«Non abbiamo poco tempo, ne perdiamo molto» (Sᴇɴ. 𝐷𝑖𝑎𝑙. X 1)

da F. PIAZZI, A. GIORDANO RAMPIONI, Multa per aequora. Letteratura, antologia e autori della lingua latina, 3. L’alto e il basso Impero, Bologna 2004, p. 118; e da A. BALESTRA et al. (eds.), In partes tres. 3. L’età imperiale, Bologna 2016, pp. 76-78.

Il dialogo De brevitate vitae rappresenta uno degli scritti in cui più chiaramente si trova l’indicazione dei primi passi che un uomo deve compiere, quando vuole mettersi in cammino per raggiungere una stabile e duratura condizione di felicità. Seneca si rivolge a Paolino, dedicatario dell’opera e suo suocero (padre di Paolina, che Seneca sposò nel 49 d.C.); il lessico è privo di tecnicismi, ma l’autore si serve della comprensione e dell’affetto necessari verso chi pare necessitare dei primi rudimenti della filosofia. Nell’esordio del dialogo si trova un assunto fondamentale: è necessario convincersi che la vita di ciascun uomo, per quanto possa risultare paradossale, è lunga a sufficienza per raggiungere la felicità. Il punto sarà capire come distribuire il proprio tempo.

Mosaico raffigurante un uomo che guarda una meridiana; l’epigrafe cita: ἐνάτη παρήλασεν («la nona è passata»). Durante la giornata degli antichi la nona era la terza ora prima del tramonto e segnava la fine di ogni attività lavorativa o pubblica. IV sec. d.C. da Daphne (Turchia). Antakya, Museo Archeologico.

[1] Maior pars mortalium, Pauline, de naturae malignitate conqueritur, quod in exiguum aeui gignimur, quod haec tam uelociter, tam rapide dati nobis temporis spatia decurrunt[1], adeo ut exceptis admodum paucis[2] ceteros in ipso uitae apparatu uita destituat. Nec huic publico, ut opinantur, malo turba tantum et inprudens uulgus ingemuit: clarorum quoque uirorum hic adfectus querellas euocauit. Inde illa maximi medicorum[3] exclamatio est, «uitam breuem esse, longam artem»[4]; [2] inde Aristotelis cum rerum natura exigentis minime conueniens sapienti uiro lis[5] est: «aetatis illam animalibus tantum indulsisse[6] ut quina aut dena[7] saecula educerent, homini in tam multa ac magna genito tanto citeriorem terminum stare[8]».

[3] Non exiguum temporis habemus, sed multum perdimus[9]. Satis longa uita[10] et in maximarum rerum consummationem[11] large data est, si tota bene conlocaretur[12]; sed ubi per luxum ac neglegentiam diffluit[13], ubi nulli bonae rei[14] inpenditur, ultima demum necessitate cogente[15] quam ire non intelleximus transisse sentimus[16]. [4] Ita est: non accipimus breuem uitam sed facimus nec inopes eius sed prodigi sumus[17]. Sicut amplae et regiae opes, ubi ad malum dominum peruenerunt, momento dissipantur[18], at quamuis modicae, si bono custodi[19] traditae sunt, usu crescunt[20], ita aetas nostra bene disponenti multum patet[21].

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[1] La maggior parte dei mortali, Paolino, si lamenta per la malignità della natura, perché siamo messi al mondo per un breve spazio di tempo, perché questo lasso a noi concesso trascorre così velocemente, così in fretta che, tranne pochissime persone, la vita pianta in asso gli altri proprio nel momento in cui si preparano alla vita. Né di tale comune calamità, come credono, si è lamentata solo la gente e il popolo ignorante; questo sentimento ha suscitato le lamentele anche dei personaggi illustri. Da qui deriva la famosa sentenza del più grande fra i medici: «La vita è breve, l’arte lunga»; [2] di qui la controversia, poco decorosa per un saggio, di Aristotele, che si mette a discutere con la natura: «Ha concesso agli animali tanto tempo, che possono vivere ciascuno cinque o dieci generazioni, mentre un termine tanto più breve è stato riservato per l’uomo, nato per azioni tanto numerose e grandi».

[3] Noi non disponiamo di poco tempo, ma ne perdiamo molto. La vita è sufficientemente lunga e ci è stata data con larghezza per la realizzazione delle imprese più grandi, se fosse messa a frutto tutta intera con attenzione; ma quando essa scivola via nel lusso e nell’indifferenza, quando non viene spesa per nulla di buono, una volta che l’ora estrema ci incalza, ci accorgiamo che è trascorsa quella che non abbiamo capito che stava passando. [4] Già: non riceviamo una vita breve, ma breve l’abbiamo resa noi, e non ne siamo poveri, ma prodighi. Come sontuose e regali ricchezze, venute in mano a un cattivo padrone, sono dissipate in un attimo, mentre, benché modeste, se sono state affidate a un buon amministratore, crescono con l’impiego, così la nostra vita molto si estende, per chi la sa bene organizzare.

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Un breve dialogo d’occasione

Secondo la maggior parte degli studiosi, il De brevitate vitae fu composto nel 49 d.C., poco dopo il ritorno dall’esilio, quando a Seneca non era ancora giunta la chiamata a corte come precettore di Nerone. Il libello, assai breve (20 capitoletti), pare inserirsi nella scia delle numerosi opere filosofiche che, a partire dall’inizio dell’Ellenismo, riflettevano su come utilizzare positivamente il tempo della vecchiaia e che prendevano di solito le mosse da considerazioni sulla brevità della vita umana: nella letteratura latina, per esempio, sullo stesso tema si legge il Cato Maior de senectute di Cicerone. L’apparente garbato manierismo dell’opera senecana viene però smentito dal fatto che, sviluppando la tesi iniziale, il filosofo giunge, nei capitoli centrali dell’opera, a conclusioni sul valore del tempo assai importanti, che sarebbero rimasti fondamentali nel suo pensiero.

La scelta dell’argomento dipende probabilmente dall’occasione in cui l’opuscolo fu redatto: Seneca, sulla soglia dei cinquant’anni, risolte le travagliate vicende che lo avevano portato in esilio, forse pensava di ritirarsi a vita privata, come il dedicatario Pompeo Paolino, suo suocero, di poco più anziano di lui; è probabile, infatti, che anche Paolino proprio allora intendesse lasciare il delicato – e lucroso – incarico di prefetto dell’annona (l’ufficio incaricato di rifornire l’Urbe delle derrate necessarie alle distribuzioni di olio, vino e frumento alla plebe).

Una brillante conferenza

L’andamento del De brevitate vitae sembra richiamare le caratteristiche dei testi che gli oratori predisponevano per le recitazioni: vere e proprie conferenze, spesso tenute in ambito privato. In questo testo, infatti, si può riconoscere una veste retorica abilmente studiata, che si muove su due piani, quello stilistico e quello concettuale.

A livello stilistico, sono particolarmente curate la scelta e la disposizione delle parole. Anche solo soffermandoci sull’esordio, si notano espressioni di tono epico, come il sostantivo mortalium per «uomini» (I 1) e le perifrasi exiguum aeui e dati… temporis spatia, ma anche le insistenze su termini affini etimologicamente (decurrant e destituat, conqueritur e querellas, malignitate e malo) o semanticamente (aeui e temporibus). La letterarietà del passo è evidente anche nel richiamo all’incipit del Bellum Iugurthinum di Sallustio (Falso queritur de natura sua genus humanum, quod inbecilla atque aevi brevis forte potius quam virtute regatur, Jug. 1). Particolarmente cara a Seneca è anche l’abitudine di evitare parallelismi troppo evidenti, variando un elemento del costrutto, come si evidenzia nell’alternanza di indicativo e di congiuntivo nelle due brevi causali iniziali (gignimur… decurrant, con variatio anche della persona). Infine, si può notare l’antitesi brevem / longam (1, 1) messa in evidenza dal chiasmo vitam brevem… longam artem, assente nell’originale greco di Ippocrate, Aph. 1, 1: ὁ βίος βραχὺς, ἡ δὲ τέχνη μακρὴ.

Argomentare per induzione

Dal punto di vista concettuale, si può notare che il testo, proprio perché probabilmente pensato per un’agile conferenza, non si sviluppa mediante argomentazioni rigorosamente fondate sul processo logico deduttivo, ossia non procede per sillogismi con la deduzione di verità particolari da assunti generali: Seneca sceglie di agire più sulla sfera emotiva che su quella razionale dell’ascoltatore. Dopo aver evidenziato la tesi con un’icastica sententia (procedimento frequente nelle sue opere) a 1, 3 (Non exiguum temporis habemus, sed multum perdidimus), l’oratore “martella” l’ascoltatore replicando il concetto con leggere variazioni (Satis longa vita et in maximarum rerum consummationem large data est, 1, 3; non accipimus brevem vitam sed fecimus, 1, 4).

Le sententiae hanno tutte una natura vagamente paradossale, ne senso che sembrano in contrasto con quella che potrebbe essere l’opinione comune. L’uso di paradossi, oltre a essere caratteristico della scuola stoica e richiamare il modo di argomentare di Socrate (del quale, per esempio, è assai nota l’affermazione di «sapere di non sapere»), è un modo per incuriosire l’ascoltatore. L’esordio stesso, con la confutazione di una massima di Aristotele, filosofo di indubbia autorevolezza, ha il sapere di una sfida all’ascoltatore. L’argomentazione vera e propria è affidata a un esempio (Sicut… patet, 1, 4), in modo che l’ascoltatore ricavi intuitivamente da un caso particolare una verità generale, con metodo opposto rispetto a quello sillogistico. La similitudine è tratta dall’ambito finanziario, forse per catturare meglio l’interesse di Paolino, persona che nella propria vita professionale si era occupata di finanza.

Anche nel resto dell’opera la validità della tesi sarà sostenuta da numerosi esempi, da imitare o da respingere.

L’essere e il tempo

Il tema del tempo in Seneca percorre molte pagine della sua opera, dai dialoghi alle Epistulae ad Lucilium, in cui significativamente viene trattato già nella prima lettera. Ma «il tempo in Seneca non è mai puro oggetto di speculazione, come sarà in Agostino; è il tempo vissuto nell’ansia della sua fugacità» (A. Traina). Da qui il bisogno di riconquistarlo all’insegna della qualità. Quando abbiamo qualcosa in quantità ridotta rispetto a quello che desidereremmo, ecco che scatta il desiderio di possederlo almeno al meglio. Così Seneca sia nel De brevitate vitae, opera tutta incentrata sulla durata della vita umana e l’uso che ne fa l’individuo, sia in numerose lettere ribadisce più volte che la vita non è breve, come per lo più si afferma, ma tale appare perché se ne fa un cattivo uso (de brev., 1, 4); che bisogna rimpossessarsi del tempo che ci viene portato via perché è l’unica cosa che veramente ci appartiene (Ep. ad Luc. I, 1); che bisogna vivere il presente e nel presente perché è l’unico tempo su cui si può contare per cercare di raggiungere la perfezione morale, fine ultimo del sapiens, per il quale, unico, la vita è abbastanza lunga. Una valutazione qualitativa del tempo, dunque, che esclude passato e futuro che non ci appartengono se non come «dimensioni psichiche», un invito alla vita interiore.

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Note

[1]quod gignimur, quod decurrunt: i due quod individuano due proposizioni causali; la prima ha l’indicativo ed esprime oggettività, mentre la seconda ha il congiuntivo ed esprime la valutazione soggettiva dei parlanti (cong. obliquo). haecspatia: questo iperbato ne contiene a sua volta un altro, dati… temporis.

[2] exceptispaucis: ablativo assoluto con valore temporale.

[3] Si tratta di Ippocrate di Cos (460-377 a.C. ca.).

[4] È la traduzione latina di una massima attribuita a Ippocrate (Aforismi 1, 1), il cui significato probabilmente è che non è sufficiente lo spazio di una vita, ma è necessario il lavoro di generazioni, per conoscere i segreti dell’arte medica.

[5] inde Aristotelislis: il soggetto è lis, che ha come participio congiunto conveniens, completato dal dativo sapienti viro (participio e sostantivo); exigentis è participio congiunto con Aristotelis, complemento di specificazione del soggetto.

[6] aetatisindulsisse: la proposizione infinitiva sottintende un verbo di dire che la introduce; illam è la «natura», soggetto dell’infinitiva; indulsisse ha sia il complemento oggetto (tantum da unire a aetatis, genitivo partitivo), sia il complemento di termine, animalibus.

[7] quinadena: aggettivi numerali distributivi.

[8] hoministare: proposizione infinitiva unita alla precedente mediante asindeto avversativo; genito è participio attributivo del complemento di vantaggio homini; il soggetto dell’infinitiva è terminum, lett. «cippo miliare», che allude metaforicamente alla vita come strada da percorrere. Non è noto se la massima attribuita ad Aristotele risalga proprio a quest’ultimo: da Cicerone (Tusc. III 69), infatti, è attribuita a Teofrasto (371-287 a.C.), successore del filosofo nella direzione della scuola peripatetica.

[9] Non exiguum perdimus: in questa frase è compendiato tutto il pensiero di Seneca riguardo il rapporto che ha l’uomo (non così sapiens) con il tempo della vita, pensiero che trova la sua espressione nello schema compositivo, frequente nei suoi scritti, non… sed; exiguum… multum: reggono entrambi il genitivo di qualità temporis. La contrapposizione fra la prima e la seconda parte della frase continua a livello semantico; perdidimus è perfetto (da perdo, -is, perdidi, perditum, –ere che indica il «perdere inutilmente con il proprio fare») risultativo: «Seneca guarda al passato da un presente già compromesso» (Traina).

[10] Satis longa vita: è la risposta dell’autore a quanti affermano, lamentandosene, che la vita è breve.

[11] in maximarum consummationem: «per il compimento…»; consummare è composto da cum + summare (da summa), cioè «fare la somma».

[12] data estconlocaretur: periodo ipotetico misto in cui la protasi, di I tipo (obiettività), dice ciò che effettivamente la natura dà all’uomo (una vita abbastanza lunga), l’apodosi, di III tipo (irrealtà), ciò che l’uomo non fa (cioè non la fa fruttare); il verbo conlocaretur è qui usato nel senso tecnico di «mettere a frutto», proprio del lessico finanziario. Spesso nelle sue opere, Seneca parla del tempo attraverso metafore tratte dal campo della finanza: il tempo è un «capitale» che può essere «messo a frutto» o dilapidato; ciascuno è «amministratore» del proprio tempo.

[13] per luxumdiffluit: «scivola via nel lusso e nell’indifferenza»; diffluo (composto di dis + fluo) indica «lo scorrere in diverse parti» e di conseguenza il perdersi in mille rivoli; per con accusativo ha valore strumentale.

[14] nulli bonae rei: dativo di fine.

[15] ultima cogente: ablativo assoluto; con ultima necessitas Seneca vuole indicare eufemisticamente la morte.

[16] quam sentimus: «ci accorgiamo che è trascorsa quella che non abbiamo capito che stava passando»; la contrapposizione fra i sinonimi intellegere / sentire affida la comprensione la prima all’intelletto, la seconda ai sensi, come l’antitesi fra ire / transisse è soprattutto nel valore temporale.

[17] non accipimussumus: con lo stesso movimento antitetico Seneca esprime il concetto del non habemus… sed perdidimus; uguale è anche la contrapposizione temporale presente/passato dei verbi. nec inopessumus: Seneca sottolinea con vigore il concetto riprendendolo e in tal modo rinforzandolo.

[18] momento dissipantur: «sono dissipate in un attimo»; dissipare (da dis + spargo), il cui significato etimologico è «spargere qua e là», viene usato, conservandone l’immagine, come termine proprio, riferito a sostanze e patrimoni.

[19] bono custodi: buon custode delle ricchezze, quindi «buon amministratore».

[20] usu crescunt è contrapposto a momento dissipantur.

[21] aetas nostra… patet: «la nostra vita molto si estende, per chi la sa bene organizzare»; in aetatem disponere c’è l’idea del disporre in ordine, distribuire il tempo.

La vita ritirata e la vera libertà (Sᴇɴ. 𝐸𝑝. 𝑎𝑑 𝐿𝑢𝑐. VIII 1-3; 6-7)

da F. PIAZZI, A. GIORDANO RAMPIONI, Multa per aequora. Letteratura, antologia e autori della lingua latina, 3. L’alto e il basso Impero, Bologna 2004, pp. 112-113; e da A. BALESTRA et al. (eds.), In partes tres. 3. L’età imperiale, Bologna 2016, p. 122. Cfr. Seneca, Lettere morali a Lucilio, a cur. di F. SOLINAS, Milano 2010, pp. 593-595.

Nell’epistola VIII Seneca svolge un’appassionata difesa della vita ritirata vista non come inattività, ma come momento di riflessione per essere utile a tutti gli uomini, anche ai posteri. L’impossibilità di agire utilmente sulla vita pubblica (Nerone lo aveva privato di ogni influenza sugli affari politici) indusse Seneca a dedicarsi all’otium filosofico; ma rimase in lui il desiderio di prodesse, “giovare”, e nello studium egli trovò modo di farlo, insegnando quell’autosufficienza che era presupposto essenziale della libertà.

Filosofo o pedagogo. Affresco, 60 d.C. c. dal cubiculum H della Villa romana di Boscoreale. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

 

[1] «Tu me» inquis «uitare turbam iubes, secedere et conscientia esse contentum?[1] ubi illa praecepta uestra quae imperant in actu mori?»[2]. Quid? ego tibi uideor inertiam suadere? In hoc me recondidi et fores clusi, ut prodesse pluribus possem[3]. Nullus mihi per otium dies exit[4]; partem noctium studiis uindico; non uaco somno sed succumbo, et oculos uigilia fatigatos cadentesque in opere detineo. [2] Secessi non tantum ab hominibus sed a rebus, et in primis a meis rebus: posterorum negotium ago[5]. Illis aliqua quae possint prodesse conscribo; salutares admonitiones, uelut medicamentorum utilium compositiones[6], litteris mando, esse illas efficaces in meis ulceribus expertus, quae etiam si persanata non sunt, serpere desierunt. [3] Rectum iter, quod sero cognoui et lassus errando, aliis monstro […].

[6] Si haec mecum, si haec cum posteris loquor, non uideor tibi plus prodesse quam cum ad uadimonium[7] aduocatus[8] descenderem aut tabulis testamenti anulum inprimerem[9] aut in senatu candidato uocem et manum commodarem[10]? mihi crede, qui nihil agere uidentur maiora agunt: humana diuinaque simul tractant[11]. [7] Sed iam finis faciendus est et aliquid, ut institui[12], pro hac epistula dependendum. Id non de meo fiet[13]: adhuc Epicurum compilamus, cuius hanc uocem hodierno die legi: «philosophiae seruias oportet, ut tibi contingat uera libertas»[14]. Non differtur in diem qui se illi subiecit et tradidit: statim circumagitur; hoc enim ipsum philosophiae seruire libertas est […].

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[1] Mi dici: «Proprio tu mi inviti a evitare la folla, a starmene sulle mie e a essere soddisfatto della mia coscienza? Dove sono quei precetti della vostra filosofia che impongono di morire nel pieno dell’attività?». Ma come? Ti pare che proprio io ti esorti all’inerzia? Per questo mi sono isolato e ho sprangato le porte per poter giovare a molti. Nell’inerzia non mi scorre via nemmeno un giorno: dedico una parte della notte ai miei studi; non mi lascio andare al sonno, ma ne sono vinto, e tengo fissi sul lavoro gli occhi stanchi e cadenti per la veglia. [2] Mi sono isolato non tanto dalla gente quanto dagli impegni e soprattutto dai miei impegni personali: curo gli affari dei posteri. Scrivo per loro qualcosa che possa essere utile; affido alla scrittura precetti salutari come utili ricette mediche, avendone sperimentati gli effetti sulle mie ferite, che, anche se non sono guarite del tutto, hanno cessato di estendersi. [3] La retta via, che ho conosciuto tardi e quand’ero stanco di errare, la indico agli altri […].

[6] Se mi trattengo su questi temi con me stesso, se mi rivolgo con tali argomentazioni ai posteri, non ti sembra che io sia più utile di quando mi presentavo in tribunale come avvocato difensore o imprimevo il sigillo del mio anello sulle tavole testamentarie o se impiegassi la mia voce e i miei gesti per sostenere un candidato in Senato? Credimi: quelli che sembrano non combinare nulla, svolgono le cose più importanti: trattano cose a un tempo umane e divine. [7] Ma ormai devo concludere e bisogna pagare, come sono solito, qualcosa per questa lettera. Non attingerò alle mie risorse personali: saccheggiamo, dunque, ancora una volta Epicuro, di cui oggi ho letto questa sentenza: «Bisogna che tu metta al servizio della vera filosofia, perché ti sia concessa una libertà autentica». Non subisce rimandi da un giorno all’altro chi si è sottomesso e consegnato alla filosofia: egli viene immediatamente emancipato, perché questo servire la filosofia è di per se stesso un atto di libertà […].

 

 

L’Epistula VIII rappresenta un vero e proprio compendio della morale di Seneca, sebbene il filosofo, come sua abitudine, non intenda presentarsi come una persona arrivata al culmine della saggezza, ma solo un po’ più avanti rispetto a tanti altri («avendone sperimentati gli effetti sulle mie ferite, che, anche se non sono guarite del tutto, hanno cessato di estendersi», 2). Nella lettera ritroviamo argomenti ampiamente trattati in diversi suoi scritti: per esempio, Seneca ricorda che cadere nelle passioni è frutto di un errore di valutazione in merito ai falsi beni e che, una volta preda delle passioni, la rovina è completa. Infine, torna anche al confronto tra occupati e otiosi: dopo una vita da occupatus, infatti, forse ora Seneca è finalmente giunto fra gli otiosi (VIII 6). E questa nuova condizione si traduce nella possibilità di aiutare gli altri: scrivere per esortare alla virtù non è meno utile che agire nella società (VIII 2).

Egli, insomma, ha fiducia nella possibilità di trasmettere la filosofia attraverso la scrittura e quindi pensa che la lettura rivesta una funzione di primo piano nel percorso verso la saggezza. Sappiamo che Seneca era un appassionato lettore: in un’altra lettera a Lucilio (XLVI), ricorda di aver letto un libro dalla prima all’ultima riga senza interrompersi nemmeno per mangiare e per dormire. In altre lettere specifica, però, che la lettura deve essere finalizzata allo studio («La lettura nutre l’intelligenza e la ristora – certo non senza applicazione – qualora sia affiancata dallo studio», Ep. ad Luc. LXXXIV 1, trad. F. Solinas), mentre in Ep. ad Luc. CVIII chiarisce anche come deve essere affrontata la lettura dei testi filosofici: dopo aver chiarito che i «filologi» leggono per capire a quali modelli si sia ispirato un autore e per individuare eventuali incoerenze nell’uso delle fonti, che i «grammatici» leggono per studiare gli aspetti linguistici, Seneca aggiunge che «i filosofi si devono ascoltare e leggere con il proposito di raggiungere la felicità, non per cercare di cogliere gli arcaismi o i neologismi, le metafore troppo ardite e le figure retoriche, ma i precetti utili, le massime nobili e coraggiose da mettere subito in pratica» (trad. M. Natali).

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Note

[1] Nella lettera precedente Seneca aveva invitato Lucillio a evitare la folla, da cui è facile lasciarsi trascinare, e a disprezzare il consenso e il plauso della gente, accontentandosi dell’approvazione della propria coscienza. Secedere è termine particolarmente frequente in età imperiale per indicare il ritirarsi dalle attività pubbliche. Seneca è fra i primi scrittori a noi noti a usare il termine conscientia, come qui, in senso morale (cfr. l’espressione sibi conscium esse).

[2] Gli stoici, in polemica con gli epicurei, avevano sempre proclamato la necessità di lavorare per il bene della società e anche Seneca aveva cercato di fare la propria parte, dedicandosi all’attività politica. In realtà, Seneca raccomandava spesso la vita ritirata, ma soprattutto nelle prime fasi del percorso filosofico, quando uno spirito non ancora solido, frequentando ogni sorta di persone, avrebbe potuto corrompersi e tornare al vizio; invece, una volta che i primi gradini dell’apprendistato filosofico fossero stati superati, era auspicabile che il filosofo stoico stesse nella società e agisse lasciando che la sua virtù desse i propri frutti.

[3] Qui appare chiaramente il mutato orientamento di Seneca che, dopo il fallimento della sua azione, una volta tagliato fuori dall’attività pubblica, cercò nello studio della filosofia e nel suo insegnamento un nuovo modo di giovare agli altri.

[4] Nell’ultimo periodo della sua vita Seneca si dedicò intensamente allo studio, come risulta anche da altri passi delle lettere e delle Naturales quaestiones: «Un bisogno di stordimento in mezzo ai pericoli dell’ostilità imperiale, un desiderio di risollevare lo spirito offeso e conturbato nella pura e serena attività degli studi, fecero di lui, in quegli ultimi anni, uno scrittore e un pensatore mirabilmente operoso» (C. Marchesi).

[5] Attraverso la scrittura, Seneca riteneva di poter raggiungere, anche dal chiuso della sua casa, assai più persone nello spazio e nel tempo rispetto a quanto avrebbe potuto fare a voce. Anche Cicerone sosteneva che l’insegnamento della virtù e la trasmissione ai posteri delle regole della saggezza erano una delle principali forme in cui poteva manifestarsi la naturale tendenza dell’uomo a giovare agli altri.

[6] Il termine compositio è tecnicismo proprio della medicina antica; si ha qui forse un’allusione a un’opera Compositiones medicae di Scribonio Largo, medico personale dell’imperatore Claudio. D’altra parte, nelle pagine senecane è ricorrente la metafora della filosofia come medicina dell’anima: immagine che risale a Socrate, secondo la testimonianza di Platone.

[7] Il vadimonium era l’impegno, preso versando in garanzia una cauzione, di comparire in un determinato giorno davanti al magistrato.

[8] La parola advocatus ha qui il significato, assunto in epoca imperiale, di «difensore»; in precedenza, in età repubblicana, questo termine indicava chi era stato invitato ad assistere qualcuno in giudizio per consigli o consulenze giuridiche, ma che non poteva comunque pronunciare arringhe.

[9] Era costume in Roma convalidare un testamento imprimendo l’impronta del proprio anello e di quello dei testimoni (che avevano la funzione della firma oggi).

[10] Ancora un’attività pubblica contrapposta, nella sua utilità, allo studio.

[11] Anche Cicerone aveva affermato che la filosofia era rerum diuinarum et humanarum scientia (de off. I 153; Tusc. IV 57).

[12] Sulla consuetudine di Seneca di concludere le proprie lettere con la citazione di qualche filosofo, si vd. Ep. ad Luc. XXVI 8.

[13] Cfr. ibid.: de domo fiet numeratio.

[14] «La frase riportata è dichiaratamente riferita a Epicuro, e, secondo la tipica tecnica senecana, rielaborata con maggiore concentrazione, che mette a contatto i termini antitetici, prima distribuiti chiasticamente agli estremi del periodo: hoc enim ipsum philosophiae seruire libertas est» (A. Traina).

Le prodezze di Alessandro nella battaglia sul Granico, 334 a.C. (Plut. Alex. 16)

Plutarco. Vite Parallele, a cura di D. MAGNINO, Milano, BUR, 2007, pp. 68-73.

Alessandro varca il Granico (ill. di P. Connolly).

 

[16, 1] Ἐν δὲ τούτῳ τῶν Δαρείου στρατηγῶν μεγάλην δύναμιν ἡθροικότων καὶ παρατεταγμένων ἐπὶ τῇ διαβάσει τοῦ Γρανικοῦ, μάχεσθαι μὲν ἴσως ἀναγκαῖον ἦν, ὥσπερ ἐν πύλαις τῆς Ἀσίας, περὶ τῆς εἰσόδου καὶ ἀρχῆς· [2] τοῦ δὲ ποταμοῦ τὸ βάθος καὶ τὴν ἀνωμαλίαν καὶ τραχύτητα τῶν πέραν ὄχθων, πρὸς οὓς ἔδει γίνεσθαι τὴν ἀπόβασιν μετὰ μάχης, τῶν πλείστων δεδιότων, ἐνίων δὲ καὶ τὸ περὶ τὸν μῆνα νενομισμένον οἰομένων δεῖν φυλάξασθαι (Δαισίου γὰρ οὐκ εἰώθεισαν οἱ βασιλεῖς τῶν Μακεδόνων ἐξάγειν τὴν στρατιάν), τοῦτο μὲν ἐπηνωρθώσατο, [3] κελεύσας δεύτερον Ἀρτεμίσιον ἄγειν· τοῦ δὲ Παρμενίωνος, ὡς ὀψὲ τῆς ὥρας οὔσης, οὐκ ἐῶντος ἀποκινδυνεύειν, εἰπὼν αἰσχύνεσθαι τὸν Ἑλλήσποντον, εἰ φοβήσεται τὸν Γρανικὸν διαβεβηκὼς ἐκεῖνον, ἐμβάλλει τῷ ῥεύματι σὺν [4] ἴλαις ἱππέων τρισκαίδεκα· καὶ πρὸς ἐναντία βέλη καὶ τόπους ἀπορρῶγας ὅπλοις καταπεφραγμένους καὶ ἵπποις ἐλαύνων, καὶ διὰ ῥεύματος παραφέροντος καὶ περικλύζοντος, ἔδοξε μανικῶς καὶ πρὸς ἀπόνοιαν μᾶλλον ἢ γνώμῃ [5] στρατηγεῖν. οὐ μὴν ἀλλ’ ἐμφὺς τῇ διαβάσει καὶ κρατήσας τῶν τόπων χαλεπῶς καὶ μόλις, ὑγρῶν καὶ περισφαλῶν γενομένων διὰ τὸν πηλόν, εὐθὺς ἠναγκάζετο φύρδην μάχεσθαι καὶ κατ’ ἄνδρα συμπλέκεσθαι τοῖς ἐπιφερομένοις, [6] πρὶν εἰς τάξιν τινὰ καταστῆναι τοὺς διαβαίνοντας. ἐνέκειντο γὰρ κραυγῇ, καὶ τοὺς ἵππους παραβάλλοντες τοῖς ἵπποις ἐχρῶντο δόρασι καὶ ξίφεσι τῶν δοράτων συντριβέντων.

[7] ὠσαμένων δὲ πολλῶν ἐπ’ αὐτὸν (ἦν δὲ τῇ πέλτῃ καὶ τοῦ κράνους τῇ χαίτῃ διαπρεπής, ἧς ἑκατέρωθεν εἱστήκει πτερὸν λευκότητι καὶ μεγέθει θαυμαστόν), ἀκοντισθεὶς μὲν ὑπὸ τὴν ὑποπτυχίδα τοῦ θώρακος οὐκ ἐτρώθη, [8] Ῥοισάκου δὲ καὶ Σπιθριδάτου τῶν στρατηγῶν προσφερομένων ἅμα, τὸν μὲν ἐκκλίνας, Ῥοισάκῃ δὲ προεμβαλὼν τεθωρακισμένῳ τὸ δόρυ καὶ κατακλάσας, οὕτως [9] ἐπὶ τὸ ἐγχειρίδιον ὥρμησε. συμπεπτωκότων δ’ αὐτῶν, ὁ Σπιθριδάτης ὑποστήσας ἐκ πλαγίων τὸν ἵππον καὶ μετὰ [10] σπουδῆς συνεξαναστάς, κοπίδι βαρβαρικῇ κατήνεγκε, καὶ τὸν μὲν λόφον ἀπέρραξε μετὰ θατέρου πτεροῦ, τὸ δὲ κράνος πρὸς τὴν πληγὴν ἀκριβῶς καὶ μόλις ἀντέσχεν, ὥστε τῶν πρώτων ψαῦσαι τριχῶν τὴν πτέρυγα τῆς κοπίδος.

[11] ἑτέραν δὲ τὸν Σπιθριδάτην πάλιν ἐπαιρόμενον ἔφθασε Κλεῖτος ὁ μέλας τῷ ξυστῷ διελάσας μέσον· ὁμοῦ δὲ καὶ Ῥοισάκης ἔπεσεν, ὑπ’ Ἀλεξάνδρου ξίφει [12] πληγείς. ἐν τούτῳ δὲ κινδύνου καὶ ἀγῶνος οὔσης τῆς ἱππομαχίας, ἥ τε φάλαγξ διέβαινε τῶν Μακεδόνων, καὶ [13] συνῆγον αἱ πεζαὶ δυνάμεις. οὐ μὴν ὑπέστησαν εὐρώστως οὐδὲ πολὺν χρόνον, ἀλλ’ ἔφυγον τραπόμενοι πλὴν τῶν μισθοφόρων Ἑλλήνων· οὗτοι δὲ πρός τινι λόφῳ [14] συστάντες, ᾔτουν τὰ πιστὰ τὸν Ἀλέξανδρον. ὁ δὲ θυμῷ μᾶλλον ἢ λογισμῷ πρῶτος ἐμβαλών, τόν θ’ ἵππον ἀποβάλλει ξίφει πληγέντα διὰ τῶν πλευρῶν (ἦν δ’ ἕτερος, οὐχ ὁ Βουκεφάλας), καὶ τοὺς πλείστους τῶν ἀποθανόντων καὶ τραυματισθέντων ἐκεῖ συνέβη κινδυνεῦσαι καὶ πεσεῖν, πρὸς ἀνθρώπους ἀπεγνωκότας καὶ μαχίμους συμπλεκομένους.

[15] λέγονται δὲ πεζοὶ μὲν δισμύριοι τῶν βαρβάρων, ἱππεῖς δὲ δισχίλιοι πεντακόσιοι πεσεῖν. τῶν δὲ περὶ τὸν Ἀλέξανδρον Ἀριστόβουλός φησι (FGrH. 139 F 5) τέσσαρας καὶ τριάκοντα νεκροὺς γενέσθαι τοὺς πάντας, ὧν ἐννέα [16] πεζοὺς εἶναι. τούτων μὲν οὖν ἐκέλευσεν εἰκόνας ἀνασταθῆναι [17] χαλκᾶς, ἃς Λύσιππος εἰργάσατο. κοινούμενος δὲ τὴν νίκην τοῖς Ἕλλησιν, ἰδίᾳ μὲν τοῖς Ἀθηναίοις ἔπεμψε τῶν αἰχμαλώτων τριακοσίας ἀσπίδας, κοινῇ δὲ τοῖς ἄλλοις λαφύροις ἐκέλευσεν ἐπιγράψαι φιλοτιμοτάτην [18] ἐπιγραφήν· Ἀλέξανδρος [ὁ] Φιλίππου καὶ οἱ Ἕλληνες πλὴν Λακεδαιμονίων ἀπὸ τῶν βαρβάρων τῶν τὴν Ἀσίαν [19] κατοικούντων. ἐκπώματα δὲ καὶ πορφύρας καὶ ὅσα τοιαῦτα τῶν Περσικῶν ἔλαβε, πάντα τῇ μητρὶ πλὴν ὀλίγων ἔπεμψεν.

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Alessandro nella zuffa contro i Persiani (ill. di R. Hook).

 

Intanto i generali di Dario avevano raccolto un grande esercito e lo avevano schierato al passaggio del fiume Granico: si era alle porte dell’Asia ed era quindi necessario lo scontro per potere entrare e affermare la supremazia. Ma la maggior parte degli ufficiali macedoni temevano per la profondità del fiume, l’irregolarità e l’asprezza della riva contrapposta, cui bisognava di necessità giungere combattendo, e alcuni che erano d’avviso che si dovesse rispettare quanto era nella tradizione per quel mese (infatti, nel mese di Daisio i re macedoni non erano soliti portare l’esercito fuori dalla patria); Alessandro ovviò a questa difficoltà ordinando di chiamare quel mese il secondo Artemisio, e quando poi Parmenione non volle che si attaccasse perché ormai era tardi, egli si buttò nella corrente con tredici squadroni di cavalieri, affermando che veniva disonorato l’Ellesponto se ora egli, dopo averlo attraversato, avesse avuto paura del Granico.

Davvero parve che egli agisse come un pazzo guidato da sconsideratezza più che da razionalità nel muovere contro i dardi avversari verso luoghi scoscesi, presidiati da fanti e cavalieri, in mezzo a una corrente che lo trascinava via sommergendolo. Persistette tuttavia nella volontà di attraversare e raggiunse a stento e con fatica quei luoghi che erano zeppi d’acqua e sdrucciolevoli per il fango; ma subito fu costretto a un confuso corpo a corpo con gli avversari prima di poter disporre i suoi, che attraversavano il fiume, in un certo ordine. I nemici, infatti, gli si buttavano addosso gridando e, accostando i cavalli ai cavalli, ricorrevano alle lance, e quando queste si fossero spezzate alle spade. Molti puntavano dritto su di lui (lo si riconosceva per lo scudo e il pennacchio dell’elmo ai lati del quale stava una penna di straordinaria grandezza e candore); raggiunto da un giavellotto al lembo inferiore della corazza, non fu però ferito, e quando Resace e Spitridate, comandanti persiani, gli si avventarono contro contemporaneamente, evitò uno dei due e, buttatosi su Resace, che era vestito di corazza, su di essa infranse la lancia e passò poi al pugnale. I due caddero a terra avvinghiati e Spitridate, di lato, con il cavallo ritto sulle zampe posteriori, egli steso ritto sul cavallo, menò giù un fendente con la scure barbarica: spezzò il cimiero con una delle penne, mentre l’elmo a stento resistette al colpo, tanto che il filo dell’ascia sfiorò i primi capelli. Mentre Spitridate levava l’arma per un secondo colpo, Clito il Nero lo prevenne e lo trapassò da parte a parte con la lancia. Nello stesso tempo cadde anche Resace, colpito dalla spada di Alessandro. Mentre la cavalleria era impegnata in questo violento scontro, la falange dei Macedoni attraversò il fiume e le fanterie vennero alle mani. I nemici, tuttavia, non resistettero a lungo né vigorosamente, ma disordinatamente fuggirono, eccetto i mercenari greci che si raccolsero su un colle e chiesero ad Alessandro di garantire loro la vita. Ma egli, procedendo per impulso più che con razionalità, caricò contro di loro e perse il cavallo trafitto da un colpo di spada al fianco (non era Bucefalo, ma un altro cavallo); e la maggior parte dei Macedoni, che caddero o furono feriti, proprio lì incontrò il proprio destino, perché lì venne a contatto con uomini che sapevano combattere e avevano perso le loro speranze.

Si dice che tra i barbari siano morti ventimila fanti e duemilacinquecento cavalieri; dei soldati di Alessandro, Aristobulo riferisce che ne caddero complessivamente trentaquattro, dei quali nove fanti, e per essi Alessandro ordinò che si erigessero statue di bronzo, realizzate da Lisippo. Volendo rendere partecipi della vittoria gli Elleni, mandò agli Ateniesi in particolare trecento scudi tolti ai prigionieri e, in generale, sul resto del bottino ordinò che si incidesse questa orgogliosissima epigrafe: «Alessandro, figlio di Filippo, e i Greci (tranne gli Spartani) le conquistarono ai barbari che abitano l’Asia». Alla madre, eccettuati pochi pezzi, mandò i vasi e la porpora e quanto di prezioso aveva sottratto ai Persiani.