imperatore dal 361 al 363), che tentò di restaurare la religione tradizionale: questi proibì ai maestri cristiani l’insegnamento nelle scuole e impose la lettura e lo studio dei soli autori pagani. Quanto ai programmi di insegnamento e alla produzione dei manuali, la tendenza è verso la creazione di grosse raccolte e repertori enciclopedici, che mettano insieme tutta la cultura classica per tramandarla ai posteri.

Tra le opere in questo senso più significative si possono ricordare la grammatica di Flavio Sosipatro Carisio, che, intorno alla metà del secolo, insegnò a Roma e a Costantinopoli e compose un’Ars grammatica in cinque libri, dedicati al figlio, con aggiunte di osservazioni di stilistica e di metrica; l’Ars grammatica di Diomede, in tre libri, su morfologia, stilistica e metrica; e l’Ars grammatica di Dositeo, interessante perché è una grammatica latina preparata per studenti di lingua greca. Tutte queste opere – ma, in particolare, quella di Carisio – conservano parecchi frammenti di opere latine altrimenti perdute.

Luca della Robbia, Priciano, o della Grammatica. Panello, marmo, 1437-1439. Dal basamento della Torre campanaria del Duomo di Firenze. Firenze, Museo dell’Opera del Duomo.

Nonio Marcello

Sempre in campo grammaticale, di gran lunga più importante è l’opera enciclopedica di Nonio Marcello, un africano di età costantiniana, il quale scrisse un trattato dal titolo De compendiosa doctrina, in venti libri di lunghezza assai diseguale (si va da una pagina sola dell’ultimo libro alle oltre trecento del quarto). L’opera, dedicata al figlio, si lascia facilmente dividere in due parti: la prima, comprendente i libri I-XII – quella senza paragone più interessante per i moderni – è di contenuto più propriamente linguistico e grammaticale, mentre la seconda (libri XIII-XX), assai più breve (occupa appena un ventesimo del totale del De compendiosa doctrina), è dedicata a singoli argomenti di carattere per lo più antiquario (le navi, gli utensili domestici, l’abbigliamento, l’alimentazione, ecc.) e il suo interesse è legato alla descrizione di usi e costumi romani.

Nonio ha nella storia della letteratura latina un’importanza del tutto particolare, di carattere, per così dire, riflesso. La prima parte del De compendiosa doctrina è, infatti, organizzata secondo una successione di lemmi, dei quali Nonio spiega il significato o l’uso o particolari attenzioni, ecc., illustrando ogni volta la sua spiegazione con citazioni da autori antichi, molti dei quali non sono giunti per tradizione diretta. Le tragedie di Livio Andronico, Nevio, Ennio, soprattutto quelle di Pacuvio e di Accio; le commedie palliate di Turpilio e le togate di Titinio e Afranio; le atellane di Pomponio e Novio; i mimi di Laberio; le satire di Lucilio e quelle (le Menippeae) di Varrone; le opere storiche di Quadrigario e di Sisenna, il De vita populi Romani di Varrone, le Historiae di Sallustio: di questa produzione tutto, o almeno una parte notevole, sarebbe per noi perduto senza le citazioni di Nonio.

È, dunque, una fortuna per i moderni che gli interessi di Nonio andassero prevalentemente in direzione degli autori di età repubblicana – anche molto antica (e questa predilezione, che ha fatto vedere in Nonio uno degli ultimi esponenti della corrente degli arcaisti, è confermata anche dalle citazioni degli altri autori, quelli che ci sono arrivati anche per tradizione diretta: oltre ai nomi scontati di Virgilio e Cicerone, quelli che ricorrono più frequentemente nel De compendiosa doctrina sono Plauto, Terenzio e Lucrezio).

Si capisce come, nonostante lo si sia a ragione accusato di disordine, di confusioni, di fare citazioni errate nella forma e nella sostanza, Nonio sia stato sempre oggetto di attenti studi (i quali si sono intensificati in tempi più recenti). Gli studiosi hanno cercato di approfondire la conoscenza della preziosa biblioteca che Nonio doveva avere a disposizione e di ricostruire i criteri con i quali il grammatico ordinò i suoi lemmi (essi non sono infatti disposti in ordine alfabetico, con la parziale eccezione dei libri II-IV, dove l’ordine, secondo l’uso romano, è rispettato solo per la prima lettera della parola: e anche in questo caso si pensa che l’ordine alfabetico non sia dovuto a Nonio, ma a grammatici successivi). Si è persino riusciti a individuare corrispondenze fra l’ordine progressivo nel quale le citazioni di una data opera compaiono nel testo di Nonio e quello nel quale i passi citati si trovavano all’interno dell’opera andata perduta. In conclusione, di autori (come, per esempio, Lucilio) che, se non si possedessero le citazioni di Nonio, sarebbero poco più che semplici nomi per il lettore moderno, grazie al De compendiosa doctrina e agli studi compiuti su di esso, si hanno ora molti frammenti e addirittura, per alcuni libri, la possibilità di una verosimile ricostruzione complessiva: insomma, ogni studioso di frammenti di età latina arcaica dev’essere anche, nello stesso tempo, uno studioso di Nonio Marcello.

Scena di scuola. Rilievo, marmo, inizi III sec. d.C. ca. da Neumagen. Trier, Rheinisches Landesmuseum.

I commentatori: Donato e Servio

Spesso i grammatici non si limitavano a comporre manuali, ma stendevano anche commenti ai classici. Si tratta di opere per i moderni assai preziose, sia perché documentano la complessa dottrina grammaticale di alcuni fra i più prestigiosi uomini di scuola, sia soprattutto perché attraverso essi è possibile capire in che modo fossero letti e interpretati i grandi scrittori dei secoli precedenti. Così Elio Donato, che fu forse il maggiore tra i grammatici del IV secolo e che ebbe fra i suoi allievi a Roma, intorno alla metà del secolo, pure San Girolamo, preparò due trattati di grammatica (un’Ars minor, più elementare, sulle otto parti del discorso; e un’Ars maior, per gli studi più avanzati di stilistica e di metrica) che erano destinati a divenire il libro di testo su cui, per secoli, fino al Medioevo e oltre, i giovani avrebbero imparato il latino. Accanto a questi fortunatissimi manuali egli predispose anche un commento a Virgilio, che è, purtroppo, quasi completamente perduto, e uno a Terenzio. Del primo è rimasta soltanto una Vita Virgilii – peraltro utilissima, perché impiega una fonte attendibile come Svetonio – un’introduzione alle Bucoliche e una dedica a Lucio Munazio; il secondo è pervenuto quasi per intero, giacché manca soltanto la parte relativa all’Heautontimorùmenos, con notazioni stilistiche ed erudite che non si limitano solo al testo terenziano, ma riguardano anche vari aspetti del teatro antico.

Tiberio Claudio Donato, confuso fino al XIX secolo con Elio Donato, visse probabilmente tra la fine del IV e l’inizio del V. Fu autore di Interpretationes Vergilianae (un commento a Virgilio), divise in dodici libri, ciascuno dei quali illustra un libro dell’Eneide: quest’opera è giunta per intero.

Simone Martini, Frontespizio al Virgilio di Petrarca (1344 ca.). Milano, Biblioteca Ambrosiana.

Molto ricco e complesso è il commento a Virgilio di Servio, che fu probabilmente discepolo di Elio Donato e tenne poi scuola a Roma. La sua fama è confermata dalla scelta di Macrobio, che, nei Saturnalia, affida proprio a Servio la trattazione di delicati problemi di esegesi virgiliana. Il commento risale più o meno ai primi decenni del V secolo.

Se ne possiedono, oggi, due redazioni diverse: una più breve, tramandata esplicitamente sotto il nome di Servio, ed una più ampia, rinvenuta nel Seicento dall’umanista francese Pierre Daniel e per questo denominata Servius Danielinus (o Servius auctus). A lungo si è creduto che il testo più ampio fosse quello più vicino al commento originale che, nel processo di trasmissione attraverso i secoli, avrebbe subito successive riduzioni. Solo alla fine dell’Ottocento l’intensificarsi degli studi su Servio ha portato a notare l’unitarietà del testo breve – per cui perde credito l’ipotesi che esso sia il frutto di una drastica opera di riduzione – e a rilevare, per converso, il carattere spesso aggiuntivo delle note “danieline”. Si tende, perciò, oggi a credere che il cosiddetto Servius auctus sia opera di un compilatore (collocabile tra il VII e l’VIII secolo), che avrebbe unito il commento di Servio ad altro prezioso e antico materiale, in primo luogo al commento di Elio Donato, cui lo stesso Servio avrebbe, peraltro, ampiamente attinto.

Sia Servio che le note “danieline” forniscono notizie relative alla composizione, interessanti osservazioni stilistiche e soprattutto grammaticali. Grande spazio è riservato all’esegesi: spessissimo sono presentate diverse interpretazioni del testo, che quasi sempre vengono discusse e giudicate. Molto di questo materiale è tratto più o meno esplicitamente da grammatici e commentatori virgiliani più antichi. Oltre a ciò, molti sono gli scholia che conservano preziose notizie di antiquaria, sulla religione e sul culto, oppure osservazioni linguistiche e prosodiche, o interpretazioni allegoriche delle opere virgiliane.

Nel suo insieme tutto il commento riveste interesse anche ai fini dell’esatta ricostruzione del testo virgiliano: oltre alla lezione del lemma sono spesso riportate anche altre lezioni rinvenute in manoscritti diversi. Servio, però, (e Servio Danielino, ovviamente), non è importante soltanto per lo studio di Virgilio, ma anche perché costituisce una preziosissima testimonianza sul modo in cui veniva affrontato nell’antichità lo studio delle opere letterarie. Non si deve, inoltre, trascurare il ruolo importantissimo che questo materiale scoliastico ha avuto nella conservazione – anche solo frammentaria – di testi che sarebbero altrimenti perduti. Viene così arricchita, per tradizione indiretta, la conoscenza dei moderni su autori la cui opera non è stata tramandata per intero, ma che devono a grammatici e a commentatori la loro parziale sopravvivenza.

Eur. Suppl. vv. 196-218

di Euripide, Supplici, a cura di G. Paduano, in Eschilo – Sofocle – Euripide, Tragedie, vol. II, Milano 2009, pp. 486-489.

 

ἔλεξε γάρ τις ὡς τὰ χείρονα

πλείω βροτοῖσίν ἐστι τῶν ἀμεινόνων·

ἐγὼ δὲ τούτοις ἀντίαν γνώμην ἔχω,

πλείω τὰ χρηστὰ τῶν κακῶν εἶναι βροτοῖς·

200 εἰ μὴ γὰρ ἦν τόδ᾽, οὐκ ἂν ἦμεν ἐν φάει.

αἰνῶ δ᾽ ὃς ἡμῖν βίοτον ἐκ πεφυρμένου

καὶ θηριώδους θεῶν διεσταθμήσατο,

πρῶτον μὲν ἐνθεὶς σύνεσιν, εἶτα δ᾽ ἄγγελον

γλῶσσαν λόγων δούς, ὥστε γιγνώσκειν ὄπα,

205 τροφήν τε καρποῦ τῇ τροφῇ τ᾽ ἀπ᾽ οὐρανοῦ

σταγόνας ὑδρηλάς, ὡς τά γ᾽ ἐκ γαίας τρέφῃ

ἄρδῃ τε νηδύν· πρὸς δὲ τοῖσι χείματος

προβλήματ᾽, αἶθρον ἐξαμύνασθαι θεοῦ,

πόντου τε ναυστολήμαθ᾽, ὡς διαλλαγὰς

210 ἔχοιμεν ἀλλήλοισιν ὧν πένοιτο γῆ.

ἃ δ᾽ ἔστ᾽ ἄσημα κοὐ σαφῶς γιγνώσκομεν,

ἐς πῦρ βλέποντες καὶ κατὰ σπλάγχνων πτυχὰς

μάντεις προσημαίνουσιν οἰωνῶν τ᾽ ἄπο.

ἆρ᾽ οὐ τρυφῶμεν θεοῦ κατασκευὴν βίῳ

215 δόντος τοιαύτην, οἷσιν οὐκ ἀρκεῖ τάδε;

ἀλλ᾽ ἡ φρόνησις τοῦ θεοῦ μεῖζον σθένειν

ζητεῖ, τὸ γαῦρον δ᾽ ἐν φρεσὶν κεκτημένοι

δοκοῦμεν εἶναι δαιμόνων σοφώτεροι.

 

Disse infatti un tale che nel mondo
per l’uomo è ben più forte del bene il male;
ma io contro questi nutro il parere contrario,
e cioè che è più il bene del male per gli uomini:
200 se fosse più il male, non vivremmo nella luce.
Voglio lodare colui che tra gli dèi ordinò la vita umana,
un tempo bestiale e confusa e ci diede la mente
e la lingua, messaggera di discorsi,
così da comprendere le voci,
205 e il nutrimento dei frutti della terra e dal cielo
la rugiada per crescere i prodotti del suolo,
e saziare il ventre: ed oltre a ciò ci procurò
difese per l’inverno e difese dal caldo divino,
ci insegnò a navigare per i mari cosicché scambiassimo
210 tra di noi i prodotti di cui le nostre terre erano povere.
Ciò che è oscuro e sfugge anche alla mente,
guardando nel fuoco e nelle pieghe delle viscere,
o nel volo degli uccelli, ce lo spiegano gli indovini.
Non è dunque follia, se non ci basta
215 quest’ordine che un dio ci ha donato?
Ma la mente vuol essere più forte del dio
e, nutrendo nell’animo l’orgoglio,
ci crediamo più sapienti di lui.

 

Testa di divinità barbata (Zeus o Hermes). Marmo pentelico, 450-440 a.C. ca. dal Pireo. Museo Archeologico Nazionale di Atene.