Pacuvio e la nascita del ‘pathos’ tragico

Marco Pacuvio, di famiglia osca, nacque a Brundisium intorno al 220. Secondo Plinio il Vecchio (Plin. Nat. hist. XXXV 7, 19), era figlio di una sorella di Quinto Ennio (Enni sorore genitus) e probabilmente già in giovane età raggiunse lo zio a Roma, dove condusse un’esistenza agevolata dall’illustre parentela: si occupò della sua formazione Ennio stesso, da cui Pacuvio ereditò gli interessi filosofici e le tendenze razionalistiche; introdotto grazie allo zio negli ambienti ellenizzanti dell’Urbe, in particolare nel «circolo» scipionico, Pacuvio intraprese l’attività di pittore – ancora ai tempi di Plinio il Vecchio si ammirava un suo quadro nel tempio di Ercole, nel Foro Boario (Plin. ibid.) – e quella di poeta. Evidentemente, il rango rispettabile, che, per il mos maiorum, non ammetteva una vita dedicata alle arti, non gli impedì di impegnarsi in vari campi artistici, che anzi contribuì con ogni probabilità a nobilitare agli occhi dell’aristocrazia romana. Stando a Cicerone (Cic. Lael. 24), Pacuvio strinse amicizia con Gaio Lelio, ma è probabile che si tratti di una finzione letteraria dello stesso Arpinate. Rispettato e stimato da molti, negli ultimi anni della sua lunga vita Pacuvio si ritirò a Tarentum, dove morì, quasi novantenne, intorno al 130.

Pacuvio forse, ispirato all’attività letteraria dello zio, scrisse anche delle Saturae, ma è più verosimile che l’ambito nel quale si specializzò fosse quello del teatro tragico. Di lui restano, infatti, dodici titoli e circa quattrocento frammenti di tragedie cothurnatae, ovvero drammi incentrati sulla mitologia greca: Antiopa, Armorum iudicium, Atalanta, Chryses, Dulorestes, Hermion, Iliona, Medus, Niptra, Pentheus, Periboea, Teucer. Si conosce anche il titolo di una praetexta, ovvero una tragedia di argomento romano: il Paulus, che probabilmente narrava le gesta di Lucio Emilio Paolo e della sua vittoria su Perseo di Macedonia a Pidna (168), rappresentata durante il trionfo del condottiero o durante i ludi funebres dello stesso nel 160.

Mentre Ennio si era ispirato soprattutto al tragediografo Euripide come fonte per le proprie cothurnatae, Pacuvio sembra aver attinto ugualmente a tutt’e tre i grandi tragici ateniesi e forse ad altri drammaturghi perduti.

Dai frammenti superstiti e dai titoli delle tragedie emerge comunque una predilezione per vicende e varianti mitiche per molti versi marginali, spesso con personaggi secondari assurti a protagonisti, ma che presentavano ampie potenzialità per costruire intrecci complicati, ricchi di scene strazianti e sorprendenti. L’Antiopa trattava di Antiope, vittima delle angherie degli zii Lico e Dirce e salvata da Anfione e Zeto, i figli che aveva avuto da Zeus, abbandonati in tenera età e creduti morti da tutti; l’Armorum iudicium era incentrato sullo scontro tra Aiace e Odisseo per ottenere, dopo la sua morte, le armi di Achille; il Dulorestes vedeva Oreste vestire i panni di uno schiavo per punire gli uccisori del padre, Clitemnestra ed Egisto; il protagonista del Medus era l’omonimo figlio di Medea, fondatore del regno di Media, mentre nei Niptra («I lavacri») il protagonista era Odisseo tornato a Itaca. In questo dramma lo spunto tratto dall’Odissea (il riconoscimento dell’eroe, durante il bagno che dava il titolo alla tragedia, grazie a una cicatrice sulla gamba) era combinato con un episodio estraneo alla saga omerica, ovvero l’arrivo di Telegono, il figlio che il Laerziade aveva avuto da Circe e dal quale viene ucciso per errore.

Maschera tragica. Mosaico, I sec. d.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

Alcune scene delle tragedie di Pacuvio rimasero famose per la loro carica di altissimo e virtuosistico patetismo. Cicerone (Cic. Tusc. I 106, 1) ricorda in particolare l’incipit dell’Iliona, in cui alla protagonista appariva, per mezzo di una macchina scenica, in sogno il fantasma del figlio Deipilo, ucciso dal padre e rimasto insepolto (vv. 197-201 Ribbeck = vv. 227-231 D’Anna):

Mater, te appello; tu quae curam somno suspensam levas

neque te mei miseret, surge et sepeli natum ‹tuum› prius

quam ferae volucresque…

neu reliquias sic meas sireis denudatis ossibus

per terram sanie delibutas foede divexarier.

Madre, te io chiamo; tu che con il sonno dai requie e sollievo

alla pena e non hai pietà di me; alzati e da’ sepoltura a tuo figlio, prima

che fiere e uccelli…

non lasciare che le mie spoglie semidivorate, con le ossa messe a nudo,

siano sconciamente lacerate e disperse per terra, grondanti putredine.

Allegoria della Fortuna (memento mori). Mosaico, I sec. a.C. ca., da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Nell’Iliade Polidoro, il più giovane dei figli di Priamo, re di Troia, confidando nella propria rapidità nella corsa, partecipa ai combattimenti contro il volere del padre e cade per mano di Achille. Ma fin dalla tragedia attica si diffuse un’altra versione della leggenda: affidato dal padre al re di Tracia Polimestore insieme a molti tesori, garanzia di un futuro degno del suo rango, Polidoro è ucciso a tradimento dal suo ospite, gettato in mare e ritrovato sulla costa della Troade dalla madre Ecuba durante i preparativi per il funerale di Polissena, la figlia sacrificata sulla tomba di Achille. È Ecuba a vendicarsi su Polimestore, attirato al campo acheo con una scusa e accecato in modo orrendo.

Virgilio avrebbe variato la versione euripidea, immaginando che il corpo del principe troiano non fosse stato gettato in mare, ma lasciato sulla spiaggia dov’era caduto, trafitto da un nugolo di dardi, poi trasformati in un boschetto di mirto: approdato in Tracia, Enea scoprì l’orrenda fine di Polidoro, svellendo un arboscello dalla pianta che dal suo corpo traeva la linfa vitale.

In Pacuvio, dunque, la storia conobbe ancora un’altra variante: Polidoro era stato affidato neonato a Iliona, figlia maggiore di Priamo e sposa del crudele e sanguinario re trace; la donna per proteggere il fratellino lo aveva sostituito al figlio appena nato, facendo passare quest’ultimo come il proprio fratello. Dopo la caduta di Troia, d’accordo con gli Achei, Polimestore acconsente a sopprimere l’ultimogenito di Priamo, ma per l’inganno di Iliona uccide suo figlio Deifilo. Quando, consultato l’oracolo di Delfi, Polidoro scopre la verità sulle proprie origini, trama vendetta contro Polimestore, che muore accecato da Iliona.

Cicerone, che conserva il frammento pacuviano, attesta che le parole del piccolo Deifilo, declamate con l’accompagnamento di una musica atta a suscitare il pianto, provocavano nel pubblico forte emozione e commozione. Come in altri testi dello stesso poeta, anche qui si rintracciano caratteristiche simili a quelle del teatro tragico enniano – che si possono considerare tipiche della tragedia romana, fino a Seneca: nell’adattamento dei modelli greci, infatti, si tende ad accrescere e a “caricare” il pathos e la sublimità, in una direzione che certa critica moderna ha definito “espressionistica”. L’apostrofe di Deifilo alla madre esibisce proprio questi tratti, ovvero l’accentuazione patetica e l’espressionismo orrido: la preghiera è enfatizzata dall’anafora (variata dal poliptoto) del pronome di seconda persona te… tu… te, efficacemente accostato al nesso allitterante mei miseret e chiuso dal possessivo tuum…, e dalla studiata allitterazione in sibilante che contrappone somno suspensam (l’oblio della colpa nel sonno) alla coppia paratattica di imperativi surge et sepeli. L’insistenza sui dettagli orridi del corpo in decomposizione è sottolineata ancora dalla catena fonica che lega gli elementi verbali successivi denudatis… delibutas… divexarier.

Il supplizio di Dirce: Anfione e Zeto vendicano la madre Antiope. Affresco pompeiano, ante 79 d.C. dalla Casa dei Vettii. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

È noto che Pacuvio eccelleva, in particolare, nelle scene a effetto, dotate di una forte carica drammatica, come, per esempio, nel Teucer, l’invettiva di Telamone contro il figlio Teucro, maledetto e ripudiato perché era tornato dalla guerra di Troia senza il fratello Aiace e senza averne impedito o vendicato la morte; o come nei Niptra, l’agonia di Ulisse, ferito a morte da Telegono, in mezzo ad atroci sofferenze.

L’accentuazione del pathos e la ricerca del patetismo si manifestava talora con l’insistenza su particolari orridi e raccapriccianti, destinati a commuovere e a impressionare gli spettatori. Per esempio, nell’Antiopa, la protagonista, ridotta in miseria e nello squallore, era descritta con un cumulus di aggettivi (vv. 20-21 Ribbeck = vv. 17-18 D’Anna):

inluvie corporis

et coma prolixa, impexa, conglomerata atque horrida.

Con il corpo sudicio

e i capelli lunghi, scarmigliati, arruffati e irti.

E, ancora, nel Chryses fece sensazione la scena in cui gli inseparabili amici, Oreste e Pilade, fatti prigionieri da re Toante intenzionato a uccidere Oreste, sostenevano entrambi di esserlo, per salvarsi reciprocamente: Ego sum Orestes! – Immo enimvero ego sum, inquam, Orestes! (v. 365 Ribbeck, «Io sono Oreste!» «Niente affatto! Sono io, lo ripeto, Oreste!»).

Pilade, Oreste ed Ifigenia (da sx a dx). Affresco, ante 79 d.C., dal triclinium del procurator, Casa del Centenario (IX 8, 3-6), Pompei.

Anche l’alta frequenza di protagoniste femminili, che sembra emergere dai titoli delle tragedie, appare collegata a questa ricerca del patetismo, all’esasperazione dell’emotività, alla carica espressionistica.

Il teatro di Pacuvio, comunque, non si esauriva soltanto nella ricerca di trame a effetto, nelle atmosfere tragicamente cupe (simili, per certi versi, a quelle del moderno horror), nei soggetti angosciosi e nelle visioni orripilanti (apparizioni spettrali, cadaveri insepolti, tempeste sconvolgenti, ecc.), negli «effetti speciali»; il poeta sapeva anche ricorrere alla suspence ottenuta attraverso la dilazione dello scioglimento finale, l’inserzione di elementi a sorpresa, le scene di agnizione. Talvolta le rheseis («discorsi») dei personaggi contenevano dei brillanti excursus narrativi, come la celebre descrizione della tempesta del Teucer, conservata da Cicerone (Cic. Div. 1, 24 = vv. 409-416 Ribbeck):

profectione laeti piscium lasciviam          

intuentur, nec tuendi satietas capier potest.

interea prope iam occidente sole inhorrescit mare,               

tenebrae conduplicantur, noctisque et nimbum obcaecat nigror,   

flamma inter nubes coruscat, caelum tonitru contremit,   

grando mixta imbri largifico subita praecipitans cadit,    

undique omnes venti erumpunt, saevi existunt turbines,

fervit aestu pelagus.

Lieti per la partenza, osserviamo i giochi dei delfini

e non possiamo saziarci di guardarli.

Ma ecco che, verso il tramonto del Sole, il mare s’increspa,

le tenebre si fanno più fitte e il nero della notte e dei nembi ci acceca,

i fulmini balenano fra le nubi, il cielo trema per i tuoni,

grandine mista a pioggia dirotta si rovescia d’improvviso,

da ogni lato i venti irrompono, s’abbattono raffiche crudeli,

il mare ribolle di flutti.

Nave. Affresco, ante 79 d.C. da Pompei. Boscoreale, Antiquarium.

Il poeta mostra di conoscere già tutti gli ingredienti topici della tempesta letteraria: la natura improvvisa, imprevedibile del fenomeno, annunciato dall’incresparsi del mare, il raddoppiarsi dell’oscurità che cancella la distinzione tra cielo e mare, il balenare dei lampi seguito dal fragore dei tuoni, la grandine che scroscia a dirotto, la violenza dei venti in lotta, che soffiano in tutte le direzioni, il ribollire del mare. Ogni tratto descrittivo sembra sviluppato da Pacuvio attingendo da tutte le risorse dell’espressionismo: ne risulta uno stile ridondante, ripetitivo ed enfatico. Enfatici sono appunto verbi come conduplicantur e contremit, mentre la ricerca di suoni duri (t, c, r, s) e nasali (n, m) intende evocare le sonorità orride del mare in burrasca.

La ricercatezza di Pacuvio, evidente nella scelta degli argomenti e nell’attenzione alle problematiche etiche, emergeva anche nella sua cura attentissima per la forma. Gli antichi parlavano della sua ubertas («magniloquenza») e, come si vede, i suoi frammenti sono appunto contraddistinti dalla fitta presenza di coppie sinonimiche e dall’insistenza delle figure di suono – tutti tratti che fecero dire a Cicerone summum… Pacuvium tragicum (Cic. Opt. gen. 2). Emblematico, a tal riguardo, risulta un altro verso dal Teucer: periere Danai, plera pars pessum datast (v. 320 Ribbeck, «Sono periti i Danai, e per la massima parte sono andati in rovina»), passo nel quale tutte le parole sono legate da allitterazione e omeoarco (accostamento di parole di significato diverso che iniziano con la stessa sillaba).

Certi frammenti costituiscono, per esempio, vere e proprie massime morali, che rispecchiano gli ideali romani dell’autocontrollo e della gravitas, ovvero compostezza e dignità, come, per esempio, la seguente, tratta dai Niptra (vv. 268-269 Ribbeck = vv. 317-318 D’Anna, apud Gell. N.A. II 26, 13):

conqueri fortunam advorsam, non lamentari decet;

id viri est officium, fletus muliebri ingenio additust.

È ammissibile lamentarsi della sorte avversa, non piangere;

questo è il comportamento di un uomo, mentre le lacrime sono proprie dell’indole femminile.

In altre tragedie comparivano dibattiti etici, in cui si discuteva se la virtus fosse da intendere come valore militare o come superiorità intellettuale e spirituale (qualità incarnate rispettivamente da Aiace e da Ulisse nell’Armorum iudicium); in altri casi al centro del dibattito compariva il confronto tra vita attiva e vita contemplativa (rappresentate da Zeto e Anfione nell’Antiopa). A questo si aggiungeva l’interesse dell’autore per la scienza e la filosofia naturale, che contribuì a circondarlo della fama di poeta doctus. Come tale, oltre ad applicare per primo la tecnica della contaminatio alla tragedia (per esempio, fondendo nel Chryses elementi dell’omonimo dramma di Sofocle con dettagli dell’Ifigenia in Tauride di Euripide), la cothurnata di Pacuvio riecheggia i temi del razionalismo greco di stampo euripideo. Sempre nel Chryses, infatti, ora presenta il cielo come il principio spirituale che anima l’universo, ora disquisisce sul concetto di fortuna, ora polemizza contro gli indovini, gente che merita soltanto di essere udita, non ascoltata (magis audiendum quam auscultandum censeo).

Cupido che cavalca una coppia di delfini. Mosaico, c. 120-80 a.C. Delos, Casa dei Delfini.

Oltre a considerarlo il massimo autore scenico romano, Cicerone lodava lo stile accurato di Pacuvio (Cic. de orat. 36), giudicandolo più elegante di quello di Ennio: la ricerca della sublimità si spingeva sino ad ardite sperimentazioni. Famoso, anzi famigerato, perché deriso già dal poeta satirico Lucilio (v. 212 Marx, apud Gell. N.A. XVIII 8, 2) e poi criticato da Quintiliano (Quint. Inst. I 5, 67), fu il tentativo di Pacuvio di coniare composti ricalcati sull’uso epico-tragico greco. È il caso dei delfini, che Livio Andronico nell’Aegisthus aveva definito Nerei simum pecus («il camuso gregge di Nereo», F 2, 1 Ribbeck) e che Pacuvio con un’iperbolica perifrasi chiamò Nerei repandirostrum incurvicervicum pecus («il gregge di Nereo dal muso rivolto in alto e dal collo incurvato», v. 408 Ribbeck = v. 366 D’Anna). I neologismi dalla struttura linguistica troppo audace sia per l’eccessiva lunghezza, sia per il tipo di composizione (aggettivo più sostantivo) assai più congeniale alla lingua greca che a quella latina, non ebbero alcun seguito nella tradizione romana e simili forzate innovazioni sarebbero state criticate anche da grammatici e da puristi.

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E.H. Warmington (ed.), Remains of Old Latin, II, London-Cambridge Mass. 1936.

Callimaco: il poeta degli Epigrammi

da G. ZANETTO, P. FERRARI (eds.), Callimaco. Epigrammi, Milano 1992, 13-18.

Esisteva certamente nell’antichità un’edizione completa degli Epigrammi di Callimaco: lo provano le citazioni di grammatici ed eruditi, che appunto fanno riferimento a un liber epigrammatico. Ma ben presto gli epigrammi del poeta entrarono a far parte di sillogi e antologie, che circolavano con successo in tutto il mondo ellenistico[1]. Fra esse ebbe particolare rilievo la raccolta curata all’inizio del I secolo a.C. da Meleagro di Gadara e intitolata Corona: comprendeva poesie di tutti i maestri di questo genere, dall’età arcaica fino a Meleagro stesso, e Callimaco vi figurava in maniera cospicua. La Corona meleagrea, via via integrata dai necessari aggiornamenti, sopravvisse nei secoli fino all’età bizantina, quando Costantino Cefala – intorno al 900 – la utilizzò come base della sua antologia, poi confluita nella nostra Anthologia Palatina.

Lawrence Alma-Tadema, Il poeta preferito. Olio su tela, 1888.

Di Callimaco, dunque, possediamo gli epigrammi trascelti da Meleagro: la nostra conoscenza della sua arte epigrammatica passa inevitabilmente attraverso il filtro di un giudizio altrui[2], anche se possiamo essere certi che il curatore della Corona – epigrammista di grande talento e di gusto sicuro – abbia scelto bene. È singolare prerogativa degli Epigrammi e degli Inni callimachei l’essere sopravvissuti in quanto legati a opere anche di altri poeti. Nella produzione di Callimaco assistiamo a questo curioso contrappasso: le opere «maggiori», quelle in cui più si esprimeva la rivoluzione letteraria dell’autore e a cui Callimaco più affidava il proprio successo poetico – le elegie degli Aitia e il poemetto Ecale – sono andate perdute, e sono oggi solo sommariamente ricostruibili attraverso un pulviscolo di frammenti; mentre rimangono i lavori del Callimaco «minore». A essi, e soprattutto agli Epigrammi, dobbiamo ricorrere per ricostruire la figura di un poeta la cui importanza nella storia della cultura è certo straordinaria, ma che da sempre divide gli interpreti. Nell’antichità egli conobbe stroncature impietose, fu additato a modello negativo di un’arte fredda e cerebrale, refrattaria al calore del sentimento. E anche fra i lettori moderni non mancano i detrattori. Ma sempre si ha l’impressione che il giudizio sul poeta sia in qualche modo inquinato da un pregiudizio di fondo, quasi gli si rimproverasse – inconsapevolmente – di aver suggellato la fine dell’età classica e della sua letteratura.

Chi fu, dunque, Callimaco? Negli Epigrammi il poeta parla direttamente di sé. non solo entro i termini di quella querelle letteraria che si riverbera anche nelle altre opere (soprattutto nel prologo degli Aitia), ma in una prospettiva più spigliatamente autobiografica. Il poeta esprime dei giudizi che ci dànno indicazioni preziose non solo sui suoi convincimenti letterari, ma anche sulla sua personalità. Gli epigrammi 22 e 39 sono rispettivamente l’autoepitafio del poeta e l’epitafio per il padre Batto:

Βαττιάδεω παρὰ σῆμα φέρεις πόδας εὖ μὲν ἀοιδὴν

   εἰδότος, εὖ δ’ οἴνῳ καίρια συγγελάσαι.

Passi accanto alla tomba del figlio di Batto, bravo

nel canto, bravo a bere vino e a scherzare.

(Ep. 22 = AP. VII 415)

Ὅστις ἐμὸν παρὰ σῆμα φέρεις πόδα, Καλλιμάχου με

   ἴσθι Κυρηναίου παῖδά τε καὶ γενέτην.

εἰδείης δ’ ἄμφω κεν· ὁ μέν κοτε πατρίδος ὅπλων

   ἦρξεν, ὁ δ’ ἤεισεν κρέσσονα βασκανίης.

οὐ νέμεσις· Μοῦσαι γάρ, ὅσους ἴδον ὄμματι παῖδας

   μὴ λοξῷ, πολιοὺς οὐκ ἀπέθεντο φίλους.

Tu che passi accanto alla mia tomba, sappi

che sono figlio e padre di un Callimaco di Cirene.

Entrambi famosi: il primo comandò l’esercito

della patria, l’altro fu un poeta più forte dell’invidia.

Niente di strano: se le Muse hanno protetto uno da piccolo,

gli rimangono amiche anche quand’è incanutito.

(Ep. 39 = AP.  VII 525)

Sono due componimenti che vanno letti in coppia: era infatti tradizione, nelle tombe di famiglia, incidere sui due lati di una stessa stele due diverse iscrizioni funebri; con un espediente letterario molto abile Callimaco utilizza questa convenzione per comporre una sorta di dittico, animato da una serie di rimandi, in cui talvolta ciò che è taciuto è più significativo di ciò che è detto[3]. Parlando di sé, il poeta si definisce «bravo nel canto, bravo a bere vino e a scherzare»: affiora in queste parole il vezzo, assolutamente tradizionale, di considerare la propria attività poetica come qualcosa di marginale; ma, nel complesso, la definizione colpisce nel segno. Non nel senso che Callimaco fosse davvero così, ma nel senso che così avrebbe voluto essere, lui che era tanto lontano dall’ispirazione larga e immediata di un poeta-soldato.

Pittore di Orfeo. Un trace (dettaglio). Pittura vascolare da un cratere a colonne a figure rosse, 440 a.C. c. da Gela. Berlin, Antikensammlung.

Del resto, è tipico di un letterato, quando accetta di ritrarsi, offrire una rappresentazione di sé che corrisponda alla propria immagine fantastica, e che spesso contraddice la realtà. Il menestrello spensierato ritratto nell’Ep. 22 è un po’ il Robert Jordan di Callimaco! Il protagonista di Per chi suona la campana, nelle riflessioni notturne che precedono il giorno dell’azione, si compiace di ricordare il nonno, grande soldato e grande comandante di cavalleria nella guerra civile americana; il ricordo del nonno, rappresentato come termine positivo di riferimento, si intreccia con quello del padre, il cobarde fallito. Robert Jordan ama pensare, applicando una sorta di aristocratismo genetico, che il coraggio e il valore si trasmettano di nonno in nipote, con il salto di una generazione: «È un gran peccato che ci sia un tale salto di tempo fra due uomini come noi». Il personaggio è immagine dell’autore: Hemingway cercò per tutta la vita di neutralizzare il fantasma del padre, il cobarde sottomesso e suicida; ma il suo vitalismo convulso approdò a un colpo di fucile liberatorio.

Anche Callimaco, nell’Ep. 39, traccia un parallelo ideale fra sé e il nonno, che aveva portato il suo stesso nome: il padre Batto – che formalmente parla dalla stele – si annulla, attribuendosi come unico merito quello di rappresentare l’anello di congiunzione fra il grande condottiero e il grande poeta. Ma poeta-soldato Callimaco assolutamente non fu. C’è una distanza siderale fra lui e un Archiloco: non solo perché Callimaco trascorse tutta la sua vita ad Alessandria, in un’operosità divisa fra la produzione letteraria e la frenetica attività erudita, ma anche perché gli mancò affatto l’umiltà dell’uomo d’azione, quella curiosità ingenua che spinge a far la prova di persona, fatta di orgoglio e di valore fisico, la forma più elementare ma forse più autentica del coraggio. Callimaco ebbe invece in somma misura il coraggio intellettuale. L’Ellenismo gli impose la riduzione della letteratura ad attività erudita, escludendola dal respiro della comunicazione politica. Egli l’accettò impavido: seppe donare un nuovo prestigio e un nuovo valore alla produzione letteraria, intesa ora come sfida estrema di intelligenza e di gusto, da affrontare con dedizione totale, con il bando di ogni compromesso e di ogni mediocrità. Dovette però pagare un prezzo: dovette accettare che ogni suo pensiero fosse rivolto alla poesia, e che per converso l’intero suo immaginario poetico si risolvesse nei termini di una religione dell’arte.

Caserma con soldati e processione. Mosaico, I sec. a.C. ca. dal «Mosaico con scena nilotica». Palestrina, Museo Archeologico Nazionale.

Callimaco anticipò Moravia: credette solo nella letteratura. Fu il primo, e forse il più grande, degli intellettuali moderni: fu l’«inventore» – in una proiezione psicologica e biografica prima ancora che ideale – della figura stessa dell’intellettuale. Dello scholar ebbe il rigore metodico e l’impegno scientifico, ma anche la passionalità introversa e stagnante, la propensione al rancore, alla rivalità di scuola e di clan. La stessa polemica letteraria, che assorbe tanta parte dell’affetto negli Epigrammi, non assume la maniera delle parabasi aristofanee: quel che in Aristofane è la consapevolezza sanguigna del ruolo sociale e politico diventa in Callimaco l’eco di una rivalità professionale. L’Ep. 45 (AP. IX 566) propone un siparietto fra un poeta virtuoso e uno sconfitto:

Μικρή τις, Διόνυσε, καλὰ πρήσσοντι ποιητῇ

   ῥῆσις· ὁ μὲν Νικῶ φησὶ τὸ μακρότατον·

ᾧ δὲ σὺ μὴ πνεύσῃς ἐνδέξιος, ἤν τις ἔρηται

   Πῶς ἔβαλες; φησί· Σκληρὰ τὰ γιγνόμενα.

τῷ μερμηρίξαντι τὰ μὴ ἔνδικα τοῦτο γένοιτο

   τοὖπος· ἐμοὶ δ’, ὦναξ, ἡ βραχυσυλλαβίη.

È di poche parole il poeta che fa bene, o Dioniso:

la più lunga che dice è «vittoria!».

Quell’altro, quello che tu non ispiri, se uno gli chiede:

«Com’è andata?», risponde: «Maledetta scalogna!».

Ma questo lo dica pure chi pensa cose brutte;

io, signore, preferisco esprimermi a sillabe.

Il contesto è lasciato indeterminato – certo un agone poetico, l’equivalente di un moderno premio letterario – e l’elemento di assoluta evidenza è il compiacimento per il successo: la vittoria coinvolge il vincitore sul piano personale, ma segna nel contempo il trionfo della sua poetica, quindi della sua «scuola». L’implicita irrisione dello sconfitto, ritratto mentre maledice la sfortuna, è assolutamente conforme alla mentalità greca (che fin da Omero conosce la risata sardonica e maligna sopra il nemico vinto!), ma esprime anche la nuova consapevolezza del letterato, in corsa per un’affermazione di sé che trascende il significato stesso del suo ruolo.

Statua di Dioniso. Marmo, copia romana da un originale greco del 325 a.C. ca., dalla Campania. London, British Museum.

Nelle Rane di Aristofane Dioniso scende nell’oltretomba per riportare in vita un poeta capace di riscattare la scena tragica ateniese dalla mediocrità cui l’ha condannata la morte quasi contemporanea di Euripide e di Sofocle (Eschilo è scomparso da tempo). Nell’agone che occupa la seconda metà della commedia, Eschilo ed Euripide si affrontano – sotto l’arbitrato di Dioniso – per stabilire chi dei due è il miglior tragediografo in assoluto, e quindi il più degno di risurrezione; alla fine, il dio del teatro decide di riportare in vita Eschilo, giudicandolo il poeta più sapiente, anche se non ha difficoltà ad ammettere che Euripide gli dà le emozioni estetiche più travolgenti. Anche Callimaco, com’è naturale, giudica la tradizione poetica del passato; ma il suo metro di valutazione prescinde ormai affatto dal valore di «verità» contenuto nell’opera letteraria, per privilegiare la dimensione del gusto, ossia proprio quella categoria che il Dioniso aristofanesco finisce per scoraggiare. Nell’Ep. 43 (AP. IX 507; Achill. comm. Arat. 78, 28 Maas) il riconoscimento dell’arte minuta e sapiente di Arato si accompagna a un’implicita difesa della propria poetica e si appoggia a un’esaltazione di Esiodo, anteposto addirittura al grande padre Omero:

Ἡσιόδου τό τ’ ἄεισμα καὶ ὁ τρόπος· οὐ τὸν ἀοιδῶν

   ἔσχατον, ἀλλ’ ὀκνέω μὴ τὸ μελιχρότατον

τῶν ἐπέων ὁ Σολεὺς ἀπεμάξατο. χαίρετε, λεπταὶ

   ῥήσιες, Ἀρήτου σύμβολον ἀγρυπνίης.

Il tema e lo stile sono quelli di Esiodo: non è l’ultimo

dei poeti, ma direi che l’amico di Soli

ha raccolto il meglio della poesia epica. Benvenuta,

arte sottile, notturna fatica di Arato!

Callimaco non poteva certo non apprezzare il prestigio formale del linguaggio omerico né poteva ignorare il ruolo svolto dai poemi omerici nella trasmissione della cultura greca: ma nel confronto fra i due maestri della poesia epica, Esiodo finisce per diventare il simbolo del clan letterario cui il poeta appartiene e per essere quindi privilegiato.

La notizia di una rivalità irriducibile fra Callimaco e il suo allievo Apollonio è probabilmente un’invenzione o almeno un’amplificazione di biografi più tardi. Ma come spesso avviene per le tradizioni biografiche concernenti i poeti greci, viene la tentazione di crederci! Una lotta al coltello fra i due poeti per la carica di arci-bibliotecario ad Alessandria equivarrebbe, in termini odierni, alla competizione di due romanzieri per il Nobel della Letteratura: ossia per un riconoscimento cui ogni letterato protesta di essere indifferente, e che pure è in cima ai pensieri di tutti. Certo, nell’Ep. 44 Callimaco augura all’amico Teeteto di godere di una lunga gloria presso i posteri, invitandolo a rinunciare di buon grado alla notorietà e al successo immediati. Ma il tono sembra consolatorio; e comunque l’agonalità della πόλις ellenica è ancora troppo vicina nel tempo per non infiammare il cuore anche dei poeti, oltre che dei dinasti.

Statua di Apollo. Marmo, copia romana del II secolo d.C. da un originale ellenistico, da Cirene. London, British Museum.

Callimaco apparitene sempre, infatti, per molti versi al mondo della πόλις. Non – come si è visto – nel senso che egli creda ancora all’impegno civile della poesia; ma certo nel segno di un orgoglio d’appartenenza, che non è in contraddizione con l’orizzonte ormai cosmopolita della cultura ellenistica. Aveva sangue dorico nelle vene, poiché Cirene era un’antica colonia di Thera: e i Dori erano, fra i Greci, quelli più legati al proprio passato, più calati nel mito eugenetico della città e della schiatta. Molti epigrammi, soprattutto funebri, hanno il senso di un ritorno ideale ai luoghi dell’infanzia. L’Ep. 31 muove dalla disgrazia che ha sconvolto una delle famiglie più in vista di Cirene, e si chiude con l’immagine suggestiva della città che si stringe attorno alle bare dei due ragazzi scomparsi, dunque della comunità che si riconosce affettivamente nei due nobili giovanetti. E l’Ep. 38, pure un epitimbio, è un divertente dialogo con un altro cireneo, Carida: qui la patria lontana è evocata con un diverso registro, fatto di allusioni e ammiccamenti, in parte incomprensibili per il lettore moderno. D’altra parte, proprio lo studio dei reperti archeologici ed epigrafici di Cirene ha consentito, negli ultimi decenni del Novecento, di ricostruire con più precisione la discendenza del poeta, rampollo di una famiglia che vantava come capostipite lo stesso Batto, il capo dei “padri pellegrini” cirenei; e ha altresì permesso di riconoscere tutta una serie di riferimenti alla realtà della città contenuti negli Epigrammi e nelle altre opere callimachee.

In che forma, concretamente, si estrinsecasse il rapporto d’amore di Callimaco per Cirene, presente con tanto calore nell’opera poetica, è assolutamente oscuro. Periodici ritorni sembrano in contraddizione con l’immagine che abbiamo di un intellettuale ormai calato nella dimensione sociale e culturale della metropoli alessandrina. Quel che è certo è che Callimaco conserva l’abitudine classica di connettere ogni persona con la sua patria, come fondendo insieme il πολίτης e la πόλις. Negli epigrammi funebri la puntigliosa indicazione della città d’origine non ha solo la funzione del dato anagrafico, ma acquista anche il senso di un gesto d’attenzione, di un’estrema carezza.

In sostanza, la rivoluzione culturale ellenistica non sottrae i poeti dalla prima generazione all’eredità classica, almeno nella dimensione affettiva. E fra le opere di Callimaco, forse proprio gli Epigrammi offrono la testimonianza più convincente. È il caso dell’Ep. 15, l’epitimbio che il poeta compose per l’amico Eraclito di Alicarnasso:

Εἶπέ τις, Ἡράκλειτε, τεὸν μόρον, ἐς δέ με δάκρυ

   ἤγαγεν· ἐμνήσθην δ’, ὁσσάκις ἀμφότεροι

ἥλιον ἐν λέσχῃ κατεδύσαμεν. ἀλλὰ σὺ μέν που,

   ξεῖν’ Ἁλικαρνησεῦ, τετράπαλαι σποδιή·

αἱ δὲ τεαὶ ζώουσιν ἀηδόνες, ᾗσιν ὁ πάντων

   ἁρπακτὴς Ἀίδης οὐκ ἐπὶ χεῖρα βαλεῖ.

Uno mi ha detto che sei morto, Eraclito, e ho pianto:

ho ricordato quante volte, chiacchierando, vedemmo

insieme tramontare il sole. Amico di Alicarnasso, ora

tu non sei che polvere, chissà dove e da quanto tempo,

ma continuano a vivere i tuoi versi: su di essi Ade,

il ladrone spietato, non potrà allungare la mano.

Un’elegia struggente, questa, divisa fra il dolore della separazione irrimediabile e il conforto della memoria. La perfezione formale di questi versi è squisitamente ellenistica; ma il loro fascino – cui non rimasero insensibili, fra gli altri, Callimaco e Foscolo – è in larga misura connesso con la rete di sentimenti che li innerva e che sono assolutamente classici: un pianissimo lene e diffuso, bilanciato però in qualche misura dalla fede nella φιλία e nell’arte. Basta quest’esempio – fra i molti presenti negli Epigrammi – di poesia composta e commossa per togliere a Callimaco la scomoda definizione di freddo versificatore e per far capire come la sua arte si alimenti ancora della riflessione greca sulla vita e sull’uomo.


[1] Sulla base di una notizia fornita da Aristarco (schol. Il. XI 101), si pensa che Posidippo ed Edilo avessero curato un’edizione comune dei loro epigrammi intitolata Σωρός. Inoltre, sono stati ritrovati ostraka e papiri con resti di raccolte epigrammatiche pre-meleagree.

[2] Come spesso avviene in questi casi, il successo della silloge di Meleagro fece sì che gli epigrammi non compresi nella raccolta venissero presto dimenticati. In effetti, le citazioni antiche riguardano quasi sempre componimenti compresi nella Corona.

[3] Secondo alcuni interpreti, i due epigrammi avrebbero avuto originariamente la funzione di chiudere il liber epigrammatico di Callimaco, fornendo insieme la mossa di congedo e una sorta di autoritratto dell’autore.

Come bisogna impartire i primi insegnamenti (Quint. Inst. I 1, 1-7)

Il pensiero che sta alla base dell’Institutio oratoria di Quintiliano mostra che l’autore non si accontentò del proprio ruolo di intellettuale-funzionario e rifiutò orgogliosamente e con coerenza di considerare l’oratoria come semplice strumento dell’amministrazione imperiale. Al contrario, sul grande modello di Cicerone, anch’egli attribuiva alla formazione retorica il valore centrale di un’educazione globale, che facesse del cittadino essenzialmente un individuo morale.

Nel primo capitolo dell’opera, che i grammatici medievali hanno trasmesso sotto il titolo di Quemadmodum prima elementa tradenda sunt, Quintiliano esamina quella che deve essere l’educazione del futuro oratore dai primissimi anni di vita fino ai sette anni, quando il bambino cominciava a frequentare il ludus litterarius, corrispondente all’odierna scuola primaria; l’autore spiega che occorre avere la massima cura per la formazione dei bambini, che sono tutti – per la stessa predisposizione naturale – portati a imparare e a usare il pensiero. Primo degli scrittori latini di cui si ha notizia a occuparsene, Quintiliano passa in esame i più importanti problemi pedagogici inerenti alla prima infanzia, discutendo delle doti e delle capacità di nutrici e tutori, raccomandando agli stessi genitori una buona preparazione culturale e analizzando quale sia l’età più adatta per introdurre i bambini agli studi.

Siccome la prima età è estremamente duttile rispetto a ciò che le viene proposto, bisogna evitare che le persone con cui l’infante si relaziona possano trasmettergli insegnamenti sbagliati, che sarebbero difficili da correggere in seguito. Per questo è bene che le nutrici, i genitori e i pedagoghi (per lo più servi di origine greca che svolgevano il ruolo di maestri nell’ambito domestico) siano non solo moralmente irreprensibili, ma anche il più possibile colti e corretti, anche nel linguaggio.

In questo capitolo, l’Institutio oratoria offre un’idea abbastanza chiara di quello che doveva essere l’insegnamento in Roma antica e delle idee di Quintiliano in proposito. L’autore, infatti, appare come un educatore umano e comprensivo, ottimisticamente convinto – e lo dice quasi fin da subito – che nessuno sia del tutto negato per lo studio.

Una madre che allatta il figlio alla presenza del padre (dettaglio). Rilievo, marmo, 150 d.C. dal sarcofago di M. Cornelio Stazio. Paris, Musée du Louvre.

[1, 1] Igitur nato filio pater spem de illo primum quam optimam capiat: ita diligentior a principiis fiet. falsa enim est querela, paucissimis hominibus uim percipiendi quae tradantur esse concessam, plerosque uero laborem ac tempora tarditate ingenii perdere. nam contra plures reperias et faciles in excogitando et ad discendum promptos. quippe id est homini naturale, ac sicut aues ad uolatum, equi ad cursum, ad saeuitiam ferae gignuntur, ita nobis propria est mentis agitatio atque sollertia: unde origo animi caelestis creditur. [2] Hebetes uero et indociles non magis secundum naturam hominis eduntur quam prodigiosa corpora et monstris insignia, sed hi pauci admodum fuerunt. argumentum, quod in pueris elucet spes plurimorum: quae cum emoritur aetate, manifestum est non naturam defecisse sed curam. «Praestat tamen ingenio alius alium». [3] Concedo; sed plus efficiet aut minus: nemo reperitur qui sit studio nihil consecutus. hoc qui peruiderit, protinus ut erit parens factus, acrem quam maxime datur curam spei futuri oratoris inpendat. [4] Ante omnia ne sit uitiosus sermo nutricibus: quas, si fieri posset, sapientes Chrysippus optauit, certe quantum res pateretur optimas eligi uoluit. et morum quidem in his haud dubie prior ratio est, recte tamen etiam loquantur. [5] Has primum audiet puer, harum uerba effingere imitando conabitur, et natura tenacissimi sumus eorum quae rudibus animis percepimus: ut sapor quo noua inbuas durat, nec lanarum colores quibus simplex ille candor mutatus est elui possunt. et haec ipsa magis pertinaciter haerent quae deteriora sunt. nam bona facile mutantur in peius: quando in bonum uerteris uitia? non adsuescat ergo, ne dum infans quidem est, sermoni qui dediscendus sit. [6] In parentibus uero quam plurimum esse eruditionis optauerim. nec de patribus tantum loquor: nam Gracchorum eloquentiae multum contulisse accepimus Corneliam matrem, cuius doctissimus sermo in posteros quoque est epistulis traditus, et Laelia C. filia reddidisse in loquendo paternam elegantiam dicitur, et Hortensiae Q. filiae oratio apud triumuiros habita legitur non tantum in sexus honorem. [7] Nec tamen ii quibus discere ipsis non contigit minorem curam docendi liberos habeant, sed sint propter hoc ipsum ad cetera magis diligentes.

Ercole bambino uccide i serpenti. Affresco pompeiano. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

[1, 1] Ordunque, un padre, appena gli è nato un figlio, concepisca per lui le migliori speranze possibili: così ne avrà più cura fin dagli inizi della sua educazione. Falsa è, infatti, la lamentela, che a pochissimi sia stata concessa la capacità di assimilare ciò che viene insegnato e che, invece, i più perdano tempo e fatica per lentezza d’ingegno. Vero è, al contrario, che si trovano tanti dotati di buona penetrazione e inclini a imparare. Perché ciò è naturale per l’uomo; e a quella guisa che gli uccelli sono generati per volare, i cavalli per correre, le fiere per incrudelire, così è tipicamente nostra la solerte attività dello spirito, per cui si crede che l’animo umano abbia origine divina. [2] Quelli duri di comprendonio, invece, e coloro che sono refrattari all’apprendimento non sono conformi alla natura umana più di quanto non lo siano i corpi anomali e straordinari per mostruosità, ma costoro sono sempre stati una rarità. Prova, questa, del fatto che nei ragazzi brilla la speranza di moltissime possibilità: e, quando queste svaniscono con il passare degli anni, è chiaro che è venuta meno non la natura, ma la diligenza degli educatori. «Non tutti hanno la stessa intelligenza». [3] D’accordo; ma conseguirà risultati più o meno buoni: non si trova nessuno che non abbia raggiunto con l’applicazione una pur minima meta. Chi si sarà ben reso conto di ciò, non appena divenuto genitore, dedichi la maggiore attenzione che si possa avere alla speranza del futuro oratore. [4] Tanto per cominciare, le nutrici dovranno esprimersi con un linguaggio corretto: di loro Crisippo si augurava che fossero, se possibile, esperte di filosofia o, quantomeno, voleva che si scegliessero le migliori, per quanto permesso dalle circostanze. Non c’è dubbio che per prima cosa bisogna tener conto della loro moralità: occorre però che parlino anche correttamente. [5] È la nutrice che il bambino ascolterà per prima, sono le sue parole che egli cercherà di ripetere balbettando. E per natura noi siamo attaccatissimi alle prime suggestioni dell’innocenza: così come il sapore, del quale si impregnano i recipienti nuovi, rimane persistente né si potrà mai più cancellare la tinta della lana, che ne ha mutato l’originario candore. Il guaio è che proprio le suggestioni peggiori restano maggiormente impresse. Ciò che è buono si cambia facilmente nel peggio: quando mai potresti trasformare i difetti in virtù? Perciò, l’allievo, nemmeno finché è ancora nell’infanzia, si abitui a un linguaggio che dovrebbe poi disimparare. [6] Sarebbe ugualmente auspicabile che i genitori fossero istruiti quanto più possibile. E non parlo solo del padre. È noto, per esempio, che alla formazione oratoria dei Gracchi contribuì non poco la madre Cornelia, il cui stile coltissimo è stato tramandato anche ai posteri per mezzo delle sue lettere; e si dice che Lelia, figlia di Gaio, si esprimeva nel parlare con la medesima raffinatezza del padre; l’orazione tenuta da Ortensia, figlia di Quinto, davanti ai Triumviri si legge ancora oggi e non solo in omaggio al suo sesso. [7] Ciò non vuol dire che coloro ai quali non toccò in sorte di poter studiare essi stessi debbano aver minore cura nell’educazione dei figli; anzi, proprio per questo dovranno essere più attenti in tutto il resto.

Contrariamente alla pratica degli altri trattati antichi sull’eloquenza, che si concentravano sulla formazione oratoria in senso tecnico (quella che cominciava alla sequela di un rhetor professionista), l’Institutio quintilianea prende le mosse proprio dall’infanzia del futuro oratore, dedicando pagine celebri all’educazione domestica. Dopo il proemio, che enuncia e chiarisce gli obiettivi che sostengono la composizione dell’opera e ne riporta il piano complessivo, tutto il primo capitolo del I libro è dedicato ai criteri che devono regolare la scelta e la cura dell’ambiente umano più idoneo alla crescita culturale e personale del bambino, nell’ipotesi di base che qualsiasi individuo possa, in futuro, diventare un oratore perfetto. L’interesse particolare insito in questa pagina sta, oltre che nelle consuete ragioni specifiche interne all’opera e al profilo dell’autore, nel fatto che precedenti trattati pedagogici a cui Quintiliano può essersi ricollegato sono andati perduti (tra gli altri, il Περὶ παίδων ἀγωγῆς, De liberis educandis di Crisippo di Soli, a cui l’autore fa espressamente riferimento, talvolta per dissentirne); dunque, si devono a questa sezione alcune delle nozioni pervenute sugli orientamenti pedagogici e didattici del mondo antico.

L’invito iniziale al padre rientra nel più ampio quadro di quella pedagogia tesa verso un ideale di perfezione, al quale Quintiliano si attiene scrupolosamente, riprendendo e approfondendo uno spunto già ciceroniano. A tale perfezione ideale possono teoricamente accedere tutti; dunque, gli educatori dovranno trattare qualsiasi bambino come potenzialmente diretto a raggiungerla. È vero che non tutti hanno le stesse qualità intellettuali, ma ognuno può ottenere significativi risultati attraverso lo studio (parr. 1-3).

Scena di allattamento. Statuetta, terracotta, II-III sec. d.C., da Bordeaux. Saint-Germain-en-Laye, Musée Archéologie Nationale.

E così, Quintiliano inizia le proprie raccomandazioni a partire dai primi contatti che il bambino ha con il mondo delle parole: l’ambiente domestico con le balie (parr. 4-5). Nutrix va inteso in senso più ampio di quello di «balia che allatta», e cioè come «governante», quella figura che si prendeva cura dei bambini anche successivamente all’allattamento; poteva essere una serva di origini greche e allora aveva il compito di familiarizzare i piccoli con la sua lingua-madre (i sostenitori della tradizione erano contrari a quest’impiego, preferendo che le madri stesse provvedessero all’allattamento, alla cura e all’educazione dei figli). Quest’importanza accordata alla correttezza linguistica delle nutrici pare interesse autenticamente quintilianeo ed è legato alla constatazione che il primo approccio del bambino al linguaggio avviene per imitazione.

Dopo aver parlato delle nutrici, l’autore passa ai genitori (parr. 6-7), per i quali insiste particolarmente sull’importanza anche della partecipazione materna alla formazione dell’infante (nec de patribus tantum loquor), adducendo exempla illustri di madri colte.

L’incipit dell’Institutio manifesta con evidenza, sul piano stilistico, la ricerca di chiarezza e armoniosità che Quintiliano persegue sul modello ciceroniano. Alcuni nessi e scelte terminologiche infatti sono ripresi dall’Arpinate. Per esempio, tarditate ingenii è nesso già ciceroniano (cfr. Cic. orat. 229); agitatio, deverbativo di agito (frequentativo di ago), si trova più di una volta nel lessico filosofico di Cicerone, in riferimento alla mens con il significato appunto di «attività»; si è ben lontani dal senso negativo che Seneca attribuiva al termine o ai suoi sinonimi, in riferimento all’assenza di equilibrio interiore.

Per quanto riguarda la costruzione del periodo, si nota il chiasmo et facile in excogitando et ad discendum promptos (I 1, 1), che accosta i due gerundi con variatio del caso. Tutto il paragrafo si segnala per la ricerca accurata di concinnitas. Un altro chiasmo compare poco dopo, sicut aves ad volatum, equi ad cursum, ad saevitiam ferae… ita nobis…; qui l’esempio costruito sulle diverse specie animali è di ascendenza ciceroniana ed è funzionale a inserire anche l’uomo all’interno della varietà delle specie.

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Bibliografia:

G.B. CONTE – E. PIANEZZOLA, Lezioni di letteratura latina. Corso integrato. 3. L’età imperiale, Milano 2010, 356-360.

F. PIAZZI – A. GIORDANO RAMPIONI, Multa per aequora. Letteratura, antologia e autori della lingua latina, 3. L’Alto e il Basso Impero, Bologna 2004, 153-155.