Q. Orazio Flacco

di G.B. Conte, E. Pianezzola, Lezioni di letteratura latina. Corso integrato. 2. L’età augustea, Milano 2010, 174-195.

1. Il più grande lirico dell’età augustea

Orazio è il più grande poeta lirico dell’età augustea e, insieme a Catullo, di tutta la letteratura latina. Pur provenendo da una famiglia umile (il padre era un liberto), grazie al suo talento poetico egli riuscì a risalire la scala sociale fino a entrare a corte, dove fu in stretti rapporti con Augusto e divenne il cantore “ufficiale” della romanità.

Orazio fu anche poeta di grande versatilità. Partito dall’esperienza giovanile della lirica aggressiva degli Epodi, in seguito raggiunse risultati straordinari sia nella composizione esametrica di carattere personale e discorsivo delle Satire e delle Epistole sia nella lirica sublime delle Odi, caratterizzate da una compattezza tematica, stilistica e metrica che fanno di lui il poeta “classico” per eccellenza. Inoltre, Orazio non si limitò a comporre poesia, ma anche a rifletter sul fatto poetico: la sua lettera-saggio in versi, l’Ars poetica, in cui espone ideali poetici di armonia e misura perfettamente in linea con il suo carattere, diventerà il progetto del classicismo di ogni epoca. Grazie a Orazio, la lirica latina raggiunse una maturità straordinaria, nutrendosi di modelli consolidati (Callimaco e Saffo, come era accaduto già per Catullo) e nuovi (Alceo, Anacreonte e Pindaro) e ottenendo risultati di grande originalità.

Giacomo Di Chirico, Ritratto di Q. Orazio Flacco. Olio su tela, 1871.

2. Il figlio del liberto alla corte del princeps

Quinto Orazio Flacco nacque l’8 dicembre del 65 a. C. a Venusia (od. Venosa), una colonia militare romana, al confine fra Apulia e Lucania. La sua famiglia era modesta: il padre era un libertus (forse un ex servo pubblico), che aveva fatto fortuna, entrando in possesso di una piccola proprietà: più tardi, trasferitosi a Roma, vi esercitò il mestiere di esattore nelle vendite all’asta. Nonostante la modesta condizione sociale, al giovane Orazio fu assicurata la migliore educazione: compiuti i primi studi nella scuola venusina, il padre lo portò con sé nell’Urbe, dove Orazio poté frequentare le lezioni del grammatico Orbilio, ammiratore dei poeti arcaici, che usava le nerbate per convincere i suoi alunni a studiare l’Odusia di Livio Andronico (per questo Orazio escogiterà per lui l’epiteto plagosus).

Attorno ai vent’anni, come facevano i giovani di buona condizione, Orazio si recò in Achaia a perfezionare gli studi. Ad Atene approfondì le sue conoscenze filosofiche, ascoltando le lezioni di maestri come il peripatetico Cratippo di Pergamo e dell’accademico Teomnesto. Ma la sua carriera di studente fu traumaticamente interrotta. La Grecia era allora teatro di storici avvenimenti: gli uccisori di Cesare ne avevano fatto la loro principale base di operazione e fu naturale che il giovane Orazio, fresco di studi filosofici, fosse attratto dagli ideali della libertas (nonché lusingato da brillanti prospettive di carriera!). Così egli si arruolò nell’armata di Marco Giunio Bruto, ricevendo il comando di una legione con il grado di tribunus militum, il che non era poco per il figlio di un liberto!

La rotta di Filippi (ottobre 42 a.C.), però, interruppe la sua carriera militare: con amara autoironia Orazio dirà poi di avervi abbandonato lo scudo per fuggire (relicta non bene parvula, Odi II 7, 10 – un motivo già presente nella lirica greca arcaica!).

Orazio poté rientrare in patria già l’anno successivo, nel 41 a.C., grazie a un’amnistia, ma siccome il fondo paterno a Venosa era stato confiscato dai triumviri, egli dovette impiegarsi come scriba quaestorius per guadagnarsi da vivere. A questo periodo risale probabilmente anche l’inizio della sua attività poetica. Si presume che attorno alla metà del 38 a.C. Virgilio e Vario l’abbiano presentato a Gaio Clinio Mecenate, collaboratore di Cesare Ottaviano, lui stesso uomo di lettere e protettore di artisti: fu così che nove mesi più tardi Mecenate lo ammise nella cerchia dei suoi amici.

Probabilmente nel 33 a.C. Mecenate gli donò un podere nella campagna sabina, fonte per Orazio di tranquillità economica e apprezzato rifugio dagli affanni e dalle scomodità della vita urbana.

Da quel momento, la sua vita scorse senza eventi significativi, scandita soltanto dalla pubblicazione delle sue opere sotto il patronato di Mecenate e più tardi del principe stesso. Con Augusto Orazio fu in relazione abbastanza stretta, fatta di devota cordialità, ma senza servilismi: quando il princeps gli chiese di diventare suo segretario personale, Orazio declinò l’offerta con garbo e fermezza. Nel settembre dell’8 a.C. Mecenate morì, raccomandando affettuosamente il poeta alla benevolenza di Augusto. Ma Orazio doveva seguirlo nella tomba solo due mesi più tardi, il 27 novembre.

La produzione poetica oraziana comprende un libro di Epodi, in metro giambico, due libri di Satire, in esametri, quattro libri di Odi (in latino Carmina), in metri lirici, e due libri di Epistole esametriche.

Anton von Werner, Ritratto immaginario di Quinto Orazio Flacco.

3. Gli Epodi

Il nome della prima raccolta di Orazio, Epodi, rimanda alla forma metrica: l’epodo è propriamente il verso più corto che segue a un verso più lungo, formando con esso un distico. Orazio li chiamava iambi («giambi»), facendo riferimento al ritmo che prevale nella raccolta e, insieme, alludendo al recupero di quel tono aggressivo che fin dalle origini era tradizionalmente associato alla poesia giambica greca.

Gli Epodi sono dunque caratterizzati da due aspetti: l’aggressività e la polimetria. Mentre la prima caratteristica, dovuta in parte alla difficile situazione personale del periodo in cui furono composti (il ritorno di Orazio dalla Grecia dopo la sconfitta a Filippi) e in parte al genere letterario che fungeva da modello (la poesia giambica greca), non ricorre nelle opere successive di Orazio, la seconda si ritroverà nelle Odi, contraddistinte da una grande varietà ritmica.

Gli Epodi sono diciassette componimenti, scritti in un arco di tempo fra il 41 e il 30 a.C. e pubblicati insieme al II libro delle Satire. La raccolta è ordinata secondo il criterio editoriale metrico invalso a partire dall’età alessandrina ed è caratterizzata da una varietà di argomenti.

Come Orazio stesso avrebbe dichiarato in seguito, gli Epodi sono legati alla fase “giovanile” della sua attività letteraria e alle difficili condizioni di vita successive all’esperienza di Filippi: «Ero a terra, le ali tarpate, privato della casa e del fondo di mio padre: sfacciata, la povertà mi spinse a fare versi» (decisis humilem pennis inopemque paterni / et laris et fundi, paupertas impulit audax / ut versus facerem, Epistole II 2, 50-51).

A questa situazione di disagio è quasi naturale collegare asprezze polemiche, toni carichi, linguaggio poetico violento. Ciò, per molti aspetti, fa degli Epodi un caso isolato nella produzione poetica oraziana e offre un’immagine del poeta molto diversa da quello stereotipo (carico di buon gusto, affabilità, umanità cordiale, distacco dalle passioni, senso della misura) cui è stata sempre collegata la fortuna di Orazio nella cultura successiva.

Parecchi interpreti oraziani esitano però giustamente a mettere in collegamento troppo immediato gli Epodi e l’esperienza autobiografica dell’autore: occorre anzitutto saper valutare quanto questo tono aggressivo e violento sia in un certo senso obbligato, ovvero affettato e simulato, perché dovuto alle regole del genere giambico e alla imitazione dei modelli greci (Archiloco e Ipponatte, in primis). Infatti, di questa posa letteraria Orazio appare certo consapevole e, in seguito, avrebbe affermato esplicitamente (Epistole I 19, 23-25):

… Parios ego primus iambos

ostendi Latio, numeros animosque secutus

Archilochi, non res et agentia verba Lycamben.

«… Io per primo trapiantai nel Lazio i giambi

del poeta di Paro, seguendo i ritmi e gli spiriti di Archiloco,

non gli argomenti e le parole che incalzavano Licambe».

È bene osservare come l’orgogliosa dichiarazione di aver trasferito in poesia latina i ritmi e gli spiriti di Archiloco», rivendichi certamente l’abilità versificatoria (in effetti, la maggior parte degli schemi epodici oraziani ha riscontro con quanto è testimoniato nei frammenti del poeta pario), ma anche i diritti dell’originalità: il poeta afferma, infatti, di aver mutuato da Archiloco l’ispirazione aggressiva (animi), ma non i contenuti (res).

Orazio, probabilmente, vuol dire non soltanto che negli Epodi ha attinto a una realtà romana e personale, ma anche che la sua ispirazione archilochea è del tutto particolare. Se la sua situazione giovanile, disagiata e amara, poteva fargli sentire delle affinità con la passionalità accesa e il feroce spirito polemico archilocheo, non dovevano sfuggire neanche a lui le differenze. Archiloco dava voce agli odi e ai rancori, alle passioni civili e alle tristezze di un aristocratico greco del VII secolo a.C., mentre Orazio scriveva nella Roma dominata dai triumviri e sarebbe entrato presto nell’entourage di Ottaviano, dopo essere appena uscito da una rischiosa esperienza politica.

Di conseguenza, l’aggressività di Orazio non può rivolgersi che contro bersagli “minori”: personaggi scoloriti, anonimi, o addirittura fittizi (un usuraio, un arricchito, una fattucchiera, una signora invecchiata). Tutto ciò, in effetti, ha contribuito a dare un’impressione di artificiosità letteraria e si è detto anche che talvolta Orazio riesca a ricreare proprio le res di Archiloco, ma non gli animi, al contrario di quanto aveva affermato!

Un esempio famoso è l’Epodo X. In una specie di προπεμπτικόν («carme di buon viaggio») a rovescio, Orazio augura a Mevio di fare naufragio (vv. 1-14):

Mala soluta navis exit alite             

  ferens olentem Mevium.   

ut horridis utrumque verberes latus,        

  Auster, memento fluctibus;            

niger rudentis Eurus inverso mari

  fractosque remos differat;             

insurgat Aquilo, quantus altis montibus

  frangit trementis ilices;     

nec sidus atra nocte amicum adpareat, 

  qua tristis Orion cadit;

quietiore nec feratur aequore        

  quam Graia victorum manus,     

cum Pallas usto vertit iram ab Ilio             

  in inpiam Aiacis ratem.  

[…]

Sciolti gli ormeggi, salpa sotto sinistri auspici

la nave su cui viaggia il fetido Mevio.

Tu, Austro, ricordati di percuoterne

l’uno e l’altro fianco con spaventosi flutti;

il nero Euro, rovesciando il mare,

disperda le gomene e i remi infranti;

sorga Aquilone nello stesso modo in cui sugli alti

monti schianta i lecci che tremano;

non una stella amica gli appaia nella cupa notte,

 dove tramonta il triste Orione;

non navighi un mare più pacato

di quello che navigò l’esercito vittorioso dei Greci,

quando da Ilio in cenere Pallade la sua collera

dirottò sull’empia nave di Aiace.

[…]

Il modello è qui il cosiddetto Epodo di Strasburgo di Archiloco, di cui fortunatamente è giunto un significativo frammento. Ma dal modello Orazio risulta abbastanza lontano: il poeta latino non riesce a riprodurre la serietà e la ferocia dell’invettiva archilochea perché lascia in sordina proprio il carattere personale della rampogna; a differenza di Archiloco, il cui nemico è un ex amico che lo ha offeso e tradito, Orazio non dice chi sia Mevio né spiega perché ce l’abbia con lui. In questo, come in altri casi, la violenza delle minacce e delle maledizioni suona un po’ a vuoto e talvolta può sembrare addirittura giocosa (come è chiaramente nell’Epodo III, in cui Orazio critica affettuosamente Mecenate per avergli fatto mangiare dell’aglio!).

In ogni caso, lo spirito archilocheo doveva sembrare a Orazio opportuno per esprimere le ansie e le passioni, le paure e le indignazioni di tutta una generazione: si pensi per esempio all’Epodo IV, in cui si reagisce ai repentini rivolgimenti sociali connessi alla «rivoluzione romana» insultando un servo arricchito, o alle inquietudini espresse negli epodi relativi alle guerre civili (VII e XVI).

Anche per influsso dei Giambi di Callimaco Orazio, in ogni modo, doveva sentire connaturata a una raccolta giambica l’esigenza della varietas (ποικιλία). Lavorando contemporaneamente a Satire ed Epodi, egli sembra riservare a questi ultimi quella molteplicità di temi, di toni e di livelli stilistici che la tradizione romana assegnava piuttosto all’ambito della satira. Un gruppo ben individuato è costituito, per esempio, dagli epodi “erotici” (XI, XIV e XV), poesie d’amore che svolgono motivi e situazioni della lirica erotica ellenistica e ne riproducono anche il linguaggio e l’intonazione patetica. La tradizione dell’idillio rustico (insieme a motivi ideologici più specificamente romani) è invece presente dietro l’elogio della campagna e della vita semplice dell’Epodo II, tanto più ambiguo in quanto pronunciato da un sordido usuraio.

Anche dal punto di vista dell’espressione, nonostante resti caratteristico degli Epodi un linguaggio teso e carico, che indugia sugli aspetti più crudi e talvolta ripugnanti della realtà, la poesia giambica di Orazio può ospitare una dizione più sorvegliata: accanto al poeta degli eccessi, si intravede il poeta della misura (mediocritas).

4. Le Satire

Cimentandosi nel genere satirico, che a differenza di quello giambico aveva una tradizione interamente romana, Orazio diede vita a una poesia di tono discorsivo e di argomento morale. Tuttavia, in questa produzione egli non si erge a giudice severo o a maestro pedante, ma preferisce affrontare la tematica morale con un tono non aggressivo ma benevolmente ironico (e spesso autoironico). In questo modo, Orazio comincia a costruire quell’io lirico riflessivo, realistico e moderato che si ritroverà, con profondità ancora maggiore, nelle Odi e nelle Epistole.

Un primo libro di dieci satire (lunghe da un minimo di 35 esametri a un massimo di 143), dedicato a Mecenate, fu pubblicato forse nel 35, e comunque entro il 33. Nel 30, insieme agli Epodi, apparve il II libro (otto satire soltanto, ma la terza, considerevolmente più lunga del solito, conta ben 326 versi!). In totale le Satire (lat. Sermones)contano più di 2000 versi. Le tematiche affrontate sono varie.

Quintiliano (X 1, 93) avrebbe recisamente affermato che satura quidem tota nostra est, «la satira è certamente un genere tutto nostro», ovvero genuinamente romano: egli non riusciva cioè a indicare autori greci che fossero serviti come punto di riferimento ai poeti satirici latini, di cui indicava il capostipite in Lucilio. E anche Orazio stesso, nei componimenti programmatici che forniscono le coordinate della sua poesia satirica, indicò in Lucilio l’inventore del genere (mentre non fa cenno alla satira di Ennio, che pure praticò il genere). Agli occhi di Orazio Lucilio era colui che aveva fissato due tratti fondamentali della poesia satirica: la scelta dell’esametro come forma metrica e, soprattutto, l’uso della satira come strumento dell’aggressione personale, della critica mordace. L’aggressività pareva a Orazio un elemento tanto caratteristico che si sentiva di mettere Lucilio in collegamento (piuttosto che con Ennio) con i tre grandi poeti della commedia greca antica del V secolo a. C. (Sermones I 4, 1-6):

Eupolis atque Cratinus Aristophanesque poetae             

atque alii, quorum comoedia prisca virorum est,            

siquis erat dignus describi, quod malus ac fur,  

quod moechus foret aut sicarius aut alioqui       

famosus, multa cum libertate notabant.

hinc omnis pendet Lucilius…

Eupoli, Cratino e Aristofane, i tre poeti,

e altri, che furono gli autori della commedia antica,

se c’era uno che meritava d’essere messo in berlina,

perché furfante o ladro o adultero o sicario o altrimenti

famigerato, lo bollavano senza tanti riguardi.

Da qui Lucilio dipende tutto…

Questo, dunque, era il tono con cui Lucilio rappresentava la società contemporanea, soprattutto il ceto dirigente (del quale derideva e colpiva i vizi, piuttosto che le singole personalità; dunque, non praticava l’ὀνομαστὶ κωμῳδεῖν dei commediografi greci).

Lawrence Alma-Tadema, Il poeta preferito. Olio su tela, 1888.

Del resto, Lucilio aveva posto nella propria produzione una grande varietà di temi e di interessi: c’erano polemiche letterarie, discussioni filosofiche, questioni linguistiche o grammaticali o lettere, conversazioni. Più importante di tutti era l’elemento autobiografico. La satira luciliana ospitava fatti, personaggi e osservazioni connesse alla vita personale del poeta. Anche in questo Orazio fu consapevole di raccogliere l’eredità del maestro (Sermones II 1, 30-34):

Ille velut fidis arcana sodalibus olim

credebat libris neque, si male cesserat, usquam

decurrens alio neque, si bene; quo fit ut omnis   

votiva pateat veluti descripta tabella       

vita senis…

Come a fedeli compagni, ai libri egli soleva affidare

i suoi segreti, né altrove ricorreva se le cose gli andavano male,

né se gli andavano bene: perciò, avviene che tutta la vita

di questo vecchio ci sta davanti agli occhi, come fosse dipinta

su un quadretto votivo…

Nella coscienza letteraria di Orazio, dunque, la sua satira era “luciliana” perché da Lucilio ereditava i due segni distintivi dell’aggressività e dell’autobiografia. Ma Orazio stesso non sottovalutava le differenze che lo separavano dall’inventor del genere; sottolineava però principalmente quelle relative allo stile, criticando in Lucilio la sciatta e abbondante facilità soprattutto nelle satire I 4 e I 10.

Importanti differenze tra Orazio e Lucilio c’erano però anche dal punto di vista della forma dei contenuti. Lucilio dedicava attenzione ai temi della riflessione morale e perciò riallacciava alla diàtriba (διατριβή), quel genere di letteratura filosofica popolare in cui l’argomento morale era illustrato da dialoghi e aneddoti; ma non era chiaro il rapporto che intercorreva tra diàtriba e aggressività, che dalla diàtriba era assente.

Caratteristico della satira di Orazio è proprio un collegamento stabile e organico di queste due componenti: l’attacco personale è sempre collegato con l’intenzione di ricerca morale. Al piacere gratuito dell’aggressione, ancora vivace in Lucilio (in cui sembrava rivivere lo spirito della commedia aristofanea), Orazio sostituisce l’esigenza di analizzare e indagare i vizi mediante l’osservazione critica e la rappresentazione comica delle persone.

Questa ricerca morale empirica non si propone il proselitismo, non cerca di convertire gli altri a un modello prefabbricato di virtù né di riformare il mondo, ma soltanto di individuare una strada per pochi (per il poeta stesso e un gruppo illuminato di amici) attraverso le storture di una società in crisi.

In questo senso la satira oraziana è intimamente collegata (più ancora della lirica) al circolo di poeti, letterati e uomini politici che si raccoglievano intorno all’intelligente guida di Mecenate.

Lucilio attaccava con virulenza i cittadini eminenti, avversari di cui condivideva la condizione. Ciò non sarebbe stato possibile al figlio di un liberto: ma, quel che più conta, per trarre insegnamento dalla condotta dei propri simili criticandone gli errori non era necessario scegliere bersagli di elevato livello sociale. Orazio guardava piuttosto a un piccolo mondo di irregolari (cortigiane, parassiti, artisti, imbroglioni, filosofi di strada, affaristi, ecc.). Come gli aveva insegnato suo padre, imparava da chi gli stava vicino, da quelli che incontrava per strada (Sermones I 4, 105-106):

… insuevit pater optimus hoc me,

ut fugerem exemplis vitiorum quaeque notando.

«… quel galantuomo di mio padre me l’ha insegnato,

a fuggire i vizi, facendomeli conoscere uno a uno con gli esempi».

La morale oraziana, dunque, pur essendo costruita con materiali elaborati dalle filosofie ellenistiche filtrati dalla diatriba, è fortemente radicata nel buon senso tradizionale, di cui Orazio rivendica con orgoglio la componente italica e contadina.

Gli obiettivi fondamentali della sua ricerca sono l’αὐτάρκεια (l’«autosufficienza interiore») e la μετριότης (la «moderazione», il «giusto mezzo»). Questi concetti accomunavano diverse scuole filosofiche, impegnate a proteggere l’individuo dalla schiavitù dei beni esterni e dai contraccolpi della fortuna. L’importanza dell’αὐτάρκεια era stata sostenuta da molti sapienti ed era presente anche nell’Epicureismo, di cui Orazio si professava seguace, che limitava i diritti della voluptas alla soddisfazione di pochi bisogni naturali. Anche la μετριότης, presente già nella saggezza greca arcaica (che la sintetizzava nel motto μηδὲν ἄγαν, («nulla di troppo») e formulata nel modo più coerente da Aristotele, era un concetto condiviso da Epicuro, per il quale la ricerca del piacere non doveva essere confusa con una pratica degli eccessi.

Stefan Bakałowicz, L’atrio della casa di Mecenate. Olio su tela, 1890. Moskov, Galleria Tret’jakov.

Si insiste sull’Epicureismo perché è caso mai questa la scuola di pensiero più presente nella satira oraziana. Era invece inevitabile che l’empirismo e il realismo della sua morale, che conferiscono ai Sermones quella bonaria ragionevolezza apprezzata in ogni epoca, entrassero in conflitto con l’astrattezza e con il rigorismo degli stoici (con i quali il poeta latino polemizza in Sermones I 3).

Direttamente all’Epicureismo si collegano Sermones I 2 contro l’adulterio e le sue inutili follie (si raccomanda il soddisfacimento naturale del bisogno sessuale) e soprattutto il rilievo che nell’opera hanno i problemi dell’amicizia e la rappresentazione della cerchia di sodali. L’affinità intellettuale, l’indulgenza, la dedizione, la comunanza di vita, la compattezza nei confronti dell’esterno: tutto ciò risente delle teorie epicuree e richiama il valore che la φιλία aveva nel sistema di pensiero di Epicuro e dei suoi seguaci.

La ricerca morale non caratterizza soltanto le satire che si potrebbero chiamare “diatribiche”, quelle cioè in cui è sviluppata una discussione su uno specifico problema morale, vivacizzata da argomenti, obiezioni, esempi, aneddoti (come in Sermones I 1-3), ma anche quelle in cui il poeta – sul modello luciliano “autobiografico” – rappresenta una scena, racconta un episodio, descrive una situazione.

Scena di vita quotidiana nel foro. Affresco, ante 79 d.C. dalla Casa di Giulia Felice (Pompei). Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

In questi casi, la rappresentazione stessa è come la lente attraverso cui Orazio osserva i fatti e i personaggi; gli esempi più felici sono la satira del viaggio (Sermones I 5) e la satira del seccatore (I 9). E non manca qualche caso in cui diatriba e rappresentazione sono coniugate in un medesimo componimento: Sermones I 6, per esempio, passa dall’autobiografia (origine del poeta e presentazione a Mecenate) all’argomentazione sul valore della nascita e sull’ambizione, per tornare di nuovo alla rappresentazione autobiografica (rievocazione dell’infanzia e del padre, diario di una giornata romana).

Il meccanismo fondamentale del genere satirico nella prima raccolta oraziana consiste nel confronto fra un modello positivo (l’obiettivo della ricerca morale del poeta e dei suoi amici) e tanti modelli negativi (i tipi della società romana che sono bersaglio di aggressione comica).

Ora, questo assetto si rivela estremamente precario, tanto che già la seconda raccolta di Satire mostra dei mutamenti sostanziali. Si registra anzitutto un brusco regresso della componente rappresentativo-autobiografica, presente solamente nel proemio e in Sermones II 6.

Nelle satire argomentative risulta poi dominante la forma del dialogo (ben sei componimenti su otto) e per di più, nella distribuzione delle parti, il ruolo dominante non spetta al poeta, bensì all’interlocutore; anzi, in Sermones II 2 le riflessioni sulla temperanza e la semplicità della vita sono condotte interamente da un certo Ofello di Venosa, di cui Orazio si limita a riportare le parole senza intervenire.

La coincidenza fra il poeta e la “voce satirica” (quella che argomenta e confuta) aveva assicurato un punto di riferimento alla ricerca morale del I libro. Ora che il poeta si ritira in secondo piano non resta più la possibilità di estrarre un senso unitario dalle contraddizioni del mondo reale: tutti gli interlocutori sono depositari di una loro verità, anche se non tutte le verità sono equivalenti e parecchi discorsi si confutano da soli in una involontaria ironia. Ma il poeta non sembra ritenere più che la satira possa essere il luogo di una ricerca morale capace di individuare empiricamente un sistema di condotta soddisfacente.

L’equilibrio fra αὐτάρκεια e μετριότης, che assicurava un buon punto di osservazione del reale, sembra perduto: il poeta non rappresenta ormai la propria capacità di vivere fra la gente senza perdere la propria identità morale, ma permette piuttosto ai suoi interlocutori di denunciare (anche ingiustamente) le debolezze e le incoerenze delle sue scelte. L’unico rifugio è ormai la villa sabina (Sermones II 6), dove l’αὐτάρκεια si giova dell’isolamento e non deve continuamente fare i conti con le contraddizioni della vita cittadina.

Apollo Musagete. Statua, marmo, II sec. d.C. dalla Villa di Cassio (Tivoli). Città del Vaticano, Museo Pio-Clementino.

5. Le Odi

Con le Odi (Carmina) Orazio fornisce alla letteratura latina il capolavoro della poesia lirica, destinato a diventare un modello per ogni epoca di classicismo. La straordinaria maturità della lirica oraziana è dovuta sia ai temi trattati sia alla forma: l’espressione dell’io lirico oraziano – un poeta saggio e orgoglioso, ma anche malinconico e umano – non può essere disgiunta da uno stile calibratissimo ed elegante, che riprende e supera la lezione della brevitas neoterica, né dalla grande varietà di strutture metriche ereditate dalla tradizione lirica greca.

Una raccolta di tre libri (il primo di 38 carmi, il secondo di 20 e il terzo di 30) venne pubblicata nel 23 a.C. Orazio vi aveva lavorato per circa sette anni, conclusa l’esperienza delle Satire e degli Epodi, il più antico componimento databile è il Carmen I 37, un canto di gioia per la morte di Cleopatra, avvenuta nel 30 a.C.

Alla poesia lirica Orazio doveva tornare sei anni più tardi (17 a.C.), per comporre su incarico di Augusto l’inno che un coro di ventisette ragazze e altrettanti ragazzi avrebbe eseguito nelle celebrazioni dei ludi saeculares: è il cosiddetto Carmen saeculare, in metro saffico, un’invocazione agli dèi, soprattutto Apollo e Diana, perché assicurino prosperità a Roma e al principato augusteo.

Il poeta si dedicò poi ancora alla poesia lirica e aggiunse ai precedenti un quarto libro di Odi (15 componimenti): l’ultimo, il Carmen IV 5, fa riferimento al ritorno di Augusto dal Settentrione (luglio del 13 a.C.).

La lirica oraziana sperimenta metri differenti: dominanti sono la strofe alcaica (37 componimenti su 103), la strofe saffica minore (25 componimenti), la strofe asclepiadea nelle sue varie forme (34 componimenti). Gli altri metri sono per lo più rappresentati in esempi isolati. In totale, i quattro libri delle Odi contano 3.034 versi, cui i si aggiungono i 76 versi del Carmen saeculare. Ci sono carmina brevissimi (la famosa I 11 e I 38 hanno per esempio solo 8 versi), odi brevi (di 16, 20 o 24 versi); ci sono odi più lunghe, fino a un massimo di 80 versi (l’ode III 4).

Merita attenzione la disposizione dei componimenti all’interno della raccolta che, come nella tradizione alessandrina, obbedisce a intenti artistici e strutturali. Le odi di apertura e di chiusura sono indirizzate a personaggi di riguardo (I 1 e II 20 a Mecenate; II 1 a Pollione, IV 1 a Paolo Fabio Massimo e IV 15 ad Augusto) e spesso, secondo una tradizione consolidata, mostrano l’orgogliosa consapevolezza del poeta (i casi più noti sono I 1, II 20 e III 30).

Anche il secondo posto, il penultimo e quello centrale sono sedi privilegiate. Talvolta il poeta giustappone carmi di contenuto simile (per esempio Carmen IV 8 e IV 9 sul l’immortalità assicurata dalla poesia), e in un caso costituisce un vero e proprio ciclo (III 1-6), quello delle cosiddette «odi romane», segnalato da un proemio (III 1) e da un proemio mediano (III 4) e dedicato ai temi del mos maiorum ripresi da Augusto. Ma il criterio favorito di organizzazione del libro sembra essere quello della variatio: sia dal punto di vista metrico-formale (i primi nove componimenti del I libro sono in nove differenti metri e in un altro metro ancora è l’ode I 11: quasi un’esposizione in catalogo delle possibilità metriche oraziane!), sia da quello del tono e del contenuto (alternanza di temi politici e temi privati, stile alto e stile leggero).

A differenza della lirica moderna, le odi di Orazio raramente danno voce a libere meditazioni o introspezioni: quasi sempre hanno un’impostazione dialogica, sono rivolte a un “tu” che può essere un personaggio reale (è il caso più frequente), immaginario (sono considerati tali le figure femminili e i personaggi maschili di nome greco), una divinità o la Musa, una collettività, perfino un oggetto inanimato (la lira, strumento della poesia).

La lirica oraziana, così come gran parte della poesia latina, soprattutto augustea, non può essere intesa a prescindere dal rapporto organico con la tradizione greca. La coscienza della dipendenza dai Greci è talmente viva da essere esibita in esplicite dichiarazioni di poetica: se negli Epodi Orazio si dichiarava erede di Archiloco, per quel che riguarda la sua produzione lirica rivendica orgogliosamente il titolo di “Alceo romano” (Carmina I 1, 34; I 26, 11; I 32, 5).

Simili dichiarazioni non implicano però una dipendenza pedissequa e priva di originalità, ma un rapporto di imitatio che significa soprattutto obbedienza alla lex operis (le regole che organizzano il genere letterario in cui il poeta vuole operare), rispetto del decorum letterario e creazione di un coerente sistema di attese nel destinatario. La imitatio è insomma una componente del linguaggio poetico e non un ostacolo all’originalità della creazione.

Del resto, gli stessi poeti romani, e Orazio più degli altri, così come erano consapevoli della loro “genealogia letteraria”, erano altrettanto gelosi del loro originale contributo creativo e non mancavano di farsene vanto (Epistolae I 19, 21-22):

libera per vacuum posui vestigia princeps,

non aliena meo pressi pede.

«Io per primo posi i miei liberi passi per libero suolo,

non calcai col mio piede le orme altrui».

Orazio si dice fiero di aver divulgato per primo la poesia di Alceo, malgrado le difficoltà tecniche del trasferire da una lingua all’altra strutture metriche ed espressive; e da queste orgogliose rivendicazioni nacque un vero e proprio tópos della poesia augustea, quello del et primus ego («e io per primo»). Ma nei confronti del suo modello greco Orazio si comporta con molta liberta, unendo a temi e occasioni tradizionali un’ambientazione e una sensibilità tipicamente romane, nonché un linguaggio poetico personale.

Questa ricerca di originalità all’interno dell’imitazione è visibile soprattutto nella ripresa dello spunto iniziale di un componimento. Diverse odi di Orazio, infatti, partono con una ripresa evidente (a volte quasi una citazione che funziona da motto): poi, però, il poeta procede in maniera sua propria e il modello viene quasi dimenticato (i casi più noti sono Carmina I 9; 10; 14; 18; 37; II 12).

Lawrence Alma-Tadema, Saffo e Alceo. Olio su tela, 1881. Walters Art Museum.

La famosa ode a Taliarco (I 9) si apre, per esempio, con un paesaggio invernale che ricorda un frammento alcaico: a esso, come in Alceo, è connesso un invito a bere. Poi, però, il componimento si sviluppa in riflessioni gnomiche, per finire in un quadro di vita galante cittadina vicino al gusto del realismo alessandrino.

Alceo fu il modello prediletto di Orazio, anche perché in lui poteva trovare contemporaneamente l’attenzione per le vicende della comunità e un canto più legato alla sfera privata (l’amore, l’amicizia, il convito). Questo aspetto è chiaro soprattutto nell’invocazione alla cetra colica, simbolo della lirica del poeta lesbio, in Carmina I 32, 3-12:

… age dic Latinum,

  barbite, carmen,    

Lesbio primum modulate civi,

qui ferox bello tamen inter arma,

sive iactatam religarat udo             

  litore navim,            

Liberum et Musas Veneremque et illi        

semper haerentem puerum canebat         

et Lycum nigris oculis nigroque    

  crine decorum…

«… Intona, suvvia, un carme

latino, o lira

modulata per la prima volta dal cittadino di Lesbo,

che, valoroso guerriero, tuttavia tra una battaglia e l’altra,

o se aveva legato all’umida riva

la nave sbattuta,

cantava Libero e le Muse e Venere

e il fanciullo che sempre

le è accanto, e Lico bello di neri occhi

e neri capelli…».

Del resto, se importanti sono i tratti che accomunano Orazio e Alceo, certo non meno significative sono le differenze: il poeta lesbio era un aristocratico impegnato in prima persona nelle aspre lotte politiche della sua città; in Orazio invece l’interesse per la res publica è poco più che un’immagine letteraria, ovvero l’interesse di un intellettuale, che, dopo un effimero coinvolgimento nelle tempeste civili, vive al riparo dei potenti signori di Roma, alla ricerca della felicità interiore che era stata l’insegnamento principale delle filosofie ellenistiche. Inoltre, mentre Alceo componeva le sue odi per l’esecuzione cantata durante i simposi, la lirica oraziana è scritta per la lettura: di conseguenza, la sua evocazione del simposio è puramente immaginaria e stilizzata, e il suo stile può permettersi raffinatezze e sofisticazioni che Alceo evitava per rendere meglio eseguibili i suoi carmi.

L’altra grande rappresentante della lirica eolica, Saffo, ha lasciato una traccia minore nella poesia di Orazio. In un’ode famosa (II 13) egli immagina Saffo e Alceo che affascinano con il loro canto uno stupito mondo infernale, in cui le ombre sembrano preferire Alceo, cantore delle tempeste civili, agli appassionati lamenti amorosi di Saffo.

Orazio certamente condivideva questo giudizio, e la poetessa dell’amore e della passione gli suggerì spunti poetici solo episodicamente: la cosiddetta «ode della gelosia» (F 31 Voigt), già “tradotta” da Catullo (Carmina 51), si risente in I 13, mentre in IV 9, 10 ss. sono rievocate le «passioni» (calores) della poetessa (si vd. anche I 22, 23-24). Ben più profonda impronta Saffo lascerà nella poesia elegiaca latina.

Un ruolo notevole è svolto anche dalla lirica corale, rappresentata da Stesicoro, Simonide e in misura maggiore Bacchilide. Ma non c’è dubbio che il posto d’onore fra gli auctores di Orazio spetti a Pindaro. Nel riconoscerne la grandezza, Orazio avverte tutti i pericoli cui si espone l’aemulatio di un poeta tanto audace e difficile (Carmina IV 2, 1-4):

Pindarum quisquis studet aemulari,

Iulle, ceratis ope Daedalea              

nititur pinnis, vitreo daturus          

  nomina ponto.

Chi vuol emulare Pindaro,

o Iullo, si affida come Dedalo     

ad ali di cera, per donare il proprio nome       

  a un mare di cristallo.

Orazio tenta una lirica “pindarica” soprattutto nel IV libro, rispondendo anche a sollecitazioni culturali augustee, ma anche nei libri precedenti (si vd., per esempio, il motto di I 12 o III 4, la «IV ode romana») la sua ricerca del sublime si nutre di suggestioni “pindariche”: periodi ampi, solenne gravità delle sentenze, ammonimenti improvvisi, transizioni audaci. E dal poeta tebano vengono a Orazio idee importanti, come la coscienza dell’alta funzione della poesia, la capacità del poeta di conferire l’immortalità, l’apprezzamento della saggezza etico-politica.

Frederic Leighton, Dedalo e Icaro. Olio su tela, 1869.

Il richiamarsi di Orazio alla lirica greca arcaica era dovuto a una precisa scelta programmatica ed esprimeva la volontà di distinguersi dall’alessandrinismo dei neoteroi. Ciò, però, non significa che Orazio ignorasse l’esperienza della poesia ellenistica, da cui anzi derivava un vasto repertorio di temi, immagini, situazioni (relative soprattutto alla sfera dell’amore, della relazione galante, ma anche a quella di feste e cerimonie pubbliche, del convito, del paesaggio) nonché alcuni aspetti fondamentali della sua cultura e della sua poetica, primo tra tutti la cura formale, il labor limae.

È consolidata l’immagine di Orazio poeta dell’equilibrio sereno, del distacco dalle passioni, della moderazione: e l’immagine tradizionale è, in questo come in altri casi, abbastanza rispettosa della realtà. Essa fa intuire, prima di tutto, il ruolo centrale che nella lirica oraziana è svolto dalla meditazione e dalla cultura filosofica: una meditazione già presente nella lirica greca arcaica, ma che in Orazio è sostanzialmente diversa in quanto discendente dalle filosofie ellenistiche attraverso la mediazione della diatriba.

Diversamente dalle Satire, però, nelle Odi non si vede una ricerca morale fondata sull’osservarione critica degli altri, ma una raccolta meditazione su poche fondamentali conquiste della saggezza (soprattutto epicurea); perciò, in un certo senso, si può dire che le Odi cominciano dove le Satire finiscono. A queste nozioni elementari, che devono parecchio anche al buon senso comune, Orazio ha saputo dare una formulazione tanto nitida e incisiva da consegnarle all’eredità della cultura europea.

Il punto centrale è la coscienza della brevità della vita, che comporta la necessità di appropriarsi delle gioie del momento, senza perdersi nell’inutile gioco delle speranze, dei progetti o delle paure. Più famosa di tutte è l’esortazione a Leuconoe (Carmina I 11, 6-8):

… sapias, vina liques, et spatio brevi         

spem longam reseces. dum loquimur, fugerit invida      

aetas: carpe diem quam minimum credula postero.

«… sii saggia, mesci il vino, e in un breve spazio

taglia la tua lunga speranza. Mentre parliamo, già sarà fuggito, maligno,

il tempo che ci è concesso: strappagli il giorno e non fidarti troppo del domani».

Aveva detto Epicuro (Gnomologio Vaticano, 14): «Si nasce una volta sola, due volte non è concesso, in eterno non saremo più. Tu, pur non essendo padrone del tuo domani, rimandi la gioia: la vita così trascorre in questo indugiare e ciascuno di noi muore senza aver goduto della quiete». Il saggio affronterà gli eventi, quali che siano, e saprà accettarli: egli conta solo sul presente, che cerca di cogliere nella sua fugacità, e si comporta come se ogni giorno della sua vita fosse l’ultimo. Il carpe diem non va, quindi, frainteso come un banale invito al godimento: in Orazio (come era anche in Epicuro) l’invito al piacere non è separato dalla consapevolezza acuta che quel piacere stesso è caduco, come caduca è la vita dell’uomo. Non resta che fabbricarsi, di fronte all’incalzare della morte o della sventura, la solida protezione dei beni già goduti, della felicità già vissuta (Carmina III 29, 41-48):

ille potens sui    

laetusque deget, cui licet in diem         

  dixisse “vixi”. cras vel atra          

    nube polum pater occupato   

vel sole puro; non tamen inritum         

quodcumque retro est efficiet neque   

  diffinget infectumque reddet   

    quod fugiens semel hora vexit.

… avrà pieno dominio di sé        

e felice vivrà colui che tutti i giorni      

  potrà dire: “Ho vissuto”. Domani invada pure

    Giove padre con neri nembi il cielo  

o con la pura luce del Sole; non cancellerà certo       

ciò che ci sta dietro e non potrà mutare          

  o far sì che non esista ciò che l’ora      

    fuggente una volta per tutte ci ha portato.

Questa meditazione può talvolta tradursi in canto della propria serenità: la felicità dell’αὐτάρκεια, la condizione del poeta-saggio, libero dai tormenti della follia umana e benedetto dalla protezione degli dèi. Il favore divino si manifesta trasfigurando in miracolo circostanze dell’esistenza quotidiana (vari episodi di scampato pericolo, dall’infanzia all’attualità) ed è sempre intimamente connesso con la vocazione di poeta: gli dèi e le Muse hanno salvato Orazio per riservarlo a quel destino.

Pittore di Achille. Una Musa che suona la lira. Pittura vascolare da una λήκυθος attica a sfondo bianco, 440-430 a.C. ca.

Eppure, saggezza, serenità, equilibrio, padronanza di sé e l’aurea mediocritas («preziosa medietà») di chi sa fuggire tutti gli eccessi e adattarsi a tutte le fortune, niente di tutto ciò è un possesso sicuro, acquisito una volta per sempre. Il poeta non ignora la forza insidiosa delle passioni, conosce le debolezze dell’animo, e sa che ciò cui egli aspira e che consiglia agli amici va conquistato e difeso in ogni momento. La saggezza si scontra così con i dati immutabili della condizione dell’uomo nel mondo: la fugacità del tempo, la vecchiaia, la morte. Nessuna saggezza ha la capacità di eliminare tanto peso negativo: contro le angosce e contro il dolore della vita si può soltanto ingaggiare una lotta virile che richiede energia e conosce qualche eroismo, per trasformare l’inquietudine e l’amarezza in accettazione del destino (Carmina IV 7, 7-16 passim):

inmortalia ne speres, monet annus et almum    

  quae rapit hora diem. […]

damna tamen celeres reparant caelestia lunae:              

  nos ubi decidimus 

quo pius Aeneas, quo dives Tullus et Ancus,

  pulvis et umbra sumus.

«A non nutrire speranze immortali ti ammonisce l’anno    

  e l’ora che trascina via il vivifico giorno. […]

Eppure, in cielo rapide lune ripristinano ciò che hanno perso:      

  quanto a noi, invece, una volta caduti

dove il pio Enea, dove il potente Tullo e Anco,

  siamo polvere e ombra».

Orazio non è però un asceta separato dal mondo. Egli mostra di conoscere bene i sentimenti e le relazioni umane e non ignora la passione: ne conosce la crudeltà, la rievoca con malinconia, la sente inopinatamente risorgere. Ma la saggezza faticosamente conquistata e gelosamente conservata vanno di pari passo con una pratica di vita fatta di pochi amici sicuri, pochi luoghi protetti e sentimenti da guardare con il necessario distacco.

Si tratta di un sistema coerente e unitario di ideali, sentimenti e luoghi che si adattano perfettamente tra di loro.

Quasi un quarto delle Odi possono essere classificate come «erotiche». La poesia amorosa di Orazio, a differenza di quella di Catullo e degli elegiaci, sembra nutrirsi del distacco ironico dalla passione. A parte qualche eccezione, l’amore viene analizzato come un rituale il cui canovaccio è piuttosto scontato: serenate, incontri, giuramenti, schermaglie, vita galante, banchetti. Spesso il poeta osserva con un sorriso la credulità del giovane amante, la serietà con cui ciascuno interpreta la sua parte, giura l’esclusività e l’eternità del proprio sentimento.

Anche l’amicizia, nelle Odi, come, del resto, in tutte le opere del poeta, ha un ruolo fondamentale e fornisce ai singoli componimento un ampio ventaglio di destinatari, ciascuno con la sua specificità di amico; e a ciascuno viene dedicata un’attenzione affettuosa.

La campagna è il luogo di elezione dell’equilibrio oraziano. Di solito è stilizzata secondo il modulo del locus amoenus, un gradevole paesaggio italico che ospita il convito, il riposo, la semplice vita rustica; ma Orazio conosce anche il fascino del paesaggio “dionisiaco”: una natura montana, selvaggia e aspra, fatta di rupi, boschi e fonti, non ancora domata dall’uomo.

Ma i luoghi più propriamente oraziani sono quelli individuati dallo spazio limitato e racchiuso del piccolo podere personale – spazio caro perché noto e sicuro, inattaccabile perché appartato e volutamente modesto (Carmina I 17, 17 hic in reducta valle); ma per ritrovarsi al poeta basta qualche volta un qualunque pezzo di quieta campagna o una solitaria spiaggia sul mare.

Questo spazio privilegiato funziona nel testo come una figura simbolica sia dell’esistenza dell’autore (è la forma dei suoi affetti, pochi ma sicuri) sia della sua esperienza poetica (ne è la forma estetica, in quanto spazio che vuole rappresentare un ordine e un senso).

Orazio chiama questo luogo-simbolo angulus (Ille terrarum mihi praeter omnis / angulus ridet, «Quell’angolo di mondo più d’ogni altro mi sorride», Carmina II 6, 13), il luogo deputato al canto, al vino e alla saggezza. E per quanto il tema possa apparire convenzionale, è pur vero che esso trova in Orazio nuove funzioni in quanto si associa a due altri grandi temi: quello della morte (il cui pensiero, in questo spazio privilegiato, si fa meno amaro e si attenua in malinconia) e soprattutto quello dell’amicizia.

L’altro polo della lirica oraziana, la poesia impegnata sui temi civili, con la celebrazione di personaggi, avvenimenti e miti del regime di Augusto, risulta per molti versi lontano dagli argomenti privati; pur se in Orazio, con una differenza importante rispetto alla lirica neoterica, tutta la sfera privata aspira sempre a una validità generale, a esprimere la condizione complessiva dell’uomo. La lirica civile, molto discussa nei suoi risultati, non manca certo di originalità. La poesia celebrativa legata ai monarchi ellenistici non fornisce più che qualche tratto esteriore: su questo tronco (e naturalmente su quello della lirica greca arcaica) Orazio ha saputo innestare spunti nazionali, suggestioni provenienti dall’epica e dalla storiografia. L’operazione era ambiziosa e rispondeva anche a profonde esigenze personali, ben radicate in una generazione, che, dopo le lacerazioni delle guerre civili, guardava con speranza, entusiasmo, e qualche angoscia mal sopita, al princeps vincitore e garante della pace. Non bisogna perciò pensare soltanto alle pressioni energiche della politica culturale augustea.

L’immagine di Orazio cantore della grandezza di Roma e dei valori eterni dell’impero, esaltata e poi caduta in sospetto durante il XX secolo per la retorica della romanità, può essere oggi finalmente valutata in modo più equilibrato.

La lirica civile di Orazio conosce la celebrazione, l’encomio, l’ufficialità, ma non può essere liquidata come propaganda in versi. Anzitutto perché, anche dove riflette con fedeltà i temi e le successive fasi dell’ideologia del principato, sa evitare chiusure dogmatiche ed esaltare il sublime della magnanimità: per esempio, la lealtà verso la causa tradizionalista e i suoi eroi sventurati (Carmina II 7; I 12; II 1) o l’ammirazione per la virtus anche nel più odioso dei nemici (celebre il quadro di Cleopatra che affronta impavidamente la morte in I 37). E poi perché Orazio sa spesso farsi interprete di incertezze e timori, di scoraggiamenti e poi di improvvise gioie liberatrici – insomma, dei sentimenti e delle aspirazioni profonde della comunità. Anche la lode del principe in genere sfugge alle movenze cortigiane dell’encomio ellenistico, per dar voce alla sincera ansiosa gratitudine nei confronti del pacificatore dell’Impero.

Giovanni Battista Tiepolo, Mecenate presenta ad Augusto le Arti Liberali. Olio su tela, 1743.

Dell’ideologia augustea, la lirica civile oraziana condivide l’impostazione moralistica: la crisi era derivata dalla decadenza degli antiqui mores, dall’abbandono di quel coerente sistema di valori etico-politici e religiosi che aveva fatto la grandezza di Roma.

Questa poesia moralistica può incontrare a tratti la ricerca oraziana e convivere con essa, perché la critica del lusso e delle stravaganze, l’ammirazione per l’autosufficienza della virtus e l’apprezzamento della razionalità contro le forze del caos erano temi comuni alle filosofie ellenistiche. La pubblica ricorrenza può essere anche occasione di gioia privata: il poeta festeggia con un convito, con un incontro galante. Orazio inaugura così una maniera che sarà importante per altri poeti dell’età di Augusto (per Properzio e, soprattutto, per Ovidio).

Nelle odi di argomento civile risalta più che altrove il motivo della vocazione poetica, che d’altra parte è una presenza ricorrente in tutti i carmi. Il vates si sente in rapporto con le Muse le altre divinità ispiratrici (Mercurio, Bacco, Apollo): attraverso la topica ellenistica Orazio esprime entusiasmo per la sua missione fin dalla prima ode (I 1), dedicata a Mecenate, dove la scelta della poesia è rivendicata con orgoglio. E se l’ode conclusiva del primo libro (I 38) privilegia ancora la dimensione intimistica del simposio, quelle del II e del III libro professano apertamente l’orgoglio della missione letteraria. Per esempio, in II 20 il poeta immagina addirittura di trasformarsi in un cigno, animale sacro ad Apollo, e afferma che l’immortalità conferitagli dall’arte rende inutili i pianti al suo funerale (riprendendo l’epigramma funebre di Ennio); analogamente in III 30 Orazio afferma con sicurezza: «Non morirò del tutto» (non omnis moriar, v. 6), perché con la sua opera ha innalzato «un monumento più duraturo del bronzo» (v. 1).

La polarità tra dimensione intima e dimensione pubblica è naturalmente una semplificazione, che finisce per oscurare la varietà e la vitalità tematica della poesia lirica di Orazio. Questa varietà è spesso dovuta alle diverse categorie in cui si articolava l’antica lirica greca (il suo modello di partenza) a seconda delle “occasioni” cui era destinata.

Ben rappresentati sono i carmi conviviali, che rimandano ai συμποτικά («canti da simposio») alcaici per quel che riguarda la descrizione del paesaggio e l’invito a bere per vincere la malinconia dell’esistenza, ma devono molto anche all’epigramma ellenistico negli inviti e nelle descrizioni dei preparativi, con il tradizionale apparato del simposio ellenistico-romano (vino, fiori, musica).

Ben rappresentato nella lirica oraziana è anche l’inno. Qui naturalmente le differenze con la lirica arcaica sono cospicue, anche perché la lirica religiosa oraziana è priva del legame con un’occasione e un’esecuzione rituale (a parte il Carmen saeculare). Dell’inno Orazio conserva spesso il formulario e l’andamento (l’invocazione in seconda persona, gli epiteti cultuali del dio, l’illustrazione di prerogative e sedi del culto, gli inviti alla presenza, le richieste), ma poi lo intesse di riferimenti e sviluppi di carattere letterario.

Non sempre però è facile collocare un’ode oraziana in un tipo ben definito, anche perché il poeta ama spesso contaminare in un medesimo componimento categorie liriche diverse (secondo il procedimento alessandrino dell’incrocio fra i generi»). Per esempio, in III 37 Orazio contamina il προπεμπτικόν («carme di buon viaggio») e il carme mitologico; in III 11 un inno e un carme mitologico; in III 14 l’encomio per Augusto e il carme simposiale; in I 4 un epigramma sulla primavera e una poesia conviviale.

Charles Jalabert, Orazio, Virgilio e Vario nella casa di Mecenate. Olio su tela, 1777. Nimes, Musée des Beaux-Arts.

6. Le Epistole

Dopo la grande stagione della poesia lirica, Orazio ritorna, con le Epistolae, all’esametro della “conversazione”: appunto sermones è il nome che Orazio dà anche alle sue “lettere in versi”, lo stesso usato per le Satire, che come quelle trattano di argomenti morali.

Il I libro delle Epistole fu pubblicato nel 20 a.C.: Orazio vi lavorò tre anni, dopo la pubblicazione dei primi tre libri delle Odi. La raccolta comprende 20 componimenti in esametri: si va dai 16 versi della IV epistola ai 112 di I 18. I versi sono in totale poco più di mille.

II II libro, forse pubblicato postumo, fu composto negli anni fra il 19 e il 13 a.C. Contiene due lunghe epistole di argomento letterario: la prima, dedicata ad Augusto, critica l’ammirazione per i poeti arcaici ed esamina lo sviluppo della letteratura romana; la seconda, indirizzata a Giulio Floro, più personale, è una specie di congedo dalla poesia, con un quadro memorabile della vita quotidiana del letterato romano e un’ampia riflessione sulla ricerca della saggezza filosofica.

Sebbene la tradizione manoscritta non la includa nella raccolta delle Epistole, fin dal XVI secolo l’epistola ai Pisoni, detta Ars poetica, è stampata dopo le due epistole del libro II, a cui la accomunano la forma epistolare e l’argomento letterario. La datazione è molto discussa: probabilmente è posteriore al 13, data dell’epistola ad Augusto, ma alcuni la collocano tra il I libro delle Epistole (20 a.C.) e il Carmen saeculare (17 a.C.). L’Ars poetica è un trattato di 476 esametri, che espone teorie peripatetiche sulla poesia, soprattutto drammatica. Con una certa difficoltà è stata rintracciata una struttura interna dell’opera: i vv. 1-294 parlano dell’ars, i vv. 295-476 dell’artifex; a sua volta, la prima sezione sembra bipartita tra la trattazione della poesia (il contenuto dell’opera, vv. 1-41) e la trattazione del poema (lo stile, vv. 42-294).

La sensibilità oraziana per il trascorrere inesorabile del tempo, acuita dall’impressione di una precoce vecchiaia, fa sentire la conquista della saggezza come urgente, improcrastinabile. Ma, al tempo stesso, Orazio non sembra più in grado di costruire (né per gli altri né per sé) un modello di vita soddisfacente.

La rinuncia alla vita sociale e all’ottimismo etico è simboleggiata dalla fuga da Roma verso il raccoglimento della campagna sabina: un ritiro inquieto, ma per lo meno lontano da impegni, sollecitazioni, passioni, nei confronti delle quali il poeta si sente adesso indifeso.

L’esigenza dell’αὐτάρκεια è ora più vivace che mai, ma neanche questa sembra garantire al poeta un atteggiamento coerente e costante. Orazio sembra oscillare, senza individuare mai davvero un punto di plausibile equilibrio, tra un rigore morale che lo attrae ma lo spaventa e un edonismo di cui avverte insieme concretezza e fragilità. Nella epistola che fa da proemio, il poeta si dichiara indipendente da ogni ortodossia filosofica (Epistolae I 1, 13-19):

ac ne forte roges, quo me duce, quo lare tuter:   

nullius addictus iurare in verba magistri,            

quo me cumque rapit tempestas, deferor hospes.

nunc agilis fio et mersor civilibus undis  

virtutis verae custos rigidusque satelles, 

nunc in Aristippi furtim praecepta relabor          

et mihi res, non me rebus subiungere conor.

Non mi domandare chi mi conduca, sotto quale tetto mi sia rifugiato:

non mi impegnai a giurare per le parole d’un maestro,

ovunque il tempo mi porti, mi ritrovo essere ospite.

A volte mi pare di destarmi, mi immergo tra i marosi della vita civile,

mi sento soldato della virtù verace, suo difensore inflessibile;

poi, senza sapere come, scivolo nelle dottrine d’Aristippo,

riprovo a dominare la realtà, invece di esserne dominato.

Non si tratta qui tanto di rivendicare un’originale mediazione fra concetti e posizioni attinte a tradizioni filosofiche diverse o alla predicazione diatribica, che tendeva all’eclettismo. Orazio parla, programmaticamente, delle oscillazioni che caratterizzano la morale delle Epistole, che contempla, per esempio, la possibilità di accostare l’epistola 16, di impronta più chiaramente stoica, centrata sul tema della libertà interiore e sul vero ideale del vir bonus, alla coppia costituita dalle epistole 17 e 18, che presentano didascalicamente una serie di consigli e di riflessioni sulla maniera di vivere accanto ai potenti e di assicurarsene il favore.

Alle aporie della ricerca morale oraziana sembra da collegare lo spazio notevole ora accordato al tema diatribico (già mirabilmente svolto da Lucrezio e affiorato nel II libro delle Satire) dell’insoddisfazione di sé, dell’incostanza, della noia angosciosa e impaziente. L’inquietudine è presentata come una specie di male del secolo (Epistole I 11, 27-30):

caelum non animum mutant qui trans mare currunt.

strenua nos exerces inertia: navibus atque

quadrigis petimus bene vivere. quod petis, hic est,

est Ulubris, animus si te non deficit aequus.

«Cambia cielo, non animo, chi corre di là dal mare.

Un torpore smanioso ci logora: noi che cerchiamo con navi

e quadrighe la vita felice. Ciò che cerchi è qui,

è ad Ulubre, se non ti manca l’equilibrio dell’animo».

Ma il poeta non si sente affatto al riparo, né i propositi di saggezza sembrano capaci di assicurargli la guarigione dall’insidiosa e tenace malattia (Epistole, I 8, 3-12):

si quaeret quid agam, dic multa et pulcra minantem   

vivere nec recte nec suaviter, haud quia grando

contuderit vitis oleamve momorderit aestus,      

nec quia longinquis armentum aegrotet in agris;           

sed quia mente minus validus quam corpore toto          

nil audire velim, nil discere, quod levet aegrum,              

fidis offendar medicis, irascar amicis,      

cur me funesto properent arcere veterno,             

quae nocuere sequar, fugiam quae profore credam,      

Romae Tibur amem, ventosus Tibure Romam.

«Se ti chiederà cosa faccio, digli così: io, che molte e belle cose minacciavo,

non vivo né secondo virtù né piacere; non perché la grandine

m’ha ammaccato le viti o la calura ha morso le olive,

né perché il bestiame s’è ammalato in pascoli lontani;

ma perché, infermo nell’animo più che nel corpo tutto,

non voglio ascoltare né sapere ciò che potrebbe guarirmi,

m’arrabbio con medici fidati, m’adiro con gli amici,

perché s’affannano a liberarmi dal mortale torpore;

inseguo ciò che mi fa male, fuggo ciò da cui m’aspetto giovamento;

come il vento, a Roma mi piace Tivoli, a Tivoli mi piace Roma».

All’esibita debolezza della propria posizione etico-filosofica fa riscontro – quasi paradossalmente – un’accresciuta impostazione didascalica del discorso oraziano. La forma epistolare stessa, infatti, corrisponde in qualche modo alla posizione di un intellettuale eminente e rispettato, che è interlocutore e anche punto di riferimento dell’élite sociale del suo tempo.

Nel rapporto a due che è proprio di una lettera c’è spazio per confessare, ma anche per ammonire e insegnare, soprattutto se la persona di un destinatario inesperto (molte delle epistole sono indirizzate a giovani amici) sembra in qualche maniera richiederlo (Epistole I 17, 3-5):

disce, docendus adhuc quae censet amiculus, ut si

caecus iter monstrare velit, tamen adspice, siquid

et nos quod cures proprium fecisse, loquamur.

«Impara quello che sentenzia il tuo amichetto, che avrebbe bisogno lui,

ancora, di insegnamenti; è come se un cieco volesse mostrare la via:

bada, però, se anch’io non dico qualcosa che potresti avere interesse a far tuo».

L’aspetto didascalico si accentua nelle epistole del II libro e soprattutto nell’Ars poetica. La società augustea è anche una società di letterati e di amanti delle arti: i problemi di critica letteraria, di poetica e di politica culturale sono fra quelli di più viva attualità. Orazio interviene nel dibattito con l’autorità che gli è garantita da un sicuro prestigio e anche dal suo personale rapporto con il princeps. Anzi, è proprio Augusto l’interlocutore primario di questi discorsi sull’arte e la letteratura.

Per assicurare una più ampia base ideologica e culturale al difficile compromesso sociale del principato, Augusto vedeva con favore una produzione letteraria romana e popolare, ma l’Eneide aveva dato una risposta solo parziale alla richiesta da parte di Ottaviano di un poema epico-storico che interpretasse l’austera ideologia dei maiores e cantasse il destino imperiale di Roma.

Restava aperta (e urgente agli occhi del principe) la questione del teatro latino: la generosa ricompensa concessa al Tieste di Vario dimostra quanta importanza venisse annessa a una forma d’arte cui si accreditavano le più larghe possibilità di penetrazione ideologica, in quanto più capace di rappresentare valori e modelli culturali.

La questione del teatro è centrale nelle epistole letterarie di Orazio: nell’epistola ad Augusto (II 1) il poeta polemizza contro il favore indiscriminato nei confronti dei poeti del teatro arcaico. In una specie di disputa «degli antichi e dei moderni», Orazio si schiera decisamente dalla parte di questi ultimi, in nome del principio callimacheo dell’arte colta e raffinata. Egli resiste, su questo punto importante, alle preferenze di Augusto stesso e raccomanda soprattutto al princeps un’attenzione benevola per la poesia destinata alla lettura, l’unica che possa raggiungere, secondo lui, i livelli di eccellenza formale che la cultura e il prestigio stesso della Roma augustea richiedono necessariamente.

Orazio non mostra di nutrire fiducia in una vera rinascita del teatro, anche perché un pubblico meno selezionato e raffinato di quello cui si rivolge la letteratura scritta non sembra disposto ad apprezare una produzione drammatica di qualità e predilige invece il fasto spettacolare o le dozzinali buffonerie di mimi e acrobati.

L’Ars poetica (II 3) sembra tuttavia orientare la sua analisi dell’arte e della poesia sui problemi della letteratura drammatica (non solo la tragedia e la commedia, ma addirittura il dramma satiresco, della cui vitalità a Roma non è rimasta traccia). Questo dovrà essere messo in rapporto con il posto privilegiato che il dramma aveva nelle trattazioni di ascendenza peripatetica (a partire proprio dalla Poetica di Aristotele), a cui Orazio si riconnette direttamente, sebbene in modo personale. Non bisogna però pensare alla ricezione passiva di una fonte greca: dopo le perplessità e le resistenze espresse nell’epistola ad Augusto, Orazio accetta di offrire con l’Ars poetica il proprio contributo di teorico, se non di poeta militante, alla questione del teatro.

Egli comunque resta fedele nell’Ars ai suoi principi, predicando un’arte raffinata (v. 291: si raccomanda di perfezionare con il labor limae il proprio prodotto), paziente (vv. 388-389: è meglio tenere i propri scritti nel cassetto per nove anni, prima di renderli pubblici – un precetto già neoterico!), colta (v. 268: bisogna leggere e rileggere i grandi modelli greci), attenta (i principi fondamentali sono quelli della coerenza e della convenienza o decorum).

Nel quadro di queste riflessioni Orazio ha occasione tra l’altro di disegnare preziosi tracciati di storia della cultura e della letteratura sia greca sia romana, nonché di aprire interessanti squarci sulla “vita quotidiana” del letterato romano e dei circoli letterari dell’Urbe (II 2).

Malgrado le somiglianze tra Epistole e Satire, già i commentatori antichi sentirono l’esigenza di distinguere la nuova raccolta da quella satirica: sembrano diverse solo in questo, che ora Orazio parla ad assenti, mentre là, nelle Satire, è come se parlasse sempre a gente che sta davanti a lui. La specifica identità delle Epistole è anzitutto assicurata proprio dalla forma epistolare: tutti i componimenti hanno un destinatario e della lettera vengono spesso esibiti i segnali caratteristici (le formule di saluto e di commiato).

Oltre al rapporto con le Satire, si discute anche del carattere “reale” di queste lettere: nessuno crede naturalmente a una vera e propria funzione privata, ma non si può neppure escludere che singole lettere, pur pensate come opera di letteratura e destinate al pubblico dei lettori, siano state di volta in volta inviate, come omaggio letterario, ai rispettivi destinatari.

A ogni modo, la componente epistolare assicura al sermo oraziano una intonazione più personale, nonché la varietà di modi e atteggiamenti che è richiesta dall’attenzione nei confronti del destinatario.

Dal punto di vista formale, le Epistole erano quasi certamente una novità: in quello che è rimasto (o di cui si ha notizia precisa) della letteratura greca e latina, non c’è niente di davvero simile. Si sa di epistole in versi (ce n’erano, per esempio, nelle satire di Lucilio e sono dichiaratamente lettere alcune poesie di Catullo, come il Carmen 68), ma non trattavano temi filosofici; viceversa, erano ben note trattazioni filosofiche sotto forma epistoalre (basti pensare alle lettere di Platone e più ancora a quelle di Epicuro ai suoi discepoli), ma in prosa.

Una raccolta sistematica di lettere in versi come quella di Orazio è probabilmente sperimentazione originale, tanto più che in questo caso il poeta non si richiama ad alcun primus inventor del genere, come invece fa altre volte.

Ma le novità delle Epistole e la loro differenza rispetto alle Satire sono ben visibili soprattutto a livello di contenuti: manca, per esempio, alle Epistole quell’aggressività comica che, ancora per Orazio, era la marca evidente del genere satirico. La riflessione morale non procede ora attraverso una osservazione critica della società contemporanea: sembra prendere coscienza sempre più netta delle proprie debolezze e contraddizioni; l’equilibrio fra αὐτάρκεια e μετριότης, su cui si reggeva la possibilità stessa della satira, appare ormai irrecuperabile, e non si intravede nessun equilibrio diverso.

Quinto Aurelio Simmaco, il pagano

Fra le personalità del paganesimo agonizzante, personaggio dalla carriera politica non eclatante (cfr. CIL VI 1699 = ILS 2946 []), Quinto Aurelio Simmaco (PLRE I 865-870) fu, tutto sommato, uno degli uomini più influenti del suo tempo, occupando a ragione una posizione di primo piano: non solo per via del suo impegno in difesa degli antichi riti, ma anche e soprattutto in quanto figura di intellettuale esemplare. Buon letterato, erudito, tra le sue opere si annoverano in particolare le lettere, composte in una raffinata – anche se ridondante – prosa letteraria, attraverso le quali Simmaco si adoperò per restituire di sé un’immagine ideale: quella di difensore non soltanto della tradizione, ma, con essa, di tutta la cultura classica. Per questo egli amava presentarsi come senatore e vir litteratus: non solo volle dirsi iustus heres veterorum litterarum, ma osò fregiarsi dell’agnomen ex virtute di Tullianus, per fugare ogni dubbio sul proprio modello principale. Ciononostante, Simmaco considerava gli studi come qualcosa di statico, fermamente ancorato a una concezione immutabile (Symm. Rel. III 4, consuetudinis amor magnus est); il sapere, a suo avviso, era uno strumento al servizio della carriera politica (Symm. Ep. I 20, 1, quia iter ad capessendos magistratus saepe litteris promovetur).

Giovane magistrato romano. Statua, marmo, fine IV secolo, dal ninfeo degli Horti Liciniani. Roma, Centrale Montemartini.

Nei nove libri di lettere compilati verso la fine della sua vita, si contano più di 900 epistole ad amici, principalmente di raccomandazione, consolatorie, di ringraziamento e di augurio. Sul modello pliniano, un decimo libro comprendeva la corrispondenza ufficiale, due lettere all’imperatore e quarantanove Relationes («suppliche») presentate ai sovrani. Un palinsesto di Bobbio (Vat. Lat. 5750), risalente al VI secolo, conserva otto Orationes di Simmaco, tra le quali tre panegirici imperiali. Tra l’altro, pare che il senatore abbia progettato anche l’edizione dell’opera omnia liviana (Symm. Ep. IX 13: munus totius Liviani operis quod spopondi).

L’altisonante sequenza onomastica che lo contraddistingueva potrebbe trarre in inganno: come quella di molte famiglie in vista nella seconda metà del IV secolo, la fortuna del casato di Simmaco era piuttosto recente. Nel 330 suo nonno aveva rivestito il consolato ordinario, ma fino a due anni prima un altro membro della stirpe era stato ancora un esponente dell’ordine equestre, seppure del massimo rango, come attesta il titolo di vir perfectissimus. Non a torto, l’accento solenne di Simmaco nel parlare della propria ascendenza è stato tacciato di snobismo, nel vero senso della parola. Fu suo padre, in effetti, Lucio Aurelio Avianio Simmaco, a portare il nome della schiatta ai massimi livelli: grande esempio di dottrina (Amm. Marc. XXVII 3, 3) e di cultura letteraria (Symm. Ep. I 2; 32), intellettuale assai versatile, dapprima praefectus annonae, poi praefectus Urbi (364), Avianio Simmaco fu spesso portavoce del Senato presso gli imperatori (CIL VI 1698 = ILS 1257 [], multis legationibus pro amplissimi ordinis desideriis apud divos principes functo). Difatti, nel 361 egli aveva avuto l’onore di condurre un’ambasceria alla corte di Costanzo II, che allora si trovava ad Antiochia (Amm. Marc. XXI 12, 24). In quell’occasione Avianio Simmaco aveva conosciuto personalmente il retore Libanio, con il quale condivideva la passione per i λόγοι e per gli autori antichi (περὶ τῶν παλαιῶν), che costituivano evidentemente l’argomento principe delle loro quotidiane conversazioni. A raccontarlo è lo stesso Libanio, trent’anni dopo, in una lettera a Quinto Aurelio Simmaco (Lib. Ep. 1004), nella quale il vecchio retore esprime tutta la propria soddisfazione per essere stato onorato da una missiva (non pervenuta) da parte di un senatore del rango di Simmaco. Questo documento, d’altra parte, attesta l’esistenza di una fitta rete di amicizie tra le élites colte delle due partes imperii.

Bamberg, Staatsbibliothek. Ms. Class. 5 (c. 845), Anicio Manlio Severino Boezio, De institutione arithmetica, f. 2v. Simmaco e Boezio.

Quinto Aurelio Simmaco era nato, dunque, in seno di una famiglia ormai senatoria, intorno al 340. Nel 364/5 egli ricevette la correctura, cioè il governatorato, Lucaniae et Brittiorum: cominciò allora la sua attività letteraria, con le prime lettere raccolte nel ricco epistolario. Simmaco si sarebbe servito di questo canale di comunicazione per garantirsi una relazione privilegiata con un personale politico e amministrativo socialmente variegato, ma detentore di un potere e di un’autorità con i quali inevitabilmente avrebbe dovuto fare i conti e tenersi buoni attraverso scambi di cortesie, favori, raccomandazioni.

Il 25 febbraio 369 fu una data importante nella sua carriera e nella sua esperienza umana (cfr. Amm. Marc. XXVI 1, 7): recatosi ad Augusta Treverorum come portavoce del Senato in occasione dei quinquennalia dell’imperatore, Simmaco pronunciò di fronte al sovrano due panegirici, rispettivamente in onore di Valentiniano I (Symm. Or. 1) e di suo figlio Graziano (Symm. Or. 3). Ciò gli valse la considerazione del comitatus imperiale, presso il quale si stabilì per circa un anno, partecipando, tra l’altro, anche alla spedizione contro gli Alamanni e ricevendo l’incarico di celebrare la vittoria con un altro discorso tenuto di fronte al princeps il 1° gennaio 370 (Symm. Or. 2). Proprio lì, nella corte installata sulla Mosella, ebbe luogo una delle esperienze più importanti della vita di Simmaco: incontrò e frequentò Decimo Magno Ausonio, letterato e poeta di Burdigala, cantore delle bellezze della Gallia, ma anche cristiano e precettore del giovane Graziano (Symm. Or. 3, 7; Auson. 19 [Epigr.] 26, 5, 320 Peiper; 20 [Grat. Act.] 15, 68, 370 Peiper; Amm. Marc. XXXI 10, 18; [Aur. Vict.] Epit. Caes. 47, 4). Nonostante le differenze di fede, i due si legarono di profonda amicizia, forse la più sincera che Simmaco abbia mai stretto, testimoniata da una trentina di lettere raccolte nel libro I dell’epistolario (Symm. Ep. I 13-43).

Dal 370 al 373 Simmaco fu a Roma. Nel 370 sposava Rusticiana, figlia del praefectus Urbi Memmio Vitrasio Orfito (Amm. Marc. XIV 6, 1), che l’anno successivo gli diede una figlia, Galla, e, ben tredici anni più tardi, un figlio, Quinto Fabio Memmio Simmaco. Nel 373/4 Simmaco ricevette il proconsolato d’Africa (C.Th. XII 1, 73; Symm. Ep. VIII 5; 20; IX 115; CIL VIII 24584 []; AE 1966, 518 []): sotto il suo mandato, la praefectura minacciata dai torbidi provocati dai Donatisti (C.Th. XVI 6, 1), dalla rivolta di Firmo in Mauretania (Amm. Marc. XXIX 5, 5-50) e dall’invasione degli Asturi in Tripolitania (Amm. Marc. XXVIII 6), vide le imprese di Teodosio il Vecchio, inviato da Valentiniano per ripristinare la pace nella regione. Dopo quell’incarico, per almeno dieci anni Simmaco si astenne dal rivestire ulteriori incombenze; fu scelto solo per missioni onorifiche, ma, nel frattempo, il suo prestigio in Senato cresceva, anche se il titolo di princeps Senatus gli venne conferito soltanto in seguito. Nel 375 succedeva al padre al soglio imperiale Graziano, guidato dai consigli del maestro Ausonio: nelle lettere al retore bordolese, Simmaco salutava l’avvento del sovrano come l’inizio di un novum saeculum (Symm. Ep. I 13; cfr. Or. 3).

Intorno al 377 Simmaco perse il padre Lucio, allora console (Symm. Or. 4), che lo lasciò erede di una cospicua fortuna, basata prevalentemente sulla proprietà fondiaria, com’era costume dell’aristocrazia imperiale: tre case nell’Urbe (una sul Celio), una dimora a Capua e ben quindici villae, tre nel suburbio di Roma e dodici nell’Italia Suburbicaria, oltre a proprietà in Sicilia e Mauretania. Le tenute, comunque, dovevano essere mal gestite e le rendite risultavano basse, tanto che negli ultimi anni Simmaco fu costretto a venderne alcune per pareggiare il bilancio (cfr. Symm. Ep. II 52; 57; 59; III 12; 55; 82; 88; VI 60; 66; 70; 72; 80; VII 18; IX 50; CIL VI 1699 []).

Magistrato romano. Statua (dettaglio del busto), marmo, fine IV secolo, dal ninfeo degli Horti Liciniani. Roma, Centrale Montemartini.

Nonostante, dal 381, gli imperatori in carica, influenzati da carismatici prelati cristiani, intensificassero le misure in campo religioso, rendendole sempre più repressive, sia contro i cristiani eretici sia contro i cultori delle antiche tradizioni, gli stessi sovrani perseguirono una sistematica politica di collaborazione con le élite: difatti, nel 383, Virio Nicomaco Flaviano il Vecchio, uno dei membri più cospicui dell’aristocrazia romana, sarebbe stato chiamato a ricoprire l’incarico di praefectus praetorio Italiae et Illyrici (cfr. CIL VI 1782 = ILS 2947 []; Symm. Ep. II 8, 22-23; 31), mentre suo figlio avrebbe ricevuto il proconsolato Asiae; l’anno successivo sarebbero divenuti consules i pagani Ricomero e Clearco (C.Th. I 6, 9), mentre Simmaco sarebbe stato designato praefectus Urbi (cfr. C.Th. IV 17, 4; XI 30, 44).

Ora, un esame spassionato delle fonti rende comprensibile la vivacità con cui, per oltre vent’anni, i senatori romani avrebbero sostenuto le loro posizioni, conducendo, in nome del conservatorismo religioso e del tradizionalismo, un’ostinata battaglia in difesa di quei privilegi e di quelle sfere d’interesse, che le riforme costantiniane avevano riservato all’ordo amplissimus. D’altronde, nel corso del IV secolo l’aristocrazia romana era diventata ciò che non era mai stata in precedenza: una classe politica rigidamente esclusiva ed ereditaria, che lo stesso Simmaco definì pars melior generis humani (Symm. Ep. I 52;IV 4; 9; cfr. Or. VI 1, nobilissimi humani generis; Or. VIII 3, impulsu fortasse boni sanguinis, qui se semper agnoscit). A ogni modo, non si trattò di una battaglia improntata a un astratto e retorico passatismo né di una lotta in difesa di puri e semplici privilegi economici, ma di uno scontro fondamentalmente politico. Simmaco e gli altri senatori romani difendevano la propria identità di ceto e di gruppo dirigente che la pesante legislazione grazianea del 382 sembrava mettere in discussione: l’abolizione dei contributi statali al culto delle Vestali, la confisca del terreno sacro dei templi e dei collegia sacerdotali, oltre alla rimozione della Curia dell’ara Victoriae, furono percepiti tutti come atti discriminatori e persecutori (cfr. C.Th. XVI 10, 15). Pertanto, i senatori romani inviarono presso Graziano una delegazione, guidata da Simmaco, per sollecitare il sovrano a tornare sui propri passi; ma persuaso da Ambrogio, vescovo di Mediolanum, l’imperatore si rifiutò di ricevere l’ambasceria (Symm. Rel. III 1; 20; Ambr. Ep. XVII 5, 10; 16; Paul. VA 26, 1; cfr. Amm. Marc. XXX 9, 5). Quando tra il 383 e il 384 le province occidentali furono funestate da una grave carestia, Simmaco in una lettera Flaviano fratri connesse immediatamente la calamità con l’empietà del sovrano e la interpretò come una punizione divina (Symm. Ep. II 7).

Flavio Valentiniano II. Busto, marmo, c. 387-390 da Aphrodisias. Istanbul, Museo Archeologico.

Nell’estate del 384, salito intanto alla porpora il fratellastro di Graziano, Valentiniano II, una nuova legazione del Senato, sempre diretta da Simmaco, fu inviata a Mediolanum per chiedere ancora una volta la restaurazione dell’altare della Vittoria e la riattribuzione dei sostegni economici ai collegi sacerdotali romani. Ricevuto, questa volta a corte, Simmaco tenne un’ampia e appassionata relatio, sostenendo la causa della religione tradizionale in una prospettiva di tolleranza per tutti i culti, rivolto al giovanissimo imperatore, che ancora dodicenne era stato posto sotto la tutela della madre Giustina (Symm. Rel. III). Ma alle argomentazioni del senatore si oppose con energia e con autorità dell’episcopus della città, che in due dense epistole rivolte al principe, sul quale peraltro esercitava un forte ascendente, confutò punto per punto le tesi pagane. Fu così respinta la richiesta di Simmaco e risultò conseguentemente vano il tentativo di riottenere un importante segno dell’antica religione (Ambr. Ep. XVII-XVIII). Contrariamente a quello che talvolta si vuole credere, l’oratore e il vescovo furono di volta in volta alleati o rivali in quella pratica di patronato verso le comunità non meno che nei confronti dei singoli (cfr. Symm. Ep. I 63); la questione dell’altare della Vittoria più che di un conflitto religioso si trattò di una controversia tra due eminenti personalità politiche, decise a darsi battaglia senza esclusioni di colpi.

Nel frattempo era venuto a mancare anche Vettio Agorio Pretestato, un altro grande personaggio della Roma pagana, suo alleato (Amm. Marc. XXVII 9, 8; XXVIII 1, 24; CIL VI 1779 = ILS 1259 []; CIL VI 102 = ILS 4003 []): Simmaco, sentendosi privo di appoggi, nel 385 diede le dimissioni dalla prestigiosa carica di praefectus della Città.

Verso il 387 a Roma si celebrarono le nozze fra la figlia di Simmaco e Flaviano il Giovane, evento che sancì l’alleanza politica tra le due famiglie. A ricordo dello sposalizio si conservano le valve di un raffinato dittico d’avorio, che rappresentano entrambe due figure femminili intente a compiere atti di culto presso un altare, sopra le cui teste campeggiano le incisioni: Symmachorum – Nicomachorum.

Dittico Symmachorum – Nicomachorum. Incisione su valve, avorio, fine IV secolo. London, Victoria and Albert Museum – Paris, Musée national du Moyen Âge.

Sempre nel 387 l’usurpatore Magno Massimo si guadagnò il sostegno dell’aristocrazia tradizionalista e Simmaco si fece trascinare nell’impresa, pronunciando, tra l’altro, un panegirico dell’anti-imperatore. Teodosio, l’Augustus ufficiale, era però l’uomo forte e, nel 388, il rivale fu sconfitto a Poetovio e a Siscia (cfr. Pan. Lat. II 34-35): Simmaco, preso dal panico e caduto in disgrazia, dovette cercare rifugio e asilo nientemeno che in una chiesa (Socr. HE V 14, 3-9; Symm. Ep. II 13; 30-31). Il vincitore gli accordò la grazia. Dopo una fuga in Campania, un rovescio finanziario e altre peripezie, alla fine, Simmaco riuscì a tornare a Roma, dove incontrò Teodosio e riguadagnò i favori della corte. Nell’autunno del 390 riuscì addirittura a farsi eleggere consul posterior per l’anno successivo, insieme a Flavio Eutolmio Taziano, consul prior (cfr. Lib. Ep. 990). Da qualche tempo era divenuta prassi che un console fosse designato in Occidente e l’altro in Oriente e che entrambi ottenessero la sanzione imperiale attraverso decreti pubblici (C.Th. VIII 11, 1; 12; CLRE 16; 26). Comunque, nel discorso d’insediamento, tenuto a Mediolanum, il 1° gennaio 391 di fronte al comitatus imperiale riunito, Simmaco non trovò di meglio che ritirare fuori la vecchia questione dell’altare della Vittoria: Teodosio lo fece immediatamente espellere (Ambr. Ep. LVII 4; Paul. VA 26; [Prosp.] De promiss. III 38, 41; Paul. VA 26, 2).

Il 22 agosto 392, dopo aver assassinato Valentiniano II, il magister militum Flavio Arbogaste scelse come candidato alla porpora il magister scrinii Flavio Eugenio, un anziano retore di origini galliche, che, seppur cristiano, nutriva interesse verso i culti aviti (Ambr. de ob. Valent.; Zos. IV 54, 1; Socr. HE V 25; Soz. HE VII 22, 4). Malgrado avesse tentato di ottenere la propria cooptazione nella pars Occidentis, con l’intercessione di Ambrogio, Teodosio sconfessò Eugenio, trattandolo come un usurpatore (Ambr. Ep. LVII; Zos. IV 54-55; CIL XIII 8262 = ILS 790 []). Il pretendente riuscì a ottenere il plauso di una parte del Senato romano: Flaviano il Vecchio fu riottenne la carica di praefectus praetorio Italiae et Illyrici, cui si aggiunsero pure la responsabilità prefettizia sull’Africa e un consolato sine collega per l’anno 394, mentre suo figlio fu creato praefectus Urbi. Intanto, nella primavera del 393 l’ara Victoriae veniva ricollocata al suo posto nella Curia, i templi riaperti e la libertà di culto ripristinata (Ambr. Ep. LVII 6-12; in Psalm. 35, 25; Ep. LXI 1; de ob. Theod. 39, 5; Paul. VA 26-27).

Fl. Eugenio. Siliqua, Augusta Treverorum c. 392-394. AR 1,75 g. Recto: D(ominus) n(oster) Eugeni-us p(ius) f(elix) Aug(ustus). Busto diademato, drappeggiato e corazzato dell’usurpatore, voltato a destra.

Teodosio si preparò a muover guerra: riunite le sue truppe, l’imperatore marciò verso l’Italia con al seguito un contingente gotico, guidato dal rex Alarico. Lo scontro campale si svolse sulle rive del fiume Frigidus (od. Vipacco), affluente dell’Isonzo, e infuriò per due giorni tra il 5 e il 6 settembre 394. Al termine di un sanguinoso combattimento, risultò chiara la definitiva disfatta della compagine occidentale: sembrava quasi che gli antichi dèi avessero abbandonato i loro seguaci. Eugenio e Arbogaste andarono incontro al loro destino, il primo tradito e assassinato, il secondo togliendosi la vita (Philostorg. 11, 2; Socr. HE V 25; Oros. VII 35).

Come è stato osservato, l’idea che l’aristocrazia romana avesse aderito con entusiasmo all’usurpazione, facendosi parte attiva del movimento e fornendo supporto logistico e ideologico, e che la “reazione pagana” fosse stata il collante decisivo per il consenso a Eugenio è smentita dalla continuità dei ruoli-chiave al governo dell’Impero. Nonostante le opposte propagande avessero tinto di sacro l’intera vicenda – da parte cristiana, come lotta tra le forze del bene e quelle del male, da parte tradizionalista, come difesa del mos maiorum –, essa andrebbe ridimensionata a livello di uno sgradevole incidente di percorso: mentre le fonti pagane sottolineano l’atteggiamento del trionfatore nei riguardi del Senato romano, costretto a una conversione coatta alla nuova fede in cambio del perdono politico, da parte cristiana il suicidio di Flaviano il Vecchio fu interpretato come un atto di coerenza e celebrato nell’ottica provvidenzialistica della mors persecutorum. In realtà, lo stesso Teodosio, che nutriva profonda stima nell’uomo di cultura, già suo prestigioso ministro, se solo ne avesse avuto l’opportunità, avrebbe certamente preferito risparmiargli la vita. D’altra parte, il VI libro dell’epistolario simmachiano conserva alcune lettere indirizzate Nicomachis filiis (Symm. Ep. VI 2, 6, 8, 22), dalle quali emergono le difficoltà affrontate dal genero e dalla figlia Galla nei due anni successivi: in particolare, gli sposi erano angustiati dalla prospettiva di dover rimborsare il salario percepito da Flaviano padre in qualità di praefectus praetorio sotto l’usurpatore e molte altre controversie private. In una situazione del genere, la rete di conoscenze di Simmaco si rivelò provvidenziale (cfr. Symm. Ep. V 47).

L’apoteosi di Q. Aurelio Simmaco. Bassorilievo, avorio, 402 d.C. da un dittico. London, British Museum.

Quanto a Teodosio, egli non ebbe il tempo di gustare i frutti della sua vittoria: a causa dei postumi di una ferita in battaglia, si spense a Mediolanum il 17 gennaio 395. Ora, toccava al magister militum utriusque, il semi-vandalo Flavio Stilicone, ricompattare la fazione teodosiana, rinnovando la solidarietà tra corte imperiale e aristocrazia: le crisi, le controversie e i pericoli che avrebbe dovuto affrontare rendevano necessario il consolidamento dei buoni rapporti con l’ordo senatorius. Dopo l’amnistia decretata per legge il 18 maggio 395 (C.Th. XV 14, 11-12), quantomai propizia in tal senso si rivelò la morte di Ambrogio, occorsa il 4 marzo 397: l’intensificarsi delle relazioni con gli esponenti dell’élite costituiva una ripresa delle alleanze teodosiana e un’oggettiva necessità politica. Per questo disegno nessuna personalità poteva risultare più opportuna di quella di Simmaco, il quale da parte sua non si lasciò sfuggire l’occasione: è significativo che le prime quattordici lettere del IV libro dell’epistolario siano quelle indirizzate al generalissimo vandalo (Symm. Ep. IV 1-14). I testi mostrano la deferenza con la quale l’estensore trattò il destinatario, la stima nutrita nei suoi riguardi, l’impiego di un linguaggio e di formalità tipici dell’amicitia politica romana, il superamento degli stereotipi negativi propri dell’élite senatoria nei riguardi degli individui di origine barbarica.

Con il suo impegno, blandendo di volta in volta il suo destinatario, Simmaco riuscì a ottenere la completa riabilitazione del genero Flaviano, al punto da fargli nuovamente avere la praefectura Urbi per l’anno 400. Grazie ai buoni uffici di Stilicone e alla concessione dell’uso gratuito del servizio pubblico per i suoi agenti, nel 401 l’oratore poté far venire da ogni parte dell’Impero le bestie più stravaganti in occasione dei ludi allestiti dal figlio Memmio Simmaco per la sua elezione a praetor (cfr. Symm. Ep. V 56). D’altra parte, il contributo di Simmaco garantì al generalissimo vandalo il sostegno del Senato nelle crisi che attanagliavano il suo regime. I loro rapporti, dunque, furono volti a un cordiale e reciproco scambio di favori.

Vittoria Alata. Statua, bronzo, I secolo, da un’intercapedine del Capitolium. Brescia, Museo di S. Giulia.

Ma il suo chiodo fisso era ancora l’altare della Vittoria: nell’inverno 401/2 Simmaco si recò a Mediolanum in rappresentanza del Senato romano, tornando alla carica ma inutilmente (Symm. Ep. V 95; VII 2; 13-14). All’inizio del 402, dopo un avventuroso viaggio di ritorno, reso pericoloso dalle bande dei Goti che erravano nei dintorni della sede imperiale, egli risulta di nuovo a Roma, in precarie condizioni di salute (Symm. Ep. IV 13; 56; V 94-96). Dopo questa data non si hanno più notizie di lui e tutto lascia pensare che egli morisse nel corso di quello stesso anno. La risposta polemica De ara Victoriae del poeta cristiano Prudenzio nella Contra Symmachum costituisce, per certi versi, una sorta di necrologio del senatore (Prud. c. Symm. II 7-16).

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La corte imperiale in età giulio-claudia: domus Augusta e aula Caesaris

di M. Pani, La corte dei Cesari fra Augusto e Nerone, Roma-Bari 2003, pp. 7-23.

Composizione e confini della corte a Roma

In uno studio recente sull’aula Caesaris, che può essere considerato il più accurato e completo sull’argomento, Aloys Winterling (1999) cerca di seguire il processo d’istituzionalizzazione della corte nei primi due secoli dell’Impero. Egli individua, in particolare, alcuni elementi di rottura rispetto alla tradizione della domus gentilizia, da cui ha origine l’apparato della casa imperiale. Specialmente con Claudio e con Domiziano, il progressivo ampliamento delle strutture edilizie imperiali del Palatium, e il connesso adeguamento culturale, nel segno dello sfarzo e dell’esclusivismo, disperdono ogni possibile legame con quell’eredità. Il Palatium, il Palatino, finisce per diventare per antonomasia «il palazzo».

Gli aspetti del cerimoniale risalgono al costume clientelare repubblicano della salutatio (l’omaggio del saluto mattutino che i clientes devono al loro patronus), ma adesso è l’aristocrazia nel suo insieme a entrare, con questo rito, nell’amicitia del principe. Anche i conviti rinviano a un costume repubblicano, ma con Claudio il numero dei convitati arriva a 600! La stessa organizzazione amministrativa, partendo dall’apparato domestico della familia, che ha un decisivo incremento sempre con Claudio, rompe ogni legame con la tradizione della casa aristocratica, a causa della sua ampiezza e dell’inserimento progressivo dei cavalieri al posto dei liberti. In questo modo, la corte si stabilizzerebbe, fra le tradizionali sfere repubblicane della domus e della res publica, come una nuova istituzione sui generis.

L’interpretazione delle nuove gerarchie sociali è la parte più laboriosa e forse più problematica della ricostruzione di Winterling, che basa su di essa l’individuazione del processo d’istituzionalizzazione della corte. Agli inizi del principato nasce una nuova gerarchia sociale, misurata secondo la vicinanza al principe, comprendente anche individui di umile origine. Questa gerarchia si affianca a quella di rango – aristocratica e tradizionale – misurata essenzialmente sulla famiglia e sulla carriera magistratuale. In particolare, Winterling vede agli inizi del principato tre categorie di «cortigiani»: 1) la cerchia più ristretta, cioè i familiares; 2) una più larga cerchia di amici; 3) l’insieme dell’aristocrazia, la cui amicizia ha un carattere istituzionale perché s’impernia sul principe come tale, non su legami personali con lui, e si manifesta con il rito della salutatio. Le prime due categorie di legami sono di tradizione repubblicana; la terza è invece specifica del principato.

Il processo d’istituzionalizzazione passerebbe attraverso la progressiva sovrapposizione, nei primi due secoli del principato, della terza categoria alla seconda e poi anche alla prima. Ciò comporterebbe l’unificazione della gerarchia basata sulla vicinanza al principe con quella basata sul rango sociale, anche perché il principe affida di fatto a persone di sua fiducia sia le magistrature, e quindi il rango senatorio, sia il rango equestre. Si verificherebbe allora un’istituzionalizzazione e insieme un’aristocratizzazione della corte. La reazione a questo processo sarebbe, già con Adriano, la ricomposizione di una cerchia più ristretta di amicissimi, una sorta di «corte nella corte». Al posto della domus un nuovo termine segna, dalla metà del I secolo in poi, per Winterling, il concetto di corte istituzionalizzata: aula.

È una «corte senza “Stato”». L’istituzionalizzazione sembrerebbe da intendersi, nell’impostazione di questo studioso, in relazione al profilo politico-sociale della nozione di Stato, più che a quello propriamente istituzionale. L’istituzionalizzazione, vista in maniera essenzialmente sociologica, sembrerebbe verificarsi quando si generalizza l’aristocratizzazione degli amici principis, cioè quando il ruolo di amicus diventa indipendente dalle relazioni personali del principe. È in questo senso che la corte viene definita come istituzione sui generis tra la sfera domestica e quella civica, tra la domus e la res publica.

Nasce tuttavia, proprio in questo periodo, una realtà nuova rispetto alla tradizione repubblicana: la categoria dell’amministrazione, il cui rapporto con la corte è ancora in fieri. L’apparato della carriera equestre non può essere certo considerato come l’«organizzazione cortigiana del principe». Si pone piuttosto il problema della definizione giuridica del personale amministrativo, e in particolare dei procuratori, anche se il tentativo di razionalizzare queste figure in termini che potrebbero soddisfare le concettualizzazioni moderne potrebbe risultare vano, come, del resto, quello di far rivivere compiutamente le categorie antiche.

Il problema dell’istituzionalizzazione, in effetti, è legato anche a quello della definizione complessiva dell’apparato di governo che emana sì dal principe, ma si dipana poi in una serie di posti, ruoli, incombenze, carriere. Un elemento sicuro e non trascurabile che possiamo utilizzare è quello offerto da Marco Aurelio, quando, in una sua descrizione della corte (Τὰ εἰς ἑαυτόν 8, 31), non inserisce fra le sue componenti il personale amministrativo in quanto tale: esso è nascosto tra parenti, amici, personale «familiare», domestici.

La situazione, da questo punto di vista, avrà uno sviluppo solo con gli imperatori assoluti del IV secolo. In quest’epoca, tuttavia, la «corte istituzionalizzata» non corrisponde al termine aula – semmai al più indicativo sacrum Palatium – mentre, come riferimento attivo, opera il comitatus, che si estende anche al personale burocratico non cortigiano. In effetti, la documentazione tarda non aiuta a definire gli ambiti: la corte come tale appare anzi schiacciata dalle istituzioni. Il concetto di aula, comunque, continuerà ad avere, come risulta negli autori tardi e nella letteratura giuridica, il suo senso più generico e informale, ruotante attorno al concetto fisico di «reggia».

Gruppo familiare (dettaglio). Bassorilievo, marmo, 9 a.C., dall’Ara Pacis. Roma, Museo dell’Ara Pacis.

La corte fra nobilitas e nuove aristocrazie in formazione

Torniamo agli inizi del processo e, quindi, agli inizi del principato: in particolare, al ruolo delle aristocrazie e alle relazioni gerarchiche che ruotano attorno al principe. Bisogna ritornare dapprima al concetto di domus Augusta, che è propedeutico, come si accennava, e non alternativo a quello di aula. Secondo quanto risulta dalla tradizione, questi termini sembrano in effetti maturare quasi nello stesso tempo, tra la fine del principato di Augusto e gli inizi di quello di Tiberio. Il concetto di domus Augusta, d’altra parte, è verosimilmente connesso col problema della successione. L’idea di domus, mentre allargava l’ambito della gens e della familia, restava in una logica nobiliare, che possiamo continuare a chiamare, in senso lato, «gentilizia». Da questo punto di vista, lungi dall’essere vista come una colpa, come apparirà agli inizi del principato, la concezione del predominio di una sola famiglia era più accettabile del predominio di un singolo. La successione si giustificava all’interno di questa concezione.

A questo processo si collegava forse un altro fenomeno importante: nel comune modo di vedere, per nobilitas s’intendeva ora solo la nobilitas di tradizione repubblicana. Sembra che le cariche magistratuali assunte in età giulio-claudia non producessero più nobilitas, come avveniva in età repubblicana. La nuova nobiltà, infatti, era indicata sempre con il termine homines novi. In questo senso si registra una sorta di serrata ideologica, una chiusura della vecchia nobiltà che la avvicina alla nobiltà moderna e che ben si adattava a quell’esclusivismo da cui può nascere un ambiente di corte.

La domus Augusta e la nobiltà esclusiva appaiono dunque strettamente connesse e si uniscono in un largo intreccio di parentele, che vede praticamente tutti i discendenti dei grandi leader repubblicani essere in qualche modo legati da parentela alla domus: gli Scribonii, gli Antonii, i Cornelii Scipiones, gli Aemilii Lepidi, i Iunii Silani, i Cornelii Sullae, i Pompeii, i Domitii. È qui il nucleo e la genesi della corte. La vicinanza al principe viene dunque misurata in termini tradizionali, cioè in gradi di “nobilizzazione”: ma la gerarchia di nobiltà è dettata ora dai legami più o meno stretti con la casa cesarea, come prima lo era dal numero dei consolati o dei trionfi. Si tratta di una gerarchia guidata da una rinnovata logica aristocratica nobiliare, adesso strettamente dipendente dal principe.

A Roma non esisteva una tradizione di casa reale, né era il principe ad assegnare il rango nobiliare come in età moderna. Il presupposto stabile per la formazione di una corte riconoscibile e riconosciuta fu dunque il ceto ormai circoscritto ed esclusivo della nobiltà repubblicana, che – insieme con la domus e con il personale servile e libertino delle case aristocratiche – costituiva il nucleo dell’apparato di governo centrale del principe. La stessa possibilità di una successione appariva quindi circoscritta alla nobilitas, legata intimamente alla domus Augusta.

Alla presenza nobiliare, che caratterizzava la corte, basata su una rinnovata gerarchia aristocratica di tipo piramidale, si aggiungeva l’eredità di una struttura tipica dello stile di vita aristocratico repubblicano: la clientela. Nella corte si affermano i clienti del principe o di qualche altro importante esponente della domus (per esempio, Antonia Minore). Accanto al piccolo Britannico, figlio di Claudio, sedeva a cena, insieme con i figli dei nobili, anche il suo coetaneo Tito, figlio dell’uomo nuovo Vespasiano. Qui vediamo il germe di una nuova gerarchia: a volte, un «amico», di rango inferiore, del principe assume, come singolo, un ruolo e un potere maggiore di un aristocratico. È la gerarchia che Winterling opportunamente definisce «secondo la vicinanza al principe», anche se non dobbiamo dimenticare che essa nasce, attraverso la clientela, dalla stessa logica nobiliare che caratterizza la corte.

Nell’ambito della corte prende forma un nuovo ceto, che però non si pone ancora, in quanto ceto, in concorrenza con quello vetero-nobiliare in termini di potere (un caso a sé, vedremo, è l’inserimento nella gerarchia di corte di liberti e servi imperiali, cioè di esponenti della familia). Lungo tutta l’età giulio-claudia, sono sempre le famiglie della vecchia nobiltà a trovarsi implicate nei giochi della successione, proprio perché connesse alla casa cesarea e per questo continuamente epurate. Minori rischi corrono, fino a un certo punto, come osservano gli stessi autori antichi, gli «uomini nuovi» o, comunque, i «cortigiani» di rango inferiore, proprio perché, nella logica nobiliare, non sono tenuti in considerazione, nel bene e nel male, per una successione. Solo alla fine del principato gentilizio giulio-claudio, che crolla insieme con le altre grandi famiglie nobiliari a esso connesse, in quell’irreversibile crisi di ricambio e di sostanze descritta mirabilmente da Tacito, le nuove gerarchie formatesi ai margini della corte nobiliare avranno un ruolo anche nella nomina del principe. Con i Iulii e con i Claudii si esauriscono grandi famiglie nobiliari gli Aemilii Lepidi, i Iunii Silani e altre ancora. Dopo il nobile Sulpicio Galba, sarà la volta dei Salvii, dei Vitellii, dei Flavii. Queste «famiglie nuove» emergeranno nella devozione alla famiglia cesarea, ai margini degli ambienti di corte. E la corte sopravviverà proprio grazie a individui in grado di acquisire, in termini per il momento più parchi, quello stile di vita e di governo nel quale erano cresciuti.

Integrazione e controllo delle classi superiori, patronato di quelle nuove ed emergenti, sono del resto fra le caratteristiche tipiche del ruolo della corte anche nell’età moderna. Una volta emarginati irreversibilmente gli esponenti residui della nobiltà repubblicana – l’unica nobiltà riconosciuta in età giulio-claudia – le nuove gerarchie si baseranno sulle funzioni pubbliche. Si tratta di un campo aperto al merito e alla mobilità, e in esso si affermerà alla fine anche una certa spersonalizzazione delle relazioni di corte, che sarà un punto cardine della sua funzione statuale. Certo, la nuova aristocrazia si forma, per la maggior parte, o direttamente nella corte o attraverso la sua mediazione (pur con l’apporto ormai di tutto l’Impero e dell’elemento militare): l’unificazione di aristocrazia e corte riguarda un ceto che non ha più la stessa formazione della nobilitas giulio-claudia e che si «burocratizza». Per altro verso, l’aristocrazia senatoria conserva una sua tradizione istituzionale e ideologica che può entrare in contrasto o in concorrenza con la corte e con il principe.

Scena di processione con la corte imperiale. Bassorilievo, marmo, 9 a.C., dall’Ara Pacis (fregio A, lato ovest). Roma, Museo dell’Ara Pacis.

Sviluppi della corte a Roma

Marco Aurelio aggiunge ai componenti della corte, insieme con i parenti e gli amici del principe, gli οἰκεῖοι, da intendersi evidentemente come la familia Caesaris. Nasce da questo nucleo l’apparato amministrativo pubblico esterno alla familia: un apparato burocratico e stipendiato, che, sorto essenzialmente come emanazione della corte, assume presto una vita a sé, una sua struttura che diventa a sua volta modello di organizzazione governativa. In questo senso, si può sostenere che l’aula si pone, di fatto, come mediazione fra l’origine familiare del principato, con il suo apparato domestico, e la nascita di una stabile struttura burocratica «statuale», favorendo il processo di separazione, oltre che fra privato e pubblico, fra amministrazione e politica. L’aula contribuisce così, inaspettatamente, a un’opera di modernizzazione della vita pubblica. In età tardoantica, si riterrà utile selezionare i quadri dei funzionari, dei «competenti», anche attraverso una buona scuola, organizzata, ai livelli superiori, dai poteri «statali», alla quale si affiancheranno scholae specifiche per i diversi addetti all’amministrazione, gli officiales. Già nell’alto principato, tuttavia, la discussione sulla scelta del personale superiore vede affacciarsi la tendenza verso interessi «specialisti» rispetto alla tradizionale preparazione «generalista».

È difficile però, come si accennava, distinguere nettamente, nei vari stadi, fin dove arriva il raggio della corte e a partire da quale punto il personale debba essere invece inteso come apparato amministrativo, con una sua struttura ormai autonoma. Abbiamo visto che Marco Aurelio non include questo personale tra i componenti della corte. Il discrimine più semplice può essere forse individuato, come per l’età moderna, nell’ambito spaziale – all’interno o all’esterno del palazzo – dell’appartenenza alla casa del principe. Per questo sembra comunque difficile parlare di un’istituzionalizzazione della corte sotto il profilo giuridico già nel II secolo.

Nei primi due secoli dell’Impero la corte e la res publica restano in una posizione ambigua e contraddittoria. Da una parte è singolare che la corte si continui e si sviluppi proprio nel principato civilis o «illuminato» del II secolo, dall’altra, in fondo, un processo di istituzionalizzazione poteva attuarsi solo se la corte si allontanava dalla concezione nobiliare, «patrimoniale», originaria del principato. La corte era rimasta, anche con le «famiglie nuove» giunte al vertice dell’Impero, che del resto si erano formate all’interno della corte stessa, un’eredità ineliminabile lasciata dalle casate nobiliari, in quanto apparato «culturale», per il governo del principe. Gli storici «etici» del II secolo, pur critici verso i Giulio-Claudi, non danno una visione solo negativa o polemica dell’aula. Ne sono criticate solo le degenerazioni, la cattiva pratica. Il principe-filosofo Marco Aurelio respinge certo le degenerazioni della corte, ma l’accetta come un’espressione necessaria della gestione del potere: modello di un certo tono e di un certo stile che viene visto ormai caratteristica del governo del principe.

Pure, perché la corte si espandesse e consolidasse nella sua funzione pubblica bisognava che il principe, superata la logica del «primato» nobiliare, non fosse condizionato da troppe remore derivanti dall’etica «privatistica», familiare, e spezzasse ogni legame con la tradizione istituzionale repubblicana. Era necessario cioè che egli si trasformasse apertamente e programmaticamente in un sovrano assoluto, che nella sua altezza sacrale, proprio attraverso la corte, apparisse separato dal resto della società, e che il suo rapporto con le nuove aristocrazie sorte dal suo apparato cortigiano di governo fosse regolato da un rigido e uniforme principio gerarchico.

La storia della corte a Roma nasce dunque, sempre su suggestione delle monarchie orientali, dall’esclusivismo vetero-nobiliare accentratosi attorno alla domus Augusta dalla tarda età augustea a quella giulio-claudia. In quest’ambito la corte utilizza le strutture dell’amministrazione domestica e coopta presenze di natura clientelare, favorendo la crescita di un apparato di governo centrale. Questo apparato, che in progresso di tempo si baserà in buona parte sulle competenze, guarda all’amministrazione dell’Impero e nello stesso tempo pone, più o meno consapevolmente, le basi per la formazione di una nuova aristocrazia, anche politica. Questi due aspetti andavano entrambi al di là della struttura di potere magistratuale della città-stato. Il nuovo strato sociale emergente entra in parte nella corte e sopravvive anzi alla dissoluzione della sua originaria struttura vetero-nobiliare, divenendo il nucleo del governo imperiale e delle nuove gerarchie aristocratiche, politiche e burocratiche. È questa una fase di maturazione e d’istituzionalizzazione della corte che coincide, in laborioso connubio, con la contemporanea ideologia del «principe civile» (civilis princeps), anch’essa lontana dalla concezione patrimoniale e nobiliare del primo principato.

È solo nel IV secolo, dopo il trauma della crisi del III secolo, quando il principe si isola infine nel suo assolutismo «divino» e il sistema di governo dell’Impero viene riorganizzato, che la corte diventa – a rischio peraltro di complicare la propria identità a causa dei propri confini sfumati – un’espressione dello Stato, la cui concezione rivela ormai un grado avanzato di astrazione. Una nuova aristocrazia all’interno della corte, e una nuova gerarchia che si estende anche al suo esterno, entrambe «burocratizzate», fanno da raccordo tra il sovrano e la società esterna.

Roma trasmetterà così alla cultura occidentale moderna, insieme con il modello della città-stato, perpetuatosi negli ordinamenti municipali, quello dell’organizzazione di corte: i due modelli di governo e di selezione del ceto dirigente fra i quali si dibatteranno i sistemi organizzativi della storia d’Europa fino alla costituzione dello «Stato moderno» e degli Stati nazionali.

Tiberio Claudio Germanico Augusto e la moglie Agrippina Minore (a sn) affrontati a Germanico e Agrippina Maggiore (a dx). Cammeo detto “Gemma Claudia”, onice, 49. Wien, Kunsthistorisches Museum.

«Domus Augusta» e «aula»

Nell’età di Traiano, Tacito osserva sconsolato che con il principato di Augusto i nomi delle istituzioni – Senato, magistrati, res publica – pur restando gli stessi di prima, coprivano ormai realtà diverse, svuotate di consistenza (Annales I 3, 7; 7, 3, ecc.). Erano invece attivi nell’alto principato, possiamo aggiungere, nuovi termini e nuove realtà, quali la domus Augusta e l’aula. Quest’ultima indica a volte, fisicamente, la casa del principe, la reggia; altre volte l’aggregazione di persone che gravitano attorno al principe, con il loro stile di vita.

Gli ambienti e gli spazi cui i nuovi termini fanno riferimento non sono definibili in precisi profili giuridici, ma rimandano comunque a concettualizzazioni socialmente sentite e operanti. Cercheremo di percepirne qualche eco.

Anche se per l’età giulio-claudia non possiamo parlare di una società di corte pienamente strutturata, siamo di fronte a un sistema aggregativo e organizzativo nuovo rispetto all’età repubblicana, un sistema che viene a porsi come nuovo centro di potere. Da chi era formata dunque nell’alto principato una corte? Le indicazioni fondamentali ci sono fornite, come abbiamo già detto, da Marco Aurelio. Egli individua l’esistenza di una corte già sotto Augusto, e la descrive in questi termini: «La corte di Augusto: moglie, figlia, nipoti, figliastri, sorella, Agrippa, parenti (συγγενεῖς), personale di famiglia (οἰκεῖοι), amici, Ario (Didimo di Alessandria, filosofo), Mecenate, medici, sacrificatori» (Τὰ εἰς ἑαυτόν 8, 31).

Compongono dunque la corte la domus Augusta col suo personale e con una rete di parentele che confina con i semplici amici; e inoltre vari «intellettuali». Probabilmente per motivi moralistici Marco Aurelio non include le guardie del corpo (che altrove appunto non vede bene nella corte: Τὰ εἰς ἑαυτόν 1, 17) e che sono ricordate invece da Tacito fra la «pompa» dell’aula (Annales I 7, 3).

Il concetto di aula presuppone evidentemente quello di domus. La casa del principe a Roma è, all’inizio del principato, il nucleo del potere. Nella crisi delle istituzioni tardorepubblicane emergono le strutture familiari, che da sempre erano state in concorrenza con esse: Tacito vede nel principato di Augusto l’esito della vittoria del «partito della famiglia giulia» (le Iulianae partes) nelle guerre civili (ibid. I 2, 1). Ora l’ambito familiare si ampliava e si rafforzava. Il concetto di domus indicava, già in età repubblicana, un ambito di parentela più largo rispetto a quello agnatizio (linea maschile) della gens e della familia: si adattava quindi alla costruzione della casata di Augusto, dove mancavano i discendenti maschi e le donne avevano un’importanza decisiva. Da questo punto di vista è opportuno precisare che con l’espressione da noi usata «principato gentilizio» non intendiamo rinviare alla gens come famiglia agnatizia ma, in senso lato, alla concezione nobiliare viva in questa fase: la concezione secondo la quale la generazione successiva poteva vedere la dinastia dei Giuli e dei Claudi come «l’eredità di una sola famiglia» (Tacito, Historiae I 16, 1).

Il concetto di domus Augusta si forma solo nella tarda età augustea. A parte l’evidenza dei gruppi statuari familiari della casa cesarea, promossi anche ufficialmente, e a parte l’imponenza iconografica della famiglia negli spazi pubblici della città (Foro, templi, ecc.), l’idea di domus Augusta ha una sua prima elaborazione, in quanto tutela dell’Impero, con Ovidio, nelle opere dell’esilio. Solo nei primi anni tiberiani, come ci rivelano i nuovi importanti documenti epigrafici rinvenuti in Spagna, la domus Augusta entra nel linguaggio ufficiale (dopo essere entrata in quello simbolico-iconografico): nel 15 d.C., come sappiamo dalla Tabula Siarensis, che conserva il decreto senatorio sugli onori da rendere alla morte di Germanico in missione in Oriente, una statua fu dedicata nel circo Flaminio dal console Norbano Flacco al divo Augusto e alla domus Augusta (Tab. Siar. ll. 9-11). La domus Augusta è ricordata poi nella sentenza del Senato del 20, a conclusione del processo contro Gneo Pisone, legato di Siria, accusato di aver osteggiato, ostacolato e addirittura avvelenato Germanico; in questo documento, essa compare esplicitamente, nella sua inviolabile maestà (maiestas), come depositaria dell’incolumità (salus) della res publica (Senatus consultum de Cn. Pisone patre ll. 33; 160-165). La maiestas attribuita dal Senato alla domus Augusta cancella il suo carattere privato e qualifica la sua funzione pubblica come riferimento e insieme espressione del populus Romanus. La rappresentatività pubblica del principe, protetto dalla lex maiestatis dall’8 a.C. (se non già dal 27), porta con sé quella della domus. Riflettendo sulla precarietà della fortuna, Seneca distingue esplicitamente le privatae domus da quelle publicae, che reggono gli imperi (Nat. quaest. 3, pref. 9).

Ma quali categorie comprendeva il concetto di domus? Nella fitta e aggrovigliata rete di parentele che investono la domus, i suoi confini spesso ci sfuggono e quindi non è precisamente definibile il discrimine tra famiglia del principe e gli amici, che sono spesso legati anche da qualche parentela, magari lontana, alla famiglia. I redattori della citata sentenza sul processo di Gneo Pisone (ll. 142-145) ricordano come Claudia Livia (Livilla), sorella di Germanico, che aveva sposato il figlio di Tiberio, Druso, fosse strettamente imparentata con la nonna Giulia Augusta e con lo zio e suocero Tiberio. Evidentemente essi intendono con domus non i Iulii in senso stretto, ma almeno anche i Claudii. Il concetto di domus pare in definitiva poggiare appunto su parentele più o meno strette o lontane. Svetonio dice di Galba, successo al potere alla morte di Nerone, che «non toccava a nessun livello (nullo gradu) la casa dei Cesari» (Galba 2), riconoscendo così una gradualità di articolazioni, e quindi una gerarchia, nella vicinanza o nell’appartenenza alla domus.

Accanto all’idea di domus Augusta, e verosimilmente in dipendenza da essa, prende dunque forma dall’avanzata età augustea, nell’autocoscienza del principato, il termine e il concetto di aula, riferito sia al palazzo dove risiede il principe, sia alle persone che gravitano con continuità intorno a lui, sia al «clima» che intorno a lui si respira. L’aula appare dunque come un ambiente dotato di una certa stabilità: è lecito rendere questo secondo referente col termine «corte». Pur non essendo una nozione assimilabile al concetto di «pubblico», l’aula assume, accanto alla domus Augusta e alla residenza dei Cesari (il Palatium), un certo aspetto di «ufficialità», soprattutto nel momento in cui richiede un’ammissione formale. Questo termine, riferito al princeps e alla domus, rimanda a una realtà generalmente accettata, che acquisisce un’accezione negativa solo nelle sue espressioni degenerate.

Il più immediato modello di riferimento per l’uso del termine aula a Roma non poteva che essere l’αὐλή delle monarchie orientali, persiana ed ellenistiche. L’αὐλή indicava anzitutto il βασίλειον, la residenza regale, attorno alla quale si sviluppavano le relazioni di amicizia del re. Questi si circondava di aristocratici fiduciari (i φίλοι, «gli amici») che, mentre con questa vicinanza partecipavano in qualche modo al potere, a loro volta riconoscevano e legittimavano la figura centrale e preminente del monarca. Un cerimoniale condiviso formalizzava le reciproche relazioni, contribuendo a creare nel βασίλειον il centro decisionale, con una gerarchia che incideva nell’organizzazione interna del regno. Non è un caso che, insieme con la corte di Augusto, Marco Aurelio ricordi promiscuamente come «tutte simili» le corti di Adriano, di Antonino, di Filippo, di Alessandro, di Creso (la circostanza è significativa anche se la sua visione è orientata da una riflessione moralistica sulla precarietà della condizione umana: Τὰ εἰς ἑαυτόν 10, 27). In modo simile, già Seneca aveva genericamente evocato, con chiara allusione ai propri tempi, atteggiamenti riferiti alla «corte dei re».

Esaminiamo adesso, per quel che riguarda Roma, che cosa gli autori antichi intendessero con il termine aula e quale concettualizzazione esso presupponesse o rispecchiasse. La prima testimonianza di un uso del termine riferibile con molta probabilità all’ambito del princeps si trova in Seneca. Nel dialogo ad Novatum de ira, scritto nei primi anni Quaranta, Seneca riporta come «ben nota» la risposta di un personaggio che aveva passato una lunga vita accanto ai «re»; a chi gli chiedeva come avesse fatto a raggiungere la vecchiaia «a corte» (nell’aula), cosa rarissima, l’anziano rispose «accettando le offese e ringraziando»: un compendio dello stile di vita di un vero cortigiano (II 33, 2). È noto che Seneca indichi spesso con il termine «re» il principe. In ogni caso, pare chiaro che l’aneddoto riguardasse anche l’attualità, sicché nella sua lunga vita il cortigiano potrebbe aver conosciuto l’età di Tiberio. Tacito ricorda (Annales I 7, 3) che subito dopo la morte di Augusto Tiberio cominciò ad agire come se fosse già principe in carica, «tutt’attorno le guardie, le armi e l’altra pompa di corte» (exubiae, arma, cetera aulae). Sarebbe interessante sapere se qui il termine aula si debba a Tacito o alla sua polemica fonte. L’esistenza di una corte attorno al principe nell’età di Tiberio è attestata comunque da una testimonianza che possiamo considerare diretta. Quand’era un ragazzo, Svetonio (Caligola 19, 3) aveva sentito raccontare dal nonno di aver saputo da intimi aulici («intimi cortigiani»), il motivo della costruzione del ponte fra Baia e Pozzuoli da parte di Caligola, all’inizio del suo regno. Con quest’impresa l’imperatore aveva voluto dare una risposta all’astrologo Trasillo, intimo di Tiberio. Durante il regno di Tiberio, Trasillo, secondo i pettegolezzi degli aulici, aveva predetto che Caligola avrebbe fatto più presto ad andare a cavallo da Baia a Pozzuoli che a regnare. Il termine aula, se Svetonio, come sembra dal contesto, riprende il racconto del nonno, risale dunque all’ambito dell’età di Tiberio. Con un termine «tecnico», che in quanto tale sembra risalire all’epoca del suo racconto, Tacito parla di una «corte divisa» (aula discors) nei primi anni del regno di Tiberio, a proposito del favore per Germanico o per Druso, i due figli, adottivo e naturale, del principe (Annales II 43, 5). Morti poi entrambi e caduto infine anche Seiano, Caligola, da parte sua, essendo ormai, come osserva Svetonio, «abbandonata a sé stessa e priva di ogni altro sostegno l’aula», poteva guardare con fiducia alla successione (Caligola 12).

Il concetto di corte, inteso a indicare i frequentatori della casa del Cesare, del palazzo, e comunque della sua residenza (come a Capri), sembra dunque risalire all’età di Tiberio, forse anche agli ultimi anni di Augusto. Marco Aurelio, come s’è visto, fa cominciare la formazione di una corte a Roma già in età augustea, ma dobbiamo riconoscere che la sua affermazione può essere stata distorta dalla lunga storia successiva. A una caratteristica tipica delle corti che ritroviamo anche in età medievale e moderna, richiamano i conviti allietati da buffoni di cui Svetonio (Tiberio 61, 6) leggeva negli Annali di un ex console di età tiberiana. Un nano, fra i buffoni, chiese a Tiberio come mai fosse ancora vivo un tal Paconio, pur accusato di lesa maestà (siamo evidentemente nel periodo tardo del regno, durante il soggiorno di Tiberio a Capri: la corte, come quelle moderne, segue il principe). Sul momento, Tiberio rimproverò quella lingua petulante, ma dopo pochi giorni sollecitò con una lettera il senato perché si affrettasse a giudicare Paconio. L’aneddoto fa comprendere che era presente, già in quell’epoca, la tipica e pericolosa sfrontatezza politica dei buffoni di corte che ci è nota per le corti di altre epoche.

La quasi coincidenza cronologica dell’apparire dei concetti domus Augusta e aula Caesaris conferma la loro relazione: l’aula si forma attorno alla domus Augusta. Bisogna d’altra parte tener conto che in quella stessa età, o poco dopo, matura anche il concetto di Palatium come sede del principe, luogo ormai pubblico del potere. Esso si affianca al referente di Palatium (Palatino) come colle dove si trovano le residenze dei principi. Anche la residenza di Augusto aveva subìto un graduale processo di «pubblicizzazione»; le tappe sono note: l’occasione dell’elezione a pontefice massimo nel 12 a.C.; la ricostruzione della casa, con l’apporto di una sottoscrizione pubblica, in seguito a un incendio nel 3 d.C. La residenza imperiale per il resto si amplia con altre domus, come quelle di Livia e di Germanico, prendendo nome dal principe in carica, così la domus Tiberiana e poi la domus Flavia. Con gli ampliamenti di Caligola, di Claudio, di Nerone, che si espande nell’Esquilino con la domus Aurea, e infine di Domiziano, che ritorna al Palatino come centro, si forma un complesso unitario che supera di gran lunga l’esperienza delle grandi case aristocratiche repubblicane da cui anche le domus dei principi dipendevano. Il Palatino diventa sinonimo del «palazzo» del principe. Nel 69, esso rappresenta la sede legittimante dei principi in contesa fra di loro: nel momento in cui Vitellio si accinge a lasciare il potere, di fronte alle truppe di Vespasiano, per ritirarsi nella casa del fratello, i suoi seguaci gli sbarrano la via verso quei «Penati privati», cioè una casa dai culti privati, premendo perché torni al Palatium (Tacito, Historiae III 68, 3).

Il Palatium è naturalmente la sede privilegiata, diciamo lo spazio proprio dell’aula. Negli autori aula e Palatium ricorrono spesso come sinonimi ad indicare la sede del principe. Ma, nel caso dell’aula come aggregazione di persone, come si è visto, il rapporto con la funzione pubblica è più complesso, ed è anche difficile definire l’ambito che la delimita.

Apoteosi di Augusto e allegoria della Pax Augusti (“Grand Camée de France”). Cammeo, 23 d.C. ca. Cabinet des Médailles.

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Riferimenti bibliografici (con aggiornamenti):

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Il “Commentariolum petitionis”: una guida per le elezioni consolari

Il Commentariolum petitionis, attribuito a Quinto Tullio Cicerone, costituisce un documento di eccezionale importanza, un vero e proprio manuale su come vincere le elezioni. L’autore fornisce al fratello Marco, candidatosi per il consolato del 63 a.C., una serie di consigli e raccomandazioni, descrivendo nei minimi dettagli ogni comportamento e gesto che avrebbe dovuto tenere nei confronti dell’elettorato. Per conseguire la magistratura suprema l’interessato doveva assicurarsi solide basi che sostenessero la sua causa e, in particolare, non poteva fare a meno dell’appoggio degli amici: allargare la propria cerchia di conoscenti voleva dire guadagnarsi nuovi alleati, persone con le quali solo in certi casi si creavano dei legami affettivi che trascendessero l’aspetto politico; era fondamentale, oltretutto, ottenere l’amicitia di uomini di ogni ceto sociale e soprattutto riscuotere il favore delle personalità più cospicue, le quali solo con il loro nome potevano accrescere il prestigio del candidato, e quello degli elettori più influenti nelle centuriae, capaci di spostare molti voti. Pochi anni prima, durante la sua praetura nel 66, Marco era intervenuto a favore della lex Manilia sul conferimento del comando mitridatico a Gneo Pompeo Magno e ciò gli aveva attirato le simpatie «di quell’uomo potentissimo» (Comm. Pet. 5, eum qui plurimum posset).

Per procurarsi il supporto necessario, inoltre, il candidato doveva fare leva sull’emotività delle persone attraverso i beneficia, la speranza riposta nelle promesse e la contiguità d’animo e d’intenti. Spesso anche un piccolo beneficio, un aiuto era sufficiente a guadagnarsi l’amicizia di qualcuno e Marco, che da più di un decennio esercitava abilmente l’avvocatura, poteva valersi di una lunga lista di debitori, che adesso potevano restituirgli il favore appoggiandolo nella campagna elettorale: Cicerone poteva sfruttare l’amicitia di quanti aveva difeso e scagionato negli anni precedenti, ovvero Gaio Fundario, Gaio Orchivio, Gaio Cornelio e Quinto Gallo – tutti processati de peculatu (Comm. Pet. 19-20).

Uomo togato. Statua, marmo, c. 125-250 d.C., da Roma.

In altri casi, era la speranza a muovere l’animo della gente, e solo il pensiero di poter conseguire un guadagno futuro era già una motivazione valida per stringere un accordo, anche se alla fine l’utile concreto non sarebbe mai venuto: le promesse dovevano essere fatte in modo generale e allusivo, in modo che ciascun interessato potesse interpretarle come meglio credesse e il candidato potesse giocare sulle molteplici interpretazioni, se, una volta eletto, non facesse seguire i fatti. L’aspirante, poi, doveva dimostrare un impegno costante nei confronti degli amici, a riprova che il beneficium era duraturo e che il legame con il futuro magistrato avrebbe potuto consolidarsi e trasformarsi in un rapporto più familiare e personale. A tal proposito, Quinto osservava: «… tra tutti gli altri fastidi la candidatura ha pure questo vantaggio: puoi onorevolmente – cosa che non riusciresti a fare in tutte le altre circostanze della vita – associare alla tua amicizia tutte le persone che vuoi, con le quali, se in altro frangente vieni a trattative, affinché abbiano rapporti con te, dai l’impressione di agire in modo stonato; invece, nel caso di una candidatura, se non svolgi questa trattativa sia con molte persone sia con cura scrupolosa, dai l’impressione di non essere affatto un candidato» (Comm. Pet. 25, … in ceteris molestiis habet hoc tamen petitio commodi: potes honeste, quod in cetera vita non queas, quoscumque velis adiungere ad amicitiam, quibuscum si alio tempore agas ut te utantur, absurde facere videare, in petitione autem nisi id agas et cum multis et diligenter, nullus petitor esse videare).

Scena di lettura del testamento davanti al magistrato. Bassorilievo, marmo, I sec. a.C. da un sarcofago.

Quinto assicurava al fratello che la candidatura gli avrebbe portato nuove conoscenze, valide a battere gli altri concorrenti: godere dell’appoggio degli uomini più influenti avrebbe allargato il consenso di Cicerone, perciò era necessario non lasciare nulla al caso e catturare il favore dei ceti emergenti. Così l’autore raccomandava: «Per questo motivo, mediante numerose e svariate amicizie, procura di avere dalla tua parte tutte le centurie. E prima di tutto, cosa che balza all’occhio, lega a te senatori e cavalieri romani, le persone premurose e influenti di tutti gli altri ceti. Molti uomini laboriosi che vivono in città, molti liberi influenti e attivi, frequentano il foro; quelli che per opera tua, quelli che per mezzo degli amici comuni potrai avvicinare, datti da fare con estrema cura, affinché siano tuoi appassionati simpatizzanti: brama questo incontro, fa’ le tue deleghe, mostra di sentirti colmato di un sommo beneficio. Poi tieni conto dell’intera città, della associazioni, dell’area dei colli, dei quartieri periferici, delle zone circonvicine; se renderai partecipi della tua amicizia gli uomini più in vista di quella compagine, con il loro intervento avrai facilmente in tuo potere le rimanenti persone. Successivamente fa’ in modo di tenere a mente e nella memoria l’intera Italia ripartita in tribù e abbracciata nel suo insieme, per non consentire che ci sia nessun municipio, nessuna colonia, nessuna prefettura – insomma, nessun luogo d’Italia – nel quale tu non abbia quanto possa bastare di valido appoggio…» (Comm. Pet. 29-30, Quam ob rem omnis centurias multis et variis amicitiis cura ut confirmatas habeas. Et primum, id quod ante oculos est, senatores equitesque Romanos, ceterorum ‹ordinum› omnium navos homines et gratiosos complectere. multi homines urbani industrii, multi libertini in foro gratiosi navique versantur; quos per te, quos per communis amicos poteris, summa cura ut cupidi tui sint elaborato, appetito, adlegato, summo beneficio te adfici ostendito. Deinde habeto rationem urbis totius, collegiorum, montium, pagorum, vicinitatum; ex his principes ad amicitiam tuam si adiunxeris, per eos reliquam multitudinem facile tenebris. postea totam Italiam fac ut in animo ac memoria tributim discriptam comprehensamque habeas, ne quod municipium, coloniam, praefecturam, locum denique Italiae ne quem esse patiare in quo non habeas firmamenti quod satis esse possit…).

Per quanto concerne l’aspetto propagandistico, nel periodo di campagna elettorale il candidato riuniva attorno a sé un seguito di individui che lo accompagnava ovunque andasse. Quinto classifica questi «simpatizzanti» in tre categorie: salutatores, deductores e adsecatores.

M. Tullio Cicerone (presunto ritratto). Statua (dettaglio del busto), marmo bianco, I sec. d.C. Oxford, Ashmolean Museum.

I salutatores erano coloro che si recavano di buon’ora a casa dei candidati per porgere omaggi: l’interessato, per scalzare la concorrenza e avere più salutatores possibili, doveva mostrarsi amichevole e rassicurante nei loro confronti; i deductores scortavano il proprio beniamino nel foro e lo annunciavano alla folla ovunque andasse; gli adsectatores erano gli accompagnatori assidui, che, volontari o prezzolati, seguivano il candidato in ogni apparizione pubblica: agli uni andava l’eterna gratitudine dell’aspirante, dagli altri si pretendeva un impegno e una partecipazione costanti, al punto che, in caso di indisponibilità, dovevano delegare un parente, affinché il beniamino potesse sempre sfoggiare una gran folla con forte impatto visivo (Fezzi 2007, 20-22).

D’altra parte, frequentare la gente poteva far incappare in un’insidia, cioè trovarsi in mezzo ad agguerriti nemici: quanti erano stati danneggiati da un’arringa giudiziaria e coloro che, supportando altri aspiranti in lizza, non erano legati da amicitia con il candidato. Nei confronti di queste persone occorreva adottare una linea morbida: con i primi bisognava scusarsi direttamente e assicurare che ci si sarebbe occupati anche dei loro affari in cambio dell’amicitia; con i secondi era opportuno infondere loro speranza di agire nel loro interesse, una volta eletti, e provare ad assumere un atteggiamento benevolo nei confronti dell’avversario stesso (Comm. Pet. 40).

Benché fosse usanza comune denigrare il competitore, stando pur sempre nei limiti del possibile, per far cadere su di lui sospetti di ogni tipo, Quinto consigliava a Marco di perseguire la strada del riappacificamento, trattando i concorrenti e i loro sostenitori con rispetto, rivolgendo anche a loro favori e promesse per appianare i contrasti.

Il cosiddetto «Arringatore». Statua, bronzo, fine II-inizi I sec. a.C., da Perugia. Firenze, Museo Archeologico Nazionale.

Da oltre un secolo e mezzo il Commentariolum è stato oggetto dell’analisi di molti studiosi e fin dalla sua scoperta all’interno dei codici contenenti le Epistulae ad Quintum fratrem. Contro l’attribuzione della paternità al fratello di Cicerone si pronunciò per primo Eussner (1892), che evidenziò forti analogie tra il manuale e l’orazione di Marco In toga candida, e si convinse che il Commentariolum fosse opera di un falsario. Gli fece eco Hendrickson (1892; 1904), che trovò delle incongruenze tra il linguaggio tipico di Quinto e quello usato nel testo, sostenendo che fosse riconducibile piuttosto allo stile di Marco. Così Henderson (1950) mise in dubbio la veridicità di alcune sezioni del manualetto, nel quale, per esempio, si sarebbe erroneamente attribuita la povertà del padre di Catilina scambiandolo con quello di Clodio, come allo stesso Clodio e non a Catilina sarebbe imputabile l’accusa di stupro a danno della sorella. A favore dell’attribuzione si schierarono, invece, già Tyrell e Purser (1904); in effetti, gli strali contro l’autenticità, lanciati da Nisbet (1961), non riuscirono a demolire la fiducia della maggioranza degli studiosi nella paternità dello scritto. Comunque, è stato Nardo (1970), in un contributo denso e perspicuo, a fornire una valutazione a favore dell’autenticità del Commentariolum e attribuirlo a Quinto, stabilendo che una certa somiglianza con In toga candida costituisca la prova di una collaborazione pragmatica e ideologica tra i fratelli Cicerone; d’altronde, dal momento che questi ultimi nutrivano un rapporto di stima e di amicizia con Attico, è verosimile che il Commentariolum fosse stato concepito da Marco, scritto da Quinto e pubblicato da Attico. Tra gli assertori di questa teoria, Alexander (2009) ha proposto un’interpretazione originale, definendo l’operina «un vero e proprio attacco satirico alle campagne elettorali romane e non un insieme di consigli sui comportamenti da tenere».

Fin dall’esordio del manuale Quinto sottolineava la novità più clamorosa del fratello: l’essere un homo novus. A tal proposito, lo esortava a ripetersi: «Io sono un homo novus, aspiro al consolato, la comunità è Roma» (Comm. Pet. 2, “Novus sum, consulatum peto, Roma est”). Per raggiungere lo scopo, inoltre, Marco doveva saper giocare e far leva sulla nominis novitas, elevandola con la dicendi gloria (l’eloquenza), l’arte fondamentale di tutti i successi forensi: grazie a questa Cicerone aveva difeso molti publicani e cavalieri, i quali adesso avevano l’occasione di dimostrargli la propria riconoscenza sostenendolo. Oltre a ciò, Quinto raccomandava al fratello di procurarsi il favore di nobiles e consulares, comportandosi in modo tale da apparire al loro cospetto degno della posizione cui aspirava. Infine, lo esortava ad attirare alla sua causa gli adulescentes nobiles, il cui supporto gli avrebbero conferito un prestigio ancor più grande (Comm. Pet. 4-6).

L. Cassio Longino. Denario, Roma 63 a.C. Ar. 3,70 gr. Rovescio: Longin(us) IIIV(ir). Cittadino in atto di votare, stante, verso sinistra, mentre ripone una tabella contrassegnata con U(ti rogas) in una cista.

Quanto ai concorrenti – Gaio Antonio Ibrida e Lucio Sergio Catilina –, per poterli battere sarebbe stato opportuno ricordare alla gente chi fossero: non solo parlare delle origini familiari e della carriera politica di costoro, ma anche e soprattutto puntare il dito contro i reati da quelli commessi per provocare scandalo e denigrarli (Comm. Pet. 8-12).

Durante la campagna elettorale, l’aspirante magistrato naturalmente doveva tenere in massima considerazione anche l’opinione pubblica e garantirsi il favore popolare. A tal proposito, Quinto spiegava che fosse necessario munirsi di un nomenclator (il servo incaricato di ricordare al dominus i nomi delle persone incontrate), dimostrare abilità nel lusingare, assiduità, benevolenza, disporre di voci di propaganda e fare bella apparenza in pubblico (Comm. Pet. 41). In altre parole, il candidato doveva mettere in luce la propria volontà di conoscere le persone (homines noscere), fingendo al punto da dare l’impressione di agire secondo talento naturale. In effetti, a Marco – riconosce il fratello – non mancava «quell’affabilità che è degna di un uomo onesto e dolce di carattere» (comitas… ea quae bono ac suavi homine digna est), ma nel corso della campagna elettorale gli sarebbe stata indispensabile la blanditia («l’arte della lusinga»): il candidato doveva modificare «sia la fronte, sia la linea del volto, sia la conversazione» (et frons et vultus et sermo), adattando al modo di pensare e al volere delle persone che avrebbe incontrato (Comm. Pet. 42).

Scena di vita quotidiana nel foro. Affresco, ante 79 d.C. dalla Casa di Giulia Felice (Pompei). Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Per rafforzare la propria adsiduitas e dimostrare benignitas nei confronti dell’elettorato, oltre a offrire banchetti sia agli amici sia a invitati passim et tributim («presi qua e là dalle tribù»), Marco doveva consentire agli altri un facile accesso, spalancando loro tanto le porte di casa quanto i recessi del proprio animo, dato che la gente non vuole che le si facciano soltanto promesse ordinarie, ma si sia disposti a largheggiare. Quindi, occorreva chiarezza su ciò che si sarebbe voluto fare, dichiarando di essere pronti a compierlo con zelo e volentieri, ma anche trasparenza su ciò che non si voleva o non si poteva fare, opponendo un garbato rifiuto o non dichiarando alcunché. Le persone, in genere, desiderano che alle parole seguano i fatti; perciò, per non attirarsi l’ira popolare è bene evitare di fare promesse o di accettare richieste che non sarebbe possibile attuare. Se l’elettore, per qualche ragione, si indisporrà, sarà opportuno che ciò accada dopo l’entrata in carica che prima; certamente sarà meno scontento colui che non vedrà realizzata una promessa, se lo si convincerà che la causa della mancata realizzazione è stata un grave imprevisto. In estrema sintesi, Quinto sostiene che «tutto sommato, il primo comportamento è proprio di un uomo onesto, l’altro di un buon candidato» (Comm. Pet. 45, quorum alterum est tamen boni viri, alterum boni petitoris).

L’autore conclude la propria esposizione facendo richiami all’eloquenza del fratello, augurandogli di condurre una campagna elettorale splendida e decorosa, raccomandandogli di mettere in luce gli atteggiamenti sospetti dei suoi competitori, senza dimenticare di sottolineare in pubblico il successo derivatogli dall’oratoria.

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Arbogaste e l’usurpazione di Eugenio (392-394)

Dopo la misteriosa morte dell’imperatore Valentiniano II (15 maggio 392), il magister militum Flavio Arbogaste si trattenne sulla frontiera renana (cfr. CIL XIII 8262; PLRE¹ 95-97): i pericoli e le minacce provenienti dalle popolazioni stanziate al di là del fiume esigevano unità di comando, energia e rapidità. D’altra parte, sospettato di aver eliminato il sovrano e in ragione delle sue origini franche, Arbogaste non aveva alcuna intenzione di sostituirsi al defunto Valentiniano, assumendo il titolo di Augustus. Al contrario, il magister chiese ufficialmente di mantenere la propria posizione di difensore del limes renano, giurando fedeltà agli Augusti Teodosio e Arcadio. Ma Teodosio rifiutò l’offerta di Arbogaste, rispettando le ultime volontà di Valentiniano II che lo aveva destituito (Ioh. Antioch. F 187 Müller). Anzi, come prima misura colpì l’aristocrazia pagana di Roma, togliendo a Virio Nicomaco Flaviano l’incarico di praefectus praetorio per Italiam (PLRE¹ 348): a Teodosio e al suo entourage era ben evidente la manovra di avvicinamento tra diversi gruppi di potere che stava avvenendo in Occidente, al punto che, con il favore della comune fede negli antichi dèi, la nobiltà italica aveva avviato ottime relazioni con il condottiero franco. Nei mesi successivi, quindi, Arbogaste ideò una strategia diversa, alternativa a ogni possibile intesa con Teodosio: rotto ogni indugio, il 22 agosto 392 il magister proclamò Augusto il magister scrinii Flavio Eugenio, in precedenza docente di grammatica e retorica (Socr. HE. V 25, 1; Soz. HE. VII 22, 4; Zos. IV 54; Oros. VII 35, 11; PLRE¹ 293). Si trattava di un personaggio di medio rango che tuttavia, nelle intenzioni di Arbogaste, poteva diventare il mediatore tra il suo potere militare sul Reno e l’aristocrazia tradizionale, che al nuovo imperatore doveva fornire i vertici dell’amministrazione. Eugenio, facendo sua la politica del suo generale, cercò dapprima un accordo con Teodosio e, senza muoversi dalla capitale Treviri, inviò ambascerie chiedendo il riconoscimento del proprio potere (Zos. IV 56, 3; Ambr. Epist. 57). Ricevuta una netta condanna dall’imperatore, nel 393 Eugenio decise di invadere l’Italia (Soz. HE. VII 22; Oros. VII 35, 13). A questo punto l’intesa tra Arbogaste, Eugenio, e l’élite imperiale si rivelò chiaramente: una strana alleanza tra militari romano-germanici e senatori romani tradizionalisti, destinata a ripetersi nel corso del secolo successivo. Il caso aveva riposto nelle mani di un comandante di origine barbarica la difesa del mos maiorum e della tradizione religiosa di Roma antica (cfr. Philost. HE. XI 1-2). Trasferitosi a Milano, tra la primavera del 393 e la tarda estate del 394, Eugenio restaurò il culto pagano e ordinò il ricollocamento dell’altare della Vittoria nella Curia a Roma (Paul. Mil. VAmbr. 26); Flaviano riebbe il suo posto di prefetto d’Italia e suo figlio fu elevato a praefectus Urbi (CIL VI 1782). Soprattutto, per la singolare alleanza con il franco Arbogaste, il Senato di Roma recuperò parte del proprio prestigio politico: fu l’ultimo tentativo di uscire da un’umiliante marginalità politica e religiosa, l’ultima chance per rimediare ai colpi inferti al venerando consesso dal regime imperiale fin dal III secolo.

Flavio Eugenio. Tremissis, Treveri, 392-394. AV 1,48 g. Dritto: D(ominus) N(oster) Eugeni-us P(ius) F(elix) Aug(ustus). Busto perlato-diademato, drappeggiato e corazzato, voltato a destra.

La notizia dell’usurpazione e dell’occupazione dell’Italia colse Teodosio a Costantinopoli. L’imperatore aveva fatto ritorno in Oriente accompagnato da un seguito di nobili gallici. Dal 391 al 394, in virtù della sua politica di unità ed ecumenicità dell’Impero, Teodosio si fece promotore di importanti avvicendamenti nelle più alte cariche civili e militari della pars Orientis, nonostante le resistenze del prefetto del pretorio locale, Flavio Eutolmio Taziano, e delle aristocrazie municipali (Zos. IV 52; Eunap. F 59 Blockley; Claud. in Ruf. 1, 244 ss.; PLRE¹ 746-747; CTh. XI 1, 23; XII 1, 131; XIV 17, 12). Alla notizia della rivolta di Arbogaste e dell’alleanza con l’élite pagana, Teodosio ribadì il proprio disconoscimento nei confronti della politica di tolleranza adottata dagli usurpatori, proibendo qualsiasi manifestazione dei culti tradizionali e criminalizzando perfino le forme simboliche e domestiche dei rituali (CTh. XVI 10, 12). Negò a Eugenio la dignità consolare, carica che spettava di diritto agli imperatori, riservandone un posto a sé e uno a un suo generale. Infine, decise di elevare alla porpora anche il proprio secondogenito, Onorio, che si trovava così a essere, virtualmente, l’erede della pars Occidentis.

Si era ormai alla resa dei conti. Mentre Eugenio, tramite Arbogaste, stipulava un foedus con i Franchi e gli Alamanni (Greg. Tur. HF II 9; Paul. Mil. VAmbr. 30), Teodosio si stava preoccupando di allestire un’armata, al cui comando supremo intendeva porre Ricomere, lo zio dell’artefice del “colpo di Stato”. Ma l’improvvisa morte del prestigioso comandante obbligò l’imperatore a rivedere i suoi piani (Zos. IV 55, 3). Soltanto nell’estate del 394, radunato un forte esercito e lasciato Arcadio (Augustus dal 383) al governo dell’Oriente, Teodosio riuscì a partire da Costantinopoli alla volta dell’Italia per ristabilire la legittimità della porzione d’Impero che intendeva lasciare a Onorio (Zos. IV 57, 4). La sua politica dell’hospitalitas nei riguardi dei Goti, accolti in Tracia dal 382, consentì all’imperatore di arruolarne circa 20.000 agli ordini di Gainas, condottiero che insieme all’alano Saulo condivideva il comando sui βάρβαρα τάγματα (i foederati); tra questi si trovava anche il giovane Alarico, forse scontento di dovere, lui che era di nobile lignaggio, dipendere da un Goto di rango inferiore. Altro comandante dell’esercito imperiale era l’iberico Bacurio, un fervente cristiano di origine caucasica, scampato alla disastrosa disfatta di Adrianopoli (378), «onesto e addestrato alla guerra» (ἔξω δὲ πάσης κακοηθείας ἀνὴρ μετὰ τοῦ καὶ τὰ πολεμικὰ πεπαιδεῦσθαι). Magister utriusque militiae fu nominato Flavio Timasio (PLRE¹ 914-915) e suo luogotenente fu il vandalo Flavio Stilicone (PLRE¹ 853-858). «Questa – conclude Zosimo – fu la selezione dei comandanti» (IV 57, 2-4, ἡ μὲν οὖν ἀρχαιρεσία τοῦτον αὐτῷ διετέθη τὸν τρόπον).

Teodosio guida il suo esercito verso l’Italia (Chaillet 2002).

L’imperatore d’Oriente, preso con sé il secondogenito, marciò lungo la Sava, valendosi della strada imperiale che collegava Sirmium all’Italia nordorientale, come aveva già fatto nel 388 per sconfiggere ad Aquileia l’usurpatore Magno Massimo; in quell’occasione Arbogaste era stato uno dei suoi più alti ufficiali, e anche allora nell’armata spiccavano cospicui contingenti barbarici. Memore di quell’esperienza, dal canto suo, il Franco aveva rinunciato a disperdere le proprie forze in avamposti lungo la via del settore illirico e, non disponendo di ingenti risorse militari, aveva preferito sbarrare il passo al nemico a ridosso delle Alpi Giulie. La scelta del percorso dovette consentire alle truppe imperiali di aggirare le montagne o di valicarle laddove i passi erano meno impervi, come l’altopiano boscoso Ad Pirum (Selva di Piro), nei pressi dell’odierna Gorizia. Subito a ovest dell’altura, si apriva una ridente pianura attraversata dal fiume Frigidus (Vipacco), affluente dell’Isonzo, delimitata a nord dallo scosceso crinale della Selva di Tarnova (Trnovski gozd), a sud da morbide colline e a sud-est dall’estrema propaggine delle Alpi, il monte Nanos.

Le difese approntate da Flaviano, che aveva provveduto a proteggere i valichi con statue di Giove, che tenevano in mano saette dorate, furono facilmente sbaragliate da Teodosio, che si batteva per l’affermazione del Cristianesimo. Tutto questo, nonostante l’ex prefetto urbano, rivestito il ruolo di augure, avesse predetto una sicura vittoria per la sua fazione, proponendosi di arruolare tutti i clerici e di tramutare in stalla la basilica della comunità di Milano (Paul. Mil. VAmbr. 31, 2). Ad Arbogaste non rimasero che i contingenti barbarici e alcuni reparti di Romani, sovrastati da labari recanti l’immagine di Ercole Vittorioso (August. De civ. D. 5, 26).

È difficile per i moderni stabilire dove le due compagini armate si fossero scontrate, il 5 e il 6 settembre 394: senz’altro sul fiume, ma a quale altezza non si può dire (Socr. HE. V 25). L’esercito teodosiano doveva essersi appostato su un’altura a nord-est del Frigidus e, nel primo pomeriggio della prima giornata, l’imperatore aveva scagliato all’assalto i 20.000 Goti, condotti da Bacurio, i quali piombarono sull’accampamento nemico, situato a valle. L’asperità del terreno mise fuori uso i carri che accompagnavano i foederati, e ben 10.000 di loro rimasero sul campo con lo stesso comandante, dimostrando la propria incrollabile fedeltà all’imperatore; il resto dell’esercito, fallito l’attacco, si ritirò in buon ordine (Zos. IV 58, 3; Rufin. HE. II 33; cfr. Oros. VII 35, 19).

Battaglia del Frigido (Amelianus 2012).

Dopo questo scacco Teodosio, consigliato dai suoi, fu tentato di battere in ritirata e di rinviare la guerra alla primavera successiva, ma infine decise di provare una nuova riscossa la mattina seguente. Durante la notte, Arbogaste aveva ordinato ad Arbizio di guidare i suoi guerrieri in una manovra che gli aveva consentito di portarsi alle spalle dei teodosiani; al campo di Eugenio, invece, il resto dell’armata dell’usurpatore, certa del successo della giornata e della vittoria ormai in pugno, aveva trascorso il tempo in una festosa gozzoviglia nel corso della quale furono distribuiti lauti donativi (Zos. IV 58, 4). Escluso da ciò, probabilmente il condottiero in avanscoperta pensò bene di defezionare e mettersi al servizio dell’imperatore. All’alba, poco dopo che Teodosio ebbe dato il segnale convenuto – il segno della croce –, una violentissima bora (magnus… et ineffabilis turbo ventorum) sollevò un’immensa nube di polvere tale da accecare i soldati di Arbogaste, impedendo loro di reggere addirittura lo scudo e di scagliare dardi senza che tornassero indietro (Oros. VII 35, 17-18). Un’altra versione vuole che si fosse verificata un’eclissi solare di tale entità che per molto tempo si pensò che fosse calata la notte (Zos. IV 58, 3). La libellistica teodosiana, naturalmente, imprime all’eccezionalità del fenomeno un significato religioso: l’Augustus aveva trascorso la notte in raccoglimento (Oros. VII 35, 14-16).

I soldati superstiti di Eugenio, una volta arresisi, consegnarono il proprio imperatore, che fu subito giustiziato, e la sua testa, «conficcata su una lunghissima asta», fu portata «in giro per tutto il campo, mostrando a quelli che gli erano ancora favorevoli che a essi conveniva – in quanto Romani – riappacificarsi con l’imperatore, essendo stato definitivamente eliminato l’usurpatore» (Zos. IV 58, 5, ἀφελόμενοι κοντῷ… μακροτάτῳ πᾶν περιέφερον τὸ στρατόπεδον, δεικνύντες τοῖς ἔτι τἀκείνου φρονοῦσιν ὡς προσήκει Ῥωμαίους ὄντας ὡς τὸν βασιλέα ταῖς γνώμαις ἐπανελθεῖν, ἐκποδὼν μάλιστα τοῦ τυράννου γεγενημένου).

Dal canto suo, Arbogaste, non ritenendo opportuno cercare la clemenza del vincitore, si diede alla macchia fra le montagne; accortosi di essere braccato, due giorni dopo la battaglia, si diede la morte gettandosi sulla spada (cfr. Claud. III cons. Hon. 102 ss.).

La rivolta era stata stroncata, la guerra civile era stata risolta. La battaglia del Frigidus assunse un potente valore simbolico nel confronto tra pagani e cristiani nell’ultimo scorcio del IV secolo. Da tutti, anche dai tradizionalisti, quello scontro fu avvertito come una sorta di ordalia, un giudizio divino che si era espresso al di sopra della volontà degli uomini. Le fonti, come si è detto, concordano sul verificarsi di eventi prodigiosi, che consentirono l’irresistibile vittoria di Teodosio: il “miracolo” decise il trionfo dei Cristiani sui culti antichi.

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