Contare alla greca

Sistema di numerazione acrofonico

Gli antichi Greci utilizzavano due diversi sistemi per scrivere i numeri. Il sistema più antico, detto “acrofonico” (da ákros, «estremo, iniziale» e phōnḗ, «voce») testimoniato soprattutto in epigrafia, era costituito da un gruppo di segni indicanti appunto l’iniziale della parola con cui venivano chiamati alcuni numeri particolarmente significativi.
Ecco di seguito un prospetto dei segni utilizzati e del loro valore numerico:

Sistema acrofonico (legenda - traslitterazione)

Nota che l’uso del segno Η per indicare il numero 100 si spiega con il fatto che la parola greca equivalente, hekatón, inizia con lo spirito aspro. Ricorda che negli alfabeti greci originari quel segno indicava appunto l’aspirazione e come tale è poi passato all’alfabeto latino.
Ai segni presenti nell’elenco va aggiunta anche l’asticella verticale I utilizzata per indicare l’unità.
Con le opportune combinazioni dei suddetti segni, ordinati sempre a partire da quelli indicanti i valori più elevati, era possibile scrivere, pur con una certa complessità, tutti i numeri compresi tra 1 (lo zero non è presente nei sistemi di numerazione degli antichi) e 100.000. Per numeri superiori si utilizzavano gli avverbi moltiplicativi in -ákis indicanti il numero di volte per il quale un determinato numero doveva essere moltiplicato.
Ecco alcuni esempi i numeri indicati secondo il sistema acrofonico:

Sistema acrofonico (calcoli)

Come è facile osservare, la lettura di questo sistema di numerazione risulta piuttosto difficile, vista la frequente necessità di ripetere più volte lo stesso segno. Immagina che in teoria il numero 900 andrebbe indicato con ΗΗΗΗΗΗΗΗΗ, che comporterebbe la necessità di leggere per ben nove volte lo stesso segno e il conseguente rischio di errore. Fu per questo motivo che spesso una sequenza di cinque segni uguali veniva indicata mediante il segno Γ (anticamente utilizzato con il valore di Π), al di sotto del quale si collocava il segno che si intendeva moltiplicato per 5.

Esempi:

• il numero 50 anziché essere scritto come ΔΔΔΔΔ era indicato di preferenza con ΓΔ;
• il numero 600 anziché con ΗΗΗΗΗΗ era segnato con ΓΗΗ.

Sistema di numerazione alfabetico

Il secondo sistema utilizzato dai Greci per scrivere i numeri si diffuse a partire dall’età ellenistica, imponendosi al punto da far cadere presto in disuso il vecchio sistema “acrofonico”. Questo nuovo sistema viene chiamato comunemente “alfabetico” perché consiste nell’uso di segni dell’alfabeto greco ai quali viene assegnato un valore numerico convenzionale determinato dalla posizione che il segno occupa nell’alfabeto.
Per codificare questi valori si rese necessario l’uso di tre segni caratteristici degli alfabeti arcaici non più presenti nell’alfabeto ionico:

Ϛ stigma, collocata tra la ε e la ζ; assumerà il valore di 6;
Ϟ coppa, (quella che sarà poi la Q nell’alfabeto latino), collocata tra la π e la ρ; assumerà il valore di 90;
Ϡ sampi, collocata tra alla fine dell’alfabeto, dopo la ω; assumerà il valore di 900.

Questi tre segni, aggiunti alle 24 lettere dell’alfabeto, andarono a formare un insieme di 27 segni che fu suddiviso in 3 sottoinsiemi da 9 elementi ciascuno.
Il primo sottoinsieme, costituito dalle lettere comprese tra α e θ, fu utilizzato per indicare sia le unità che le migliaia, distinte con questo sistema:

– le unità sono contrassegnate da un apice collocato in alto alla destra del segno (es. αʹ=1, βʹ=2, ecc..);
– le migliaia sono contrassegnate da un apice in basso a sinistra del segno (es. ͵α=1.000, ͵β=2.000, ecc..).

Il secondo gruppo di segni alfabetici, costituito dalle lettere comprese tra la ι e la Ϟ, fu usato per indicare le decine e le decine di migliaia, distinte con lo stesso criterio usato nel primo gruppo:

– le decine sono contrassegnate da un apice collocato in alto alla destra. Es. ιʹ=10, κʹ=20, ecc…
– le decine di migliaia sono segnate con un apice in basso a sinistra. Es. ͵ι=10.000, ͵κ=20.000, ecc…

Il terzo gruppo, costituito dalle lettere comprese tra la ρ e la Ϡ, fu utilizzato per segnare le centinaia e le centinaia di migliaia, contraddistinte con lo stesso criterio dei gruppi precedenti:

– le centinaia con un apice collocato in alto alla destra. Es. ρʹ=100,σʹ=200, ecc…
– le centinaia di migliaia con un apice collocato in basso a sinistra della lettera. Es. ͵ρ=100.000, ͵σ=200.000, ecc…

Ecco un prospetto dei segni alfabetici (con apice a destra) e del loro valore numerico:

Sistema alfabetico (segni con apice a destra)

cit. dal sito Voci dal mondo antico, di G. Frappa.

La “performance” in Grecia arcaica

da A. Aloni, Cantare glorie di eroi. Comunicazione e performance poetica nella Grecia arcaica, Torino 1998.

La performance è la realizzazione momentanea di un testo da parte di un singolo o di un gruppo corale di fronte a un pubblico. In quanto realizzazione di un testo, la performance non è solo un fatto comunicativo, bensì comporta sempre un tasso variabile di differenziazione da precedenti performances e di creazione da parte di un performer. Ciò vale sia lungo l’asse diacronico, sia sul piano sincronico. La performance di un medesimo testo si modifica nel tempo, ma sono diverse fra loro anche performances di uno stesso testo, che si realizzano contemporaneamente in luoghi e circostanze diverse.

Pyxis attica a figure rosse. Opera attribuita al pittore Esiodo. Il pastore Tamiri e le Muse, 460-450 a.C. ca. Boston, Museum of Fine Arts.
Pyxis attica a figure rosse. Opera attribuita al pittore Esiodo. Il pastore Tamiri e le Muse, 460-450 a.C. ca. Boston, Museum of Fine Arts.

Nel caso delle culture che non usano la scrittura per la produzione, conservazione e comunicazione dei propri testi, composizione e performance non sono altro che due diverse facce dello stesso evento. Questa situazione, che è di necessità un’ipotesi nel caso di testi tramandati solo dalla tradizione scritta, è stata verificata sperimentalmente e dimostrata dalle ricerche sul campo di molti studiosi; per il mondo greco arcaico soprattutto da Parry e Lord, e ancora recentemente da Nagy, sulla base di studi che spaziano dalle più antiche culture mediterranee e orientali alle culture tradizionali contemporanee.
La performance è inoltre un evento artistico, momento di creazione e comunicazione di testi poetici e soprattutto di coproduzione collettiva di significati estetici e pragmatici.
La performance è infine attività fisica da parte di chi la esegue. È sforzo vocale che a sua volta implica fatica fisica. Ricordiamo i versi che aprono il “catalogo delle navi” nell’Iliade (II, 484-493):

ἔσπετε νῦν μοι Μοῦσαι Ὀλύμπια δώματ᾽ ἔχουσαι·
ὑμεῖς γὰρ θεαί ἐστε πάρεστέ τε ἴστέ τε πάντα,
ἡμεῖς δὲ κλέος οἶον ἀκούομεν οὐδέ τι ἴδμεν·
οἵ τινες ἡγεμόνες Δαναῶν καὶ κοίρανοι ἦσαν·
πληθὺν δ᾽ οὐκ ἂν ἐγὼ μυθήσομαι οὐδ᾽ ὀνομήνω,
οὐδ᾽ εἴ μοι δέκα μὲν γλῶσσαι, δέκα δὲ στόματ᾽ εἶεν,
φωνὴ δ᾽ ἄρρηκτος, χάλκεον δέ μοι ἦτορ ἐνείη,
εἰ μὴ Ὀλυμπιάδες Μοῦσαι Διὸς αἰγιόχοιο
θυγατέρες μνησαίαθ᾽ ὅσοι ὑπὸ Ἴλιον ἦλθον·
ἀρχοὺς αὖ νηῶν ἐρέω νῆάς τε προπάσας.

Narratemi ora, Muse, che abitate le case d’Olimpo,
voi siete infatti dee e siete presenti e sapete ogni cosa,
mentre noi soltanto la fama ascoltiamo e nulla sappiamo –
dite chi erano i capi dei Danai e i comandanti.
Della moltitudine certo non parlerò né farò i nomi,
nemmeno se dieci lingue, dieci bocche io avessi,
e voce instancabile e, dentro, un cuore forte come il bronzo,
a meno che le Muse d’Olimpo, di Zeus portatore dell’egida
figlie, non ricordino tutti coloro che vennero sotto le mura di Ilio.
Elencherò invece i comandanti delle navi e tutte quante le navi.

(trad. it. G. Cerri)

Alcuni passaggi logici dell’invocazione sono chiarissimi, soprattutto ai vv. 491-493; in essa comunque convergono due ordini di idee: l’onniscienza delle Muse e conseguente veridicità del canto; la coscienza da parte del cantore del proprio limite fisico: dieci lingue e dieci bocche sono un ideale per il cantore, ma un ideale non raggiungibile.
In ambito di una comunicazione orale, l’efficacia del messaggio dipende per prima cosa dalla possibilità fisica del cantore di realizzarlo. Da questo punto di vista, un epinicio di Pindaro o una composizione citarodica di Stesicoro corrispondono a performances reali. Diverso è il caso dei poemi omerici nella forma in cui ci sono giunti, in quanto la loro performance è impossibile; secondo i calcoli di Notopoulos, su cui c’è un sostanziale accordo, la recitazione continua dell’Iliade richiederebbe una trentina di ore: un impegno al di là delle forze di qualsiasi cantore. Nella forma a noi conosciuta i poemi omerici sono il risultato di un’operazione diversa dalla semplice registrazione di una performance, sono già realizzazione di alcune possibilità della scrittura in una società orale […].

La nostra società assegna alla performance uno statuto ambiguo.
Noi infatti viviamo in una società multimediale, dove i diversi media sono inseriti in una gerarchia di valore. Per quanto si parli di una ripresa dell’oralità/auralità/visualità, conseguente all’imporsi di mezzi quali la televisione, o allo sviluppo di nuove forme di socialità (si pensi ai grandi meeting musicali degli anni Settanta o agli odierni concerti “multipurpose”), nonostante ciò la performance ha sempre uno statuto ambiguo, condizionato da e inferiore al testo scritto. Ne è un esempio l’uso dello spartito e del libretto fra quanti frequentano i concerti o l’opera, o l’abitudine a teatro di stampare nel programma il testo: in entrambi i casi è evidente una funzione di controllo esercitata dalla scrittura sulla performance, e quindi la collocazione del testo scritto a un livello gerarchicamente superiore a quello della sua esecuzione in performance.
Altre culture non sono in questo senso “multimediali”: in essi momento dominante, e talora esclusivo, della comunicazione verbale e collettiva è la performance.
[…] I due concetti – orale e tradizionale – definiscono aspetti diversi di una cultura, aspetti non necessariamente coesistenti. Tra oralità e tradizionalità, tuttavia, vi è una relazione stretta e diffusa; […] le possibilità che una società resti tradizionale sono connesse con una prevalenza dei media orali.
In particolare, nelle culture tradizionali è affidata alla performance la comunicazione dei testi, cioè dell’insieme delle informazioni che si depositano nella memoria collettiva non genetica di una cultura.
All’interno di ogni cultura, i testi sono, secondo una definizione di Juryi Lotman, ciò che si conserva per perpetuare nel tempo la cultura stessa.
La comunicazione dei testi, vale a dire la loro pubblicazione (nel senso letterale di messa a disposizione del pubblico), presuppone un livello di comunicazione superiore a quello della comunicazione quotidiana: superiore dal punto di vista del valore, dell’importanza e della dignità sociali. la comunicazione testuale è momento e veicolo di trasmissione dei principi e dei valori di una cultura.
La conseguenza di tutto ciò è che in una società tradizionale e orale la performance – in quanto strumento privilegiato per la comunicazione pubblica dei testi – ha uno statuto sociologico alto, anzi il più alto fra i media. Non è un medium ma il medium. A questa preminenza consegue ancora che in una società tradizionale ciò che noi chiamiamo “letteratura”, e che costituisce una gran parte dell’insieme dei testi comunicati e conservati, ha una funzione portante nel mantenersi e nel continuo farsi della cultura medesima nel tempo. Da questa connessione essenziale con il fare e l’agire deriva alla letteratura della società tradizionale un fondamentale carattere pragmatico; lungi dal costituirsi come sfera artistica autonoma, tale letteratura vive in costante collegamento con l’esistenza degli uomini, le loro azioni e i loro comportamenti.
La realizzazione di una comunicazione testuale attraverso la performance presuppone alcune caratteristiche costanti, tali che permettano di riconoscere e distinguere il testo dal non-testo, ciò che è permanente e significativo da ciò che è transeunte e accessorio. Tra queste le più importanti sono: autorevolezza, memorabilità, riconoscibilità del messaggio, cioè dei codici che caratterizzano il messaggio testuale.
A questo livello di generalizzazione possiamo pensare che queste caratteristiche non siano proprie di una specifica cultura o società, ma che possano valere per le culture tradizionali nel loro complesso. Autorevolezza, memorabilità, riconoscibilità del messaggio caratterizzano la performance indipendentemente dai modi – singolarmente e storicamente determinati – in cui queste caratteristiche hanno realizzazione pratica nei singoli contesti.
In altre parole, l’ascoltatore deve trovare all’interno del messaggio – a prescindere da chi ne sia fisicamente il portatore (un cantore, un messaggero, un banditore, ecc.) – quei tratti che gli assicurino di trovarsi di fronte a un testo, vale a dire a un messaggio i cui contenuti sono veri, tali che egli li possa assumere senza rischi nella propria esperienza e nel proprio comportamento. In una cultura letterata, questi tratti di solito sono presenti nel supporto del testo: l’editore (che può anche essere l’autorità statale, si pensi alle leggi), la qualità e le caratteristiche della stampa, ecc.: un libro “scientifico” e uno “di divulgazione” sullo stesso argomento non hanno mai, o non dovrebbero avere, la stessa veste editoriale.
Tra queste caratteristiche, particolare importanza ha la memorabilità: in assenza di scrittura, e di ogni altra forma di memoria artificiale, solo la memoria naturale permette la conservazione delle informazioni; ciò che viene dimenticato è perduto per sempre. Di qui la necessità che il testo abbia al suo interno caratteristiche tali che ne facilitino la memorizzazione e la riproduzione quanto più fedeli possibile.
A ciò occorre aggiungere che la comunicazione testuale necessita di un rapporto gerarchico fra mittente e destinatario (non tale nella realtà ma nel momento della performance) e la intercambiabilità del destinatario. La prima cosa è evidentemente correlata con l’autorevolezza della comunicazione testuale. La seconda, cioè l’intercambiabilità del destinatario, è assimilabile alla differenza che esiste per noi tra una lirica scritta sul quaderno di una persona amata e quella stessa lirica pubblicata su una rivista o un libro: il passaggio dal destinatario unico al pubblico segna l’ingresso nella testualità; il testo assume una funzione significativa per una molteplicità di persone. Un canto simposiale di Alceo sarebbe un testo sui generis, o almeno con una funzione ristretta, se esso fosse stato prodotto (in modo contemporaneo) e comunicato solo all’interno della cerchia degli amici (i sunhetaîroi, “compagni di eteria”) del poeta. Una funzione testuale ampia, paradigmatica e pragmatica, è però assicurata dal fatto che il medesimo testo continuò a essere eseguito sia a Lesbo (e per questo ci è giunto) sia, con opportuni cambiamenti, anche ad Atene.
Fin qui il nostro discorso ha valore generale: le modalità specifiche attraverso cui si realizza la testualità, e perciò anche i tratti caratterizzanti la performance nei singoli contesti culturali, dipendono invece da fattori storici per i quali è impossibile la generalizzazione.
In altre parole: anche se i fini e i caratteri di fondo sono identici, o almeno assimilabili, i singoli tratti caratterizzanti e le modalità della performance arcaica devono in prima istanza essere considerati solo casualmente simili a quelli della performance di altre culture, in altri tempi e luoghi. La possibilità di una comparazione si realizza quando la coincidenza di un congruo numero di tratti e modalità assicuri sulla non casualità dell’analogia.
Se passiamo dal piano generale al caso specifico della Grecia arcaica, occorre innanzitutto fissare alcune premesse, stabilire alcuni dati di fatto, talvolta trascurati.
Per quanto si tenti di dimostrare (o in certi casi neppure si tenti, si presupponga) l’esistenza di testi di una certa ampiezza scritti o destinati alla fruizione mediante lettura prima del VI-V secolo, è certo che prima di quella data non abbiamo nessuna traccia, né notizia, né testimonianza contemporanee e attendibili di una procedura diffusa di registrazione di testi destinati alla lettura o comunque concorrenziali con la diffusione orale.
Esemplari a questo proposito sono le conclusioni di M.S. Jensen sulla composizione e registrazione dei poemi omerici, quest’ultima realizzata, per quanto possiamo sapere, nel VI secolo ad Atene, per ragioni che poco o nulla avevano a che fare con una fruizione di poemi mediante la lettura. In una situazione di questo genere, la testualità è orale e non scritta.
In altre parole, la Grecia arcaica è una cultura sostanzialmente orale. I testi perciò non solo vengono diffusi oralmente, ma vengono conservati nella memoria naturale degli uomini.
A questa situazione pratica è sotteso un tratto culturale che connette la Grecia arcaica con altre società tradizionali e pre-letterate: fino a tutto il V secolo, i fondamenti della cultura greca sono tali da essere contraddittori rispetto a una comunicazione di tipo scritto dei contenuti culturali, cioè dei testi.
Per meglio comprendere questa affermazione, occorre soffermarsi brevemente sul concetto, già anticipato, di società tradizionale.
Una società è definibile come “tradizionale” innanzitutto perché si basa sul presupposto di un’immutabilità di fondo, nella quale i singoli componenti sono sanciti dal fatto di essere sempre stati agìti nello stesso modo, fino dai tempi antichissimi – e assiologicamente superiori – degli eroi e degli dèi, le cui azioni sono perciò esemplari. Non solo i comportamenti umani, ma anche gli assetti sociali e politici sono supposti immutabili, e qualsiasi cambiamento è consentito solo se si presenta come un “ritorno”, un necessario ripristinare la situazione antica, improvvidamente modificata dagli uomini nel tempo.
Una tale stabilità, e la sua necessità, si basano a loro volta sul concetto che presente e futuro non differiscano fra loro, né differiscono dal passato: solo la conservazione dell’identità, o meglio dell’identico nel tempo, consente alla società e agli uomini di conservarsi e preservarsi senza corrompersi, senza cadere nel gorgo dell’altro, del mostruoso e della morte.
È in tale ambito che si comprendono sia il ruolo divino della memoria, sia la funzione degli uomini che rappresentano la memoria all’interno della società: il mántis, “il veggente”, e il cantore per primi. Mnemosine, dea della memoria, è madre delle Muse attraverso Zeus, la divinità che nell’epoca arcaica si impone come divinità somma dell’Olimpo, ordinatrice del cosmo. Sono le Muse – che nel mondo divino cantano ciò che tutti gli dèi, nella loro onniscienza, conoscono – a rivelare agli uomini, e fra essi ai cantori, le vicende del passato che questi non possono conoscere. Solo la rivelazione divina, ciò che le Muse dicono al poeta, permette agli uomini di conoscere gli eventi lontani del passato; e dopo la rivelazione, solo la conservazione religiosa del patrimonio rivelato permette di non far cadere nell’oblio lo strumento fondamentale della conservazione dell’identità. Ancora più significativa è la funzione del mántis: egli non ricorda semplicemente ciò che la divinità gli ha rivelato, con l’aiuto della divinità egli vede il passato il presente e il futuro, secondo una formulazione diffusa nell’epos. I tre spazi temporali della visione divinamente guidata del mántis non si presentano come opposti o distinti, ma proprio per il principio dell’identità del reale nel tempo essi sono complanari e compresenti. E ancora una volta, compito degli uomini, e della tradizione che gli uomini trasmettono nel tempo, è la conservazione di questa identità.
Un tale assetto socio-culturale deve di necessità disporre di strumenti normativi e riproduttivi, che ne consentano la conservazione nel tempo, a fronte del mutamento che comunque è insito negli uomini e nelle cose.
L’analisi della cultura greca, come pure gli studi antropologici comparativi e dell’antropologia storica, indicano che alla base del mantenimento e della riproduzione dei fondamenti culturali di una società come quella greca più antica vi è la complessa interazione fra rito e mito. Per definire questi due aspetti interrelati del funzionamento della società greca possiamo ricorrere ad alcune formulazioni di G. Nagy e W. Burkert. Il mito «è una narrazione tradizionale che è usata come una designazione di realtà. Il mito è una narrazione applicata; il mito descrive una realtà significativa e importante che riguarda la collettività e va al di là dell’individuo». Di particolare rilievo in questa definizione è l’aggettivo “tradizionale”: come spiega Burkert, «un racconto diviene “tradizionale” non in virtù della creazione, ma grazie all’essere ripetuto e accettato». A sua volta «il rito, nel suo aspetto esteriore, è un programma di atti dimostrativi che devono essere eseguiti in una sequenza fissa, e spesso in un tempo e in un luogo fissi – sacri nella misura in cui ogni omissione o deviazione causa un’ansia profonda, e richiede delle sanzioni. Come comunicazione e imprinting sociale, il rito stabilisce e assicura la stabilità del gruppo sociale chiuso». Mito e rituale, per quanto non necessariamente connessi o dipendenti l’uno dall’altro, operano sovente in stretta e mutua connessione per assicurare il funzionamento del gruppo sociale, e trovano realizzazione concreta – a livello collettivo – nelle pratiche culturali e nella comunicazione.
In quanto forme di comunicazione, entrambe necessarie per la continuità sociale, mito e rituale tendono, al momento della loro performance – in altre parole, quando divengono testi – , a caratterizzarsi attraverso lo sviluppo e l’uso di un linguaggio che si distingua da quello proprio della comunicazione quotidiana.
G. Nagy ha mirabilmente illuminato questo punto in molti suoi lavori; traduciamo qui un passaggio di un saggio del 1989 che sintetizza una parte del suo pensiero.
La distinzione [i.e fra linguaggio testuale e quotidiano] può essere meglio compresa alla luce dell’opposizione jakobsoniana fra linguaggio “marcato” e “non marcato”. Questi termini sono stati così definiti: «Il significato generale di una categoria marcata afferma la presenza di una determinata (sia positiva sia negativa) proprietà A; il significato generale della corrispondente categoria non marcata non afferma nulla circa la presenza di A, ed è usata soprattutto, anche se non esclusivamente, per affermare l’assenza di A». La categoria non marcata è la categoria generale, che può includere quella marcata, mentre non è possibile l’inverso. Per esempio, nell’opposizione fra le parole “lungo” e “corto”, il membro non marcato dell’opposizione è “lungo”, poiché la parola può essere usata non solo come contrario di “corto” (quando diciamo “Questo è lungo, non è corto”), ma anche come una categoria generale, quando diciamo “quanto è lungo questo?”. Una domanda del genere non pregiudica nulla sul fatto che il soggetto in questione sia lungo o corto, mentre la domanda “quanto è corto questo?” lo fa.
Da una ricerca comparata, condotta su una vasta gamma di società, noi troviamo un modello generale di opposizione fra lingua marcata e non marcata. La funzione del linguaggio marcato è quella di convogliare significato nel campo del rituale e del mito.
Prima tuttavia di vedere come concretamente si realizzi nella Grecia arcaica l’opposizione fra linguaggio marcato e non marcato, quali siano insomma i tratti distintivi della lingua testuale, occorre considerare un ulteriore aspetto del funzionamento di una cultura dell’identico, un aspetto che potremmo definire come mutamento nell’identità.
La centralità culturale del principio dell’identità del reale nel tempo potrebbe sembrare contraddetta o messa in crisi dalla constatazione empirica che la realtà cambia continuamente e dal fatto che i Greci stessi avevano coscienza di ciò. Non vi è dubbio che anche in una società tradizionale, la realtà, gli assetti sociali, i sistemi politici, gli usi, le tecniche e i comportamenti siano oggetto di costante modifica e aggiornamento. La vitalità di una tradizione consiste proprio nel sapersi aggiornare costantemente e adeguare se stessa e i propri messaggi alle situazioni nuove che incessantemente – anche se con ritmi assai lenti – si producono. Ciò si realizza grazie a un meccanismo culturale di oblio del passato aberrante, fondato sull’oralità della comunicazione e nell’assenza di testi che registrino in modo univoco e permanente i dati della tradizione. È questa la situazione studiata da molti antropologi, per cui il messaggio viene costantemente riconosciuto come identico, pur modificandosi di continuo, anzi poiché si modifica di continuo ed è perciò sempre adeguato alle attese del pubblico, sempre tale da potere essere riconosciuto come vero.

Pittore di Londra D 12. Lezione di musica. Pittura vascolare su kylix attica a figure rosse, 450 a.C. ca. Walters Art Museum
Pittore di Londra D 12. Lezione di musica. Pittura vascolare su kylix attica a figure rosse, 450 a.C. ca. Walters Art Museum

Il fenomeno definito con l’espressione accattivante di «amnesia strutturale», ed è facilmente verificabile in caso di genealogie utilizzate come mezzo corrente di organizzazione sociale, territoriale e geografica di un gruppo, si tratti di una tribù, di una città o di una famiglia. Tali genealogie, tramandate e fruite oralmente, e accettate come identiche nel tempo, si modificano incessantemente, per essere sempre adeguate alla realtà di fatto.
L’esempio più evidente, e ormai canonico, è quello delle genealogie dei Tiv in Nigeria. Le genealogie, rigorosamente orali, servivano, all’inizio del secolo, per risolvere le dispute territoriali e di possesso fra la popolazione; sulla base delle storie genealogiche, era possibile riconoscere un vero e proprio catasto tradizionale. Consci di ciò, gli amministratori inglesi pensarono di registrare per iscritto queste genealogie e conservarle come documenti ufficiali. Quarant’anni dopo, due antropologi olandesi, i coniugi Bohannan accertarono che i Tiv continuarono a usare le stesse genealogie orali, di cui proclamavano la totale immutabilità nel tempo. Constatarono anche che quelle registrate quarant’anni prima, e usate dagli amministratori coloniali, erano invece fonte di continue contraddizioni e disaccordi. Alla base di ciò, vi era il fatto che le genealogie orali, continuamente aggiornate nella trasmissione e nella comunicazione, erano ormai profondamente diverse da quelle conservate negli archivi. La memoria orale è insomma un processo dinamico, culturalmente determinato.
Casi analoghi sono numerosi anche nel mondo greco: per esempio, le antiche tribù ioniche (Hopletes, Geleontes, Aigikoreis, Argates) chiaramente non derivano da nomi di eroi. Queste tribù erano inoltre molto più antiche dell’ingresso di Ione, come antenato degli Ioni, nel sistema genealogico ateniese. Tuttavia, dopo la riforma clistenica, le tribù ateniesi acquistarono degli eroi eponimi, i cui nomi (Hoples, Geleon, Aigikoreus, Argates) non erano altro che neoformazioni basate sugli antichi nomi delle tribù. E questi eroi erano annoverati fra i discendenti di Ione.
Un altro esempio viene da Sparta: a Tisameno, un indovino appartenente alla famosa stirpe augurale degli Iamidi, fu eccezionalmente concessa, al tempo delle guerre persiane, la cittadinanza spartana (Hdt., IX 33). In conseguenza di ciò, un elemento spartano fu incorporato nell’insieme dei racconti riguardanti Iamos, il capostipite ed eponimo degli Iamidi. Questo elemento ha la forma di una donna di nome Pitane, che compare nell’albero genealogico di uno Iamide, destinatario dell’Olimpica VI di Pindaro (vv. 28-34).
È chiaro che la registrazione di testi – siano essi procedure rituali o narrazioni mitiche – , la loro conservazione in archivi e biblioteche, con la conseguente possibilità di consultazione, impedirebbero l’aggiornarsi e il modificarsi dei testi medesimi, privandoli in breve tempo di ogni efficacia pragmatica.
Tuttavia, allo stesso modo in cui l’invenzione e la diffusione della scrittura non implicano un uso della tecnologia per la conservazione e la diffusione dei testi, e ancora meno per la loro composizione – questo è quanto si può ricavare dal caso greco – , analogamente l’avvenuta registrazione scritta dei testi e la loro conservazione nel tempo non segnano di per sé la fine del predominio della comunicazione orale e del carattere tradizionale di una cultura. La fine ha invece luogo quando anche la fruizione dei testi dipende dalla lettura; quando la fruizione del testo scritto, in quanto scritto, assume uno statuto superiore a quello dell’audizione collettiva.

 

Le Panatenee di Ipparco

di A. Aloni, Da Pilo a Sigeo. Poemi, cantori e scrivani al tempo dei Tiranni, Alessandria 2003, pp. 93 sgg.

Le Panatenee riformate da Pisistrato sono occasione per la performance di canti rapsodici famosi in tutta la Grecia. Di che natura fossero questi canti nella fase immediatamente successiva alla riforma del 566 non possiamo essere certi. È comunque assai probabile che fossero canti già appartenenti a una fase panellenica, proprio perché la festa sembra riformata avendo come riferimento le grandi feste panelleniche.
La principale testimonianza della riforma è fornita dal dialogo pseudo-platonico a lui intitolato (Ps.-Plat., Hipparch. 228bc):

Ἱππάρχῳ, ὃς τῶν Πεισιστράτου παίδων ἦν πρεσβύτατος καὶ σοφώτατος, ὃς ἄλλα τε πολλὰ καὶ καλὰ ἔργα σοφίας ἀπεδείξατο, καὶ τὰ Ὁμήρου ἔπη πρῶτος ἐκόμισεν εἰς τὴν γῆν ταυτηνί, καὶ ἠνάγκασε τοὺς ῥαψῳδοὺς Παναθηναίοις ἐξ ὑπολήψεως ἐφεξῆς αὐτὰ διιέναι, ὥσπερ νῦν ἔτι οἵδε ποιοῦσιν.

a Ipparco, che era il più anziano e sapiente tra i figli di Pisistrato. Egli, oltre a fornire molte altre belle prove della sua sapienza, portò per primo in questa terra anche i poemi di Omero, e obbligò i rapsodi a recitarli durante le Panatenee, dandosi il cambio e in sequenza, come fanno ancora oggi.

(trad. it. M.L. Gatti)

Pittore Eufileto. Corsa a piedi con quattro atleti. Pittura vascolare da un’anfora panatenaica a figure nere, fine VI sec. a.C. ca., dall’Italia meridionale. London, British Museum.
Pittore Eufileto. Corsa a piedi con quattro atleti. Pittura vascolare da un’anfora panatenaic a a figure nere, fine VI sec. a.C. ca., dall’Italia meridionale. London, British Museum.

 

Anzitutto Ipparco fu il primo a portare in Attica tà Omḗrou épē. La nostra fonte non precisa ulteriormente quali fossero questi poemi; certamente erano quelli diffusi nelle occasioni panelleniche da quei rapsodi che si proclamavano discendenti di Omero e detentori unici e veritieri delle parole rivelate dalle Muse all’antico poeta. Si trattava di un oggetto di pregio e di prestigio, la cui performance tornava a gloria della città e del tiranno che la governava. Il valore – se vogliamo la timḗ – di questi poemi è rivelato dalla notizia (Hippostr. FGrHist 568F5) secondo cui Cineto di Chio fu il primo a recitare tà Omḗrou épē a Siracusa fra il 504 e il 501.
Inoltre Ipparco impose ai rapsodi di recitare le loro storie – in verità lo Pseudo-Platone usa il verbo díeimi, cioè «percorrere», che implica una sorta di movimento attraverso qualcosa di precostruito, e rende assai ben la procedura compositiva in performanceex upolḗpseōs ephexēs, cioè «dandosi il cambio e in sequenza», secondo una modalità ancora operante al tempo della composizione dell’Ipparco. I rapsodi, in altre parole, non potevano raccontare ognuno una sezione degli épē di Omero a loro scelta, ma dovevano narrare una storia continua, dandosi il cambio in una sorta di staffetta poetica.
La riforma di Ipparco dovrebbe collocarsi intorno al 530, anche se non tutti sono d’accordo nel ritenerne accertata la storicità. In effetti, Diogene Laerzio (I 57), citando lo storico megarese Dieuchida (FGrHist 486F6) attribuisce l’introduzione della performance a staffetta a Solone: «(Solone) fece una legge secondo la quale i canti di Omero dovevano essere recitati a staffetta, in modo che dove il primo terminava, da lì doveva cominciare il secondo. Dunque Solone fece maggiore luce su Omero di Pisistrato, come dice Dieuchida nel quinto libro delle sue Storie megaresi».
Nagy ritiene che entrambe le versioni siano valide da un punto di vista storico, perché entrambe forniscono una spiegazione della specifica modalità di performance introdotta nel VI secolo a.C. ad Atene. Si tratterebbe insomma di un mito eziologico, formatosi a partire da una realtà di fatto, cioè la staffetta dei rapsodi.
Ciò che conta, comunque, è che negli ultimi decenni del VI secolo ad Atene non solo venivano recitati dai rapsodi alle Panatenee gli épē  di Omero, ma che i cantori, dandosi il cambio, producevano un testo – orale di dimensione e complessità inusitate rispetto all’abituale pratica rapsodica.
La “regola panatenaica” dovette essere una novità talmente importante e significativa, che di essa è possibile individuare almeno due riflessi nei poemi omerici. Quando l’ambasceria giunge alla tenda di Achille, trova l’eroe impegnato in una performance poetica (Il. IX, 185 -191):

Μυρμιδόνων δ᾽ ἐπί τε κλισίας καὶ νῆας ἱκέσθην,
τὸν δ᾽ εὗρον φρένα τερπόμενον φόρμιγγι λιγείῃ
καλῇ δαιδαλέῃ, ἐπὶ δ᾽ ἀργύρεον ζυγὸν ἦεν,
τὴν ἄρετ᾽ ἐξ ἐνάρων πόλιν Ἠετίωνος ὀλέσσας·
τῇ ὅ γε θυμὸν ἔτερπεν, ἄειδε δ᾽ ἄρα κλέα ἀνδρῶν.
Πάτροκλος δέ οἱ οἶος ἐναντίος ἧστο σιωπῇ,
δέγμενος Αἰακίδην ὁπότε λήξειεν ἀείδων.

E giunsero alle tende e alle navi dei Mirmidoni,
e lo trovarono che con la cetra sonora si dilettava,
bella, ornata; e sopra vi era un ponte d’argento.
Questa, quando abbatté la città di Eezione, scelse per sé fra le spoglie;
si dilettava con essa, cantava glorie di eroi.
Patroclo solo, in silenzio, gli sedeva dirimpetto,
spiando l’Eacide, quando smettesse il canto.

Non siamo in presenza di una performance rapsodica perché, come sempre nei poemi, l’immagine riflessa del rapsodo attuale nel mondo eroico è quella di un cantore che accompagna il suo canto con la cetra. Il ruolo di Patroclo non è però quello di un passivo, o anche partecipe, ascoltatore. Egli stesso è parte della tradizione d’imprese gloriose condivise con Achille; per questo attende che il compagno interrompa il suo canto per subentrargli […].
Ulteriore traccia della performance panatenaica si trova all’inizio dell’Odissea; il cantore, dopo la presentazione della materia del suo canto, cioè le vicissitudini di Odisseo legate al ritorno, torna a rivolgersi alla Musa (Od., I 10):

τῶν ἁμόθεν γε, θεά, θύγατερ Διός, εἰπὲ καὶ ἡμῖν.

di queste cose, da un punto qualsiasi, dea, figlia di Zeus, dì anche a noi.

L’avverbio amòthen, un unicum in Omero, introduce una prospettiva autoriflessiva che non è delimitata solo a un compiacimento per la propria abilità compositiva. È invece probabile che qui il cantore celebri la propria capacità (certo anch’essa dono della Musa) di iniziare il racconto da un punto qualsiasi, corrispondente al momento in cui il precedente cantore ha concluso la propria performance. L’abilità con cui il cantore è fiero viene, secondo un usuale procedimento, proiettata al di là, e in questo caso al di sopra, del cantore stesso. Possiamo in definitiva osservare una sorta di regressione temporale della performance panatenaica, cui corrisponde anche un costante innalzamento di livello assiologico. Lo Pseudo-Platone e Dieuchida (o meglio la sua fonte attica) collocano la performance a staffetta al tempo di Pisistrato e Solone, cioè nel tempo lontano degli antenati; l’Iliade proietta nel tempo degli eroi, e l’Odissea la colloca infine nel mondo divino.
Solo nel contesto della performance panatenaica diventa possibile pensare a poemi di dimensione incommensurabile con la performance naturale e normale di un cantore. La narrazione a staffetta dà luogo – a livello orale – a una struttura monumentale che non è immaginabile a partire da una successione slegata di performance di cantori diversi, ognuno dei quali sviluppa un diverso episodio, in sé concluso.
A questo punto, Omero diventa non solo famoso, ma anche grande. West ha mostrato come il nome di Omero si imponga a partire dal 520 a.C. ca. Possiamo sospettare che questo non si leghi solo all’affermazione degli épē di Omero nei contesti panellenici, ma che derivi anche da una particolare evoluzione della tradizione che si rifaceva al suo nome. La norma panatenaica caratterizza in modo unico e peculiare la tradizione omerica rispetto alle altre.
L’esistenza di un testo scritto degli épē di Omero anteriore alla riforma panatenaica è molto discussa, ma in definitiva possibile, a due secoli dall’introduzione della scrittura in Grecia, e con il fiorire – a partire dall’inizio del VI secolo – dal commercio con l’Egitto, produttore unico del papiro, il principale materiale scrittorio. Occorre però interrogarsi sulla natura di questi testi. In assenza di una fruizione della poesia attraverso la lettura, questi scritti dovevano avere a che fare con il mondo dei rapsodi e con le loro performance. Quale ne fosse la funzione (anche di aiuto per la performance), difficilmente la loro forma, dimensione e complessità saranno state diverse da quella che le performance anteriori e diverse da quella panatenaica presupponevano. Le notizie, di varia antichità e autenticità, relative a operazioni di scrittura di testi poetici appaiono tutte riguardare testi di limitata estensione, compatibili con una performance rapsodica. È il caso dell’Inno ad Apollo che, testimone il Certamen (18 p. 44, 21-27 Wilamowitz = ll. 315-21 Allen), gli abitanti di Delo avrebbero fatto scrivere su una tavola di legno e avrebbero dedicata nel tempio di Artemide. I Beoti che abitavano intorno all’Elicona, a loro volta, indicarono a Pausania (IX, 31, 4) una tavola di piombo (uno strano materiale per una dedica) con inciso il testo delle Opere e giorni di Esiodo: di quale antichità non è dato sapere. Lo storico Gorgon (FGrHist 515F18) riferisce che l’Olimpica VII di Pindaro fu dedicata, scritta a lettere d’oro, nel tempio di Atena Lindia.

La scrittura, sotto qualsiasi forma, di un poema monumentale è altra cosa. Essa diventa possibile solo a partire dalla recitazione panatenaica che, a livello orale, fornisce il modello di un tale poema, senza tuttavia che l’esistenza di un tale modello sia la causa diretta della registrazione scritta.
In altre parole, la norma panatenaica non dipende dall’esistenza di un testo già fissato e messo per iscritto dei poemi, che non esistono in una dimensione monumentale: questa dimensione è conseguenza della norma stessa. D’altra parte la registrazione scritta non può neppure essere considerata una conseguenza diretta della norma panatenaica. In una cultura tradizionale non esiste necessità di una registrazione scritta di un testo, la cui esistenza è sempre e comunque resa possibile dalla realizzazione in performance. La scrittura è qualcosa di diverso, le cui ragioni vanno cercate fuori o oltre la fruizione del testo. Inoltre, a differenza di quanto ho pensato per anni, ritengo ora poco realistica l’idea di un testo scritto prodotto per servire da copione o anche solo per controllare le performance panatenaiche.
West, che sostiene la tesi di una scrittura molto antica dei poemi, ritiene possibile che il testo scritto dei poemi fosse conservato: dalla famiglia del poeta; da una comunità di rapsodi (gli Omeridi di Chio); in un tempio come oggetto dedicato. Delle tre possibilità, l’unica che abbia un qualche sostegno dalle fonti è la terza, la dedica in un tempio. Ai casi già ricordati – Inno ad Apollo, Opere e giorni, Olimpica VII di Pindaro – occorre aggiungere che Eraclito dedicò la sua opera nel tempio di Artemide a Efeso.
Vi è un tratto comune in tutte queste dediche: la scrittura materializza qualcosa che materiale non è, e rende possibile l’offerta e la dedica al dio. La performance, infatti, produce un testo che esiste solo nel momento e nel luogo della performance medesima. Nei santuari e nelle città del VI secolo le performance dei canti panellenici sono oggetti di valore, che sono però assai difficili da esibire (a differenza, per es. di una mitria di Sardi, bramata da Cleide, figlia di Saffo [fr. 98 Voigt]), per attestare la fama e il valore di chi li possiede. Come possessore dei canti non intendo il cantore, che è in grado di esibirsi in qualsiasi momento, bensì il committente – sia esso una città, un tiranno o un altro potente – che ingaggia e attira presso di sé un grande cantore, capace di una performance eccezionale. Per altri generi poetici la soluzione più ovvia consiste nell’invitare e trattenere, dietro lauti compensi, il poeta alla propria corte, nella città, ecc.
Per la performance panatenaica questo non è possibile. Per quanto sappiamo, la norma panatenaica valeva solo per le competizioni rapsodiche delle Grandi Panatenee, cioè ogni quattro anni. L’eccezionalità e il valore del testo (orale) prodotto alle Panatenee derivavano dall’azione sequenziale di numerosi rapsodi. L’esibizione non temporanea del testo panatenaico richiedeva perciò qualcosa di nuovo. E questo consistette, credo, in una registrazione scritta di un testo paragonabile, per quantità e qualità, a quello panatenaico.

Il latino che parliamo

di S. Novelli, Oricla non Auris: volgare batte classico, in Treccani.it – L’Enciclopedia italiana.

Da dove viene l’italiano? «L’italiano deriva dal latino». Dietro la formuletta c’è spessore e complessità di storia.
Innanzi tutto: di quale latino stiamo parlando? Non del latino che si studia a scuola, quello classico di Cesare e di Cicerone. Le lingue romanze, parlate oggi in gran parte dei territori che fecero parte dell’Impero romano duemila anni fa, non derivano in linea diretta dal latino classico. Derivano da quello che gli studiosi hanno definito – pur consci dell’approssimazione – latino volgare, il latino cioè parlato dal volgo, dalla gente comune, quale era venuto atteggiandosi nell’età della decadenza.
Intorno al I secolo a. C., la situazione è ancora chiara: da una parte il latino classico, che rappresenta la norma; dall’altra, il latino parlato che va dal colto sermo urbanus delle classi cittadine più elevate fino alla lingua corrente, meno sorvegliata, del popolino, dei soldati, del contado. I due poli sono interni a un sistema condiviso, dotato di una medesima grammatica. Si tratta di varietà di un’unica lingua. La gente del popolo poteva accorrere in tribunale per ascoltare l’arringa di un celebre oratore e, sebbene incapace di capire tutte le colte o tecniche parole che sentiva, era comunque in grado di cogliere bene il senso del discorso.

Codice dell'Appendix Probi (particolare - i numeri 121-131).
Codice dell’Appendix Probi (particolare – i numeri 121-131).

Con l’allargarsi dell’impero e l’allentarsi dei vincoli centralistici, le forze centrifughe di differenziazione interna della lingua si irrobustiscono. A partire dal II secolo d. C., fenomeni che il latino già covava dentro di sé e che ogni tanto erano affiorati alla luce, ma isolati, privi di energia di rottura, ora prendono vigore. È il caso della M finale non più pronunciata, fatto già testimoniato nell’iscrizione funeraria, in latino ancora arcaico (256 a. C.), del console L. Cornelio Scipione Barbato: … DUONORU OPTUMU FUISE UIRO (bonorum optimum fuisse virum). Oppure è il caso, nella pronuncia informale, anche sulle labbra delle persone colte, della caduta della N nel nesso -NS-: ci dice il grammatico Velio Longo che Cicerone pronunciava ortesia e non ortensia, megalesia e non megalensia (e da mense(m) avremo mese in italiano).
Uno tra i fattori decisivi è la crisi del sistema vocalico fondato sulla quantità. Prende piede l’abitudine di pronunciare le vocali brevi come aperte, quelle lunghe come chiuse; abitudine che trova rinforzo nell’influenza esercitata dalle lingue originarie dei popoli conquistati da Roma (lingue di substrato), le quali ignoravano le distinzioni quantitative. Sant’Agostino, africano di Ippona, scrive che «le orecchie di un africano non conoscono la distinzione tra vocale lunga e vocale breve».
Si può dire, generalizzando, che tendenze linguistiche popolareggianti e periferiche s’impongono con decisione a danno della norma centralistica del latino urbano a partire dalla creazione dei regni romano-barbarici, accelerando la frantumazione del sistema-lingua latino e favorendo il processo che porterà, passo dopo passo, alla nascita delle lingue romanze, cioè di sistemi-lingua autonomi dal latino (volgare), che viene soppiantato.
Iscrizioni epigrafiche; scritte e graffiti murali (famosi quelli di Pompei); lingua letteraria di autori che amano riecheggiare la lingua latina popolare, antica (Plauto) o più tarda (Petronio); testi di carattere tecnico, la cui lingua è infiltrata di voci e modi del linguaggio corrente: queste le fonti che ci permettono di farci un’idea più precisa del latino volgare, alle quali s’aggiunge la comparazione tra parole “sorelle” delle lingue romanze, che consente spesso di ricostruire per congettura la forma del latino volgare che le incubò. Qui riproduciamo una piccola porzione di una lista di parole nota come Appendix Probi, così chiamata perché nel codice che la riporta essa segue l’opera di un grammatico del III-IV secolo d.C. di nome Probo. La lista è composta di 227 parole, forme, grafie errate che un maestro censura confrontandole con le forme corrette, a scopo didattico. Eccone alcune.

speculum non speclum
vetulus non veclus
columna non colomna
frigida non fricda
turma non torma
solea non solia
auris non oricla
oculus non oclus
vinea non vinia
viridis non virdis

Dunque il maestro non è contento di come i suoi allievi pronunciano e, probabilmente, scrivono certe forme. A distanza di quasi due millenni, le indicazioni di quest’anonimo scrupoloso insegnante per noi sono preziose. Ci mostrano che certi errori, per il fatto d’essere sistematici, lasciano trasparire mutamenti nella grammatica reale del latino adoperato ogni giorno. Mutamenti che, in molti casi, sono già indirizzati verso esiti che verranno accolti nelle lingue romanze. Insomma, abbiamo le prove di una transizione in atto. Per esempio, nei trisillabici proparossitoni (sdruccioli, con l’accento sulla terz’ultima sillaba) come SPECULUM, VETULUS, FRIGIDA, OCULUS, VIRIDIS, cade la vocale postonica. Con l’andare del tempo – si parla di secoli – i nessi di consonante + L (-CL-, -TL-, ecc.) daranno luogo a consonante + IOD: da OCLUS a occhio, da VETLUS (con velarizzazione della dentale T) a vecchio, da SPECLUS a specchio. In VINIA e SOLIA abbiamo la chiusura della prima vocale in iato, che, oltre al raddoppiamento della nasale N e della laterale L, produrrà poi la palatalizzazione delle due consonanti (vigna, soglia). In COLOMNA c’è già stato il passaggio da U breve tonica a o chiusa in sillaba implicata (seguirà l’assimilazione regressiva di M a n), in VIRDIS e FRICDA (in italiano, poi, fredda) la I breve tonica non ha ancora dato e chiusa in sillaba implicata. Interessante ORICLA, da un precedente AURICULA(M). Intanto, notiamo che per significare ‘orecchia’, il latino volgare ha abbandonato la forma classica AURIS, sostituendola con il suo diminutivo. Si tratta di un fenomeno che prolifera, la lingua parlata preferisce le forme più espressive. In ORICLA/AURICULA leggiamo già l’italiano orecchia (altro esempio: l’italiano agnello prosegue il diminutivo AGNELLUS e non il classico AGNUS). Inoltre, ORICLA ha già il monottongamento di AU (vedi anche CAUSA che darà cosa, AURU(M) che darà oro) e la già descritta caduta della vocale postonica.

Moda maschile a Roma

di A. Angela, Una giornata nell’Antica Roma. Vita quotidiana, segreti e curiosità, Milano 2007.

[…] Come si vestono i Romani? Siamo abituati a vederli, in film e sceneggiati, avviluppati in toghe colorate simili a lunghi lenzuoli. Ma è sempre così? In effetti, la prima sensazione è che questi indumenti siano scomodi e impaccino i movimenti, impedendo di correre, di salire le scale o anche semplicemente di sedersi senza rimanere impigliati da qualche parte. In realtà, sono comodi. Anzi, in epoca moderna c’è ancora chi si veste così: se andate in India e in molti altri Paesi asiatici, e arabi, troverete una moda tradizionale in fondo non molto diversa da quella dei Romani, basata su vesti lunghe, tuniche, sai e sandali. È solo una questione di abitudine.
Cominciamo dalla biancheria intima. I Romani portano le mutande? La risposta è sì. In realtà non si tratta di mutande vere e proprie, ma di una specie di perizoma di lino, chiamato subligar, che si annoda intorno alla vita e fascia le parti intime.
Vi stupirete di sapere che non sempre è la prima cosa che si indossa la mattina. È abbastanza diffusa, infatti, l’abitudine di non spogliarsi per andare a letto, ma di andarci semivestiti; ci si toglie il mantello, lo si getta su una sedia (o lo si usa come una coperta) e si rimane solo con il perizoma e la tunica. È così che si si infila nel letto: la tunica che si è indossato durante la giornata funzionerà anche da “pigiama”. A noi può sembrare un’abitudine poco igienica, ma in fondo è quello che si faceva fino al secolo scorso nelle nostre campagne. Con una differenza: i Romani sono molto più puliti, perché vanno ogni giorno alle terme. Quindi, ci si è lavati a fondo qualche ora prima di andare a letto. Il solo problema è che i vestiti rimangono sporchi.
Il capo d’abbigliamento di base della moda romana è la famosa tunica. C’è un modo per capire la sua praticità. Immaginate di infilarvi una maglietta lunga fino alle ginocchia (diciamo una XXL), che poi si stringe in vita con una cintura. Ebbene, con le dovute differenze, la tunica è qualcosa di molto simile.
È davvero sorprendente vedere come anche noi, in fondo, continuiamo a utilizzare (soprattutto d’estate) una soluzione nata nell’antichità. Le diamo solo un nome diverso: T-shirt.
Naturalmente i materiali non sono gli stessi. Se noi usiamo il cotone, un Romano invece usa di solito il lino, oppure la lana. Una lana non tinta, che ha una tonalità beige intensa: è la colorazione giusta per mascherare le macchie e la polvere.
Il lino ha una particolarità: viene prodotto e tessuto soprattutto in Egitto da dove è poi esportato in tutto l’Impero. Quindi ogni Romano, un po’ come noi, si veste con indumenti prodotti in Paesi lontani, fenomeno che è il risultato della prima grande globalizzazione della Storia, quella avvenuta nel Mediterraneo a opera di Roma. […]
La tunica va bene per qualunque occasione: la si usa come camicia da notte, come sottoveste per la toga, o come abito vero e proprio nelle classi più umili. In effetti un povero, dopo averla indossata, si infila i sandali ed esce di casa. Un ricco, no: perché è questo il momento in cui deve vestire l’indumento più importante dei cittadini romani, la toga.
Potremmo definirla la “giacca e cravatta” dell’epoca, cioè un indumento di rappresentanza per mostrarsi in pubblico, soprattutto nelle occasioni importanti.
È stata usata fin dai tempi più antichi, e ha conosciuto una vera e propria evoluzione. Inizialmente aveva dimensioni ridotte, poi è diventata sempre più grande: distesa per terra ha la forma di un semicerchio (di lana o lino) di sei metri di diametro!
Non stupisce quindi che per indossare la toga sia spesso necessario l’aiuto di uno schiavo. Come sta accadendo ora al nostro dominus (fig. 1). E questo ci permetterà di capire come s’indossa.
Il padrone è in piedi, immobile, lo sguardo fisso all’orizzonte. Lo schiavo gli poggia la toga sulle spalle quasi fosse una coperta, avendo cura però di non centrarla perfettamente, ma di lasciare un lembo più lungo su uno dei lati, che scende fino a terra. Con delicatezza raccoglie questo lembo e lo passa sotto un’ascella facendogli fare un giro sul torace fino al collo, come una bandoliera. Poi, a mo’ di sciarpa gli fa fare un ampio giro intorno al collo e lo fissa con una spilla all’altezza della clavicola. Ma non basta: il lembo è ancora così lungo che ci vuole un altro giro intorno al corpo, infilandolo sotto i giri precedenti. Alla fine, lo schiavo si allontana per dare uno sguardo generale. È soddisfatto. Il suo padrone è molto elegante, soprattutto per il gioco di pieghe che gli danno nobiltà. Un braccio è libero, mentre l’altro è semicoperto dal drappeggio e il dominus deve tenerlo sempre un po’ sollevato per evitare che la toga strusci per terra e si sporchi. È un po’ scomodo ma ci si fa presto l’abitudine.

(fig. 1) Il "dominus" si fa aiutare da un servo per indossare la toga. Immagine di L. Tarlazzi.
(fig. 1) Il “dominus” si fa aiutare da un servo per indossare la toga. Immagine di L. Tarlazzi.

La toga è davvero un simbolo della cultura e della civiltà di Roma. Solo i cittadini romani possono indossarla, ed è invece vietata agli stranieri, agli schiavi o ai liberti (gli schiavi resi liberi). Le toghe, quasi fossero delle uniformi, seguono un vero “codice sociale”: hanno nomi diversi a seconda di chi le porta e dell’uso che se ne fa. Ad esempio, quelle bianche bordate di una banda color porpora, dal significato protettivo (toga prætexta), sono indossate dai senatori e dai ragazzi fino ai quattordici/quindici anni. A quell’età un ragazzo l’abbandona con un’importante cerimonia. È un rito di passaggio che segnala la fine dell’adolescenza. Da questo momento il ragazzo è “ufficialmente” adulto, cioè abile alle armi e alla vita pubblica.
E i pantaloni? Non se ne vedono molti in giro. I pantaloni in effetti sono un indumento estraneo alla cultura romana e mediterranea. All’epoca di Traiano (98-117 d.C.) li indossavano solo i legionari. Ma sono dei modelli “corti” aderenti, che terminano poco sotto il ginocchio. In realtà, i pantaloni esistono, ma li indossano solo i nemici di Roma, i barbari, che li hanno “inventati”: sono le popolazioni celtiche e germaniche, a nord, e i Parti, a oriente, nell’attuale Iran. Ma non sarà sempre così. Nel giro di centocinquant’anni, i pantaloni “conquisteranno” Roma per la loro comodità e diventeranno parte integrante della moda romana. […]
Curiosamente i Romani non usano le calze (tranne a nord dove la rigidità del clima impone delle protezioni ai piedi), quindi appena tolte le scarpe restano a piedi nudi.
Esistono tanti tipi di scarpe: chiuse come degli stivaletti, aperte come i sandali, con tante strisce di pelle oppure con tanti piccoli “tacchetti”, veri e propri chiodi sulla scuola per una presa migliore (sono le famose caligæ, usate dai legionari) e così via.
Per la vita a Roma, i calcei, chiusi come dei mocassini, sono certamente le calzature preferite da tanti Romani benestanti, ma in casa difficilmente li indossano. Sapete perché? Il bon ton impone, quando si entra in casa, di togliersi le scarpe che si sono usate in strada: così nella domus si circolava con semplici sandali dalla suola di cuoio o di sughero. Quando si va da amici, li si porta dietro, perché ovviamente la stessa regola vale a casa loro.