ΟYΤΩΣ AΤΑΛΑIΠΩΡΟΣ ΤΟIΣ ΠΟΛΛΟIΣ H ΖHΤΗΣΙΣ ΤHΣ AΛΗΘΕIΑΣ, ΚΑI EΠI ΤA EΤΟIΜΑ ΜAΛΛΟΝ ΤΡEΠΟΝΤΑΙ. «Così poco faticosa è per i più la ricerca della verità e molti si volgono volentieri verso ciò che è più a portata di mano». (Thuc. I 20, 3)
Fra le personalità del paganesimo agonizzante, personaggio dalla carriera politica non eclatante (cfr. CIL VI 1699 = ILS 2946 [↗]), Quinto Aurelio Simmaco (PLRE I 865-870) fu, tutto sommato, uno degli uomini più influenti del suo tempo, occupando a ragione una posizione di primo piano: non solo per via del suo impegno in difesa degli antichi riti, ma anche e soprattutto in quanto figura di intellettuale esemplare. Buon letterato, erudito, tra le sue opere si annoverano in particolare le lettere, composte in una raffinata – anche se ridondante – prosa letteraria, attraverso le quali Simmaco si adoperò per restituire di sé un’immagine ideale: quella di difensore non soltanto della tradizione, ma, con essa, di tutta la cultura classica. Per questo egli amava presentarsi come senatore e vir litteratus: non solo volle dirsi iustus heres veterorum litterarum, ma osò fregiarsi dell’agnomen ex virtute di Tullianus, per fugare ogni dubbio sul proprio modello principale. Ciononostante, Simmaco considerava gli studi come qualcosa di statico, fermamente ancorato a una concezione immutabile (Symm. Rel. III 4, consuetudinis amor magnus est); il sapere, a suo avviso, era uno strumento al servizio della carriera politica (Symm. Ep. I 20, 1, quia iter ad capessendos magistratus saepe litteris promovetur).
Giovane magistrato romano. Statua, marmo, fine IV secolo, dal ninfeo degli Horti Liciniani. Roma, Centrale Montemartini.
Nei nove libri di lettere compilati verso la fine della sua vita, si contano più di 900 epistole ad amici, principalmente di raccomandazione, consolatorie, di ringraziamento e di augurio. Sul modello pliniano, un decimo libro comprendeva la corrispondenza ufficiale, due lettere all’imperatore e quarantanove Relationes («suppliche») presentate ai sovrani. Un palinsesto di Bobbio (Vat. Lat. 5750), risalente al VI secolo, conserva otto Orationes di Simmaco, tra le quali tre panegirici imperiali. Tra l’altro, pare che il senatore abbia progettato anche l’edizione dell’opera omnia liviana (Symm. Ep. IX 13: munus totius Liviani operis quod spopondi).
L’altisonante sequenza onomastica che lo contraddistingueva potrebbe trarre in inganno: come quella di molte famiglie in vista nella seconda metà del IV secolo, la fortuna del casato di Simmaco era piuttosto recente. Nel 330 suo nonno aveva rivestito il consolato ordinario, ma fino a due anni prima un altro membro della stirpe era stato ancora un esponente dell’ordine equestre, seppure del massimo rango, come attesta il titolo di vir perfectissimus. Non a torto, l’accento solenne di Simmaco nel parlare della propria ascendenza è stato tacciato di snobismo, nel vero senso della parola. Fu suo padre, in effetti, Lucio Aurelio Avianio Simmaco, a portare il nome della schiatta ai massimi livelli: grande esempio di dottrina (Amm. Marc. XXVII 3, 3) e di cultura letteraria (Symm. Ep. I 2; 32), intellettuale assai versatile, dapprima praefectus annonae, poi praefectus Urbi (364), Avianio Simmaco fu spesso portavoce del Senato presso gli imperatori (CIL VI 1698 = ILS 1257 [↗], multis legationibus pro amplissimi ordinis desideriis apud divos principes functo). Difatti, nel 361 egli aveva avuto l’onore di condurre un’ambasceria alla corte di Costanzo II, che allora si trovava ad Antiochia (Amm. Marc. XXI 12, 24). In quell’occasione Avianio Simmaco aveva conosciuto personalmente il retore Libanio, con il quale condivideva la passione per i λόγοι e per gli autori antichi (περὶ τῶν παλαιῶν), che costituivano evidentemente l’argomento principe delle loro quotidiane conversazioni. A raccontarlo è lo stesso Libanio, trent’anni dopo, in una lettera a Quinto Aurelio Simmaco (Lib. Ep. 1004), nella quale il vecchio retore esprime tutta la propria soddisfazione per essere stato onorato da una missiva (non pervenuta) da parte di un senatore del rango di Simmaco. Questo documento, d’altra parte, attesta l’esistenza di una fitta rete di amicizie tra le élites colte delle due partes imperii.
Bamberg, Staatsbibliothek. Ms. Class. 5 (c. 845), Anicio Manlio Severino Boezio, De institutione arithmetica, f. 2v. Simmaco e Boezio.
Quinto Aurelio Simmaco era nato, dunque, in seno di una famiglia ormai senatoria, intorno al 340. Nel 364/5 egli ricevette la correctura, cioè il governatorato, Lucaniae et Brittiorum: cominciò allora la sua attività letteraria, con le prime lettere raccolte nel ricco epistolario. Simmaco si sarebbe servito di questo canale di comunicazione per garantirsi una relazione privilegiata con un personale politico e amministrativo socialmente variegato, ma detentore di un potere e di un’autorità con i quali inevitabilmente avrebbe dovuto fare i conti e tenersi buoni attraverso scambi di cortesie, favori, raccomandazioni.
Il 25 febbraio 369 fu una data importante nella sua carriera e nella sua esperienza umana (cfr. Amm. Marc. XXVI 1, 7): recatosi ad Augusta Treverorum come portavoce del Senato in occasione dei quinquennalia dell’imperatore, Simmaco pronunciò di fronte al sovrano due panegirici, rispettivamente in onore di Valentiniano I (Symm. Or. 1) e di suo figlio Graziano (Symm. Or. 3). Ciò gli valse la considerazione del comitatus imperiale, presso il quale si stabilì per circa un anno, partecipando, tra l’altro, anche alla spedizione contro gli Alamanni e ricevendo l’incarico di celebrare la vittoria con un altro discorso tenuto di fronte al princeps il 1° gennaio 370 (Symm. Or. 2). Proprio lì, nella corte installata sulla Mosella, ebbe luogo una delle esperienze più importanti della vita di Simmaco: incontrò e frequentò Decimo Magno Ausonio, letterato e poeta di Burdigala, cantore delle bellezze della Gallia, ma anche cristiano e precettore del giovane Graziano (Symm. Or. 3, 7; Auson. 19 [Epigr.] 26, 5, 320 Peiper; 20 [Grat. Act.] 15, 68, 370 Peiper; Amm. Marc. XXXI 10, 18; [Aur. Vict.] Epit. Caes. 47, 4). Nonostante le differenze di fede, i due si legarono di profonda amicizia, forse la più sincera che Simmaco abbia mai stretto, testimoniata da una trentina di lettere raccolte nel libro I dell’epistolario (Symm. Ep. I 13-43).
Dal 370 al 373 Simmaco fu a Roma. Nel 370 sposava Rusticiana, figlia del praefectus Urbi Memmio Vitrasio Orfito (Amm. Marc. XIV 6, 1), che l’anno successivo gli diede una figlia, Galla, e, ben tredici anni più tardi, un figlio, Quinto Fabio Memmio Simmaco. Nel 373/4 Simmaco ricevette il proconsolato d’Africa (C.Th. XII 1, 73; Symm. Ep. VIII 5; 20; IX 115; CIL VIII 24584 [↗]; AE 1966, 518 [↗]): sotto il suo mandato, la praefectura minacciata dai torbidi provocati dai Donatisti (C.Th. XVI 6, 1), dalla rivolta di Firmo in Mauretania (Amm. Marc. XXIX 5, 5-50) e dall’invasione degli Asturi in Tripolitania (Amm. Marc. XXVIII 6), vide le imprese di Teodosio il Vecchio, inviato da Valentiniano per ripristinare la pace nella regione. Dopo quell’incarico, per almeno dieci anni Simmaco si astenne dal rivestire ulteriori incombenze; fu scelto solo per missioni onorifiche, ma, nel frattempo, il suo prestigio in Senato cresceva, anche se il titolo di princeps Senatus gli venne conferito soltanto in seguito. Nel 375 succedeva al padre al soglio imperiale Graziano, guidato dai consigli del maestro Ausonio: nelle lettere al retore bordolese, Simmaco salutava l’avvento del sovrano come l’inizio di un novum saeculum (Symm. Ep. I 13; cfr. Or. 3).
Intorno al 377 Simmaco perse il padre Lucio, allora console (Symm. Or. 4), che lo lasciò erede di una cospicua fortuna, basata prevalentemente sulla proprietà fondiaria, com’era costume dell’aristocrazia imperiale: tre case nell’Urbe (una sul Celio), una dimora a Capua e ben quindici villae, tre nel suburbio di Roma e dodici nell’Italia Suburbicaria, oltre a proprietà in Sicilia e Mauretania. Le tenute, comunque, dovevano essere mal gestite e le rendite risultavano basse, tanto che negli ultimi anni Simmaco fu costretto a venderne alcune per pareggiare il bilancio (cfr. Symm. Ep. II 52; 57; 59; III 12; 55; 82; 88; VI 60; 66; 70; 72; 80; VII 18; IX 50; CIL VI 1699 [↗]).
Magistrato romano. Statua (dettaglio del busto), marmo, fine IV secolo, dal ninfeo degli Horti Liciniani. Roma, Centrale Montemartini.
Nonostante, dal 381, gli imperatori in carica, influenzati da carismatici prelati cristiani, intensificassero le misure in campo religioso, rendendole sempre più repressive, sia contro i cristiani eretici sia contro i cultori delle antiche tradizioni, gli stessi sovrani perseguirono una sistematica politica di collaborazione con le élite: difatti, nel 383, Virio Nicomaco Flaviano il Vecchio, uno dei membri più cospicui dell’aristocrazia romana, sarebbe stato chiamato a ricoprire l’incarico di praefectus praetorio Italiae et Illyrici (cfr. CIL VI 1782 = ILS 2947 [↗]; Symm. Ep. II 8, 22-23; 31), mentre suo figlio avrebbe ricevuto il proconsolato Asiae; l’anno successivo sarebbero divenuti consules i pagani Ricomero e Clearco (C.Th. I 6, 9), mentre Simmaco sarebbe stato designato praefectus Urbi (cfr. C.Th. IV 17, 4; XI 30, 44).
Ora, un esame spassionato delle fonti rende comprensibile la vivacità con cui, per oltre vent’anni, i senatori romani avrebbero sostenuto le loro posizioni, conducendo, in nome del conservatorismo religioso e del tradizionalismo, un’ostinata battaglia in difesa di quei privilegi e di quelle sfere d’interesse, che le riforme costantiniane avevano riservato all’ordo amplissimus. D’altronde, nel corso del IV secolo l’aristocrazia romana era diventata ciò che non era mai stata in precedenza: una classe politica rigidamente esclusiva ed ereditaria, che lo stesso Simmaco definì pars melior generis humani (Symm. Ep. I 52;IV 4; 9; cfr. Or. VI 1, nobilissimi humani generis; Or. VIII 3, impulsu fortasse boni sanguinis, qui se semper agnoscit). A ogni modo, non si trattò di una battaglia improntata a un astratto e retorico passatismo né di una lotta in difesa di puri e semplici privilegi economici, ma di uno scontro fondamentalmente politico. Simmaco e gli altri senatori romani difendevano la propria identità di ceto e di gruppo dirigente che la pesante legislazione grazianea del 382 sembrava mettere in discussione: l’abolizione dei contributi statali al culto delle Vestali, la confisca del terreno sacro dei templi e dei collegia sacerdotali, oltre alla rimozione della Curia dell’ara Victoriae, furono percepiti tutti come atti discriminatori e persecutori (cfr. C.Th. XVI 10, 15). Pertanto, i senatori romani inviarono presso Graziano una delegazione, guidata da Simmaco, per sollecitare il sovrano a tornare sui propri passi; ma persuaso da Ambrogio, vescovo di Mediolanum, l’imperatore si rifiutò di ricevere l’ambasceria (Symm. Rel. III 1; 20; Ambr. Ep. XVII 5, 10; 16; Paul. VA 26, 1; cfr. Amm. Marc. XXX 9, 5). Quando tra il 383 e il 384 le province occidentali furono funestate da una grave carestia, Simmaco in una lettera Flaviano fratri connesse immediatamente la calamità con l’empietà del sovrano e la interpretò come una punizione divina (Symm. Ep. II 7).
Flavio Valentiniano II. Busto, marmo, c. 387-390 da Aphrodisias. Istanbul, Museo Archeologico.
Nell’estate del 384, salito intanto alla porpora il fratellastro di Graziano, Valentiniano II, una nuova legazione del Senato, sempre diretta da Simmaco, fu inviata a Mediolanum per chiedere ancora una volta la restaurazione dell’altare della Vittoria e la riattribuzione dei sostegni economici ai collegi sacerdotali romani. Ricevuto, questa volta a corte, Simmaco tenne un’ampia e appassionata relatio, sostenendo la causa della religione tradizionale in una prospettiva di tolleranza per tutti i culti, rivolto al giovanissimo imperatore, che ancora dodicenne era stato posto sotto la tutela della madre Giustina (Symm. Rel. III). Ma alle argomentazioni del senatore si oppose con energia e con autorità dell’episcopus della città, che in due dense epistole rivolte al principe, sul quale peraltro esercitava un forte ascendente, confutò punto per punto le tesi pagane. Fu così respinta la richiesta di Simmaco e risultò conseguentemente vano il tentativo di riottenere un importante segno dell’antica religione (Ambr. Ep. XVII-XVIII). Contrariamente a quello che talvolta si vuole credere, l’oratore e il vescovo furono di volta in volta alleati o rivali in quella pratica di patronato verso le comunità non meno che nei confronti dei singoli (cfr. Symm. Ep. I 63); la questione dell’altare della Vittoria più che di un conflitto religioso si trattò di una controversia tra due eminenti personalità politiche, decise a darsi battaglia senza esclusioni di colpi.
Nel frattempo era venuto a mancare anche Vettio Agorio Pretestato, un altro grande personaggio della Roma pagana, suo alleato (Amm. Marc. XXVII 9, 8; XXVIII 1, 24; CIL VI 1779 = ILS 1259 [↗]; CIL VI 102 = ILS 4003 [↗]): Simmaco, sentendosi privo di appoggi, nel 385 diede le dimissioni dalla prestigiosa carica di praefectus della Città.
Verso il 387 a Roma si celebrarono le nozze fra la figlia di Simmaco e Flaviano il Giovane, evento che sancì l’alleanza politica tra le due famiglie. A ricordo dello sposalizio si conservano le valve di un raffinato dittico d’avorio, che rappresentano entrambe due figure femminili intente a compiere atti di culto presso un altare, sopra le cui teste campeggiano le incisioni: Symmachorum – Nicomachorum.
Dittico Symmachorum – Nicomachorum. Incisione su valve, avorio, fine IV secolo. London, Victoria and Albert Museum – Paris, Musée national du Moyen Âge.
Sempre nel 387 l’usurpatore Magno Massimo si guadagnò il sostegno dell’aristocrazia tradizionalista e Simmaco si fece trascinare nell’impresa, pronunciando, tra l’altro, un panegirico dell’anti-imperatore. Teodosio, l’Augustus ufficiale, era però l’uomo forte e, nel 388, il rivale fu sconfitto a Poetovio e a Siscia (cfr. Pan. Lat. II 34-35): Simmaco, preso dal panico e caduto in disgrazia, dovette cercare rifugio e asilo nientemeno che in una chiesa (Socr. HE V 14, 3-9; Symm. Ep. II 13; 30-31). Il vincitore gli accordò la grazia. Dopo una fuga in Campania, un rovescio finanziario e altre peripezie, alla fine, Simmaco riuscì a tornare a Roma, dove incontrò Teodosio e riguadagnò i favori della corte. Nell’autunno del 390 riuscì addirittura a farsi eleggere consul posterior per l’anno successivo, insieme a Flavio Eutolmio Taziano, consul prior (cfr. Lib. Ep. 990). Da qualche tempo era divenuta prassi che un console fosse designato in Occidente e l’altro in Oriente e che entrambi ottenessero la sanzione imperiale attraverso decreti pubblici (C.Th. VIII 11, 1; 12; CLRE 16; 26). Comunque, nel discorso d’insediamento, tenuto a Mediolanum, il 1° gennaio 391 di fronte al comitatus imperiale riunito, Simmaco non trovò di meglio che ritirare fuori la vecchia questione dell’altare della Vittoria: Teodosio lo fece immediatamente espellere (Ambr. Ep. LVII 4; Paul. VA 26; [Prosp.] De promiss. III 38, 41; Paul. VA 26, 2).
Il 22 agosto 392, dopo aver assassinato Valentiniano II, il magister militum Flavio Arbogaste scelse come candidato alla porpora il magister scrinii Flavio Eugenio, un anziano retore di origini galliche, che, seppur cristiano, nutriva interesse verso i culti aviti (Ambr. de ob. Valent.; Zos. IV 54, 1; Socr. HE V 25; Soz. HE VII 22, 4). Malgrado avesse tentato di ottenere la propria cooptazione nella pars Occidentis, con l’intercessione di Ambrogio, Teodosio sconfessò Eugenio, trattandolo come un usurpatore (Ambr. Ep. LVII; Zos. IV 54-55; CIL XIII 8262 = ILS 790 [↗]). Il pretendente riuscì a ottenere il plauso di una parte del Senato romano: Flaviano il Vecchio fu riottenne la carica di praefectus praetorio Italiaeet Illyrici, cui si aggiunsero pure la responsabilità prefettizia sull’Africa e un consolato sine collega per l’anno 394, mentre suo figlio fu creato praefectus Urbi. Intanto, nella primavera del 393 l’ara Victoriae veniva ricollocata al suo posto nella Curia, i templi riaperti e la libertà di culto ripristinata (Ambr. Ep. LVII 6-12; in Psalm. 35, 25; Ep. LXI 1; de ob. Theod. 39, 5; Paul. VA 26-27).
Fl. Eugenio. Siliqua, Augusta Treverorum c. 392-394. AR 1,75 g. Recto: D(ominus) n(oster) Eugeni-us p(ius) f(elix) Aug(ustus). Busto diademato, drappeggiato e corazzato dell’usurpatore, voltato a destra.
Teodosio si preparò a muover guerra: riunite le sue truppe, l’imperatore marciò verso l’Italia con al seguito un contingente gotico, guidato dal rex Alarico. Lo scontro campale si svolse sulle rive del fiume Frigidus (od. Vipacco), affluente dell’Isonzo, e infuriò per due giorni tra il 5 e il 6 settembre 394. Al termine di un sanguinoso combattimento, risultò chiara la definitiva disfatta della compagine occidentale: sembrava quasi che gli antichi dèi avessero abbandonato i loro seguaci. Eugenio e Arbogaste andarono incontro al loro destino, il primo tradito e assassinato, il secondo togliendosi la vita (Philostorg. 11, 2; Socr. HE V 25; Oros. VII 35).
Come è stato osservato, l’idea che l’aristocrazia romana avesse aderito con entusiasmo all’usurpazione, facendosi parte attiva del movimento e fornendo supporto logistico e ideologico, e che la “reazione pagana” fosse stata il collante decisivo per il consenso a Eugenio è smentita dalla continuità dei ruoli-chiave al governo dell’Impero. Nonostante le opposte propagande avessero tinto di sacro l’intera vicenda – da parte cristiana, come lotta tra le forze del bene e quelle del male, da parte tradizionalista, come difesa del mos maiorum –, essa andrebbe ridimensionata a livello di uno sgradevole incidente di percorso: mentre le fonti pagane sottolineano l’atteggiamento del trionfatore nei riguardi del Senato romano, costretto a una conversione coatta alla nuova fede in cambio del perdono politico, da parte cristiana il suicidio di Flaviano il Vecchio fu interpretato come un atto di coerenza e celebrato nell’ottica provvidenzialistica della mors persecutorum. In realtà, lo stesso Teodosio, che nutriva profonda stima nell’uomo di cultura, già suo prestigioso ministro, se solo ne avesse avuto l’opportunità, avrebbe certamente preferito risparmiargli la vita. D’altra parte, il VI libro dell’epistolario simmachiano conserva alcune lettere indirizzate Nicomachis filiis (Symm. Ep. VI 2, 6, 8, 22), dalle quali emergono le difficoltà affrontate dal genero e dalla figlia Galla nei due anni successivi: in particolare, gli sposi erano angustiati dalla prospettiva di dover rimborsare il salario percepito da Flaviano padre in qualità di praefectus praetorio sotto l’usurpatore e molte altre controversie private. In una situazione del genere, la rete di conoscenze di Simmaco si rivelò provvidenziale (cfr. Symm. Ep. V 47).
L’apoteosi di Q. Aurelio Simmaco. Bassorilievo, avorio, 402 d.C. da un dittico. London, British Museum.
Quanto a Teodosio, egli non ebbe il tempo di gustare i frutti della sua vittoria: a causa dei postumi di una ferita in battaglia, si spense a Mediolanum il 17 gennaio 395. Ora, toccava al magister militum utriusque, il semi-vandalo Flavio Stilicone, ricompattare la fazione teodosiana, rinnovando la solidarietà tra corte imperiale e aristocrazia: le crisi, le controversie e i pericoli che avrebbe dovuto affrontare rendevano necessario il consolidamento dei buoni rapporti con l’ordo senatorius. Dopo l’amnistia decretata per legge il 18 maggio 395 (C.Th. XV 14, 11-12), quantomai propizia in tal senso si rivelò la morte di Ambrogio, occorsa il 4 marzo 397: l’intensificarsi delle relazioni con gli esponenti dell’élite costituiva una ripresa delle alleanze teodosiana e un’oggettiva necessità politica. Per questo disegno nessuna personalità poteva risultare più opportuna di quella di Simmaco, il quale da parte sua non si lasciò sfuggire l’occasione: è significativo che le prime quattordici lettere del IV libro dell’epistolario siano quelle indirizzate al generalissimo vandalo (Symm. Ep. IV 1-14). I testi mostrano la deferenza con la quale l’estensore trattò il destinatario, la stima nutrita nei suoi riguardi, l’impiego di un linguaggio e di formalità tipici dell’amicitia politica romana, il superamento degli stereotipi negativi propri dell’élite senatoria nei riguardi degli individui di origine barbarica.
Con il suo impegno, blandendo di volta in volta il suo destinatario, Simmaco riuscì a ottenere la completa riabilitazione del genero Flaviano, al punto da fargli nuovamente avere la praefectura Urbi per l’anno 400. Grazie ai buoni uffici di Stilicone e alla concessione dell’uso gratuito del servizio pubblico per i suoi agenti, nel 401 l’oratore poté far venire da ogni parte dell’Impero le bestie più stravaganti in occasione dei ludi allestiti dal figlio Memmio Simmaco per la sua elezione a praetor (cfr. Symm. Ep. V 56). D’altra parte, il contributo di Simmaco garantì al generalissimo vandalo il sostegno del Senato nelle crisi che attanagliavano il suo regime. I loro rapporti, dunque, furono volti a un cordiale e reciproco scambio di favori.
Vittoria Alata. Statua, bronzo, I secolo, da un’intercapedine del Capitolium. Brescia, Museo di S. Giulia.
Ma il suo chiodo fisso era ancora l’altare della Vittoria: nell’inverno 401/2 Simmaco si recò a Mediolanum in rappresentanza del Senato romano, tornando alla carica ma inutilmente (Symm. Ep. V 95; VII 2; 13-14). All’inizio del 402, dopo un avventuroso viaggio di ritorno, reso pericoloso dalle bande dei Goti che erravano nei dintorni della sede imperiale, egli risulta di nuovo a Roma, in precarie condizioni di salute (Symm. Ep. IV 13; 56; V 94-96). Dopo questa data non si hanno più notizie di lui e tutto lascia pensare che egli morisse nel corso di quello stesso anno. La risposta polemica De ara Victoriae del poeta cristiano Prudenzio nella Contra Symmachum costituisce, per certi versi, una sorta di necrologio del senatore (Prud. c. Symm. II 7-16).
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Composizione e confini della corte a Roma
In uno studio recente sull’aula Caesaris, che può essere considerato il più accurato e completo sull’argomento, Aloys Winterling (1999) cerca di seguire il processo d’istituzionalizzazione della corte nei primi due secoli dell’Impero. Egli individua, in particolare, alcuni elementi di rottura rispetto alla tradizione della domus gentilizia, da cui ha origine l’apparato della casa imperiale. Specialmente con Claudio e con Domiziano, il progressivo ampliamento delle strutture edilizie imperiali del Palatium, e il connesso adeguamento culturale, nel segno dello sfarzo e dell’esclusivismo, disperdono ogni possibile legame con quell’eredità. Il Palatium, il Palatino, finisce per diventare per antonomasia «il palazzo».
Gli aspetti del cerimoniale risalgono al costume clientelare repubblicano della salutatio (l’omaggio del saluto mattutino che i clientes devono al loro patronus), ma adesso è l’aristocrazia nel suo insieme a entrare, con questo rito, nell’amicitia del principe. Anche i conviti rinviano a un costume repubblicano, ma con Claudio il numero dei convitati arriva a 600! La stessa organizzazione amministrativa, partendo dall’apparato domestico della familia, che ha un decisivo incremento sempre con Claudio, rompe ogni legame con la tradizione della casa aristocratica, a causa della sua ampiezza e dell’inserimento progressivo dei cavalieri al posto dei liberti. In questo modo, la corte si stabilizzerebbe, fra le tradizionali sfere repubblicane della domus e della respublica, come una nuova istituzione sui generis.
L’interpretazione delle nuove gerarchie sociali è la parte più laboriosa e forse più problematica della ricostruzione di Winterling, che basa su di essa l’individuazione del processo d’istituzionalizzazione della corte. Agli inizi del principato nasce una nuova gerarchia sociale, misurata secondo la vicinanza al principe, comprendente anche individui di umile origine. Questa gerarchia si affianca a quella di rango – aristocratica e tradizionale – misurata essenzialmente sulla famiglia e sulla carriera magistratuale. In particolare, Winterling vede agli inizi del principato tre categorie di «cortigiani»: 1) la cerchia più ristretta, cioè i familiares; 2) una più larga cerchia di amici; 3) l’insieme dell’aristocrazia, la cui amicizia ha un carattere istituzionale perché s’impernia sul principe come tale, non su legami personali con lui, e si manifesta con il rito della salutatio. Le prime due categorie di legami sono di tradizione repubblicana; la terza è invece specifica del principato.
Il processo d’istituzionalizzazione passerebbe attraverso la progressiva sovrapposizione, nei primi due secoli del principato, della terza categoria alla seconda e poi anche alla prima. Ciò comporterebbe l’unificazione della gerarchia basata sulla vicinanza al principe con quella basata sul rango sociale, anche perché il principe affida di fatto a persone di sua fiducia sia le magistrature, e quindi il rango senatorio, sia il rango equestre. Si verificherebbe allora un’istituzionalizzazione e insieme un’aristocratizzazione della corte. La reazione a questo processo sarebbe, già con Adriano, la ricomposizione di una cerchia più ristretta di amicissimi, una sorta di «corte nella corte». Al posto della domus un nuovo termine segna, dalla metà del I secolo in poi, per Winterling, il concetto di corte istituzionalizzata: aula.
È una «corte senza “Stato”». L’istituzionalizzazione sembrerebbe da intendersi, nell’impostazione di questo studioso, in relazione al profilo politico-sociale della nozione di Stato, più che a quello propriamente istituzionale. L’istituzionalizzazione, vista in maniera essenzialmente sociologica, sembrerebbe verificarsi quando si generalizza l’aristocratizzazione degli amiciprincipis, cioè quando il ruolo di amicus diventa indipendente dalle relazioni personali del principe. È in questo senso che la corte viene definita come istituzione sui generis tra la sfera domestica e quella civica, tra la domus e la respublica.
Nasce tuttavia, proprio in questo periodo, una realtà nuova rispetto alla tradizione repubblicana: la categoria dell’amministrazione, il cui rapporto con la corte è ancora in fieri. L’apparato della carriera equestre non può essere certo considerato come l’«organizzazione cortigiana del principe». Si pone piuttosto il problema della definizione giuridica del personale amministrativo, e in particolare dei procuratori, anche se il tentativo di razionalizzare queste figure in termini che potrebbero soddisfare le concettualizzazioni moderne potrebbe risultare vano, come, del resto, quello di far rivivere compiutamente le categorie antiche.
Il problema dell’istituzionalizzazione, in effetti, è legato anche a quello della definizione complessiva dell’apparato di governo che emana sì dal principe, ma si dipana poi in una serie di posti, ruoli, incombenze, carriere. Un elemento sicuro e non trascurabile che possiamo utilizzare è quello offerto da Marco Aurelio, quando, in una sua descrizione della corte (Τὰ εἰς ἑαυτόν 8, 31), non inserisce fra le sue componenti il personale amministrativo in quanto tale: esso è nascosto tra parenti, amici, personale «familiare», domestici.
La situazione, da questo punto di vista, avrà uno sviluppo solo con gli imperatori assoluti del IV secolo. In quest’epoca, tuttavia, la «corte istituzionalizzata» non corrisponde al termine aula – semmai al più indicativo sacrum Palatium – mentre, come riferimento attivo, opera il comitatus, che si estende anche al personale burocratico non cortigiano. In effetti, la documentazione tarda non aiuta a definire gli ambiti: la corte come tale appare anzi schiacciata dalle istituzioni. Il concetto di aula, comunque, continuerà ad avere, come risulta negli autori tardi e nella letteratura giuridica, il suo senso più generico e informale, ruotante attorno al concetto fisico di «reggia».
Gruppo familiare (dettaglio). Bassorilievo, marmo, 9 a.C., dall’Ara Pacis. Roma, Museo dell’Ara Pacis.
La corte fra nobilitas e nuove aristocrazie in formazione
Torniamo agli inizi del processo e, quindi, agli inizi del principato: in particolare, al ruolo delle aristocrazie e alle relazioni gerarchiche che ruotano attorno al principe. Bisogna ritornare dapprima al concetto di domus Augusta, che è propedeutico, come si accennava, e non alternativo a quello di aula. Secondo quanto risulta dalla tradizione, questi termini sembrano in effetti maturare quasi nello stesso tempo, tra la fine del principato di Augusto e gli inizi di quello di Tiberio. Il concetto di domus Augusta, d’altra parte, è verosimilmente connesso col problema della successione. L’idea di domus, mentre allargava l’ambito della gens e della familia, restava in una logica nobiliare, che possiamo continuare a chiamare, in senso lato, «gentilizia». Da questo punto di vista, lungi dall’essere vista come una colpa, come apparirà agli inizi del principato, la concezione del predominio di una sola famiglia era più accettabile del predominio di un singolo. La successione si giustificava all’interno di questa concezione.
A questo processo si collegava forse un altro fenomeno importante: nel comune modo di vedere, per nobilitas s’intendeva ora solo la nobilitas di tradizione repubblicana. Sembra che le cariche magistratuali assunte in età giulio-claudia non producessero più nobilitas, come avveniva in età repubblicana. La nuova nobiltà, infatti, era indicata sempre con il termine homines novi. In questo senso si registra una sorta di serrata ideologica, una chiusura della vecchia nobiltà che la avvicina alla nobiltà moderna e che ben si adattava a quell’esclusivismo da cui può nascere un ambiente di corte.
La domus Augusta e la nobiltà esclusiva appaiono dunque strettamente connesse e si uniscono in un largo intreccio di parentele, che vede praticamente tutti i discendenti dei grandi leader repubblicani essere in qualche modo legati da parentela alla domus: gli Scribonii, gli Antonii, i Cornelii Scipiones, gli AemiliiLepidi, i IuniiSilani, i Cornelii Sullae, i Pompeii, i Domitii. È qui il nucleo e la genesi della corte. La vicinanza al principe viene dunque misurata in termini tradizionali, cioè in gradi di “nobilizzazione”: ma la gerarchia di nobiltà è dettata ora dai legami più o meno stretti con la casa cesarea, come prima lo era dal numero dei consolati o dei trionfi. Si tratta di una gerarchia guidata da una rinnovata logica aristocratica nobiliare, adesso strettamente dipendente dal principe.
A Roma non esisteva una tradizione di casa reale, né era il principe ad assegnare il rango nobiliare come in età moderna. Il presupposto stabile per la formazione di una corte riconoscibile e riconosciuta fu dunque il ceto ormai circoscritto ed esclusivo della nobiltà repubblicana, che – insieme con la domus e con il personale servile e libertino delle case aristocratiche – costituiva il nucleo dell’apparato di governo centrale del principe. La stessa possibilità di una successione appariva quindi circoscritta alla nobilitas, legata intimamente alla domus Augusta.
Alla presenza nobiliare, che caratterizzava la corte, basata su una rinnovata gerarchia aristocratica di tipo piramidale, si aggiungeva l’eredità di una struttura tipica dello stile di vita aristocratico repubblicano: la clientela. Nella corte si affermano i clienti del principe o di qualche altro importante esponente della domus (per esempio, Antonia Minore). Accanto al piccolo Britannico, figlio di Claudio, sedeva a cena, insieme con i figli dei nobili, anche il suo coetaneo Tito, figlio dell’uomo nuovo Vespasiano. Qui vediamo il germe di una nuova gerarchia: a volte, un «amico», di rango inferiore, del principe assume, come singolo, un ruolo e un potere maggiore di un aristocratico. È la gerarchia che Winterling opportunamente definisce «secondo la vicinanza al principe», anche se non dobbiamo dimenticare che essa nasce, attraverso la clientela, dalla stessa logica nobiliare che caratterizza la corte.
Nell’ambito della corte prende forma un nuovo ceto, che però non si pone ancora, in quanto ceto, in concorrenza con quello vetero-nobiliare in termini di potere (un caso a sé, vedremo, è l’inserimento nella gerarchia di corte di liberti e servi imperiali, cioè di esponenti della familia). Lungo tutta l’età giulio-claudia, sono sempre le famiglie della vecchia nobiltà a trovarsi implicate nei giochi della successione, proprio perché connesse alla casa cesarea e per questo continuamente epurate. Minori rischi corrono, fino a un certo punto, come osservano gli stessi autori antichi, gli «uomini nuovi» o, comunque, i «cortigiani» di rango inferiore, proprio perché, nella logica nobiliare, non sono tenuti in considerazione, nel bene e nel male, per una successione. Solo alla fine del principato gentilizio giulio-claudio, che crolla insieme con le altre grandi famiglie nobiliari a esso connesse, in quell’irreversibile crisi di ricambio e di sostanze descritta mirabilmente da Tacito, le nuove gerarchie formatesi ai margini della corte nobiliare avranno un ruolo anche nella nomina del principe. Con i Iulii e con i Claudii si esauriscono grandi famiglie nobiliari gli Aemilii Lepidi, i Iunii Silani e altre ancora. Dopo il nobile Sulpicio Galba, sarà la volta dei Salvii, dei Vitellii, dei Flavii. Queste «famiglie nuove» emergeranno nella devozione alla famiglia cesarea, ai margini degli ambienti di corte. E la corte sopravviverà proprio grazie a individui in grado di acquisire, in termini per il momento più parchi, quello stile di vita e di governo nel quale erano cresciuti.
Integrazione e controllo delle classi superiori, patronato di quelle nuove ed emergenti, sono del resto fra le caratteristiche tipiche del ruolo della corte anche nell’età moderna. Una volta emarginati irreversibilmente gli esponenti residui della nobiltà repubblicana – l’unica nobiltà riconosciuta in età giulio-claudia – le nuove gerarchie si baseranno sulle funzioni pubbliche. Si tratta di un campo aperto al merito e alla mobilità, e in esso si affermerà alla fine anche una certa spersonalizzazione delle relazioni di corte, che sarà un punto cardine della sua funzione statuale. Certo, la nuova aristocrazia si forma, per la maggior parte, o direttamente nella corte o attraverso la sua mediazione (pur con l’apporto ormai di tutto l’Impero e dell’elemento militare): l’unificazione di aristocrazia e corte riguarda un ceto che non ha più la stessa formazione della nobilitas giulio-claudia e che si «burocratizza». Per altro verso, l’aristocrazia senatoria conserva una sua tradizione istituzionale e ideologica che può entrare in contrasto o in concorrenza con la corte e con il principe.
Scena di processione con la corte imperiale. Bassorilievo, marmo, 9 a.C., dall’Ara Pacis (fregio A, lato ovest). Roma, Museo dell’Ara Pacis.
Sviluppi della corte a Roma
Marco Aurelio aggiunge ai componenti della corte, insieme con i parenti e gli amici del principe, gli οἰκεῖοι, da intendersi evidentemente come la familiaCaesaris. Nasce da questo nucleo l’apparato amministrativo pubblico esterno alla familia: un apparato burocratico e stipendiato, che, sorto essenzialmente come emanazione della corte, assume presto una vita a sé, una sua struttura che diventa a sua volta modello di organizzazione governativa. In questo senso, si può sostenere che l’aula si pone, di fatto, come mediazione fra l’origine familiare del principato, con il suo apparato domestico, e la nascita di una stabile struttura burocratica «statuale», favorendo il processo di separazione, oltre che fra privato e pubblico, fra amministrazione e politica. L’aula contribuisce così, inaspettatamente, a un’opera di modernizzazione della vita pubblica. In età tardoantica, si riterrà utile selezionare i quadri dei funzionari, dei «competenti», anche attraverso una buona scuola, organizzata, ai livelli superiori, dai poteri «statali», alla quale si affiancheranno scholae specifiche per i diversi addetti all’amministrazione, gli officiales. Già nell’alto principato, tuttavia, la discussione sulla scelta del personale superiore vede affacciarsi la tendenza verso interessi «specialisti» rispetto alla tradizionale preparazione «generalista».
È difficile però, come si accennava, distinguere nettamente, nei vari stadi, fin dove arriva il raggio della corte e a partire da quale punto il personale debba essere invece inteso come apparato amministrativo, con una sua struttura ormai autonoma. Abbiamo visto che Marco Aurelio non include questo personale tra i componenti della corte. Il discrimine più semplice può essere forse individuato, come per l’età moderna, nell’ambito spaziale – all’interno o all’esterno del palazzo – dell’appartenenza alla casa del principe. Per questo sembra comunque difficile parlare di un’istituzionalizzazione della corte sotto il profilo giuridico già nel II secolo.
Nei primi due secoli dell’Impero la corte e la res publica restano in una posizione ambigua e contraddittoria. Da una parte è singolare che la corte si continui e si sviluppi proprio nel principato civilis o «illuminato» del II secolo, dall’altra, in fondo, un processo di istituzionalizzazione poteva attuarsi solo se la corte si allontanava dalla concezione nobiliare, «patrimoniale», originaria del principato. La corte era rimasta, anche con le «famiglie nuove» giunte al vertice dell’Impero, che del resto si erano formate all’interno della corte stessa, un’eredità ineliminabile lasciata dalle casate nobiliari, in quanto apparato «culturale», per il governo del principe. Gli storici «etici» del II secolo, pur critici verso i Giulio-Claudi, non danno una visione solo negativa o polemica dell’aula. Ne sono criticate solo le degenerazioni, la cattiva pratica. Il principe-filosofo Marco Aurelio respinge certo le degenerazioni della corte, ma l’accetta come un’espressione necessaria della gestione del potere: modello di un certo tono e di un certo stile che viene visto ormai caratteristica del governo del principe.
Pure, perché la corte si espandesse e consolidasse nella sua funzione pubblica bisognava che il principe, superata la logica del «primato» nobiliare, non fosse condizionato da troppe remore derivanti dall’etica «privatistica», familiare, e spezzasse ogni legame con la tradizione istituzionale repubblicana. Era necessario cioè che egli si trasformasse apertamente e programmaticamente in un sovrano assoluto, che nella sua altezza sacrale, proprio attraverso la corte, apparisse separato dal resto della società, e che il suo rapporto con le nuove aristocrazie sorte dal suo apparato cortigiano di governo fosse regolato da un rigido e uniforme principio gerarchico.
La storia della corte a Roma nasce dunque, sempre su suggestione delle monarchie orientali, dall’esclusivismo vetero-nobiliare accentratosi attorno alla domus Augusta dalla tarda età augustea a quella giulio-claudia. In quest’ambito la corte utilizza le strutture dell’amministrazione domestica e coopta presenze di natura clientelare, favorendo la crescita di un apparato di governo centrale. Questo apparato, che in progresso di tempo si baserà in buona parte sulle competenze, guarda all’amministrazione dell’Impero e nello stesso tempo pone, più o meno consapevolmente, le basi per la formazione di una nuova aristocrazia, anche politica. Questi due aspetti andavano entrambi al di là della struttura di potere magistratuale della città-stato. Il nuovo strato sociale emergente entra in parte nella corte e sopravvive anzi alla dissoluzione della sua originaria struttura vetero-nobiliare, divenendo il nucleo del governo imperiale e delle nuove gerarchie aristocratiche, politiche e burocratiche. È questa una fase di maturazione e d’istituzionalizzazione della corte che coincide, in laborioso connubio, con la contemporanea ideologia del «principe civile» (civilisprinceps), anch’essa lontana dalla concezione patrimoniale e nobiliare del primo principato.
È solo nel IV secolo, dopo il trauma della crisi del III secolo, quando il principe si isola infine nel suo assolutismo «divino» e il sistema di governo dell’Impero viene riorganizzato, che la corte diventa – a rischio peraltro di complicare la propria identità a causa dei propri confini sfumati – un’espressione dello Stato, la cui concezione rivela ormai un grado avanzato di astrazione. Una nuova aristocrazia all’interno della corte, e una nuova gerarchia che si estende anche al suo esterno, entrambe «burocratizzate», fanno da raccordo tra il sovrano e la società esterna.
Roma trasmetterà così alla cultura occidentale moderna, insieme con il modello della città-stato, perpetuatosi negli ordinamenti municipali, quello dell’organizzazione di corte: i due modelli di governo e di selezione del ceto dirigente fra i quali si dibatteranno i sistemi organizzativi della storia d’Europa fino alla costituzione dello «Stato moderno» e degli Stati nazionali.
Tiberio Claudio Germanico Augusto e la moglie Agrippina Minore (a sn) affrontati a Germanico e Agrippina Maggiore (a dx). Cammeo detto “Gemma Claudia”, onice, 49. Wien, Kunsthistorisches Museum.
«Domus Augusta» e «aula»
Nell’età di Traiano, Tacito osserva sconsolato che con il principato di Augusto i nomi delle istituzioni – Senato, magistrati, res publica – pur restando gli stessi di prima, coprivano ormai realtà diverse, svuotate di consistenza (Annales I 3, 7; 7, 3, ecc.). Erano invece attivi nell’alto principato, possiamo aggiungere, nuovi termini e nuove realtà, quali la domus Augusta e l’aula. Quest’ultima indica a volte, fisicamente, la casa del principe, la reggia; altre volte l’aggregazione di persone che gravitano attorno al principe, con il loro stile di vita.
Gli ambienti e gli spazi cui i nuovi termini fanno riferimento non sono definibili in precisi profili giuridici, ma rimandano comunque a concettualizzazioni socialmente sentite e operanti. Cercheremo di percepirne qualche eco.
Anche se per l’età giulio-claudia non possiamo parlare di una società di corte pienamente strutturata, siamo di fronte a un sistema aggregativo e organizzativo nuovo rispetto all’età repubblicana, un sistema che viene a porsi come nuovo centro di potere. Da chi era formata dunque nell’alto principato una corte? Le indicazioni fondamentali ci sono fornite, come abbiamo già detto, da Marco Aurelio. Egli individua l’esistenza di una corte già sotto Augusto, e la descrive in questi termini: «La corte di Augusto: moglie, figlia, nipoti, figliastri, sorella, Agrippa, parenti (συγγενεῖς), personale di famiglia (οἰκεῖοι), amici, Ario (Didimo di Alessandria, filosofo), Mecenate, medici, sacrificatori» (Τὰ εἰς ἑαυτόν 8, 31).
Compongono dunque la corte la domus Augusta col suo personale e con una rete di parentele che confina con i semplici amici; e inoltre vari «intellettuali». Probabilmente per motivi moralistici Marco Aurelio non include le guardie del corpo (che altrove appunto non vede bene nella corte: Τὰ εἰς ἑαυτόν 1, 17) e che sono ricordate invece da Tacito fra la «pompa» dell’aula (Annales I 7, 3).
Il concetto di aula presuppone evidentemente quello di domus. La casa del principe a Roma è, all’inizio del principato, il nucleo del potere. Nella crisi delle istituzioni tardorepubblicane emergono le strutture familiari, che da sempre erano state in concorrenza con esse: Tacito vede nel principato di Augusto l’esito della vittoria del «partito della famiglia giulia» (le Iulianae partes) nelle guerre civili (ibid. I 2, 1). Ora l’ambito familiare si ampliava e si rafforzava. Il concetto di domus indicava, già in età repubblicana, un ambito di parentela più largo rispetto a quello agnatizio (linea maschile) della gens e della familia: si adattava quindi alla costruzione della casata di Augusto, dove mancavano i discendenti maschi e le donne avevano un’importanza decisiva. Da questo punto di vista è opportuno precisare che con l’espressione da noi usata «principato gentilizio» non intendiamo rinviare alla gens come famiglia agnatizia ma, in senso lato, alla concezione nobiliare viva in questa fase: la concezione secondo la quale la generazione successiva poteva vedere la dinastia dei Giuli e dei Claudi come «l’eredità di una sola famiglia» (Tacito, Historiae I 16, 1).
Il concetto di domus Augusta si forma solo nella tarda età augustea. A parte l’evidenza dei gruppi statuari familiari della casa cesarea, promossi anche ufficialmente, e a parte l’imponenza iconografica della famiglia negli spazi pubblici della città (Foro, templi, ecc.), l’idea di domus Augusta ha una sua prima elaborazione, in quanto tutela dell’Impero, con Ovidio, nelle opere dell’esilio. Solo nei primi anni tiberiani, come ci rivelano i nuovi importanti documenti epigrafici rinvenuti in Spagna, la domusAugusta entra nel linguaggio ufficiale (dopo essere entrata in quello simbolico-iconografico): nel 15 d.C., come sappiamo dalla Tabula Siarensis, che conserva il decreto senatorio sugli onori da rendere alla morte di Germanico in missione in Oriente, una statua fu dedicata nel circo Flaminio dal console Norbano Flacco al divo Augusto e alla domus Augusta (Tab. Siar. ll. 9-11). La domus Augusta è ricordata poi nella sentenza del Senato del 20, a conclusione del processo contro Gneo Pisone, legato di Siria, accusato di aver osteggiato, ostacolato e addirittura avvelenato Germanico; in questo documento, essa compare esplicitamente, nella sua inviolabile maestà (maiestas), come depositaria dell’incolumità (salus) della respublica (Senatusconsultum de Cn. Pisone patre ll. 33; 160-165). La maiestas attribuita dal Senato alla domus Augusta cancella il suo carattere privato e qualifica la sua funzione pubblica come riferimento e insieme espressione del populus Romanus. La rappresentatività pubblica del principe, protetto dalla lex maiestatis dall’8 a.C. (se non già dal 27), porta con sé quella della domus. Riflettendo sulla precarietà della fortuna, Seneca distingue esplicitamente le privatae domus da quelle publicae, che reggono gli imperi (Nat. quaest. 3, pref. 9).
Ma quali categorie comprendeva il concetto di domus? Nella fitta e aggrovigliata rete di parentele che investono la domus, i suoi confini spesso ci sfuggono e quindi non è precisamente definibile il discrimine tra famiglia del principe e gli amici, che sono spesso legati anche da qualche parentela, magari lontana, alla famiglia. I redattori della citata sentenza sul processo di Gneo Pisone (ll. 142-145) ricordano come Claudia Livia (Livilla), sorella di Germanico, che aveva sposato il figlio di Tiberio, Druso, fosse strettamente imparentata con la nonna Giulia Augusta e con lo zio e suocero Tiberio. Evidentemente essi intendono con domus non i Iulii in senso stretto, ma almeno anche i Claudii. Il concetto di domus pare in definitiva poggiare appunto su parentele più o meno strette o lontane. Svetonio dice di Galba, successo al potere alla morte di Nerone, che «non toccava a nessun livello (nullo gradu) la casa dei Cesari» (Galba 2), riconoscendo così una gradualità di articolazioni, e quindi una gerarchia, nella vicinanza o nell’appartenenza alla domus.
Accanto all’idea di domus Augusta, e verosimilmente in dipendenza da essa, prende dunque forma dall’avanzata età augustea, nell’autocoscienza del principato, il termine e il concetto di aula, riferito sia al palazzo dove risiede il principe, sia alle persone che gravitano con continuità intorno a lui, sia al «clima» che intorno a lui si respira. L’aula appare dunque come un ambiente dotato di una certa stabilità: è lecito rendere questo secondo referente col termine «corte». Pur non essendo una nozione assimilabile al concetto di «pubblico», l’aula assume, accanto alla domus Augusta e alla residenza dei Cesari (il Palatium), un certo aspetto di «ufficialità», soprattutto nel momento in cui richiede un’ammissione formale. Questo termine, riferito al princeps e alla domus, rimanda a una realtà generalmente accettata, che acquisisce un’accezione negativa solo nelle sue espressioni degenerate.
Il più immediato modello di riferimento per l’uso del termine aula a Roma non poteva che essere l’αὐλή delle monarchie orientali, persiana ed ellenistiche. L’αὐλή indicava anzitutto il βασίλειον, la residenza regale, attorno alla quale si sviluppavano le relazioni di amicizia del re. Questi si circondava di aristocratici fiduciari (i φίλοι, «gli amici») che, mentre con questa vicinanza partecipavano in qualche modo al potere, a loro volta riconoscevano e legittimavano la figura centrale e preminente del monarca. Un cerimoniale condiviso formalizzava le reciproche relazioni, contribuendo a creare nel βασίλειον il centro decisionale, con una gerarchia che incideva nell’organizzazione interna del regno. Non è un caso che, insieme con la corte di Augusto, Marco Aurelio ricordi promiscuamente come «tutte simili» le corti di Adriano, di Antonino, di Filippo, di Alessandro, di Creso (la circostanza è significativa anche se la sua visione è orientata da una riflessione moralistica sulla precarietà della condizione umana: Τὰ εἰς ἑαυτόν 10, 27). In modo simile, già Seneca aveva genericamente evocato, con chiara allusione ai propri tempi, atteggiamenti riferiti alla «corte dei re».
Esaminiamo adesso, per quel che riguarda Roma, che cosa gli autori antichi intendessero con il termine aula e quale concettualizzazione esso presupponesse o rispecchiasse. La prima testimonianza di un uso del termine riferibile con molta probabilità all’ambito del princeps si trova in Seneca. Nel dialogo ad Novatum de ira, scritto nei primi anni Quaranta, Seneca riporta come «ben nota» la risposta di un personaggio che aveva passato una lunga vita accanto ai «re»; a chi gli chiedeva come avesse fatto a raggiungere la vecchiaia «a corte» (nell’aula), cosa rarissima, l’anziano rispose «accettando le offese e ringraziando»: un compendio dello stile di vita di un vero cortigiano (II 33, 2). È noto che Seneca indichi spesso con il termine «re» il principe. In ogni caso, pare chiaro che l’aneddoto riguardasse anche l’attualità, sicché nella sua lunga vita il cortigiano potrebbe aver conosciuto l’età di Tiberio. Tacito ricorda (Annales I 7, 3) che subito dopo la morte di Augusto Tiberio cominciò ad agire come se fosse già principe in carica, «tutt’attorno le guardie, le armi e l’altra pompa di corte» (exubiae, arma, cetera aulae). Sarebbe interessante sapere se qui il termine aula si debba a Tacito o alla sua polemica fonte. L’esistenza di una corte attorno al principe nell’età di Tiberio è attestata comunque da una testimonianza che possiamo considerare diretta. Quand’era un ragazzo, Svetonio (Caligola 19, 3) aveva sentito raccontare dal nonno di aver saputo da intimi aulici («intimi cortigiani»), il motivo della costruzione del ponte fra Baia e Pozzuoli da parte di Caligola, all’inizio del suo regno. Con quest’impresa l’imperatore aveva voluto dare una risposta all’astrologo Trasillo, intimo di Tiberio. Durante il regno di Tiberio, Trasillo, secondo i pettegolezzi degli aulici, aveva predetto che Caligola avrebbe fatto più presto ad andare a cavallo da Baia a Pozzuoli che a regnare. Il termine aula, se Svetonio, come sembra dal contesto, riprende il racconto del nonno, risale dunque all’ambito dell’età di Tiberio. Con un termine «tecnico», che in quanto tale sembra risalire all’epoca del suo racconto, Tacito parla di una «corte divisa» (aula discors) nei primi anni del regno di Tiberio, a proposito del favore per Germanico o per Druso, i due figli, adottivo e naturale, del principe (Annales II 43, 5). Morti poi entrambi e caduto infine anche Seiano, Caligola, da parte sua, essendo ormai, come osserva Svetonio, «abbandonata a sé stessa e priva di ogni altro sostegno l’aula», poteva guardare con fiducia alla successione (Caligola 12).
Il concetto di corte, inteso a indicare i frequentatori della casa del Cesare, del palazzo, e comunque della sua residenza (come a Capri), sembra dunque risalire all’età di Tiberio, forse anche agli ultimi anni di Augusto. Marco Aurelio, come s’è visto, fa cominciare la formazione di una corte a Roma già in età augustea, ma dobbiamo riconoscere che la sua affermazione può essere stata distorta dalla lunga storia successiva. A una caratteristica tipica delle corti che ritroviamo anche in età medievale e moderna, richiamano i conviti allietati da buffoni di cui Svetonio (Tiberio 61, 6) leggeva negli Annali di un ex console di età tiberiana. Un nano, fra i buffoni, chiese a Tiberio come mai fosse ancora vivo un tal Paconio, pur accusato di lesa maestà (siamo evidentemente nel periodo tardo del regno, durante il soggiorno di Tiberio a Capri: la corte, come quelle moderne, segue il principe). Sul momento, Tiberio rimproverò quella lingua petulante, ma dopo pochi giorni sollecitò con una lettera il senato perché si affrettasse a giudicare Paconio. L’aneddoto fa comprendere che era presente, già in quell’epoca, la tipica e pericolosa sfrontatezza politica dei buffoni di corte che ci è nota per le corti di altre epoche.
La quasi coincidenza cronologica dell’apparire dei concetti domus Augusta e aula Caesaris conferma la loro relazione: l’aula si forma attorno alla domus Augusta. Bisogna d’altra parte tener conto che in quella stessa età, o poco dopo, matura anche il concetto di Palatium come sede del principe, luogo ormai pubblico del potere. Esso si affianca al referente di Palatium (Palatino) come colle dove si trovano le residenze dei principi. Anche la residenza di Augusto aveva subìto un graduale processo di «pubblicizzazione»; le tappe sono note: l’occasione dell’elezione a pontefice massimo nel 12 a.C.; la ricostruzione della casa, con l’apporto di una sottoscrizione pubblica, in seguito a un incendio nel 3 d.C. La residenza imperiale per il resto si amplia con altre domus, come quelle di Livia e di Germanico, prendendo nome dal principe in carica, così la domus Tiberiana e poi la domus Flavia. Con gli ampliamenti di Caligola, di Claudio, di Nerone, che si espande nell’Esquilino con la domus Aurea, e infine di Domiziano, che ritorna al Palatino come centro, si forma un complesso unitario che supera di gran lunga l’esperienza delle grandi case aristocratiche repubblicane da cui anche le domus dei principi dipendevano. Il Palatino diventa sinonimo del «palazzo» del principe. Nel 69, esso rappresenta la sede legittimante dei principi in contesa fra di loro: nel momento in cui Vitellio si accinge a lasciare il potere, di fronte alle truppe di Vespasiano, per ritirarsi nella casa del fratello, i suoi seguaci gli sbarrano la via verso quei «Penati privati», cioè una casa dai culti privati, premendo perché torni al Palatium (Tacito, Historiae III 68, 3).
Il Palatium è naturalmente la sede privilegiata, diciamo lo spazio proprio dell’aula. Negli autori aula e Palatium ricorrono spesso come sinonimi ad indicare la sede del principe. Ma, nel caso dell’aula come aggregazione di persone, come si è visto, il rapporto con la funzione pubblica è più complesso, ed è anche difficile definire l’ambito che la delimita.
Apoteosi di Augusto e allegoria della Pax Augusti (“Grand Camée de France”). Cammeo, 23 d.C. ca. Cabinet des Médailles.
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Il Commentariolum petitionis, attribuito a Quinto Tullio Cicerone, costituisce un documento di eccezionale importanza, un vero e proprio manuale su come vincere le elezioni. L’autore fornisce al fratello Marco, candidatosi per il consolato del 63 a.C., una serie di consigli e raccomandazioni, descrivendo nei minimi dettagli ogni comportamento e gesto che avrebbe dovuto tenere nei confronti dell’elettorato. Per conseguire la magistratura suprema l’interessato doveva assicurarsi solide basi che sostenessero la sua causa e, in particolare, non poteva fare a meno dell’appoggio degli amici: allargare la propria cerchia di conoscenti voleva dire guadagnarsi nuovi alleati, persone con le quali solo in certi casi si creavano dei legami affettivi che trascendessero l’aspetto politico; era fondamentale, oltretutto, ottenere l’amicitia di uomini di ogni ceto sociale e soprattutto riscuotere il favore delle personalità più cospicue, le quali solo con il loro nome potevano accrescere il prestigio del candidato, e quello degli elettori più influenti nelle centuriae, capaci di spostare molti voti. Pochi anni prima, durante la sua praetura nel 66, Marco era intervenuto a favore della lex Manilia sul conferimento del comando mitridatico a Gneo Pompeo Magno e ciò gli aveva attirato le simpatie «di quell’uomo potentissimo» (Comm. Pet. 5, eum qui plurimum posset).
Per procurarsi il supporto necessario, inoltre, il candidato doveva fare leva sull’emotività delle persone attraverso i beneficia, la speranza riposta nelle promesse e la contiguità d’animo e d’intenti. Spesso anche un piccolo beneficio, un aiuto era sufficiente a guadagnarsi l’amicizia di qualcuno e Marco, che da più di un decennio esercitava abilmente l’avvocatura, poteva valersi di una lunga lista di debitori, che adesso potevano restituirgli il favore appoggiandolo nella campagna elettorale: Cicerone poteva sfruttare l’amicitia di quanti aveva difeso e scagionato negli anni precedenti, ovvero Gaio Fundario, Gaio Orchivio, Gaio Cornelio e Quinto Gallo – tutti processati de peculatu (Comm. Pet. 19-20).
Uomo togato. Statua, marmo, c. 125-250 d.C., da Roma.
In altri casi, era la speranza a muovere l’animo della gente, e solo il pensiero di poter conseguire un guadagno futuro era già una motivazione valida per stringere un accordo, anche se alla fine l’utile concreto non sarebbe mai venuto: le promesse dovevano essere fatte in modo generale e allusivo, in modo che ciascun interessato potesse interpretarle come meglio credesse e il candidato potesse giocare sulle molteplici interpretazioni, se, una volta eletto, non facesse seguire i fatti. L’aspirante, poi, doveva dimostrare un impegno costante nei confronti degli amici, a riprova che il beneficium era duraturo e che il legame con il futuro magistrato avrebbe potuto consolidarsi e trasformarsi in un rapporto più familiare e personale. A tal proposito, Quinto osservava: «… tra tutti gli altri fastidi la candidatura ha pure questo vantaggio: puoi onorevolmente – cosa che non riusciresti a fare in tutte le altre circostanze della vita – associare alla tua amicizia tutte le persone che vuoi, con le quali, se in altro frangente vieni a trattative, affinché abbiano rapporti con te, dai l’impressione di agire in modo stonato; invece, nel caso di una candidatura, se non svolgi questa trattativa sia con molte persone sia con cura scrupolosa, dai l’impressione di non essere affatto un candidato» (Comm. Pet. 25, … in ceteris molestiis habet hoc tamen petitio commodi: potes honeste, quod in cetera vita non queas, quoscumque velis adiungere ad amicitiam, quibuscum si alio tempore agas ut te utantur, absurde facere videare, in petitione autem nisi id agas et cum multis et diligenter, nullus petitor esse videare).
Scena di lettura del testamento davanti al magistrato. Bassorilievo, marmo, I sec. a.C. da un sarcofago.
Quinto assicurava al fratello che la candidatura gli avrebbe portato nuove conoscenze, valide a battere gli altri concorrenti: godere dell’appoggio degli uomini più influenti avrebbe allargato il consenso di Cicerone, perciò era necessario non lasciare nulla al caso e catturare il favore dei ceti emergenti. Così l’autore raccomandava: «Per questo motivo, mediante numerose e svariate amicizie, procura di avere dalla tua parte tutte le centurie. E prima di tutto, cosa che balza all’occhio, lega a te senatori e cavalieri romani, le persone premurose e influenti di tutti gli altri ceti. Molti uomini laboriosi che vivono in città, molti liberi influenti e attivi, frequentano il foro; quelli che per opera tua, quelli che per mezzo degli amici comuni potrai avvicinare, datti da fare con estrema cura, affinché siano tuoi appassionati simpatizzanti: brama questo incontro, fa’ le tue deleghe, mostra di sentirti colmato di un sommo beneficio. Poi tieni conto dell’intera città, della associazioni, dell’area dei colli, dei quartieri periferici, delle zone circonvicine; se renderai partecipi della tua amicizia gli uomini più in vista di quella compagine, con il loro intervento avrai facilmente in tuo potere le rimanenti persone. Successivamente fa’ in modo di tenere a mente e nella memoria l’intera Italia ripartita in tribù e abbracciata nel suo insieme, per non consentire che ci sia nessun municipio, nessuna colonia, nessuna prefettura – insomma, nessun luogo d’Italia – nel quale tu non abbia quanto possa bastare di valido appoggio…» (Comm. Pet. 29-30, Quam ob rem omnis centurias multis et variis amicitiis cura ut confirmatas habeas. Et primum, id quod ante oculos est, senatores equitesque Romanos, ceterorum ‹ordinum› omnium navos homines et gratiosos complectere. multi homines urbani industrii, multi libertini in foro gratiosi navique versantur; quos per te, quos per communis amicos poteris, summa cura ut cupidi tui sint elaborato, appetito, adlegato, summo beneficio te adfici ostendito. Deinde habeto rationem urbis totius, collegiorum, montium, pagorum, vicinitatum; ex his principes ad amicitiam tuam si adiunxeris, per eos reliquam multitudinem facile tenebris. postea totam Italiam fac ut in animo ac memoria tributim discriptam comprehensamque habeas, ne quod municipium, coloniam, praefecturam, locum denique Italiae ne quem esse patiare in quo non habeas firmamenti quod satis esse possit…).
Per quanto concerne l’aspetto propagandistico, nel periodo di campagna elettorale il candidato riuniva attorno a sé un seguito di individui che lo accompagnava ovunque andasse. Quinto classifica questi «simpatizzanti» in tre categorie: salutatores, deductores e adsecatores.
M. Tullio Cicerone (presunto ritratto). Statua (dettaglio del busto), marmo bianco, I sec. d.C. Oxford, Ashmolean Museum.
I salutatores erano coloro che si recavano di buon’ora a casa dei candidati per porgere omaggi: l’interessato, per scalzare la concorrenza e avere più salutatores possibili, doveva mostrarsi amichevole e rassicurante nei loro confronti; i deductores scortavano il proprio beniamino nel foro e lo annunciavano alla folla ovunque andasse; gli adsectatores erano gli accompagnatori assidui, che, volontari o prezzolati, seguivano il candidato in ogni apparizione pubblica: agli uni andava l’eterna gratitudine dell’aspirante, dagli altri si pretendeva un impegno e una partecipazione costanti, al punto che, in caso di indisponibilità, dovevano delegare un parente, affinché il beniamino potesse sempre sfoggiare una gran folla con forte impatto visivo (Fezzi 2007, 20-22).
D’altra parte, frequentare la gente poteva far incappare in un’insidia, cioè trovarsi in mezzo ad agguerriti nemici: quanti erano stati danneggiati da un’arringa giudiziaria e coloro che, supportando altri aspiranti in lizza, non erano legati da amicitia con il candidato. Nei confronti di queste persone occorreva adottare una linea morbida: con i primi bisognava scusarsi direttamente e assicurare che ci si sarebbe occupati anche dei loro affari in cambio dell’amicitia; con i secondi era opportuno infondere loro speranza di agire nel loro interesse, una volta eletti, e provare ad assumere un atteggiamento benevolo nei confronti dell’avversario stesso (Comm. Pet. 40).
Benché fosse usanza comune denigrare il competitore, stando pur sempre nei limiti del possibile, per far cadere su di lui sospetti di ogni tipo, Quinto consigliava a Marco di perseguire la strada del riappacificamento, trattando i concorrenti e i loro sostenitori con rispetto, rivolgendo anche a loro favori e promesse per appianare i contrasti.
Il cosiddetto «Arringatore». Statua, bronzo, fine II-inizi I sec. a.C., da Perugia. Firenze, Museo Archeologico Nazionale.
Da oltre un secolo e mezzo il Commentariolum è stato oggetto dell’analisi di molti studiosi e fin dalla sua scoperta all’interno dei codici contenenti le Epistulae ad Quintum fratrem. Contro l’attribuzione della paternità al fratello di Cicerone si pronunciò per primo Eussner (1892), che evidenziò forti analogie tra il manuale e l’orazione di Marco In toga candida, e si convinse che il Commentariolum fosse opera di un falsario. Gli fece eco Hendrickson (1892; 1904), che trovò delle incongruenze tra il linguaggio tipico di Quinto e quello usato nel testo, sostenendo che fosse riconducibile piuttosto allo stile di Marco. Così Henderson (1950) mise in dubbio la veridicità di alcune sezioni del manualetto, nel quale, per esempio, si sarebbe erroneamente attribuita la povertà del padre di Catilina scambiandolo con quello di Clodio, come allo stesso Clodio e non a Catilina sarebbe imputabile l’accusa di stupro a danno della sorella. A favore dell’attribuzione si schierarono, invece, già Tyrell e Purser (1904); in effetti, gli strali contro l’autenticità, lanciati da Nisbet (1961), non riuscirono a demolire la fiducia della maggioranza degli studiosi nella paternità dello scritto. Comunque, è stato Nardo (1970), in un contributo denso e perspicuo, a fornire una valutazione a favore dell’autenticità del Commentariolum e attribuirlo a Quinto, stabilendo che una certa somiglianza con In toga candida costituisca la prova di una collaborazione pragmatica e ideologica tra i fratelli Cicerone; d’altronde, dal momento che questi ultimi nutrivano un rapporto di stima e di amicizia con Attico, è verosimile che il Commentariolum fosse stato concepito da Marco, scritto da Quinto e pubblicato da Attico. Tra gli assertori di questa teoria, Alexander (2009) ha proposto un’interpretazione originale, definendo l’operina «un vero e proprio attacco satirico alle campagne elettorali romane e non un insieme di consigli sui comportamenti da tenere».
Fin dall’esordio del manuale Quinto sottolineava la novità più clamorosa del fratello: l’essere un homo novus. A tal proposito, lo esortava a ripetersi: «Io sono un homo novus, aspiro al consolato, la comunità è Roma» (Comm. Pet. 2, “Novus sum, consulatum peto, Roma est”). Per raggiungere lo scopo, inoltre, Marco doveva saper giocare e far leva sulla nominis novitas, elevandola con la dicendi gloria (l’eloquenza), l’arte fondamentale di tutti i successi forensi: grazie a questa Cicerone aveva difeso molti publicani e cavalieri, i quali adesso avevano l’occasione di dimostrargli la propria riconoscenza sostenendolo. Oltre a ciò, Quinto raccomandava al fratello di procurarsi il favore di nobiles e consulares, comportandosi in modo tale da apparire al loro cospetto degno della posizione cui aspirava. Infine, lo esortava ad attirare alla sua causa gli adulescentes nobiles, il cui supporto gli avrebbero conferito un prestigio ancor più grande (Comm. Pet. 4-6).
L. Cassio Longino. Denario, Roma 63 a.C. Ar. 3,70 gr. Rovescio: Longin(us) IIIV(ir). Cittadino in atto di votare, stante, verso sinistra, mentre ripone una tabella contrassegnata con U(ti rogas) in una cista.
Quanto ai concorrenti – Gaio Antonio Ibrida e Lucio Sergio Catilina –, per poterli battere sarebbe stato opportuno ricordare alla gente chi fossero: non solo parlare delle origini familiari e della carriera politica di costoro, ma anche e soprattutto puntare il dito contro i reati da quelli commessi per provocare scandalo e denigrarli (Comm. Pet. 8-12).
Durante la campagna elettorale, l’aspirante magistrato naturalmente doveva tenere in massima considerazione anche l’opinione pubblica e garantirsi il favore popolare. A tal proposito, Quinto spiegava che fosse necessario munirsi di un nomenclator (il servo incaricato di ricordare al dominus i nomi delle persone incontrate), dimostrare abilità nel lusingare, assiduità, benevolenza, disporre di voci di propaganda e fare bella apparenza in pubblico (Comm. Pet. 41). In altre parole, il candidato doveva mettere in luce la propria volontà di conoscere le persone (homines noscere), fingendo al punto da dare l’impressione di agire secondo talento naturale. In effetti, a Marco – riconosce il fratello – non mancava «quell’affabilità che è degna di un uomo onesto e dolce di carattere» (comitas… ea quae bono ac suavi homine digna est), ma nel corso della campagna elettorale gli sarebbe stata indispensabile la blanditia («l’arte della lusinga»): il candidato doveva modificare «sia la fronte, sia la linea del volto, sia la conversazione» (et frons et vultus et sermo), adattando al modo di pensare e al volere delle persone che avrebbe incontrato (Comm. Pet. 42).
Scena di vita quotidiana nel foro. Affresco, ante 79 d.C. dalla Casa di Giulia Felice (Pompei). Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
Per rafforzare la propria adsiduitas e dimostrare benignitas nei confronti dell’elettorato, oltre a offrire banchetti sia agli amici sia a invitati passim et tributim («presi qua e là dalle tribù»), Marco doveva consentire agli altri un facile accesso, spalancando loro tanto le porte di casa quanto i recessi del proprio animo, dato che la gente non vuole che le si facciano soltanto promesse ordinarie, ma si sia disposti a largheggiare. Quindi, occorreva chiarezza su ciò che si sarebbe voluto fare, dichiarando di essere pronti a compierlo con zelo e volentieri, ma anche trasparenza su ciò che non si voleva o non si poteva fare, opponendo un garbato rifiuto o non dichiarando alcunché. Le persone, in genere, desiderano che alle parole seguano i fatti; perciò, per non attirarsi l’ira popolare è bene evitare di fare promesse o di accettare richieste che non sarebbe possibile attuare. Se l’elettore, per qualche ragione, si indisporrà, sarà opportuno che ciò accada dopo l’entrata in carica che prima; certamente sarà meno scontento colui che non vedrà realizzata una promessa, se lo si convincerà che la causa della mancata realizzazione è stata un grave imprevisto. In estrema sintesi, Quinto sostiene che «tutto sommato, il primo comportamento è proprio di un uomo onesto, l’altro di un buon candidato» (Comm. Pet. 45, quorum alterum est tamen boni viri, alterum boni petitoris).
L’autore conclude la propria esposizione facendo richiami all’eloquenza del fratello, augurandogli di condurre una campagna elettorale splendida e decorosa, raccomandandogli di mettere in luce gli atteggiamenti sospetti dei suoi competitori, senza dimenticare di sottolineare in pubblico il successo derivatogli dall’oratoria.
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Dopo la misteriosa morte dell’imperatore Valentiniano II (15 maggio 392), il magister militum Flavio Arbogaste si trattenne sulla frontiera renana (cfr. CIL XIII 8262; PLRE¹ 95-97): i pericoli e le minacce provenienti dalle popolazioni stanziate al di là del fiume esigevano unità di comando, energia e rapidità. D’altra parte, sospettato di aver eliminato il sovrano e in ragione delle sue origini franche, Arbogaste non aveva alcuna intenzione di sostituirsi al defunto Valentiniano, assumendo il titolo di Augustus. Al contrario, il magister chiese ufficialmente di mantenere la propria posizione di difensore del limes renano, giurando fedeltà agli Augusti Teodosio e Arcadio. Ma Teodosio rifiutò l’offerta di Arbogaste, rispettando le ultime volontà di Valentiniano II che lo aveva destituito (Ioh. Antioch. F 187 Müller). Anzi, come prima misura colpì l’aristocrazia pagana di Roma, togliendo a Virio Nicomaco Flaviano l’incarico di praefectus praetorio per Italiam (PLRE¹ 348): a Teodosio e al suo entourage era ben evidente la manovra di avvicinamento tra diversi gruppi di potere che stava avvenendo in Occidente, al punto che, con il favore della comune fede negli antichi dèi, la nobiltà italica aveva avviato ottime relazioni con il condottiero franco. Nei mesi successivi, quindi, Arbogaste ideò una strategia diversa, alternativa a ogni possibile intesa con Teodosio: rotto ogni indugio, il 22 agosto 392 il magister proclamò Augusto il magister scrinii Flavio Eugenio, in precedenza docente di grammatica e retorica (Socr. HE. V 25, 1; Soz. HE. VII 22, 4; Zos. IV 54; Oros. VII 35, 11; PLRE¹ 293). Si trattava di un personaggio di medio rango che tuttavia, nelle intenzioni di Arbogaste, poteva diventare il mediatore tra il suo potere militare sul Reno e l’aristocrazia tradizionale, che al nuovo imperatore doveva fornire i vertici dell’amministrazione. Eugenio, facendo sua la politica del suo generale, cercò dapprima un accordo con Teodosio e, senza muoversi dalla capitale Treviri, inviò ambascerie chiedendo il riconoscimento del proprio potere (Zos. IV 56, 3; Ambr. Epist. 57). Ricevuta una netta condanna dall’imperatore, nel 393 Eugenio decise di invadere l’Italia (Soz. HE. VII 22; Oros. VII 35, 13). A questo punto l’intesa tra Arbogaste, Eugenio, e l’élite imperiale si rivelò chiaramente: una strana alleanza tra militari romano-germanici e senatori romani tradizionalisti, destinata a ripetersi nel corso del secolo successivo. Il caso aveva riposto nelle mani di un comandante di origine barbarica la difesa del mos maiorum e della tradizione religiosa di Roma antica (cfr. Philost. HE. XI 1-2). Trasferitosi a Milano, tra la primavera del 393 e la tarda estate del 394, Eugenio restaurò il culto pagano e ordinò il ricollocamento dell’altare della Vittoria nella Curia a Roma (Paul. Mil. VAmbr. 26); Flaviano riebbe il suo posto di prefetto d’Italia e suo figlio fu elevato a praefectus Urbi (CIL VI 1782). Soprattutto, per la singolare alleanza con il franco Arbogaste, il Senato di Roma recuperò parte del proprio prestigio politico: fu l’ultimo tentativo di uscire da un’umiliante marginalità politica e religiosa, l’ultima chance per rimediare ai colpi inferti al venerando consesso dal regime imperiale fin dal III secolo.
Flavio Eugenio. Tremissis, Treveri, 392-394. AV 1,48 g. Dritto: D(ominus) N(oster) Eugeni-us P(ius) F(elix) Aug(ustus). Busto perlato-diademato, drappeggiato e corazzato, voltato a destra.
La notizia dell’usurpazione e dell’occupazione dell’Italia colse Teodosio a Costantinopoli. L’imperatore aveva fatto ritorno in Oriente accompagnato da un seguito di nobili gallici. Dal 391 al 394, in virtù della sua politica di unità ed ecumenicità dell’Impero, Teodosio si fece promotore di importanti avvicendamenti nelle più alte cariche civili e militari della pars Orientis, nonostante le resistenze del prefetto del pretorio locale, Flavio Eutolmio Taziano, e delle aristocrazie municipali (Zos. IV 52; Eunap. F 59 Blockley; Claud. in Ruf. 1, 244 ss.; PLRE¹ 746-747; CTh. XI 1, 23; XII 1, 131; XIV 17, 12). Alla notizia della rivolta di Arbogaste e dell’alleanza con l’élite pagana, Teodosio ribadì il proprio disconoscimento nei confronti della politica di tolleranza adottata dagli usurpatori, proibendo qualsiasi manifestazione dei culti tradizionali e criminalizzando perfino le forme simboliche e domestiche dei rituali (CTh. XVI 10, 12). Negò a Eugenio la dignità consolare, carica che spettava di diritto agli imperatori, riservandone un posto a sé e uno a un suo generale. Infine, decise di elevare alla porpora anche il proprio secondogenito, Onorio, che si trovava così a essere, virtualmente, l’erede della pars Occidentis.
Si era ormai alla resa dei conti. Mentre Eugenio, tramite Arbogaste, stipulava un foedus con i Franchi e gli Alamanni (Greg. Tur. HF II 9; Paul. Mil. VAmbr. 30), Teodosio si stava preoccupando di allestire un’armata, al cui comando supremo intendeva porre Ricomere, lo zio dell’artefice del “colpo di Stato”. Ma l’improvvisa morte del prestigioso comandante obbligò l’imperatore a rivedere i suoi piani (Zos. IV 55, 3). Soltanto nell’estate del 394, radunato un forte esercito e lasciato Arcadio (Augustus dal 383) al governo dell’Oriente, Teodosio riuscì a partire da Costantinopoli alla volta dell’Italia per ristabilire la legittimità della porzione d’Impero che intendeva lasciare a Onorio (Zos. IV 57, 4). La sua politica dell’hospitalitas nei riguardi dei Goti, accolti in Tracia dal 382, consentì all’imperatore di arruolarne circa 20.000 agli ordini di Gainas, condottiero che insieme all’alano Saulo condivideva il comando sui βάρβαρα τάγματα (i foederati); tra questi si trovava anche il giovane Alarico, forse scontento di dovere, lui che era di nobile lignaggio, dipendere da un Goto di rango inferiore. Altro comandante dell’esercito imperiale era l’iberico Bacurio, un fervente cristiano di origine caucasica, scampato alla disastrosa disfatta di Adrianopoli (378), «onesto e addestrato alla guerra» (ἔξω δὲ πάσης κακοηθείας ἀνὴρ μετὰ τοῦ καὶ τὰ πολεμικὰ πεπαιδεῦσθαι). Magister utriusque militiae fu nominato Flavio Timasio (PLRE¹ 914-915) e suo luogotenente fu il vandalo Flavio Stilicone (PLRE¹ 853-858). «Questa – conclude Zosimo – fu la selezione dei comandanti» (IV 57, 2-4, ἡ μὲν οὖν ἀρχαιρεσία τοῦτον αὐτῷ διετέθη τὸν τρόπον).
Teodosio guida il suo esercito verso l’Italia (Chaillet 2002).
L’imperatore d’Oriente, preso con sé il secondogenito, marciò lungo la Sava, valendosi della strada imperiale che collegava Sirmium all’Italia nordorientale, come aveva già fatto nel 388 per sconfiggere ad Aquileia l’usurpatore Magno Massimo; in quell’occasione Arbogaste era stato uno dei suoi più alti ufficiali, e anche allora nell’armata spiccavano cospicui contingenti barbarici. Memore di quell’esperienza, dal canto suo, il Franco aveva rinunciato a disperdere le proprie forze in avamposti lungo la via del settore illirico e, non disponendo di ingenti risorse militari, aveva preferito sbarrare il passo al nemico a ridosso delle Alpi Giulie. La scelta del percorso dovette consentire alle truppe imperiali di aggirare le montagne o di valicarle laddove i passi erano meno impervi, come l’altopiano boscoso Ad Pirum (Selva di Piro), nei pressi dell’odierna Gorizia. Subito a ovest dell’altura, si apriva una ridente pianura attraversata dal fiume Frigidus (Vipacco), affluente dell’Isonzo, delimitata a nord dallo scosceso crinale della Selva di Tarnova (Trnovski gozd), a sud da morbide colline e a sud-est dall’estrema propaggine delle Alpi, il monte Nanos.
Le difese approntate da Flaviano, che aveva provveduto a proteggere i valichi con statue di Giove, che tenevano in mano saette dorate, furono facilmente sbaragliate da Teodosio, che si batteva per l’affermazione del Cristianesimo. Tutto questo, nonostante l’ex prefetto urbano, rivestito il ruolo di augure, avesse predetto una sicura vittoria per la sua fazione, proponendosi di arruolare tutti i clerici e di tramutare in stalla la basilica della comunità di Milano (Paul. Mil. VAmbr. 31, 2). Ad Arbogaste non rimasero che i contingenti barbarici e alcuni reparti di Romani, sovrastati da labari recanti l’immagine di Ercole Vittorioso (August. De civ. D. 5, 26).
È difficile per i moderni stabilire dove le due compagini armate si fossero scontrate, il 5 e il 6 settembre 394: senz’altro sul fiume, ma a quale altezza non si può dire (Socr. HE. V 25). L’esercito teodosiano doveva essersi appostato su un’altura a nord-est del Frigidus e, nel primo pomeriggio della prima giornata, l’imperatore aveva scagliato all’assalto i 20.000 Goti, condotti da Bacurio, i quali piombarono sull’accampamento nemico, situato a valle. L’asperità del terreno mise fuori uso i carri che accompagnavano i foederati, e ben 10.000 di loro rimasero sul campo con lo stesso comandante, dimostrando la propria incrollabile fedeltà all’imperatore; il resto dell’esercito, fallito l’attacco, si ritirò in buon ordine (Zos. IV 58, 3; Rufin. HE. II 33; cfr. Oros. VII 35, 19).
Battaglia del Frigido (Amelianus 2012).
Dopo questo scacco Teodosio, consigliato dai suoi, fu tentato di battere in ritirata e di rinviare la guerra alla primavera successiva, ma infine decise di provare una nuova riscossa la mattina seguente. Durante la notte, Arbogaste aveva ordinato ad Arbizio di guidare i suoi guerrieri in una manovra che gli aveva consentito di portarsi alle spalle dei teodosiani; al campo di Eugenio, invece, il resto dell’armata dell’usurpatore, certa del successo della giornata e della vittoria ormai in pugno, aveva trascorso il tempo in una festosa gozzoviglia nel corso della quale furono distribuiti lauti donativi (Zos. IV 58, 4). Escluso da ciò, probabilmente il condottiero in avanscoperta pensò bene di defezionare e mettersi al servizio dell’imperatore. All’alba, poco dopo che Teodosio ebbe dato il segnale convenuto – il segno della croce –, una violentissima bora (magnus… et ineffabilis turbo ventorum) sollevò un’immensa nube di polvere tale da accecare i soldati di Arbogaste, impedendo loro di reggere addirittura lo scudo e di scagliare dardi senza che tornassero indietro (Oros. VII 35, 17-18). Un’altra versione vuole che si fosse verificata un’eclissi solare di tale entità che per molto tempo si pensò che fosse calata la notte (Zos. IV 58, 3). La libellistica teodosiana, naturalmente, imprime all’eccezionalità del fenomeno un significato religioso: l’Augustus aveva trascorso la notte in raccoglimento (Oros. VII 35, 14-16).
I soldati superstiti di Eugenio, una volta arresisi, consegnarono il proprio imperatore, che fu subito giustiziato, e la sua testa, «conficcata su una lunghissima asta», fu portata «in giro per tutto il campo, mostrando a quelli che gli erano ancora favorevoli che a essi conveniva – in quanto Romani – riappacificarsi con l’imperatore, essendo stato definitivamente eliminato l’usurpatore» (Zos. IV 58, 5, ἀφελόμενοι κοντῷ… μακροτάτῳ πᾶν περιέφερον τὸ στρατόπεδον, δεικνύντες τοῖς ἔτι τἀκείνου φρονοῦσιν ὡς προσήκει Ῥωμαίους ὄντας ὡς τὸν βασιλέα ταῖς γνώμαις ἐπανελθεῖν, ἐκποδὼν μάλιστα τοῦ τυράννου γεγενημένου).
Dal canto suo, Arbogaste, non ritenendo opportuno cercare la clemenza del vincitore, si diede alla macchia fra le montagne; accortosi di essere braccato, due giorni dopo la battaglia, si diede la morte gettandosi sulla spada (cfr. Claud. III cons. Hon. 102 ss.).
La rivolta era stata stroncata, la guerra civile era stata risolta. La battaglia del Frigidus assunse un potente valore simbolico nel confronto tra pagani e cristiani nell’ultimo scorcio del IV secolo. Da tutti, anche dai tradizionalisti, quello scontro fu avvertito come una sorta di ordalia, un giudizio divino che si era espresso al di sopra della volontà degli uomini. Le fonti, come si è detto, concordano sul verificarsi di eventi prodigiosi, che consentirono l’irresistibile vittoria di Teodosio: il “miracolo” decise il trionfo dei Cristiani sui culti antichi.
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1. I Panegirici Latini
Tra la fine del III e la fine del IV secolo d.C. (dal 289 al 389), nell’ambito della molteplice e vasta letteratura latina tardoantica, si collocano undici discorsi di elogio e di ringraziamento per alcuni imperatori romani[1], che furono grandi protagonisti di un’epoca densa di trasformazioni politiche, sociali, economiche e religiose: Massimiano, che, con il titolo di Augustus, fu al vertice dell’Impero dal 286 al 305 (insieme al fondatore e capo della «tetrarchia» Diocleziano) e poi ancora nel 307-308 (insieme a Costantino, suo genero); Costanzo Cloro, che, con il titolo di Caesar, operò soprattutto in Britannia, ove morì nel 306; il figlio di quest’ultimo, Costantino il Grande, proclamato Augustus dalle truppe alla morte del padre, che fu imperatore dal 312 al 337 ed è passato alla storia per la sua conversione al Cristianesimo; il nipote di Costantino, l’Augustus Giuliano (detto poi l’Apostata per aver egli abbandonato la religione cristiana della sua famiglia), che regnò brevemente dal 361 al 363; Teodosio il Grande, infine, l’ultimo sovrano dell’Impero romano unitario, che regnò dal 379 al 395.
Tali discorsi — tramandati con il titolo di Panegirici Latini[2]— furono tenuti in pubblico in circostanze ufficiali e solenni, e spesso alla presenza degli stessi imperatori, di cui venivano celebrate le gesta. Gli autori, tutti di origine gallica e provenienti dalle città di Treviri, Autun e Bordeaux, sedi di rinomate scuole, pronunciarono i loro discorsi — per la maggior parte (sette) proprio a Treviri, una delle abituali residenze imperiali dell’epoca, ma anche ad Autun (uno), a Roma (due) e a Costantinopoli (uno) — esprimendo in una prosa classica e solenne, di chiara impronta ciceroniana, non solo il loro pensiero riconoscente e devoto nei confronti del princeps, ma anche la mentalità dell’establishment politico-burocratico della Gallia tardoantica, cui essi, professori di retorica e funzionari dell’amministrazione, appartenevano.
Fu probabilmente l’ultimo dei panegiristi, Latino Pacato Drepanio, a mettere insieme in un’unica silloge i panegirici a noi pervenuti, che ovviamente non furono i soli discorsi di tal genere a essere scritti e pronunciati in quel secolo, ma che, a differenza di tutti gli altri, ebbero la ventura di essere tramandati, proprio grazie al loro essere raccolti in un’antologia, che forse era di natura scolastica. Non è poi difficile ipotizzare che Pacato abbia collocato al primo posto della silloge — raggiungendo così il canonico numero di dodici — un testo a suo giudizio paradigmatico, quale la gratiarum actio di Plinio il Giovane a Traiano del 100 (orazione che, anche se cronologicamente e tematicamente distante dalle altre, poteva ben essere assunta come modello latino del genere encomiastico), e poi, partendo da sé e risalendo nel tempo, abbia inserito al secondo posto il panegirico da lui stesso pronunciato per Teodosio (389) e, di seguito, quelli di Claudio Mamertino per Giuliano (362) e di Nazario per Costantino (321); a questi quattro discorsi abbastanza lunghi (rispettivamente di 94, 47, 32 e 38 capitoli) Pacato stesso — o un altro ordinatore? — avrebbe aggiunto altri otto discorsi, più brevi (mediamente di 20 capitoli), in onore di Massimiano (due: quelli del 289 e del 291), Costanzo Cloro (due: quelli del 297 e del 298) e Costantino il Grande (quattro: quelli del 307, 310, 312 e 313), continuando a disporli, ma non sempre rigorosamente, in ordine cronologico inverso (dal 313 al 289)[3].
Giovane magistrato romano. Statua, marmo, fine IV secolo, dal ninfeo degli Horti Liciniani. Roma, Centrale Montemartini.
2. Gli autori e i contenuti
Dei panegiristi conosciamo, perché essi stessi talvolta ne parlano, la provenienza geografica — le città di Augustodunum (Autun) nella GalliaLugdunensis, Augusta Treverorum (Treviri) nella Belgica, Burdigala (Bordeaux) nell’Aquitania — la formazione culturale (avvenuta nelle scuole di quelle città), le carriere politiche e amministrative e — di alcuni — anche il nome: Mamertino, Eumenio, Nazario, Claudio Mamertino, Latino Pacato Drepanio.
I panegirici del 21 aprile 289 (II [10]) e il «Genetliaco» del 21 luglio (?) 291 (III [11]) furono tutti e due pronunciati a Treviri da un retore del luogo, Mamertino, in onore degli Augusti Massimiano «Erculio» e Diocleziano «Giovio»: nel primo si celebrano le vittorie di Massimiano sulle bande rivoltose dei contadini gallici (i Bagaudi), sui Germani e sui pirati; nel secondo l’anniversario della assunzione dei titoli «divini» da parte degli imperatori e la loro concordia e felicitas.
Il panegirico del 1° marzo 297 (IV [8])[4] fu detto, molto probabilmente a Treviri, da un anonimo retore proveniente da Autun, a nome della civitas Aeduorum (Autun appunto), in occasione dei Quinquennalia, le solenni feste anniversarie della elevazione di Costanzo Cloro al titolo di Cesare: nel discorso si celebrano la campagna di Britannia del principe e le sue vittorie sugli usurpatori Carausio e Alletto.
Il panegirico della primavera del 298 (V [9]) ha per autore, espressamente nominato nel testo stesso (cap. 14)[5], Eumenio, retore e professore, nato in Autun, ma appartenente ad una famiglia di maestri di origine greca, stabilitasi prima a Roma e poi in Gallia. Il discorso, che è l’unico tra gli undici non direttamente rivolto all’imperatore (Costanzo Cloro), fu pronunciato in Autun davanti al governatore della provincia lionese (cui l’oratore si rivolge nel corso del discorso col titolo ufficiale di Vir perfectissimus[6]), in occasione della rinascita — dopo la distruzione avvenuta molti anni prima ad opera dei Bagaudi — della città e delle sue antiche e celebri scuole «Meniane»[7]: l’autore, già magister memoriae di Costanzo, preposto alla direzione delle scuole stesse, alla cui ricostruzione generosamente egli destina parte del suo considerevole stipendio di direttore (cap. 11), traccia un quadro interessante della realtà scolastica della sua città e del suo tempo[8].
Nel panegirico del 31 marzo 307 (VI [7]), tenuto probabilmente a Treviri da un retore del luogo (forse un discepolo di Mamertino, come può dedursi dalle analogie dello stile, breve ed elegante), in occasione delle nozze di Costantino con Fausta, la figlia di Massimiano, sono accomunati nell’elogio il genero ed il suocero: la loro concordia è giudicata una garanzia di difesa per lo Stato.
Nel panegirico di fine luglio del 310 (VII [6]), invece, pronunciato sempre a Treviri da un retore di Autun, sono celebrati gli inizi della carriera imperiale di Costantino, mentre Massimiano, morto ormai in disgrazia, è dipinto a fosche tinte. Significativa in questo (e nel successivo) discorso la consapevolezza degli abitanti di Autun — la cui voce il panegirista rappresenta nella residenza imperiale di Treviri — di essere non soltanto Galli, ma anche e soprattutto Romani, e di meritare per questo una speciale protezione da parte dell’imperatore.
Nel panegirico del 312 (VIII [5]), detto a Treviri, l’autore, cittadino e senatore di Autun, professore anch’egli nelle scuole «Meniane», ringrazia Costantino — convenuto nella città imperiale per celebrarvi le feste Quinquennalia (quinto anniversario della nomina ad Augusto e del matrimonio con la figlia di Massimiano) — per la visita compiuta l’anno precedente nella civitas Aeduorum (Autun), quando l’imperatore, resosi conto dei gravi danni subiti dalla città a causa delle rivolte bagaudiche, aveva mostrato la sua benevolenza e generosità condonando agli abitanti parte delle imposte arretrate.
I panegirici del 313 (IX [12]) e del 1° marzo 321 (X [4]) — pronunciati, rispettivamente, da un anonimo di Autun a Treviri alla presenza di Costantino, e da Nazario di Bordeaux (retore famoso di cui tramandano notizia anche Ausonio nella Commemoratio professorum Burdigalensium[9] e Girolamo nel Chronicon[10]) a Roma davanti ai due Cesari figli di Costantino, Crispo e Costantino il Giovane — hanno entrambi come tema centrale il racconto della discesa di Costantino in Italia (Susa, Torino, Milano, Brescia, Verona, Modena) e della gloriosa vittoria di Ponte Milvio, terminata con la sconfitta e la morte dell’usurpatore Massenzio.
Il panegirico XI [3] fu tenuto il 1° gennaio 362 a Costantinopoli dal trevirese Claudio Mamertino (forse discendente del primo Mamertino), convinto sostenitore di Giuliano e da questo nominato, nell’anno precedente, amministratore del tesoro, prefetto dell’Illiria e infine console[11]. Come l’orazione pliniana il discorso è una gratiarum actio per il consolato ottenuto: il panegirista, che aveva seguito Giuliano nella lunga marcia dalla Gallia verso l’Oriente, descrive l’attività di buon governo del principe e ne esalta le virtutes militari e morali, quelle virtù che avevano consentito a lui di avanzare alla testa delle truppe seguendo il corso del Danubio, per giungere finalmente a Costantinopoli (nel frattempo, era morto a Naissus il cugino e rivale, l’Augusto Costanzo) a prender pieno possesso della dignità imperiale.
Il panegirico XII [2] — detto a Roma nell’estate del 389, davanti al Senato dell’Urbe ed all’imperatore Teodosio il Grande, da Latino Pacato Drepanio di Bordeaux (come si rileva dalle frequenti menzioni del suo nome nell’opera del conterraneo Ausonio)[12] — celebra le virtù civili e il valore militare dell’imperatore, dedicando ampio spazio alla rivolta dell’usurpatore Massimo in Gallia, alla sua sconfitta in Pannonia e alla sua morte in Aquileia.
Teodosio I e la sua corte. Missorium (replica), argento, 388-392, da Almendralejo (Badajoz). Mérida, Museo Nacional de Arte Romano.
3. Retorica e storia nei Panegirici
Il nome «panegirico» risale all’omonimo discorso che nel 380 a. C. il celebre oratore greco Isocrate scrisse per un’immaginaria assemblea del popolo ellenico, con lo scopo di rivendicare la preminenza politica di Atene e sollecitare la collaborazione con Sparta[13]. Il vocabolo nelle sue componenti etimologiche racchiude i valori semantici della «universalità» (πᾱν) e della «assemblearità» (ἀγoρά) e sta ad indicare un genere oratorio — il genere epidittico o dimostrativo (γένος έπιδειχτιχόν)[14] — caratterizzato dall’essere destinato ad una ricezione pubblica e solenne.
La πανηγυριχή λέξις, ritenuta in seguito da Cicerone più adatta alle esercitazioni scolastiche che non alle dispute forensi[15] e da Quintiliano inidonea alle battaglie politiche e giudiziarie[16], divenne poi nella tarda antichità sinonimo di laudatio e di gratiarum actio e come tale si cristallizzò, fino a essere canonizzata nello schema del βασιλιχòς λóγος, che un retore greco del III secolo d. C., Menandro di Laodicea, teorizzò in un suo trattato (Περί γενεθλίων ἐπιδεικτικῶν)[17], prescrivendo agli scrittori del genere la trattazione dei seguenti punti: 1. proemio: inadeguatezza dell’autore/grandezza dell’elogiato; 2. patria, città e popolo di origine del personaggio (πατρίς πόλις ἔθνς); 3. famiglia (γένος); 4. nascita (τὰ πεϱὶ τῆς γενέσεως); 5. qualità naturali (τά περί φύσεως); 6. educazione e infanzia (ἀνατροφή καί παιδεία); 7. genere di vita e occupazioni (ἐπιτηδεύματα); 8. gesta per illustrare le virtutes (πράξεις); 9. fortuna (τά τῆς τύχης); 10. epilogo, comprendente confronti con altri personaggi celebri.
E tale schema elogiativo fu sostanzialmente seguito dai panegiristi gallici, i quali con abile arte retorica, da un lato nutrita di solida cultura (formatasi soprattutto sui grandi classici della letteratura latina: Cicerone, Virgilio, Orazio, ecc.) e dall’altro esercitata nella vivace palestra dell’oratoria scolastica, elaborarono dei discorsi politici e di propaganda filoimperiale, nei quali, in genere con intelligenza e misura, presentarono le linee portanti dell’ideologia del buon reggitore dello Stato, realizzatasi finalmente con l’avvento dell’imperator invictus. Tale idealizzazione invero, fondata sul modello repubblicano del buon reggitore della cosa pubblica (si pensi al Somnium Scipionis ciceroniano), con Augusto aveva avuto inizio ed era poi, nei secoli successivi, divenuta sempre più patrimonio della mentalità comune delle popolazioni dell’Impero, per giungere, nell’età tardoantica, a essere formulata con grande chiarezza e con marcata connotazione politica nei Panegirici Latini.
La caratterizzazione ideologico-politica — di creazione e ricerca del consenso intorno alla figura del principe — è evidente nei panegirici, e di tale caratterizzazione la accorta e studiata retorica degli autori è utile strumento di diffusione: questa era d’altronde nel mondo romano l’essenza della retorica che, come aveva notato Quintiliano nel I secolo, non era solo capacità di persuadere — una simile e più ampia forza avevano, a suo giudizio, anche il denaro, il favore popolare, la bellezza (come quella della cortigiana Frine, accusata di empietà e difesa più che dalla orazione di Iperide[18], dall’avvenenza del suo corpo) — ma si identificava con la politica e la filosofia[19]. I panegiristi infatti nei loro retorici discorsi appaiono testimoni attendibili della realtà politica e sociale della Gallia renana del III-IV secolo, nell’epoca in cui, soprattutto in quelle regioni di frontiera, si venivano contrapponendo, ed anche fondendo, il mondo romano e quello barbarico.
I panegiristi, che appartenevano ai quadri della burocrazia statale e della dirigenza politica dello Stato romano (furono in genere professori e/o funzionari), divennero non solo convinti sostenitori della politica dell’imperatore, ma anche attivi promotori del consenso attorno a lui: ne rappresentarono perciò la figura come quella di un principe forte, giusto, vittorioso, clemente, liberale, e così via, delineando in tal modo le linee costitutive di un ideale di sovrano (Herrscherideal), che essi ritenevano pienamente realizzato in colui del quale di volta in volta celebravano le lodi[20]. Per questo nei loro discorsi mirano a dare un’immagine di generale felicitas, diffusa nell’intero Impero romano, in ogni parte del quale — essi dicono — sono finalmente tornate la sicurezza e la pace (IV 18, 4: omnibus nationibus securitasrestituta). E diffusa in primo luogo in Gallia, una grande provincia, i cui popoli, soprattutto gli Edui di Autun, che si sentono distinti e separati dalle vicine gentes transrenane (le barbarae nationes), sono orgogliosamente consapevoli di essere da secoli fratres populi Romani (V 4, 1; VIII 2, 4 e 3, 1)[21].
Ma al di là dell’evidente valenza «ideologica», altrettanto significativo è il valore storico dei panegirici, che già il grande Gibbon riteneva fonti di «verità»[22] e che cominciano ad essere apprezzati anche dagli studiosi moderni[23]. Questi discorsi infatti sono talvolta fonti uniche, o comunque decisive, nel tramandare notizie su accadimenti importanti svoltisi tra il III e il IV secolo d. C., come, ad esempio, le rivolte bagaudiche — quei movimenti «rivoluzionari» di contadini e soldati ribelli, che per lunghi anni scossero l’assetto sociale della Gallia romana, soprattutto nei territori lungo il Reno — o la vittoria di Costantino su Massenzio a Ponte Milvio, ecc.
Oratore. Statua, marmo, II-III sec. da Eracleopoli Magna (Medio Egitto). Cairo, Egyptian Museum.
Diverse e molteplici sono le tematiche svolte dai panegiristi per elogiare le resgestae dell’imperatore romano e celebrarlo come il sovrano ideale. Tra queste le più ricorrenti appaiono: la celebrazione dell’imperatore e la demonizzazione dell’avversario; la repressione delle rivolte contadine dei Bagaudi e la ricostituzione dell’ordine sociale; il rinnovamento politico, il risanamento morale e la rinascita economica; la vittoria sulle barbarae nationes e la difesa del limes renano-danubiano; l’integrazioneromanobarbarica e l’inserimento dei cultores barbari.
1. La celebrazione dell’imperatore e la demonizzazione del nemico
Soprattutto sul concetto di invincibilità del principe — attraverso i resoconti delle spedizioni militari, delle battaglie, degli assedi, delle imprese valorose dei soldati romani, degli atti di clemenza nei confronti degli sconfitti, ecc. — i panegiristi incentrano i loro discorsi, nei quali l’elogio delle virtutes sia civili sia militari dell’imperatore ricorre con frequenza costante.
In questa prospettiva poi, e in modo specularmente antitetico rispetto alla celebrazione dell’imperatore, è demonizzato ogni suo nemico o avversario, interno o esterno, politico o militare che sia, il quale viene descritto secondo un cliché negativo[24]: in tal modo da una parte è collocato l’imperatore, personificazione e simbolo del bene, dall’altra invece l’avversario, incarnazione stessa del male; da una parte colui che riunisce nella sua persona tutte le qualità positive (religiose, civili, militari, ecc.), elevate al massimo grado, dall’altra invece chi racchiude in sé, sempre al massimo grado, ogni elemento negativo[25].
Molti invero sono gli elementi, sia di contenuto sia di forma, che denotano la forte presenza nei panegirici di un’idea politica e propagandistica, secondo la quale è da ritenersi mostruoso e turpe chi, agendo sacrilegamente, osa contrapporsi al legittimo e divino potere dell’imperator sacratissimus: Carausio, Alletto, Massimiano (pur elogiato in un altro panegirico), Massenzio, Massimo — di volta in volta i nemici di Costanzo, Costantino, Teodosio — sono infatti presentati come estrema antitesi del principe ideale; sono tyranni e hostes, nemici non solo dello Stato, ma di tutto il genere umano, meritevoli quindi del più totale disprezzo.
Carausio, per esempio, l’usurpatore che nel 287 si fece riconoscere imperatore, ponendosi a capo di una ribellione ai tetrarchi scoppiata nelle regioni costiere della Gallia settentrionale ed estesasi a quelle della Britannia meridionale, è da Mamertino bollato col termine spregiativo di pirata, giudicato meritevole della più totale rovina e paragonato a Gerione, il mitico e orribile pastore dalla triplice testa, del quale è ancor più spaventoso (II 12, 1-2). Ancora alcuni anni dopo, nel 297, il panegirista di Costanzo conserva le linee propagandistiche della negativa raffigurazione di Carausio, definendolo condottiero di una banda di disperati e autore di un’esecrabile ed empia azione delittuosa (IV 12, 1) e disegnando a tinte forti anche il successore, il satelles Alletto, che, amens (IV 16, 2)[26], è predestinato a sconfitta e morte senza onore.
Soprattutto nei panegirici costantiniani è descritta con molta efficacia espressiva e a fosche tinte la figura del nemico: costui, opponendosi all’imperatore, che ovviamente è invincibile perché protetto dalla divinità, è fatalmente spinto dalla sua stessa follia e rabbia all’annientamento di se stesso. Esemplare, sotto questo aspetto, la rappresentazione di Massimiano. Accomunato in un primo discorso al potente genero nella lode (nel panegirico del 307 è elogiato il divinum iudicium di Massimiano), dopo la rottura con Costantino e la morte per suicidio, subisce un processo di demonizzazione postuma e viene presentato come il prototipo dell’uomo maledetto dalla divinità: nel panegirico del 310 infatti egli non è più l’imperator aeternus celebrato nel discorso precedente, ma un uomo che fin dalla nascita ha avuto in sorte un esecrabile destino (VII 14, 5) e che, folle perché privo della protezione divina, ha osato ribellarsi a Costantino, usurpando l’Impero e turbando la fides dei soldati: perciò il suo empio atto è stato punito con la morte dagli dèi. Come è evidente, il ribaltamento della prospettiva da un panegirico all’altro è totale e rispecchia il reale svolgersi della vicenda storica e «ideologica» di Massimiano, il quale nell’immaginario collettivo — che i panegirici fedelmente rispecchiano — passa da principe ideale a tiranno detestabile, da simbolo del bene a simbolo del male.
È poi la raffigurazione di Massenzio, nei panegirici del 313 e del 321, a rivelare chiaramente la forza di un tema di natura religiosa — l’abiezione cui inevitabilmente perviene chi profana la sacra maestà dell’imperatore — utilizzato nella propaganda politica costantiniana quale supporto ideologico per l’opera di damnatio memoriae. Massenzio, sprezzantemente definito suppositus, cioè figlio illegittimo di Massimiano, è presentato come l’antitesi esatta di Costantino (IX 4, 3-4): la nascita (da una parte il figlio del pius Costanzo, dall’altra un figlio illegittimo), l’aspetto fisico (da una parte il decor tutto romano di Costantino, dall’altra la deformità «barbarica» di Massenzio), le qualità morali (da un lato la pietas, la clementia, la pudicitia, dall’altro l’impietas, la crudelitas, la libido), il rapporto con la divinità (l’uno segue i divina praecepta, l’altro si lascia trascinare dai superstitiosa maleficia), il modo di esercitare il potere (l’uno rigetta calunnie e delazioni, l’altro saccheggia i templi ed è rovina per il popolo romano), tutto divide e allontana Massenzio, simbolo del male, da Costantino, simbolo del bene.
E nel resoconto della decisiva battaglia di Ponte Milvio (312) il quadro è costruito, soprattutto dal panegirista del 313, con lo scopo di colpire l’immaginazione degli uditori (IX 17). Al solo apparire di Costantino in tutto il suo splendore di sovrano, Massenzio e i suoi restano atterriti e volgono in fuga precipitando in gran numero nel Tevere. Massenzio stesso viene inghiottito dal fiume, perché a lui, empio, non sia concesso l’onore di essere ucciso di spada o di freccia; e il Tevere non ne trascina via il corpo, ma lo lascia in quel luogo a perenne memoria della estinzione definitiva di un così deforme prodigium. La descrizione della battaglia si conclude con la preghiera al Tevere, nella quale l’antichissimo concetto dell’esecrazione del tiranno viene applicato a Massenzio: il fiume — proclama l’anonimo autore — non ha sopportato che sopravvivesse un falso Romolo, un parricida urbis: nel passo il tono dell’invocazione, nella quale retorica e sincerità di ispirazione sono ugualmente presenti, evidenzia il significato religioso attribuito alla vittoria di Costantino e alla damnatio memoriae di Massenzio.
Nel panegirico scritto da Nazario invece, più lontano dalla data della battaglia (si è nel 321), vi è forse meno asprezza verbale nei confronti dello sconfitto Massenzio, ma la tematica è identica: a Costantino, che nella sua generosità e magnanimità vorrebbe evitare lo scontro e preferirebbe vincere piuttosto i vitia che non le armi dell’avversario, si oppone la cieca follia di Massenzio, il quale, nella terribile disfatta, non ottiene nemmeno una morte virile, ma, tradito dalla sua stessa turpe fuga, precipita nel Tevere: così finalmente — esclama Nazario — scelleratezza, perfidia, furore, superbia, lussuria sono eliminate dal mondo (X 31, 3).
Nel panegirico di Claudio Mamertino a Giuliano, così come nel discorso di Eumenio, lo sviluppo della topica antitesi imperator victor et optimus / hostis victus et pessimus è assente, data la particolare struttura dell’orazione che è una gratiarum actio; ma basta un solo accenno agli usurpatori, per rincontrare le usuali requisitorie: furore, follia, corsa cieca verso l’inevitabile morte accomunano infatti agli usurpatori del passato anche il romano Flavio Popilio Nepoziano, che nel 350 si era impadronito della città di Roma, facendosi proclamare imperatore, e il franco Silvano, un magister peditum, che nell’agosto 355 aveva assunto la porpora, ma era stato assassinato qualche settimana dopo (XI 13, 1-2).
Nell’ultimo panegirico infine vengono ricordate l’usurpazione, la sconfitta e la morte nel 388 in Aquileia di un importante avversario politico di Teodosio, Magno Massimo. Latino Pacato Drepanio, che scrive nell’anno successivo alla vittoria di Teodosio, presenta l’usurpatore con lo stesso schema concettuale, e perfino con la stessa terminologia, usati dai panegiristi precedenti per gli altri tiranni. Anche da Pacato la detestata figura di Massimo è contrapposta alla celebrata immagine dell’imperatore: mentre Teodosio infatti compiva le sue imprese vittoriose in terre lontane, Massimo — sprezzantemente definito patris incertus, tyrannus, carnifex purpuratus, belua furens, pirata, praedo, latro (XII 24, 1 sgg.) e inoltre connotato come uomo dalla crudeltà senza limiti, tanto da esser capace di infierire persino sulle donne[27] — osava tramare una segreta congiura per assumere il potere,invadendo l’Italia e scacciandone il legittimo sovrano Valentiniano II; ma dopo la sconfitta veniva indotto dalla sua stessa follia, ormai disperato, a fuggire verso Aquileia incontro alla morte, che pur desiderando pavidamente rifuggiva[28].
La battaglia di Ponte Milvio (312). Illustrazione di Seán Ó’ Brógáin.
2. La repressione delle rivolte dei Bagaudi
Nei panegirici vi sono le più antiche e importanti testimonianze sulle rivolte dei Bagaudi[29], quei contadini ribelli, di natura probabilmente celtica (come parrebbe dall’etimologia del nome)[30], i quali, spinti dalla miseria e dalla disperazione, nei secoli III e IV d. C. percorsero la Gallia, devastando città, tra cui in primo luogo Autun (e forse per questo sono augustodunensi i due panegiristi che ne parlano), e campagne, per essere poi sconfitti dall’imperatore Massimiano (ma non definitivamente, perché il movimento bagaudico continuò a sussistere per almeno altri due secoli, estendendosi anche in Spagna)[31].
Nelle prime due testimonianze — contenute, l’una nel discorso di Eumenio (V 4, 1-2), l’altra in quello anonimo del 312 (VIII 4, 2) — è ricordata la distruzione della ricca e fiorente città di Autun, avvenuta nel 269, durante l’impero di Claudio Gotico, a opera di rebelles Gallicani. Eumenio dà la notizia quasi di sfuggita, in un passo dedicato all’orgogliosa rivendicazione dei meriti della città (la fraterna amicizia con Roma) e all’elogio della liberalità degli imperatori, grazie ai quali era stata risollevata dalle rovine causate dal latrocinium e dalla rebellio Bagaudica[32]. Il panegirista del 312 invece, ricordando l’ormai lontano assedio, ne descrive le condizioni con espressioni che fanno trasparire, a distanza di oltre quarant’anni, l’ancora amaro ricordo di un evento tanto funesto.
Altre importanti testimonianze sui Bagaudi sono nei due panegirici di Mamertino per Massimiano (anni 289 e 291), nei quali si celebra la vittoria dell’imperatore sui ribelli, sconfitti militarmente negli anni 285-86 (II 4, 3-4; III 5, 3). Massimiano viene celebrato perché egli, appena ottenuta la nomina a Caesar, ha abbracciato il difficile compito di portare soccorso alla navicella dello Stato, e non in un momento di tranquillità, ma quando tale navicella era in grave pericolo a causa delle sommosse dei Bagaudi, pastori e contadini ribelli, che avevano indossato l’armatura militare ed erano insorti arrecando ovunque danno e rovina. Ma, come un tempo aveva fatto il dio Ercole (Herculius era stato il titolo assunto da Massimiano al momento dell’ascesa al potere, Iovius invece dal collega maggiore Diocleziano), che aveva prestato soccorso a Giove impegnato nell’epica lotta contro i «biformi» Giganti (metà uomini e metà serpenti), così Massimiano era giunto in aiuto di Diocleziano, combattendo e sconfiggendo altri «mostri biformi», i Bagaudi, simili, per l’insolito loro duplice aspetto — di contadini e di soldati insieme — ai mitologici nemici di Giove[33].
In entrambi i passi ricordati, Mamertino esprime idee e valutazioni non soltanto sue, ma comuni all’ambiente e alla classe sociale cui egli, come tutti gli altri panegiristi, appartiene — la classe dell’establishment, vicina all’imperatore e a lui grata per la restaurazione dello status quo, cioè del benessere e dei consueti privilegi, che erano stati minacciati e messi in pericolo dalle sommosse bagaudiche — e ben ne rappresenta la mentalità e l’opinione pubblica, di «odio» verso quei ribelli. La ricorrente presenza di figure retoriche poi (anafora, chiasmo, ecc.) rivela lo stupore di Mamertino davanti all’ardire di pastores e cratores (termini usati in senso spregiativo, in quanto contrapposti ai più nobili pedites, equites), che hanno osato rivestire l’armatura militare, tentando così di turbare l’assetto sociale e politico della Gallia e la prosperità economica delle città e della gente onesta che in esse viveva. Il panegirista nel rievocare, ovviamente con enfasi, l’opera devastatrice dei contadini nelle campagne da essi stessi coltivate, esalta la figura di Massimiano, rivolgendoglisi direttamente e ricordandone la fortitudo, la clementia e la pietas: la virtus degli imperatori ha liberato lo Stato da un dominatus saevissimus, causa di iniuriae gravissimae per le province galliche, le quali, ormai stremate dalle rivolte, hanno così potuto ristabilire rapporti di devota e spontanea sudditanza verso Roma.
Dai vivaci resoconti di Mamertino emerge in particolare la caratterizzazione e rappresentazione della natura dei ribelli, contadini e soldati, e quindi, come i mitici Giganti, «biformi» e «mostri». Significativa riprova della diffusione di un simile paragone «ideologico» può essere ritenuto un grande gruppo scultoreo, certamente databile all’epoca delle prime e più violente rivolte bagaudiche (ultimi decenni del III secolo), rinvenuto in frammenti (circa duecento) nel 1878, proprio nella stessa zona (casuale coincidenza?) che era stata teatro delle jacqueries bagaudiche, e precisamente nel villaggio di Merten in Lorena[34]. Si tratta di un reperto in pietra arenaria, formato da una base a tre piani, da una colonna con capitello e da un gruppo statuario, di pregevole fattura ed espressività, rappresentante un cavaliere che atterra sotto le zampe del suo cavallo una figura per metà uomo (fino alla cintola) e per il resto serpente. Il cavaliere, dal volto barbuto, indossa la corazza e, al di sopra di questa, il paludamentum, il tipico mantello dei generali romani, e porta, ai piedi, i coturni; il braccio destro, oggi mancante, doveva essere posto in posizione elevata, nell’atto di colpire con la lancia il nemico caduto. Costui poi appare nell’atto di fare resistenza al cavallo che lo sta schiacciando, mentre il suo volto che, rispetto a quello nobile del condottiero, presenta tratti di rozzezza e primitività, ha un’espressione di stupore attonito e terrorizzato. Ma la caratteristica più interessante del personaggio sconfitto è la sua duplice natura: egli ha infatti, al posto delle gambe, il corpo di un drago (o, se si vuole, di un serpente)[35].
La scultura di Metz rappresenta certamente una scena di vittoria e fu probabilmente elevata sulla colonna per celebrare, come era usuale per monumenti del genere nell’antichità (e come d’altronde si è continuato a fare anche in età moderna), la vittoria su un nemico particolarmente spaventoso ed efferato: non si tratta infatti di una generica celebrazione della civiltà romana vincitrice sulla barbarie, ma di un preciso evento di natura militare, una battaglia cioè, in cui il Romano (il cavaliere) vince sulle forze avverse (il gigante anguiforme). Per questo un ideale accostamento del testo letterario di Mamertino al gruppo statuario di Metz sembra quanto mai credibile: molte infatti appaiono le analogie e le somiglianze, tanto che il passo del panegirista potrebbe in un certo qual senso essere posto come didascalia esplicativa del monumento stesso: il cavaliere barbuto rappresenterebbe assai bene Massimiano, l’imperatore vittorioso e, soprattutto, il gigante sconfitto — raffigurato come anguipede, secondo uno schema tipico della letteratura e dell’arte antiche — raffigurerebbe il monstrum biforme di cui parla il panegirico riferendosi al ribelle Bagauda in armi, il contadino divenuto soldato[36].
Anche nel panegirico del 307 infine vi sono i temi (e, in parte, i termini) di Mamertino: l’autore, esponente illustre della sua città (Treviri) e portavoce degli stati d’animo, della cultura, dei ricordi e dei desideri dei suoi concittadini, elogia l’imperatore per aver posto riparo ai danni provocati dai Bagaudi e aver restaurato finalmente in Gallia l’autorità dello Stato, da cui è giunta nuova salvezza per la nazione.
L’atteggiamento dell’opinione pubblica dei ceti cittadini che, attraverso le testimonianze panegiristiche, riusciamo a intravedere è dunque nettamente ostile ai Bagaudi e può forse essere interpretato come una significativa testimonianza di quel contrasto «di classe» — da una parte gli abitanti delle città, civilizzati ed istruiti, dall’altra le masse contadine, che aspiravano a un migliore livello di vita — che, secondo il Rostovzev, sarebbe stato alla base della progressiva decadenza dell’impero[37]: le rivolte dei Bagaudi contro l’establishment dimostrerebbero infatti che si andavano formando, in quell’epoca di tensioni sociali ed economiche, come «due mondi culturali distinti, quasi incomunicabili, ed in opposizione tra loro»[38] e si approfondiva ancor più la distinzione sociale ed economica tra gli honestiores, cioè i benestanti, depositari della «onorabilità» sociale, e gli humiliores, la gente più povera, addetta ai lavori della terra.
Naturalmente i panegirici — in quanto fonti contemporanee al momento di massima esplosione delle rivolte bagaudiche — determinano una vulgata storiografica sulle rivolte stesse, caratterizzata, da un lato, dall’elogio del vincitore, dall’altro, quasi rovescio della medaglia, dalla valutazione fortemente negativa degli insorti. E gli storici successivi conserveranno le linee fondamentali di questa tradizione, anche se elimineranno, specie i cristiani, il tono aspro e duro nei confronti dei ribelli[39].
Cavaliere romano abbatte un gigante anguipede. Gruppo scultoreo su colonna, marmo, fine III secolo, da Merten. Metz, Musée de la Cour d’Or.
3. Il rinnovamento politico e morale e la rinascita economica
Con grande frequenza i panegiristi esprimono il concetto secondo cui l’adventus dell’imperatore — e con lui di un governo giusto e liberale — ha dato finalmente avvio al risanamento sociale e morale dello Stato: sulla base di questo parametro elogiativo compaiono frequentemente nei panegirici, da un lato la ricorrente lamentazione sullo stato delle province devastate dalle guerre e dai soprusi degli amministratori disonesti, dall’altro l’elogio del principe, che ha posto fine alle incessanti rapinae di costoro e ha finalmente fatto trionfare la giustizia, dispensando altresì i doni della sua liberalità, ristabilendo il buon governo e promuovendo il rifiorire dell’agricoltura e dell’economia della Gallia.
Nel panegirico del 297, per esempio, l’autore ringrazia Costanzo, reduce da un’importante vittoria sui pirati Britanni, per aver riportato la felicitas nelle terre dell’impero, e in particolar modo in Britannia, che così è tornata a essere regione fertile, ricca di pascoli e miniere, fornitrice di ricchezza per l’impero grazie alle sue rendite fiscali (IV 11, 1). Il panegirista si mostra ben lieto perché, dopo le tante rovine dovute al malgoverno e alla corruzione dei funzionari, si è finalmente ottenuta una stagione di benessere e prosperità: lungo i portici di Treviri si può vedere infatti — segno di potenza e di ricchezza — una folla di barbari impauriti trapiantati nel territorio romano, destinati ad animare il mercato cittadino e a contribuire con il loro lavoro al benessere collettivo (IV 9).
Nel panegirico del 310 per Costantino si elogia il padre Costanzo per l’alto senso di giustizia da lui mostrato nel restituire i beni perduti a coloro che ne erano stati ingiustamente privati. Analogamente sono elogiati i soldati di Costantino, perché non si erano lasciati corrompere dalle promesse di denaro di Massimiano, il suocero divenuto rivale ed avversario del potente genero, ed erano rimasti fedeli al loro condottiero.
Ma è soprattutto nel panegirico del 312 che appaiono lunghe digressioni sullo stato di corruzione e decadenza morale delle province: l’autore si sofferma lungamente a descrivere le afflictiones di Autun, causate soprattutto dalla gravosissima pressione fiscale (novi census acerbitas VIII 5, 4), ed elogia Costantino per aver finalmente, con la sua visita, riportato la giustizia e risollevato le finanze degli abitanti, condonando tutta una serie di insostenibili gravami fiscali. Per il panegirista l’arrivo dell’imperatore rappresenta l’atteso segnale di renovatio, di un rinnovamento sociale, economico e morale. Egli accenna alle tristi condizioni in cui versa il popolo degli Edui, cui l’insicurezza politica e sociale ha tolto la volontà e i mezzi stessi per lavorare la terra. L’aspetto della regione rivela infatti squallore e abbandono: non si incontrano più, come in passato, coltivatori barbari (Remi, Nervi o Tricassini) intenti al lavoro nei campi e le terre, pur un tempo ben coltivate, sono ora infestate da paludi e roveti; anche le vigne dell’ampia pianura della Saone, un tempo floride, sono ormai distrutte e arse; la pianura stessa, già amena e fertile per i suoi corsi d’acqua e le sue sorgenti, è divenuta regione di stagni e acquitrini; le strade infine sono abbandonate e per questo inidonee al transito delle merci e allo sviluppo del commercio. Ma con l’adventus di Costantino, che ha voluto rendersi direttamente conto delle differenti realtà territoriali delle regioni attraversate (a occidente, campagne coltivate, aperte, fiorite, strade percorribili, fiumi navigabili scorrenti presso le porte delle città; a oriente invece, verso il territorio dei Belgi, campi devastati, incolti, desolati, strade che, utilizzate per il passaggio dei soldati e divenute perciò impraticabili, a mala pena consentono il passaggio dei carri), gli abitanti di Autun hanno ottenuto benefici e gioia grande. Per questo essi hanno offerto un’accoglienza lieta e festosa all’imperatore: uomini di ogni età, tutti insieme, sono giunti dalle campagne per vederlo e augurargli una vita lunga e prospera. E un sincero entusiasmo si è impadronito di tutti gli Augustodunensi, che hanno visto nella presenza di Costantino un presagio di futura prosperità: tutte le strade sono state perciò adornate, anche se in modo modesto, sono state esposte le insegne dei collegi cittadini e le immagini delle divinità locali e un piccolo numero di suonatori ha accompagnato il passaggio dell’imperatore benefattore. E questi con grande sollecitudine ha deciso generose provvidenze per la popolazione: ha alleggerito i debiti fiscali, riducendo i tributi dovuti (dei 32.000 capita ne ha abolito 7.000, ben più della quinta parte) e condonando cinque anni di arretrati di imposta: e questo sgravio è stato davvero apportatore di speranza per l’intera cittadinanza, che, pur non restando del tutto libera dai debiti, ha avvertito comunque esserne divenuto molto più leggero il peso. Certamente — conclude l’oratore con enfasi — i figli ora amano di più i genitori, i mariti hanno maggior cura delle mogli, i padri e le madri non si pentono più di aver messo al mondo e aver allevato dei figli: tutti riprendono le proprie attività, fiduciosi per l’avvenire e senza il timore che il peso di tassazioni eccessive renda vana ogni intrapresa.
Un altro tema di rilievo è trattato nel panegirico del 312: dopo le vittorie sui nemici e il ristabilimento della pace e del buon governo il sovrano promuove in primo luogo l’agricoltura. Così aveva fatto Augusto e così, secoli dopo, nella scia di quello, fanno gli imperatori del IV secolo. Esemplificativo sotto questo rispetto — elogio della fertilità dei campi, dell’abbondanza del raccolto e della salubrità dell’aria, collegate alla presenza e al buon governo dell’imperatore — appare un possibile raffronto tra alcuni versi del Carme secolare di Orazio (vv. 29-32: Fertilis frugum pecorisque Tellus / spicea donet Cererem corona / nutriant fetus et aquae salubres / et lovis aurae) e un passo, dal contenuto analogo, del panegirico (VIII 13, 5-6: …valet piena fuisse horrea, plenas cellas… Hoc nobis est ista largitio, quod Terra mater frugum, quod Iuppiter moderator aurarum…)[40].
Nei suoi ispirati versi, dedicati a un motivo centrale della ideologia e della politica augustee, Orazio aveva religiosamente augurato che la Terra, madre di messi e di bestiame, donasse abbondanza di raccolto e che le acque apportatrici di vita ed i climi inviati dal padre degli dèi fossero propizi alla crescita e al pieno sviluppo dei virgulti[41]. A sua volta il panegirista, che a Treviri — egli che è di Autun — sta celebrando i Quinquennalia dell’ascesa all’impero di Costantino, paragona l’avvento dell’imperatore nella sua città al giorno che sorge e illumina, ed esprime gioia per la rinnovata fertilità dei campi e l’abbondanza del raccolto. Appare chiara nelle sue parole una significativa e ideale consonanza con quello che è stato definito lo «spirito» del Carme secolare, consistente in primo luogo nel sentimento di aspettazione di un abbondante raccolto[42]. Questo tipico e tradizionale tratto dell’ideologia romana, sia repubblicana sia imperiale, è documentato fin da Catone il Censore, e non è forse senza significato che l’orazione del 183 a.C., De lustri sui felicitate — nella quale egli orgogliosamente rivendicava, durante la solenne cerimonia della lustratio con cui concludeva la censura, la felicitas del periodo in cui era stato in carica — sia stata tramandata, limitatamente al passo riguardante appunto l’abbondanza del raccolto, proprio dal panegirico VIII (13, 3: Praeclara fertur Catonis oratio de lustri sui felicitate. Iam tunc enim in illa vetere re publica ad censorum laudem pertinebat, si lustrum felix condidissent, si horrea messis implesset, si vindemia redundasset, si oliveta large fluxissent)[43].
Proseguendo nella indicazione delle tematiche celebrative della renovatio promossa dagli imperatori, può notarsi come nel panegirico del 313 si sottolinei l’evento felice della vittoria di Costantino sull’usurpatore Massenzio, rapace predone, che non solo aveva posto le mani su tutte le ricchezze giunte a Roma nel corso della sua lunghissima storia da ogni parte del mondo, ma aveva perfino depredato i templi degli dèi (IX 3-4); e nel discorso di Nazario del 321 si elogi l’imperatore perché, dopo la vittoria sul «tiranno» Massenzio, è stato finalmente posto un freno alle confische e alle rapine da quello brutalmente compiute: ora, dice il panegirista, la nobiltà è finalmente libera dall’oppressione imposta dal corrotto tiranno e il giorno dell’ingresso in Roma di Costantino, che riporta pace e benessere, è simile per splendore solo a quello che aveva visto la fondazione della città di Romolo (X 30).
Nel panegirico del 362, infine, l’oratore Claudio Mamertino professa con orgoglio la propria onestà, contrapponendola alla diffusa corruzione di tanti rapaci funzionari preposti al governo delle province (XI 1, 4: exhaustae provinciae… praesidentium rapinis), ed elogia Giuliano con accenti di viva sincerità: l’imperatore nella sua discesa da Occidente a Oriente ha voluto ascoltare le doléances dei popoli incontrati lungo il corso del Danubio e ha ristabilito la giustizia, ponendo fine ai soprusi e alla corruzione, soprattutto fiscale, degli amministratori; tutto perciò è tornato a risplendere, tanto che, per esempio — dice con enfasi retorica il panegirista — a chi, per avventura posto nell’alto del cielo, fosse stato possibile scorgere da lì ogni cosa, sarebbe apparso un panorama talmente mirabile, da indurlo a ridiscendere sulla terra per fruire del novus ordo ristabilito dal sovrano.
Per i panegiristi l’adventus dell’imperatore rappresenta dunque — in ideale continuità con la tradizionale aspirazione romana a un nuovo magnus saeclorum ordo[44] — un punto di rottura con il passato di malgoverno e corruzione: grazie al sacratissimus imperator si instaura un rinnovato clima di rigenerazione politica e morale, sociale ed economica, e l’intero territorio della Gallia rifiorisce: le città risorgono e nelle campagne ritornano la fertilità e l’abbondanza.
Scena di vita campestre (dettaglio). Bassorilievo, marmo, IV sec. d.C. dal sarcofago di L. Annio Ottavio Valeriano. Città del Vaticano, Musei Vaticani.
4. La vittoria sulle barbarae nationes e la difesa del limes
Tema tra i più ricorrenti nei panegirici è l’esaltazione dell’imperatore vittorioso sui barbari: la figura del princeps romano si innalza sulla folla degli sconfitti e risalta per valore militare e livello di civiltà. I panegiristi insistono nelle definizioni e valutazioni del mondo barbarico, utilizzando un’ampia gamma di concetti e di espressioni. Essi osservano la vasta e crescente realtà delle invasioni con l’attenzione e la partecipazione di chi, pur vivendo nel pieno della civiltà romana, si sente troppo vicino al limes renano, al di là del quale le barbarae nationes appaiono come qualcosa di grandioso e di terribile.
Denominatore comune nella valutazione del mondo barbarico da parte dei panegiristi appare un atteggiamento di condanna e di disprezzo: i barbari, definiti devastatori di ogni segno di civiltà, sono posti in contrapposizione con i Romani, quasi antitesi tra bene e male[45]. Leggendo nei panegirici le tante menzioni del mondo barbarico — di invasioni e di scontri militari, ma anche di progressiva integrazione — siamo in grado di valutare la risonanza di una così imponente realtà nella vita e nella cultura di una regione romanizzata come la Gallia; e possiamo anche trarre utili notizie sui rapporti (di scontro, ma anche di incontro) tra mondo romano e mondo germanico nei secoli III-IV d.C.[46]
Capo barbaro supplicante. Rilievo, marmo, fine II sec. d.C. dal pannello della clementia dell’arco di M. Aurelio. Roma, Arco di Costantino.
a. Le barbarae nationes
Particolarmente significativo appare nei panegirici l’uso ricorrente dell’espressione barbarae nationes: nel discorso per Massimiano e Diocleziano del 289, per esempio, esse sono viste nell’atto devastatore della loro irruzione nelle province galliche (II 5, 1), mentre in quello del 291 appaiono sine animo dinanzi agli imperatori (III 14, 1); nel panegirico per Costanzo del 297 poi alla loro sconfitta corrisponde la rinascita delle province (IV 1, 4), mentre in quello per Costantino del 313 il valore dell’imperatore è per esse motivo di terrore (IX 3, 2) e in quello per Teodosio del 389 l’immagine delle genti barbare appare di tragica grandiosità nel richiamo a una inondazione devastatrice di civiltà: Iacebat innumerabilibus malis aegra vel potius dixerim exanimata res publica, barbaris nationibus Romano nomini velut quodam diluvio superfusis (XII 3, 3)[47].
La contrapposizione tra i due mondi, il romano ed il germanico, si rivela anche nell’uso di un concetto, secondo cui la realtà geografica e umana dei barbari è caratterizzata da immanitas, cioè da immensità di estensione e incommensurabile numero di uomini, presupposti entrambi di quegli attributi di orrore e di terrore, che i barbari portano con sé (II 7, 3; III 17, 4; VII 2, 2 e 6, 4). Nei panegirici la definizione più efficace del concetto di immanitas è data da Nazario, il quale, evocando una coalizione dei popoli germanici (Brutteri, Camavi, Cherusci, Lancioni, Alamanni, Tubanti) sconfitta da Costantino all’inizio della sua carriera, dice di sentire nel suono stesso di tali nomi tutto l’orrore del mondo barbarico (X 18, 1).
Oltre che sul concetto di immanitas i panegiristi si soffermano su quelli relativi alla feritas, alla ferocia, al furor, alla vesania, alla rabies, alla perfidia, tutte «qualità» dei barbari e tutte riconducibili a un unico status, quello appunto del barbaro incivile. La feritas sta a indicare la natura selvaggia, sia dei barbari — quella natura che ostinatamente li spinge verso la meritata autodistruzione (III 16, 5: ruunt omnes in sanguinem suum populi… obstinataeque feritatis poenas nunc sponte persolvunt) — sia dei loro territori, situati nelle interne regioni dell’Illirico e della Pannonia, ultima ferarum gentium regna (XI 6, 2). La ferocia ha invece una connotazione più specifica di carattere militare, come nel panegirico del 297, ove Costanzo viene elogiato per aver fatto prigioniero il re di una nazione «ferocissima» (IV 2, 1), o in quello del 312, ove l’oratore, rivolgendosi retoricamente ai popoli barbari, che non osano più attraversare il Reno, perché andrebbero incontro a sconfitta sicura a opera di Costantino, chiede loro dove sia finita la loro famosa «ferocia» (VII 11, 4). Il furor dei barbari è poi messo in risalto sia, per esempio, nel secondo panegirico per Massimiano, ove le barbaraenationes appaiono pervase da tal furore, da giungere a distruggersi a vicenda (III 16, 1; 17, 1), sia in quello per Giuliano, ove si afferma con enfasi che i barbari che si sollevano contro l’imperatore vindice della libertà romana, altro non fanno che ritornare al loro primitivo furore (XI 6, 1). Anche la vesania e la rabies sono tipiche del mondo barbarico: nel panegirico per Massimiano, per esempio, Mamertino ringrazia gli dèi protettori dei tetrarchi perché essi hanno finalmente trasferito le guerre civili, le lotte e le discordie intestine fuori dai confini dell’impero, all’interno di popolazioni folli e rabbiose (III 16, 2). Ulteriore caratteristica negativa dei barbari è la loro perfidia, che i panegiristi contrappongono alla fides romana: nel panegirico del 310 a Costantino, l’oratore, ricordando la spedizione nel Paese dei Brutteri e parlando dei prigionieri di quel popolo, afferma che era la perfidia a renderli inadatti per la milizia ed era la ferocia a impedirne una possibile utilizzazione come schiavi, per cui era giusto metterli a morte, e in modo crudele (VII 12, 3).
Con queste premesse ideologiche è ovvio che la raffigurazione dei barbari maggiormente ricorrente nei panegirici sia quella che li rappresenta sconfitti e annientati dall’imperatore. Anche per il nemico esterno dunque, come per quello interno, i panegiristi offrono, in contrasto con l’immagine ideale del principe, quella brutta e deforme dello / degli sconfitto/i.
Mamertino, per esempio, ricordando l’invasione della Gallia nel 286 da parte di Burgundi, Alamanni, Caiboni, Eruli, popoli disordinati in battaglia e danneggiati nei movimenti militari dal loro stesso numero, esalta Massimiano per aver sottomesso con ogni mezzo (vastatione, proeliis, caedibus, ferro ignique) popolazioni fiere e indomite, vincendole nel loro stesso territorio (in media barbaria) e riportando al collega Diocleziano, in segno di fraterna concordia, le spoglie di guerra germaniche (II 5-9: III 5)[48]. Il panegirista di Costanzo a sua volta ricorda le imprese vittoriose dei tetrarchi nelle regioni dei barbari (IV 1, 4: tot excisae undique barbarae nationes), in particolare la cattura di un non identificato re. La devastazionedell’intera Alamannia dal ponte del Reno fino a Gunzburg (IV 2, 1: deusta atque exhausta penitus Alamannia), le vittorie sui Sarmati e sui popoli dellaRezia, del Norico, della Pannonia e infine sui Franchi.
Nei panegirici costantiniani le vittorie dell’imperatore sui barbari sono ricorrentemente celebrate: per esempio, in quello del 310, secondo l’usuale schema laudativo del discorso epidittico, che prevedeva la celebrazione del padre e degli antenati dell’elogiato, sono ricordate le vittorie di Costanzo Cloro sugli Alamanni a Langres (battaglia particolarmente gloriosa) e a Vindonissa, ove — dice con enfasi il panegirista — dopo oltre dieci anni si potevano ancora vedere nei campi i segni della strage dei nemici (VII 6, 3); nello stesso panegirico è menzionata anche l’aeterna victoria di Costantino sui barbari Ascarico e Merogaiso, fatti prigionieri e gettati insieme agli altri davanti alle bestie nei giochi del circo (VII 11, 5). Anche nel panegirico del 313, che pur è quasi interamente dedicato alla celebrazione del trionfo su Massenzio, vi sono accenni alle battaglie contro i barbari (i Franchi): la vittoria dell’imperatore è completa, le sue navi riempiono l’alveo del Reno e il suo esercito reca devastazione nelle case e nei territori di una gens periura, della quale viene cancellato per il futuro perfino il nome (IX 21-22)[49]. Nel discorso di Nazario del 321 sono ricordate le vittorie di Costantino e del figlio Crispo sui re barbari Ascarico e Merogaiso, sui Franchi e su altri popoli, la cui barbarie è talmente cieca (O vere caeca barbaria…!), da impedir loro di riconoscere l’imperatore in persona (X 17-18).
Possiamo infine osservare come nella Gratiarum actio del 362 Claudio Mamertino elogi Giuliano per aver sconfitto i barbari nella battaglia di Strasburgo dell’agosto 357 (XI 4, 3: una acie Germania universa deleta est, uno proelio debellatum), sottomettendoli dall’Alamannia fino all’Illirico e fino agli ultima ferarum gentium regna (XI 6, 2), e nel panegirico del 389 Pacato Drepanio ricordi, in un tipico crescendo retorico, le vittorie di Teodosio, sia sui popoli abitanti al di là del Reno e del Danubio, sia su Sarmati, Britanni, Mauri, Scoti e tante altre lontane gentes (XII 5, 2).
Scena di battaglia equestre tra Romani e barbari. Rilievo, marmo, fine II secolo. Pisa, Camposanto.
b. Il limes renano-danubiano
Tra mondo dei barbari e provinciae dell’impero era il Reno, con il Danubio, la linea di frontiera, non soltanto reale ma anche ideale. Il grande fiume era per gli abitanti della Gallia — come rivelano appunto i panegiristi gallici — una realtà geograficamente vicina ed emotivamente incombente. Nel discorso di Mamertino del 289, per esempio, sono elencati i confini naturali dell’impero (Reno e Danubio, Oceano ed Eufrate), per affermare, ovviamente con enfasi, che il Reno ormai non è più l’unica difesa dell’impero, perché, anche se esso divenisse guadabile a causa della scarsità delle piogge, ciò non sarebbe però motivo di paura, perché la presenza dell’imperatore rappresenta una difesa ben più sicura dello stesso fiume (II 7, 3-4). Il panegirista, che fa riferimenti precisi alle campagne che negli anni 286-288 Massimiano compì contro gli Alamanni provenienti dal medio corso del Reno e contro i Burgundi che invece giungevano dalle regioni danubiane, ovviamente esagera nella valutazione del ruolo di difesa della figura del princeps, ma è proprio attraverso l’amplificazione retorica che egli vuol evidenziare la preminenza della difesa politico-militare, rappresentata dall’esercito dell’imperatore, rispetto a quella naturale data dal fiume. E nel secondo panegirico di Mamertino (del 291) la pacificazione dell’impero operata da Massimiano è interpretata come la realizzazione di un accordo universale tra tutte le terre poste all’interno dei confini, mentre al di là del limes, sia a oriente, presso la palude Meotide e nelle lontane regioni settentrionali, dove — dice l’oratore — l’Elba, orrido come i suoi popoli, attraversa la Germania, sia a occidente, nelle regioni ove tramonta il sole, i popoli barbari continuano ad aggredirsi sanguinosamente a vicenda (III 16, 4-5).
Anche nel panegirico a Costanzo del 297 vi sono riferimenti sia al limes germanico-retico, ristabilito sotto la tetrarchia, sia alla presenza dell’imperatore in ripa, presenza che, per quella zona di frontiera, al panegirista appare difesa ben più valida degli stessi contingenti militari (IV 13, 3). Nel panegirico di Eumenio del 298 sono a loro volta menzionate le tradizionali frontiere di Reno e Danubio, finalmente ristabilite dai tetrarchi e tutelate per il futuro dallo stanziamento in quei luoghi di accampamenti militari (V 18, 4).
Dai panegirici costantiniani poi apprendiamo notizie, tanto sulle operazioni di guerra compiute da Massimiano, che per primo — dice il panegirista del 307 — portò le insegne romane al di là del Reno (VI 8, 4), quanto sulla realtà fisica del limes. Ricordando la vittoria di Costanzo sugli Alamanni presso Langres e Vindonissa (inverno 298-299 d. C.), il panegirista del 310 narra di alcune tribù germaniche, le quali approfittando del fiume ghiacciato, passarono su di un’isola del fiume stesso, e lì, in seguito al successivo scioglimento del manto ghiacciato, restarono imprigionate e furono quindi facilmente sconfitte (VII 6, 4); celebrando inoltre gli inizi dell’attività militare e politica di Costantino e in particolare le sue vittorie sui barbari, il panegirista afferma, secondo l’usuale topos, che il Reno non è più l’unico baluardo posto a fronte del mondo germanico, perché, a difesa della Gallia, basta la presenza dell’imperatore, il cui solo nome incute terrore e paura nelle popolazioni germaniche, timorose perfino di avvicinarsi al grande fiume (VII 11, 1-5). Il Reno ormai, grazie alle flottiglie militari che continuamente lo solcano e alle legioni dislocate lungo tutto il suo corso, non è più soltanto barriera naturale, ma anche invalicabile linea fortificata (VII 13, 1-3): e proprio lungo questa, a Colonia, Costantino ha fatto costruire un grandioso ponte. Nel panegirico del 312 infine vi sono delle interessanti sottolineature circa la realtà del fiume, inteso come confine della Gallia e, in particolare, della regione degli Edui (VIII 2, 4 e 3, 3), mentre in quello del 313 si afferma che, dopo la vittoriosa conclusione della battaglia contro Massenzio a Ponte Milvio, Costantino volle nello stesso anno ritornare sulla frontiera del Reno inferiore, sospinto sia dall’ansia dei soldati di tornare nelle zone a loro più gradite (segno evidente della provenienza di quei soldati), sia dalla necessità di arginare nuove invasioni (IX 21-22, 3).
La suggestione del Danubio poi, l’altro immenso tratto del limes d’acqua posto tra romanità e barbarie, è soprattutto rinvenibile nel panegirico per Giuliano di Claudio Mamertino. Questi, compagno di viaggio dell’imperatore, descrive le due rive del fiume, delle quali la destra gli appare piena di città in festa all’arrivo del princeps, la sinistra invece popolata da barbari, costretti ad inginocchiarsi in atteggiamento supplice e miserevole: da una parte dunque, al di qua del limes, le città romane, ove la gente stupita ammira Giuliano, che nonostante la fatica del lungo percorso appare per nulla stanco, ma con l’aspetto vivace di uomo forte e avvezzo alle fatiche militari; dall’altra invece, al di là del fiume, il mondo delle gentes externae, che hanno osato muovere guerra all’imperatore, costringendolo a intervenire in difesa del nome di Roma.
Nel panegirico è evidenziata una netta divisione tra le due partes separate dal Danubio, l’occidentale e l’orientale: il panegirista ricorda la discesa di Giuliano verso Costantinopoli e afferma che, mentre la nave solcava il fiume, l’imperatore distribuiva «doni» diversi: a destra, in territorio romano, speranza, libertà, ricchezze, a sinistra, sul suolo barbarico, terrore, paura e fuga. Nelle regioni poste a destra del fiume si riversavano dunque i benefici del sovrano, per i popoli della Dalmazia, per gli abitanti dell’Epiro e anche per i cittadini di città lontane, quali Nicopoli, Atene ed Eleusi: tali città, che si trovavano in uno stato di estrema rovina morale e materiale, così risorgevano e tornavano ad animarsi: le fontane riprendevano a scorrere, i portici e i ginnasi si riempivano nuovamente di gente, le antiche festività venivano rimesse in auge e nuove se ne istituivano in onore del principe benefattore; nei territori della riva sinistra invece il mondo dei barbari appariva in preda a sentimenti di paura e di terrore e volgeva in fuga davanti all’imperatore che avanzava (XI 8-9).
Guerriero germanico ferito e morente (dettaglio). Bassorilievo, marmo proconnesio, 251-252 d.C., dal sarcofago «Grande Ludovisi». Roma, Museo di P.zzo Altemps.
c. Oriente e Occidente
L’ideale limes dei panegiristi non si identifica però solo con il Reno e il Danubio, ma attraversa anche una divisione più ampia, quella tra l’Occidente e l’Oriente, tra il mondo della tradizionale virtus romana e quello delle deliciae Orientis (IX 24, 1). La menzione dell’Oriente è infatti nei panegirici abbastanza frequente e, ogni volta che tale parte del mondo viene contrapposta o paragonata a quella occidentale, essa è definita come distante, separata ed inferiore, soprattutto sul piano delle virtutes tipiche dell’uomo romano, il valore militare, la morigeratezza, la parsimonia, ecc. La sottolineatura dell’antitesi, a vantaggio naturalmente di tutto quello che è «occidentale», è chiaro segno della mentalità diffusa nelle regioni a ovest del Reno e del Danubio, regioni che si sentono in tutto e per tutto romane, ove i lontani territori dell’Oriente sono ritenuti distanti e divisi, non solo e non tanto geograficamente, ma anche e soprattutto idealmente.
La prima divisione tra Oriente e Occidente evidenziata dai panegiristi è ovviamente di carattere geografico: a indicare, per esempio, che l’imperatore ha esteso il suo dominio sul mondo intero, Claudio Mamertino proclama solennemente che Giuliano è divenuto in pochi mesi, e per dono divino, Libyae Europae Asiaeque regnator (XI 27, 2)[50]; e a sua volta Pacato Drepanio identifica l’Oriente con le regioni lontanissime in cui sorge il sole e dove, segno di grande valore, riesce a giungere Teodosio vittorioso (XII 23, 1). Altri riferimenti all’Oriente geografico sono in quei luoghi dei panegirici, ove vengono ricordati i più importanti fiumi del mondo, il Tanai, il Reno, il Danubio, l’Eufrate, il Tigri, il Nilo: ancora nel panegirico di Pacato Drepanio, per esempio, si parla del Tanai, il fiume che per gli antichi segnava il confine tra Asia ed Europa[51], per esaltare le vittoriose attività militari di Teodosio, in seguito alle quali l’attraversamento di quel fiume era stato interdetto agli Sciti e agli imbelli Albani (XII 22, 3)[52].
Ma la divisione tra Oriente e Occidente è per i panegiristi soprattutto una divisione ideale, sentita fortemente ed espressa frequentemente. Tale divisione, teorizzata già da Aristotele[53], è per la mentalità dei panegiristi — mentalità perfettamente nel solco della tradizione greca e latina — separazione tra un mondo, l’orientale, caratterizzato da assenza di valore militare e scelta di una vita molle e raffinata, e una realtà invece, quella occidentale, connotata da grande capacità bellica, spirito di sacrificio, senso austero della famiglia e così via. Per esempio, nel panegirico per Costantino del 313, per celebrare le diverse campagne realizzate dall’imperatore contro i Franchi che avevano attraversato il fiume Reno, penetrando al di qua del limes, viene formulata una distinzione tra occidentali e orientali, fondamentalmente basata sulle opposte caratteristiche degli uni e degli altri: gli orientali, tra cui anche i Greci[54] — dice il panegirista — sono inadatti alla guerra e pieni di paura, immemori della libertà e pronti ad asservirsi pur di ottenere pietà; gli occidentali invece, o sono legati alla disciplina militare da un giuramento sacro, come i Romani, o sono totalmente sprezzanti del pericolo della vita, come i Franchi (IX 24, 1-2). Al panegirista anche il confronto tra il famoso Alessandro Magno e Costantino serve per evidenziare la superiore capacità militare degli occidentali rispetto agli orientali: nella scia del noto confronto liviano tra il grande Alessandro e i Romani[55], viene infatti esaltato Costantino come soldato e condottiero più valoroso perché, mentre il Macedone aveva facilmente combattuto contro degli orientali — i Medi effeminati, i Siri imbelli, i Parti abili unicamente nel lancio delle frecce — destinati solo a mutar padrone nella loro condizione di perenne e vile schiavitù, l’imperatore romano ha dovuto invece affrontare duramente i soldati di Massenzio, traditori sì, ma pur sempre valorosi e forti, in quanto romani (IX 5, 3). Il valore militare degli occidentali è posto in risalto anche nel panegirico per Teodosio, ove Pacato Drepanio elogia la Spagna, terra di nascita dell’imperatore, fortunata, oltre che per la felice posizione geografica, anche, e soprattutto, per essere patria di soldati fortissimi (durissimi milites) e condottieri espertissimi, come appunto Teodosio (XII 4, 5). Per concludere, anche Pacato istituisce un confronto militare tra i soldati «orientali» di Antonio e Cleopatra, vinti da Ottaviano ad Azio, e quelli «occidentali» di Teodosio, assai più validi e forti in guerra (XII 33, 4-5).
Caccia alle fiere (particolare). Mosaico pavimentale della Megalopsychia, c. V-VI secolo, dal villaggio di Yakto (Daphne, Antiochia). Antakya, Hatay Archaeology Museum.
5. Un’integrazione romano-barbarica
Se nei panegirici la rappresentazione delle gentes externae è fatta in chiave negativa, ciò non impedisce che negli stessi discorsi appaiano talvolta le tracce di una valutazione diversa, forse più vicina alla complessa realtà storica e geografica di un’epoca di grandi mutamenti sociali e di una regione — quella del limes renano-danubiano — che era di grande importanza strategica, politica e militare. Lì infatti, in una terra di frontiera, proprio nel secolo dei panegiristi, era in atto uno scontro, reale e ideale, tra due civiltà — la romana e la germanica — incommensurabili e distanti tra loro, ben diversamente evolute, eppure destinate necessariamente a integrarsi.
Nei panegirici possiamo leggere importanti testimonianze relative a tale incipiente integrazione: sono le notizie — le prime che possediamo sul fenomeno — di quegli stanziamenti di agricoltori barbari nei territori dell’impero romano, che gli imperatori del III-IV secolo, seguendo la tradizione dei loro predecessori[56], decisero di attuare. Leggiamo pertanto nel panegirico del 297 l’elogio di Massimiano, perché ha fatto coltivare dai Laeti (cioè da cultoresbarbari) i campi abbandonati nel territorio di Treviri, e di Costanzo, perché si è servito degli stessi cultores per far rifiorire il territorio della Gallia Lugdunensis (IV 21, 1). E leggiamo anche, nello stesso discorso, quello che può essere ritenuto il passo più significativo di tutto il corpus dei panegirici in ordine alla tematica dell’integrazione (IV 9, 1-4): i barbari, sconfitti e fatti prigionieri, sono raccolti in una (non determinata) ricca e fiorente città della Gallia e disciplinatamente ordinati per gruppi (ad obsequium distribuii)[57], per essere quindi destinati a coltivare i terreni abbandonati (ad destinatos sibi cultus solitudinum), vendere nei mercati i prodotti della pastorizia e dell’agricoltura (operatur et frequentat nundinas meas pecore venali), contribuire a sollevare le tristi condizioni economichedella città (cultor barbarus laxat annonam), o — destinazione quest’ultimasommamente gratificante — essere inseriti nell’esercito tra gli auxilia militari (si ad dilectum vocetur… servire se militiae nomine gratulatur)[58].
I panegirici testimoniano dunque che gli scontri, militari e sociali, tra romani e barbari si andavano pian piano mutando in incontri e che lentamente prendeva avvio un progressivo e inarrestabile processo di romanizzazione dei territori posti al di là dei fiumi Reno e Danubio. Nel discorso del 289, per esempio, Mamertino elenca le vittorie di Massimiano, grazie alle quali l’imperatore, «primo tra tutti», ha dimostrato che unico confine dell’impero è quello delle armi del principe: per cui il Reno, posto dalla natura a difesa delle province romane dinnanzi all’immensità delle regioni barbariche, ha ormai perso la sua antica importanza difensiva: per gli abitanti della Gallia renana infatti non è più causa di paura l’eventuale abbassamento delle acque dovuto a scarsità di piogge, perché anche l’intravedersi dei sassolini sul fondo, non sarebbe segnale di pericolo, in quanto tutto ciò che si scorge al di là del Reno è ormai parte del mondo romano: quidquid ultra Rhenum prospicio Romanum est, esclama convinto il panegirista (II 7, 7). Significativa, nel passo di Mamertino, non tanto la memoria delle vittorie degli imperatori, al di qua e al di là del Reno, quanto la coscienza, che vi traspare, dei provinciali della Gallia, i quali sentono ormai come romane le terre transrenane; sentono insomma che tra le due sponde del Reno vi è meno distanza di prima.
Altri panegiristi vanno ancora più in là, affermando la necessità di un’«amicizia» tra Romani e barbari. Nel panegirico del 307 l’oratore ricapitola le imprese di Massimiano — le vittorie sui Bagaudi in Gallia e le spedizioni tra i Germani — affermando con enfasi che l’imperatore è stato «il primo» a trasferire le insegne romane tra i barbari della Germania, costringendo questi a deporre le armi e a divenire, nell’obbedienza a Roma, «amici» del popolo romano (VI 8, 5: domita Germania aut boni consulit ut quiescat aut laetatur quasi amica si pareat). Tale concetto, della «necessità» dell’amicizia tra barbari e romani, è poi significativamente ripetuto in panegirici successivi, come in quello di Nazario per Costantino (X 38, 3) o di Pacato Drepanio per Teodosio (XII 22, 4).
Da qui, da questo lento ma inevitabile processo di integrazione etnica e sociale tra popoli diversi, i cittadini dell’impero romano e i «barbari», iniziato nei secoli della tarda antichità — e per cui i Panegyrici Latini rappresentano un corpus di coeve e significative testimonianze storiche e culturali — sorgerà, grazie anche all’immensa forza ideale e morale del Cristianesimo (della cui presenza una qualche traccia può forse scorgersi anche nei pagani panegirici)[59], la civiltà medievale, dai regni romano-barbarici al Sacro Romano Impero, e la stessa civiltà moderna.
Guerriero germanico si arrende a un Romano (dettaglio). Bassorilievo, marmo proconnesio, 251-252 d.C., dal sarcofago «Grande Ludovisi». Roma, Museo di P.zzo Altemps.
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[1] In realtà, il corpus manoscritto comprende dodici discorsi, essendo i panegirici tardo-antichi preceduti da quello di Plinio il Giovane a Traiano (cfr. F. Trisoglio [ed.], Plinio Cecilio Secondo, Opere, vol. II, Torino 1973, 1125-1385).
[2] Per un’informazione sintetica sui Panegirici, cfr. D. Lassandro, I «Panegirici Latini» del III-IV secolo, in I. Lana, E.V. Maltese (dir.), Storia della civiltà letteraria greca e latina, III. Dall’età degli Antonini alla fine del mondo antico, Torino 1998, 476-483.
[3] Poiché la successione secondo la quale i XII Panegyrici Latini sono disposti nelle edizioni critiche non è cronologica, ma rispetta la «disordinata» sequenza manoscritta, è invalso l’uso di numerare queste orazioni in modo duplice, a indicare sia l’ordine tràdito, sia quello cronologico. Nella presente edizione, ai fini di un più immediato e chiaro inquadramento storico, si è adottato il solo criterio dell’indicazione «cronologica», segnalata con un numero romano, a partire dal II (con il numero I si indica ovviamente il panegirico di Plinio). Quando necessario, comunque, è stato anche notato l’ordine «manoscritto» (con numero arabo posto tra parentesi quadre).
[4] L’anno potrebbe anche essere il 298: per questo nelle edizioni la numerazione «cronologica» del panegirico è generalmente indicata con V (e con IV invece quella dell’oratio di Eumenio).
[5] Importante ai fini documentari questo capitolo (evidenziato nei codici con la miniatura della lettera iniziale dell’incipit), perché è l’esatta trascrizione della lettera di nomina imperiale con la quale Eumenio veniva preposto alla direzione delle scuole.
[6] I Viri perfectissimi erano ufficiali superiori di rango equestre: Cod. Theod. VI 38, 1.
[7] Ne parla anche Tac. Ann. III 43, 1, testimoniandone l’esistenza come sede di alti studi per la gioventù nobile della Gallia.
[8] Particolarmente significativo è il capitolo 20 del panegirico, non solo perché vi si indicano alcune materie oggetto di studio (la storia e la geografia), ma anche la metodologia di quello stesso studio: sono infatti descritte le «carte» geografiche affrescate nei portici della città, osservando le quali i giovani augustodunensi avrebbero potuto facilmente apprendere la storia degli imperatori e la geografia delle conquiste romane.
[11] Nomine formali, essendo in quest’epoca il consolato, come le altre magistrature, soltanto un titolo onorifico attribuito dall’imperatore ai suoi amici.
[12] Ausonio nomina più volte Pacato, dedicandogli anche alcuni carmi.
[13] Il discorso – «la prima grande orazione epidittica con fini politici» (A. Lesky, Storia della letteratura greca, trad. it., I, Milano 1962, 727) – destinato alla lettura, imitava la forma dei discorsi ufficiali pronunciati in occasione delle grandi feste panelleniche.
[14] Assieme al γένος σνμβονλεντιϰóν, di natura prettamente politica e deliberativa, e al γένος διϰανιϰóν, di indole giudiziaria, rappresentava il triplice mondo dell’eloquenza pubblica degli antichi.
[20] I tratti di questo «ideale di sovrano» possono ritrovarsi in seguito, fino ai nostri giorni, in tante propagande filo-imperiali o filo-regie (e non solo…). Sull’Herrscherideal tardoantico, cfr. J. Straub, Vom Herrscherideal in der Spätantike, Stuttgart 1937.
[21] Tale fratellanza è ricordata da Caes. BG I 33, 2, ove si dice che gli Edui erano stati con deliberazioni del Senato dichiarati fratelli del popolo romano (Aeduos fratres consanguineosque saepe numero ab Senatu appellatos), e da Tac. Ann. XI 25, 1, ove è scritto che i primi tra i Galli a ottenere dall’imperatore Claudio il diritto di sedere in Senato furono i rappresentanti degli Edui, e ciò in grazia di un’antica fratellanza (Datum id foederi antiquo, et quia soli Gallorum fraternitatis nomen cum populo Romano usurpant).
[22] «Si può spesso sapere la verità anche dal linguaggio dell’adulazione» (E. Gibbon, Storia della decadenza e caduta dell’impero romano, trad. it., Torino 1967, 320). La monumentale opera di E. Gibbon, The Decline and Fall of the Roman Empire (la narrazione va dal 180 al 1453), fu pubblicata in Inghilterra dal 1766 al 1788; ed è rimasta da allora non solo strumento indispensabile per chiunque voglia accostarsi alla storia antica, ma anche splendido libro ove risalta con grande evidenza la capacità narrativa del vero storico.
[23] Per esempio da M. von Albrecht, Storia della letteratura latina da Livio Andronico a Boezio, trad. it. di A. Setaioli, III, Torino 1996, 1459-1462.
[24] In questo schema confluiscono tutti gli elementi concettuali e verbali di una consolidata tradizione letteraria. La forma di tale schema deriva dalla sua tradizione «ideologica» e letteraria, risalente, per limitarci a un esempio significativo, a Cic. Phil. IV 2, 4-5, ove viene contrapposto il nobile Ottaviano ad Antonio, definito ardens odio… cruemtus sanguine civium Romanorum… hostis, latro, parricida patriae, pestis.
[25] Già Quint. III 7 (De laude et vituperatione) aveva teorizzato lo schema elogiativo, basato sull’antitesi bene/male, schema che poi sarebbe divenuto tipico dei panegirici: elogio del personaggio (sua patria, sua gens, presagi della sua grandezza, sua fortuna, suoi attributi: forza, bellezza, ecc.) da un lato, disprezzo per i nemici dall’altro.
[26] L’uso di un tale attributo (e del sinonimo tremens) rivela la studiata utilizzazione di un lessico evocante i fenomeni dello sconvolgimento mentale, che necessariamente subentra in chi osa profanare la divinità, e pertanto l’imperatore.
[27]… in sexum cui bella parcunt pace saevitum (XII 29, 1). Su Magno Massimo abbiamo invece testimonianze positive da parte di Sulp. Sev. Dial. II 6: vir omni vita merito praedicandus; si ei vel diadema non legitime, tumultuante milite, impositum repudiare vel armis civilibus abstinere licuisset, e di Oros. VII 14, 9: Maximus, vir quidem strenuus et probus atque Augusto dignus, nisi contra sacramenti fidem per tyrannidem emersisset: testimonianze che, pur condannando l’usurpazione, valutano con serenità ed elogiano il carattere dell’uomo.
[28] Il quadro è simile a quelli degli altri panegirici, ma vi è un’aggiunta: Quisquis purpura quandoque regali vestire umeros cogitabit, Maximus ei exutus occurat. Quisquis aurum gemmasque privatis pedibus optabit, Maximus ei plantis nudus appareat. Quisquis imponere capiti diadema meditabitur, avulsum umeris Maximi caput et sine nomine corpus adspiciat (XII 45, 1-2): Massimo con la sua fine tragica deve servire di esempio a chi osa o solo pensa di usurpare il regno.
[29] Sulle rivolte bagaudiche vd. D. Lassandro, Le rivolte bagaudiche nelle fonti tardoromane e medievali: aspetti e problemi (con appendice di testi), InvLuc 3-4 (1981-1982), 57-110.
[30] Vd. A. Holder, Altceltischer Sprachschatz, I, Leipzig 1896, 329-331.
[31] In documenti e carte medievali è attestata la sopravvivenza di un toponimo Castrum Bagaudarum presso Parigi, nel luogo dell’antico monastero di Saint-Maurdes-Fossés, ove oggi è situata l’omonima cittadina.
[32] I manoscritti riportano Batavica rebellio, ma la correzione Bagaudica (avanzata di Giusto Lipsio, nell’edizione e commentario di Tacito, Anversa 1581) è palmare, paleograficamente e filologicamente dimostrabile (vd. D. Lassandro, Batavica o Bagaudica rebellio?, GIF 4 [1973], 300-308).
[33] Il panegirista celebra ane il nuovo culto per Giove ed Ercole, gli dèi protettori dei tetrarchi: alle divinità celesti, unite da un patto di mutuo aiuto, corrispondono infatti, in terra, gli imperatori Diocleziano e Massimiano, legati anch’essi da un vincolo «di fedeltà reciproca e aiuto militare».
[34] Ricostruito quasi nella sua interezza, il monumento è ora conservato nei «Musées» della città di Metz in Francia.
[35] Il gruppo statuario ritrovato a Merten non può non richiamare alla memoria, per la notevole somiglianza figurativa ed espressiva, la Gigantomachia, il grande fregio scolpito a Pergamo negli anni 190-180 a.C., che correva esternamente, al di sotto del colonnato, sullo zoccolo dell’ara, il solenne monumento fatto erigere da Eumene II sull’acropoli della città (ora è conservato nel Pergamonmuseum di Berlino). E poiché la grandiosa allegoria della Gigantomachia pergamena rappresentava la vittoria su quei barbari, di origine celtica, che al tempo del re Eumene II avevano devastato le coste del regno di Pergamo, non può essere ipotizzabile che lo scultore di Merten abbia scelto proprio quel lontano, ma famoso modello, per celebrare un’analoga vittoria su altri Galli — i Bagaudi — anch’essi barbari e devastatori? Notevoli sono infatti le somiglianze plastiche tra la figura di Alcioneo, abbattuto da Atena nel fregio orientale dell’ara pergamena, e quella del gigante, atterrato dal cavaliere nel gruppo statuario di Metz: simile è, per esempio, l’inclinazione delle figure verso destra, dovuta al fatto che, in entrambe le opere, il vincitore (Atena o il cavaliere) sospinge a terra il vinto con la destra (Atena direttamente, il cavaliere con la lancia nell’atto di colpire); simile ugualmente è l’appoggio dei corpi, ovviamente sul lato destro (il ginocchio destro per il gigante pergameno, la parte destra della coda serpentina per quello di Metz); simile inoltre è la possente muscolatura dei due giganti, protesi nello sforzo di resistere alla forza del vincitore (il gigante pergameno tenta di trattenere col braccio destro la mano della dea che lo atterra; il gigante di Metz, a sua volta, tenta con la sinistra di bloccare lo zoccolo innalzato del cavallo, ad evitare di essere abbattuto). Anche le due teste presentano delle analogie: volti senza barba ed espressioni terrorizzate, sottolineate dagli occhi stravolti verso l’alto.
[36] E ragionevole pertanto supporre — come già fece nell’Ottocento O.A. Hoffmann, Die Bagaudensàule von Merten im Museum zu Metz, JGGA 1888-1889, 14-39 — che la colonna e il gruppo statuario ritrovati nei luoghi che furono teatro delle jacqueries bagaudiche possano riferirsi proprio alla vittoria che nel 285-286 Massimiano riportò sui contadini ribelli: l’elevazione della colonna poté perciò avvenire dopo quella vittoria, nello stesso luogo ove l’imperatore aveva sconfitto i Bagaudi, liberando la città di Treviri e la zona circostante da un pericolo gravissimo.
[37] Vd. M. Rostovzev, Storia economica e sociale dell’impero romano, ed. it., Firenze 1933.
[38] Vd. M. Mazza, Lotte sociali e restaurazione autoritaria nel III secolo d.C., Roma-Bari 1973, 90.
[39] Vd. Aur. Vict. Caes. XXXIX 17-20; Eutrop. IX 20, 3; Oros. VII 25, 1-2. Solo il cristiano Salviano, nato a Treviri e vissuto a Marsiglia, nel De gubernatione Dei (opera scritta intorno alla metà del V secolo), riuscì a comprendere le motivazioni delle rivolte bagaudiche, cioè la povertà, la miseria, le continue ingiustizie cui i più umili venivano quotidianamente sottoposti. Nel libro V (capp. 21-28) egli parla della condizione dell’impero invaso dai barbari e rileva gli aspetti più drammatici della nuova realtà: le vedove piangono, gli orfani sono maltrattati e, soprattutto, i poveri vengono «devastati» (vastantur pauperes); questa triste realtà spinge molti, anche di illustri natali, a cercare riparo tra gli stessi barbari e a preferire le difficoltà della vita presso di quelli alle vessazioni e ingiustizie diffuse nel mondo romano (cap. 21: malunt tamen in barbari; pati cultum dissimilem quam in Romanisinmstitiam saevientem). Sullo stesso piano dei barbari Salviano pone i Bagaudi, affermando che anche presso costoro fuggono gli oppressi: nella digressione sui rivoltosi (cap. 22) egli dà la sua interpretazione del fenomeno bagaudico, che certamente doveva essere ancora vivo ai suoi tempi, giudicando con profonda comprensione i ribelli e attribuendo la causa delle rivolte alle ingiustizie e ai soprusi di cui erano vittime. L’invettiva accusatrice di Salviano è rivolta soprattutto contro gli autori delle rapine fatte in nome dello Stato, i funzionari disonesti e gli esattori rapaci. Il linguaggio ha poi una vivezza e una passionalità fortissime, attraverso le quali si scorge con chiarezza la valutazione che del fenomeno bagaudico dà l’autore: è una valutazione che si scosta dalla vulgata storiografica sui Bagaudi (che li vedeva come ribelli e mostri) e nella quale invece vi è un’acuta (anche se retoricamente amplificata) visione delle cause delle rivolte contadine, la povertà e lo sfruttamento. Su Salviano, si vd. il fondamentale studio di M. Pellegrino, Salviano di Marsiglia, Roma 1940.
[40] Significative appaiono anche le analogie di ordine verbale (Terra mater frugum riprende fertilis frugum… Tellus; Iuppiter moderator aurarum può avvicinarsi a lovis aurae). Esse, però, non indicano tanto una ripresa diretta da Orazio, quanto piuttosto l’utilizzazione di un repertorio ideologico, che alla propaganda augustea faceva capo e che nei panegiristi dimostra ancora la sua vitalità.
[41] La solenne invocazione, cantata dai ventisette fanciulli e dalle ventisette fanciulle nei Ludi del 17 a.C., era nel segno dei tipici valori tradizionali dell’antico e agreste Lazio, da Augusto fortemente promossi e finalizzati alla prosperità dello Stato romano e alla continuazione dell’assetto politico-istituzionale e ideologico-morale da lui instaurato. Orbene, quei valori — grazie anche alla splendida letteratura che nel saeculum Augustum fiorì e che, tra i massimi, accanto al grande Virgilio, ebbe il poeta di Venosa — sopravvissero all’età augustea e conservarono grande rilevanza nell’ideologia imperiale delle epoche successive, fino alla tarda antichità.
[42] Vd. A. La Penna, Orazio e l’ideologia del principato, Torino 1963, 108.
[43] Si tratta dell’orazione De suis virtutibus contra L. Thermum post censuram (F 135 Malcovati; F 99 Sblendorio Cugusi): vd. R. Stark, Catos Rede de lustri sui felicitate, RhM 96 (1953), 184-187.
[45] Naturalmente la netta contrapposizione tra Romani e barbari e la valutazione di questi ultimi secondo i parametri della inciviltà, della violenza e della aggressività dipendono anche, in testi essenzialmente retorici e di provenienza scolastica quali i panegirici dall’utilizzazione di schemi e topoi fortemente radicati nella cultura e nella tradizione letteraria latina. Barbarus e i suoi derivati (barbarici, barbaries, barbaricus) nella letteratura precedente — e soprattutto in Cicerone, palesemente modello stilistico dei panegiristi — erano stati impiegati o nella accezione più semplicemente «narrativa», a indicare, sul modello del greco, popoli diversi e lontani, o nella accezione traslata, a indicare popoli crudeli e feroci, regioni selvagge e inospitali, ecc. E ovvio che il senso traslato poté porsi sulla base di una valutazione obiettiva della feritas dei barbari, contrapposta alla humanitas romana; ed è anche ovvio che l’effettiva diversità e inferiorità culturale del mondo barbarico fu accentuata ed evidenziata dai panegiristi, quasi con lo scopo di esorcizzare una realtà geograficamente vicina, ma troppo diversa, sconosciuta e paurosa.
[46] Cfr. B. Luiselli, Storia culturale dei rapporti tra mondo romano e mondo germanico, Roma 1992.
[47] Questa visione di un mondo barbarico devastatore è comune nella letteratura del tempo. Amm. Marc. XV 8, 1, per esempio, così descrive la situazione della Gallia prima dell’intervento di Giuliano: Constantium vero exagitabant assidui nuntii deploratas iam Gallias indicantes nullo renitente ad internecionem barbaris vastantibus universa.
[48] Anche nel discorso del 307 Massimiano è elogiato per le vittorie sui Franchi (VI 4, 2: Multa ille Francorum milia… interfecit, depulit, cepit, abduxit) e su molti altri popoli barbari, che egli però trattò con clemenza.
[49] Anche in questa occasione, come nella precedente, Costantino appare spietato (tantum captivorum multitudinem bestiis obicit) e anche qui il panegirista approva: Namquid hoc triumpho pulchrius quo caedibus hostium utitur etiam ad nostrum omnium voluptatem… ? (IX 23, 3).
[50] Il panegirista utilizza in tal modo la tradizionale divisione del mondo in tre parti (Libia, cioè Africa, Europa e Asia), di cui comunque le prime due rappresentano quasi un’unità (occidentale) contrapposta all’Asia (orientale): vd. August. De civ. D. XVI 17: Si in duas partes orbem dividas, Orientis et Occidentis, Asia erit una, in altera vero Europa et Africa.
[51] Il Tanais (Don), secondo Amm. Marc. II 8, 27, Asiam terminat ab Europa.
[52] Gli Albani erano – secondo Flor. III 6, 1 – stanziati nella parte orientale del Caucaso.
[53] In Aristot. Pol. III 6, 12853, si legge che «gli Asiatici, più che gli Europei, sopportano il potere dispotico senza sdegnarsi.
[54] I Greci, che per Aristotele ovviamente erano «occidentali», per il panegirista della lontana Gallia sono assimilati senza alcun dubbio agli Orientali.
[56] Marco Aurelio, secondo la testimonianza dell’Historia Augusta (Aurel. 24, 3), infinitos ex gentibus in Romano socio collocavit. Anche Claudio Gotico volle, sempre secondo l’Historia Augusta (Claud. 9, 4), che le province romane fossero riempite di barbari servi e Scythici cultores.
[57] Nelle parole del panegirista si percepisce l’espressione compiaciuta di chi può fare affidamento su nuove e più robuste braccia per il lavoro nei campi; mentre fa da contraltare l’atteggiamento impaurito dei barbari: uomini che, nonostante la nativa feritas, trepidano sbigottiti, vecchie stupite davanti all’inusitata ignavia dei giovani, donne altrettanto meravigliate davanti a quella degli sposi, fanciulli e fanciulle costretti a restare immobili.
[58] Oltre al panegirico di Costanzo, testimonia la presenza e l’attività dei laeti in Gallia anche il panegirista del 310, il quale afferma che Costantino immise nella provincia popolazioni transrenane con lo scopo di ricavarne braccia per l’agricoltura e per la milizia (VII 6, 2). Anche Ammiano Marcellino riferisce di laeti barbari, che compiono un assalto alla città di Lugdunum (Lione) e vengono respinti dai soldati di Giuliano, allora Caesar in Gallia (XVI 11), di laeti adulescentes, menzionati in una lettera che Giuliano scrive dalla provincia a Costanzo (XX 8, 13) e ancora di laeti, citati nel resoconto di ordini dati da Costanzo II (XXI 13, 16). Importanti poi le attestazioni dei laeti nel Codex Theodosianus, in costituzioni degli anni 369 (de veteranis, VII 20, 10), 399 (de censitoribus, XIII 11, 10) e 400 (de veteranis, VII 20, 12). Tutte le testimonianze posteriori al panegirico confermano la duplice funzione dei laeti indicata dal panegirista: contadini, impiegati nel risanamento e nella coltivazione delle terre, e leve per l’esercito. Sui laeti in Gallia, vd. D. Lassandro, I «cultores barbari» (laeti) in Gallia da Massimiano alla fine del IV secolo d.C., CISA 6 (1979), 178-188.
[59] Non tanto e soltanto in probabili ed espliciti riferimenti (per esempio, la «visione» di Costantino in X 14, la reazione di Giuliano alle restrizioni filosofiche dovute alla cristianizzazione dopo l’Editto di Milano in XI 23, la persecuzione degli eretici priscillianisti appoggiata dai vescovi ispanici in XII 29, ecc.), quanto in un linguaggio in cui diventa sempre più difficile distinguere, soprattutto in ambito religioso, quanto si debba al latino cristiano (per esempio, deus ille mundi creator et dominus, in IX 13, 2; arbiter deus et scrutatura divinitas, in X 7, 3; nimia religio et diligentius culta divinitas, in XII 29, 2, ecc.) e quanto invece sia semplice eredità del linguaggio «filosofico» tradizionale.
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