Sparta arcaica

Per meglio comprendere le ragioni e i riferimenti dell’elegia guerresca arcaica occorre soffermarsi sulla realtà storica cui afferiscono i vivaci affreschi di Tirteo, abbastanza ignota all’ἔπος omerico.

Le radici di Sparta, infatti, benché la città sia citata nell’Iliade come possesso di Menelao e mitica sede del ratto di Elena, non risalgono storicamente oltre al X secolo a.C. Furono i Dori provenienti da nord che, sottomettendo i Laconi, si stanziarono sulle rive dell’Eurota, a ridosso del Taigeto, nell’estremità sud-occidentale del Peloponneso.

Dioscuri. Rilievo su stele votiva, pietra locale, c. 575-550 a.C. Sparta, Museo Archeologico.

Dalla progressiva unificazione (sinecismo) di almeno quattro borghi, Cinosura, Limne, Mesoa e Pitane, ebbe origine Sparta. A questo processo unitario può essere ricondotta la diarchia che governò per secoli la città, una forma monarchica che assegnava per via ereditaria il potere ai discendenti delle famiglie degli Agiadi e degli Euripontidi, probabilmente sovrane di uno o due villaggi originari. Questa composizione è riflessa oltre che nel nome (Σπάρτη, «la dispersa») anche nella ripartizione in tre tribù originali, a loro volte suddivise in fratrie (φρατρίαι), composte dai diversi clan familiari degli Spartiati (Σπαρτιᾶται).

Alla ricerca di pascoli e terre «buone da arare e buone da piantare», mentre le altre πόλεις greche sopperivano alla mancanza di terre fertili spedendo colonie verso l’occidente, la città cominciò la sua espansione nel Peloponneso. Limitata a nord-est dalla potenza di Argo, dopo essersi assicurata l’intero corso dell’Eurota e uno sbocco al mare (prima metà dell’VIII secolo a.C.), si rivolse a ovest, alla pianura messenica. Prendendo a pretesto l’uccisione del re Amicle (c. 740 a.C.), gli Spartani attaccarono la Messenia finché nel 715, con la presa della rocca di Itome, non si furono impadroniti della sua fertile pianura.

La conclusione di quella che fu chiamata “Prima guerra messenica” portò all’asservimento dell’intera popolazione locale, utilizzata come forza-lavoro e inserita nella classe sociale infima degli Iloti (Εἱλῶται).

I Messeni tendono un’imboscata agli Spartani. Illustrazione di C. Draghici.

Nella progressiva espansione territoriale, infatti, agli Spartiati – Dori appartenenti alle famiglie dei borghi originari, dediti esclusivamente alle armi e partecipi alla vita pubblica della πόλις (sedevano nell’assemblea, ἀπέλλα, e potevano essere eletti nel consiglio degli anziani, γερουσία) –, si erano aggiunti i Perieci. Questa seconda classe era probabilmente formata dai primi assoggettati dei villaggi circonvicini (περι-οίκοι), equiparabili agli Spartiati sul piano sociale (possedevano anch’essi un κλᾶρος, un fondo agricolo, servi per lavorarla e servivano come opliti nell’esercito), ma privi dei diritti politici. Gli Iloti, infine, costituivano una vera e propria massa di servi, formata dalle popolazioni indigene (i Laconi e Messeni) che via via erano state sottomesse.

Questa condizione di sfruttamento costituì da subito, e ancor più nei secoli a venire, uno dei motivi di debolezza della città: se da una parte gli Spartiati provenivano da un nucleo limitato di famiglie, destinato nei secoli ad assottigliarsi a causa delle continue guerre, gli Iloti, appartenenti alla stessa città ma trattati in maniera disumana, erano in numero maggiore e soprattutto pronti in ogni momento a ribellarsi.

Pittore di Naucrati. Scena simposiale. Pittore vascolare su una coppa laconica a figure nere. 565 a.C. ca. Paris, Musée du Louvre.

E una ribellione alle inique imposizioni spartane («Come asini sotto una pesante soma, erano costretti a trasportare per i loro padroni la metà di tutte le messi che un campo poteva produrre», Tyrt. F 6 West) fu l’origine della “Seconda guerra messenica”, quella di cui Tirteo fu testimone diretto.

La rivolta esplose nel 685 a.C. Argo, la rivale di sempre, approfittando della situazione, attaccò Sparta sconfiggendola a Ilie nel 669 a.C., chiudendo di fatto per almeno un secolo le ambizioni di espansione verso nord dei Lacedemoni. Questo li spronò a portare a termine la guerra contro i Messeni per annetterne integralmente il territorio ed estendere all’intero sud del Peloponneso la propria supremazia (668 circa a.C.).

A metà del VII secolo, dunque, Sparta era una πόλις in piena espansione. Era dotata di un esercito capace di affermare la propria superiorità grazie alla coesione dei suoi opliti, stretti nella formazione a falange.

Era regolata da una forma politica oligarchica fissata dalla costituzione tradizionalmente attribuita a Licurgo (Μεγάλη ῥήτρα). Il potere monarchico era controbilanciato dalla presenza dell’assemblea degli Spartiati, che eleggeva i ventotto membri del consiglio degli anziani e i cinque efori (ἔφοροι). Questi ultimi erano chiamati a controllare l’operato dei due re e del consiglio, per garantire che non si scivolasse in una monarchia arbitraria e assoluta e, contemporaneamente, in una oligarchia che privasse gli ὁμοῖοι (cioè gli Spartiati) di partecipare direttamente al governo della città.

La γερουσία spartana. Illustrazione di P. Connolly.

Per un certo periodo, questo sistema, lodato come il più democratico della Grecia da Aristotele, permise a Sparta stabilità e sviluppo non solo espansionistico ma anche nelle arti (oltre a Tirteo, altri poeti come Alcmane, fecero della πόλις una delle città greche più illuminate). Un inarrestabile regresso demografico, dovuto al numero chiuso degli Spartiati e alle continue guerre, e una progressiva rottura dell’equilibrio politico, dovuta al contrasto fra potere diarchico e controllo degli efori, costituirono per la città i due fattori che accelereranno la decadenza, già evidente alla fine del V secolo, nonostante la temporanea egemonia raggiunta con la vittoria su Atene nella Guerra del Peloponneso.

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“Io non lodo gli Ateniesi”: una critica al sistema democratico ([Xen.], Ath. pol. 1, 1-5)

Nel corso della guerra del Peloponneso, di fronte alle difficoltà provocate dal conflitto, ad Atene fra coloro che si erano illusi in una sua rapida soluzione, non mancarono voci, anche autorevoli, che attribuirono la responsabilità di quanto stava accadendo agli esponenti più radicali della democrazia.

Probabilmente, questa nostalgia per un governo democratico moderato o addirittura oligarchico, che escludesse dalla gestione del potere le classi sociali più umili, favorite invece dalle riforme di Efialte e di Pericle, scaturì dalla volontà di trovare un capro espiatorio sul quale sfogare il malcontento della situazione, piuttosto che da ben ragionate motivazioni storiche e politiche; tuttavia, fu anch’essa un eloquente segno dei tempi.

Tale è lo spirito che anima un trattatello di tre capitoli, per un totale di cinquantatré paragrafi, intitolato Costituzione degli Ateniesi (Ἀθηναίων πολιτεία) e inserito nel corpus delle opere di Senofonte.

Per questo motivo il suo autore, a noi sconosciuto, è indicato con l’appellativo di “Pseudo-Senofonte” o anche con quello di “Vecchio oligarca”, escogitato dagli studiosi della scuola inglese con felice fantasia, perché si adegua bene alle sue simpatie politiche, forse più giustificabili in una persona attempata che in un giovane.

L’opera, di carattere retorico-dimostrativo, esprime un punto di vista ostile alla democrazia e delinea, con amara ma realistica rassegnazione, i tratti essenziali della politica interna ateniese e del comportamento della città nei confronti degli alleati. Il fatto che l’autore si esprima in termini molto generali, considerando gli aspetti della politica ateniese senza agganciarli con precisi riferimenti alla realtà storica, rende molto difficile, se non addirittura impossibile, la datazione esatta dell’opuscolo, probabilmente composto prima del 411 a.C., quando avvenne ad Atene il “colpo di Stato” oligarchico dei Quattrocento.

Tale ipotesi è avvalorata dall’affermazione, contenuta nell’opuscolo, che la democrazia ateniese appare invincibile – parole che sarebbero fuori luogo, se fossero state pronunciate dopo che il governo democratico era stato appena abrogato.

Gli esiti negativi della seconda fase della guerra, che intaccarono significativamente il prestigio di Atene sul piano politico, economico e militare, spinsero molti intellettuali del tempo a ricercarne le cause nell’organizzazione democratica della città, profondamente mutata dalle riforme dell’età di Pericle.

Come spesso accade in simili occasioni, nelle quali il desiderio di suggerire la soluzione di uno stato di crisi si manifesta in forme di conservatorismo fine a sé stesso, e perciò antistorico, la difficile situazione della città fu attribuita ai cambiamenti istituzionali, ai quali l’autore dell’opuscolo contrappone il mito di un “buon governo” di stampo nostalgicamente oligarchico.

Pittore Brygos. Scena di votazione con ψῆφοι (gettoni). Pittura vascolare su una κύλιξ attica a figure rosse, c. 490 a.C. Malibu, J. Paul Getty Museum.

[1. 1] Περὶ δὲ τῆς Ἀθηναίων πολιτείας, ὅτι μὲν εἵλοντο τοῦτον τὸν τρόπον τῆς πολιτείας οὐκ ἐπαινῶ διὰ τόδε, ὅτι ταῦθ’ ἑλόμενοι εἵλοντο τοὺς πονηροὺς ἄμεινον πράττειν ἢ τοὺς χρηστούς· διὰ μὲν οὖν τοῦτο οὐκ ἐπαινῶ. ἐπεὶ δὲ ταῦτα ἔδοξεν οὕτως αὐτοῖς, ὡς εὖ διασῴζονται τὴν πολιτείαν καὶ τἆλλα διαπράττονται ἃ δοκοῦσιν ἁμαρτάνειν τοῖς ἄλλοις Ἕλλησι, τοῦτ’ ἀποδείξω.

[2] Πρῶτον μὲν οὖν τοῦτο ἐρῶ, ὅτι δικαίως ‹δοκοῦσιν› αὐτόθι [καὶ] οἱ πένητες καὶ ὁ δῆμος πλέον ἔχειν τῶν γενναίων καὶ τῶν πλουσίων διὰ τόδε, ὅτι ὁ δῆμός ἐστιν ὁ ἐλαύνων τὰς ναῦς καὶ ὁ τὴν δύναμιν περιτιθεὶς τῇ πόλει, καὶ οἱ κυβερνῆται καὶ οἱ κελευσταὶ καὶ οἱ πεντηκόνταρχοι καὶ οἱ πρῳρᾶται καὶ οἱ ναυπηγοί, ‑ οὗτοί εἰσιν οἱ τὴν δύναμιν περιτιθέντες τῇ πόλει πολὺ μᾶλλον ἢ οἱ ὁπλῖται καὶ οἱ γενναῖοι καὶ οἱ χρηστοί. ἐπειδὴ οὖν ταῦτα οὕτως ἔχει, δοκεῖ δίκαιον εἶναι πᾶσι τῶν ἀρχῶν μετεῖναι ἔν τε τῷ κλήρῳ καὶ ἐν τῇ χειροτονίᾳ, καὶ λέγειν ἐξεῖναι τῷ βουλομένῳ τῶν πολιτῶν. [3] ἔπειτα ὁπόσαι μὲν σωτηρίαν φέρουσι τῶν ἀρχῶν χρησταὶ οὖσαι καὶ μὴ χρησταὶ κίνδυνον τῷ δήμῳ ἅπαντι, τούτων μὲν τῶν ἀρχῶν οὐδὲν δεῖται ὁ δῆμος μετεῖναι· ‑ οὔτε τῶν στρατηγιῶν κλήρῳ οἴονταί σφισι χρῆναι μετεῖναι οὔτε τῶν ἱππαρχιῶν· ‑ γιγνώσκει γὰρ ὁ δῆμος ὅτι πλείω ὠφελεῖται ἐν τῷ μὴ αὐτὸς ἄρχειν ταύτας τὰς ἀρχάς, ἀλλ’ ἐᾶν τοὺς δυνατωτάτους ἄρχειν· ὁπόσαι δ’ εἰσὶν ἀρχαὶ μισθοφορίας ἕνεκα καὶ ὠφελείας εἰς τὸν οἶκον, ταύτας ζητεῖ ὁ δῆμος ἄρχειν. [4] ἔπειτα δὲ ὃ ἔνιοι θαυμάζουσιν ὅτι πανταχοῦ πλέον νέμουσι τοῖς πονηροῖς καὶ πένησι καὶ δημοτικοῖς ἢ τοῖς χρηστοῖς, ἐν αὐτῷ τούτῳ φανοῦνται τὴν δημοκρατίαν διασῴζοντες. οἱ μὲν γὰρ πένητες καὶ οἱ δημόται καὶ οἱ χείρους εὖ πράττοντες καὶ πολλοὶ οἱ τοιοῦτοι γιγνόμενοι τὴν δημοκρατίαν αὔξουσιν· ἐὰν δὲ εὖ πράττωσιν οἱ πλούσιοι καὶ οἱ χρηστοί, ἰσχυρὸν τὸ ἐναντίον σφίσιν αὐτοῖς καθιστᾶσιν οἱ δημοτικοί. [5] ἔστι δὲ πάσῃ γῇ τὸ βέλτιστον ἐναντίον τῇ δημοκρατίᾳ· ἐν γὰρ τοῖς βελτίστοις ἔνι ἀκολασία τε ὀλιγίστη καὶ ἀδικία, ἀκρίβεια δὲ πλείστη εἰς τὰ χρηστά, ἐν δὲ τῷ δήμῳ ἀμαθία τε πλείστη καὶ ἀταξία καὶ πονηρία· ἥ τε γὰρ πενία αὐτοὺς μᾶλλον ἄγει ἐπὶ τὰ αἰσχρὰ καὶ ἡ ἀπαιδευσία καὶ ἡ ἀμαθία ‹ἡ› δι’ ἔνδειαν χρημάτων ἐνίοις τῶν ἀνθρώπων.

[1. 1] La costituzione degli Ateniesi, che scelsero questo modo di governarsi, io non l’approvo per questa ragione, e cioè che, avendo scelto siffatta forma, permisero alla canaglia di star meglio dei cittadini onesti; per questo motivo, dunque, io non l’approvo. Ma siccome ciò a loro sembrò giusto, io dimostrerò come bene conservino la loro linea politica, anche perseguendo con coerenza atti che gli altri Greci considerano disdicevoli.

[2] Per prima cosa, dunque, dirò questo, che a buon diritto qui i nullatenenti e il popolino sembrano godere vantaggi sugli aristocratici e sui ricchi, perché è il popolo che conduce le navi e assicura potenza alla città, e così pure i timonieri, i capiciurma, i pentecontarchi, i proreti e gli armatori: sono costoro che forniscono forza alla città, molto più che gli opliti, gli aristocratici e i cittadini onesti. Poiché, insomma, le cose stanno così, appare giusto che a tutti sia dato di partecipare alle cariche pubbliche, sia a quelle per sorteggio sia a quelle elettive e che qualsivoglia cittadino abbia libertà di parola. [3] D’altronde, quelle magistrature, che, se ben esercitate, recano al popolo sicurezza e rischi, se mal gestite, il popolo non vuole rivestirle – infatti, la gente pensa che non sia conveniente aspirare al sorteggio delle strategie o delle ipparchie –; il popolo, infatti, sa che trarrò maggiore giovamento non assumendo tali magistrature, ma lasciando che le rivestano i più capaci. Al contrario, il popolo cerca di esercitare quei ruoli che offrono una ricompensa e che possono essere redditizie per il proprio patrimonio. [4] Inoltre, alcuni stupiscono che gli Ateniesi in ogni ambito attribuiscano maggior importanza al volgo, agli indigenti e ai popolani piuttosto che ai migliori; ma proprio in questo è evidente che essi tutelano la democrazia. Difatti, dato che i poveri, i popolani e i peggiori stanno bene, se gente simile aumenta di numero, essi rafforzano la democrazia; se invece fossero avvantaggiati i ricchi e la gente onesta, allora i popolani renderebbero più forti i loro avversari. [5] In ogni parte della Terra l’aristocrazia è nemica della democrazia: infatti, tra i migliori sono minime la smodatezza e l’ingiustizia, mentre massima è l’inclinazione al bene; invece, nel popolo sono assai diffuse l’ignoranza, l’indisciplina e la malvagità; la povertà spinge la gente ad azioni vergognose e così anche la mancanza di educazione e l’ignoranza, che in certi individui sorgono dalla mancanza di mezzi.

Iscrizione della «Legge contro la tirannide». Personificazione di Democrazia che incorona Demos (bassorilievo). Marmo, 337-376 a.C. ca. da Atene. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

Il brano considerato si apre con l’iniziale enunciazione del credo politico dell’autore, che oppone in modo inconciliabile l’ottica dei χρηστοί, la «gente per bene», cioè gli aristocratici, a quella dei πονηρoi, la «canaglia», ovvero i membri del popolo.

Secondo il suo punto di vista, il governo ateniese si fonda su presupposti sbagliati, perché concede potere a chi dovrebbe esserne escluso; tuttavia, il sistema è forte perché si regge su una sua logica perversa e su meccanismi ben funzionanti. Infatti, se è vero che l’egemonia ateniese si regge sulla talassocrazia, allora le classi sociali che hanno permesso alla città di giungere a tale potenza non sono i maggiorenti, che militano fra le schiere dei cavalieri o in quelle degli opliti, ma i popolani, con il loro lavoro di carpentieri, timonieri, rematori.

L’amara constatazione fa un chiaro riferimento alla situazione che si verificò ai tempi di Temistocle, quando lo statista si appoggiò alle classi sociali più umili (θῆτες) per la costituzione e l’equipaggiamento della flotta da guerra che avrebbe dovuto fronteggiare l’armata di Serse a Salamina (480 a.C.). Da quel periodo, infatti, cominciò il declino dell’esercito formato da cavalieri e da opliti, provenienti dalle classi più ricche e altolocate. Tutte le altre riforme, tese a favorire sempre più il popolo a dispetto degli aristocratici, hanno avuto origine da tali presupposti; ed è logico che sia così, perché queste due classi sono opposte per natura in qualunque luogo.

Il passo si conclude con osservazioni che richiamano il rigido conservatorismo di alcuni scrittori del VI secolo a.C., come, per esempio, Teognide di Megara, il quale, come il “Vecchio oligarca”, sottolineava le differenze fra χρηστοί e πονηροί considerandole addirittura frutto di diversità genetica.

In questo senso, l’autore dell’opuscolo appare appena un po’ più tollerante del suo durissimo predecessore, perché concede alla «canaglia» almeno qualche circostanza attenuante: se gli indigenti sono quello che sono, lo devono alla natura, ma in parte anche alla miseria, che li spinge al male e che li ha privati di un’adeguata educazione, grazie alla quale avrebbero potuto migliorare almeno qualche aspetto del loro spregevole carattere.

Poseidone e Apollo. Frammento di rilievo (particolare), marmo, V secolo a.C. dal fregio degli dèi del Partenone. Atene, Museo dell’Acropoli.

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Erodoto di Alicarnasso

1. Le notizie biografiche

I dati della vita di Erodoto (Ἡρόδοτος), considerato già dagli antichi il vero pater historiae (Cic. Leg. I 1, 5), sono scarsi e incerti; tra le poche notizie sicure, si sa che nacque fra il 490 e il 480 a.C. ad Alicarnasso (l’od. Bodrum, Turchia), la città caria sulla costa meridionale dell’Asia Minore di fronte all’isola di Cos, che, fondata dalla dorica Trezéne, era stata profondamente influenzata dalla cultura ionica prevalente nelle città limitrofe.

I nomi dei genitori, Lyxes il padre e Dryò la madre, e quello dello zio (o cugino), il poeta epico Paniassi, inducono a pensare a una famiglia misto cario-greca. In ogni caso, Erodoto fu un Greco d’Oriente, rampollo di una nobile schiatta, che, negli anni immediatamente successivi alle guerre persiane, fu coinvolta nelle lotte per rovesciare il locale tiranno, Lygdamis II.

La Suda (Suda s.v. Ἡρόδοτος, η 536 Adler) individua la ragione della dimestichezza di Erodoto con il dialetto ionico nel suo soggiorno a Samo, dovuto a quel fallito tentativo di espellere il tiranno, a cui partecipò insieme con Paniassi. L’esilio a Samo si concluse non molto prima del 454, quando Erodoto sarebbe tornato in patria e Alicarnasso, ormai libera dalla tirannide (si racconta, anzi, che lo stesso Erodoto avesse contribuito alla cacciata del despota), entrò a far parte della Lega delio-attica.

Jean-Léon Gérôme, Il re Candaule. Olio su tela, 1859.

Da allora iniziarono i suoi viaggi: fra il 448 e il 447 fu prima in Egitto, dove dovette soggiornare circa quattro mesi, e di lì visitò la Fenicia e la Mesopotamia. Secondo la consuetudine dei periegeti e dei logografi ionici, Erodoto raccolse un materiale ricchissimo e assai vario, destinato a confluire poi nella sua opera, caratterizzata, però, da un profondo spirito innovatore e da finalità diverse rispetto a quelle di coloro che l’avevano preceduto. Animato da un vivo desiderio di conoscere popoli, usi e costumi di genti diverse dai Greci, sulla base delle attestazioni più esplicite che si possono ricavare dai suoi scritti, Erodoto ebbe una conoscenza diretta anche della costa settentrionale del Ponto Eusino e della Tracia.

In ambito greco, egli si trattenne a Delfi, a Sparta, fra le città della Beozia e soprattutto ad Atene. Qui gli furono tributati onori civili, nel 445/4, in seguito alle pubbliche letture delle sue storie (lo storico Diillo, FGrHist. 73 F 3, ricordava a tal proposito addirittura la pubblicazione di un decreto, che per queste letture autorizzava la spesa, alquanto inverosimile, di dieci talenti!); nella capitale attica Erodoto dovette entrare in rapporto con gli ambienti intellettuali del tempo, come testimoniano le notizie di una sua amicizia con Sofocle (in particolare, i vv. 909-912 dell’Antigone presuppongono il racconto relativo alla moglie di Intaferne in Erodoto III 119, 6).

Lo storico visitò anche la Magna Grecia e si recò nella colonia panellenica di Turi fondata, da poco per volontà di Pericle nel 444/3, sulle rovine dell’antica Sibari, facendone per un certo periodo la sua patria d’elezione. Nel corso del soggiorno in Italia meridionale Erodoto ebbe anche modo di compiere un’incursione in Cirenaica.

La precisa conoscenza delle tradizioni locali, così come l’esattezza delle descrizioni topografiche, testimoniano esperienze di viaggio nelle isole dell’Egeo e della Grecia continentale. Di Turi Erodoto assunse tutti i diritti inerenti alla πολιτεία e i suoi legami con la città furono tanto stretti che in alcuni manoscritti del IV secolo a.C. egli era detto «di Turi», come attestano Aristotele (Aristot. Rhet. 1409a) e Duride di Samo (FGrHist. 76 F 64).

Karl Schwerzek, Erodoto. Statua, marmo di Lasa, 1898. Wien, Parlamentsgebäude.

Quella di Erodoto fu un’attività di viaggiatore che non sembra essersi rivolta in prima istanza a soddisfare la curiosità dell’uomo, in quanto le aree scelte non sono specificamente quelle del conflitto greco-persiano, ma dovette comunque essere intrapresa come risposta a un interesse intellettuale: sembra significativo in proposito che lo stesso Erodoto affermi che lo scopo dei viaggi di Solone (I 30) e di Anacarsi (IV 76) era quello di osservare (θεωρίη) e che in III 139, 1, più genericamente, dichiari, a proposito di coloro che visitavano l’Egitto, che alcuni vi si recavano «per commercio, altri come soldati, altri anche per visitare il Paese» (κατ’ ἐμπορίην, [οἱ δὲ στρατευόμενοι], οἱ δέ τινες καὶ αὐτῆς τῆς χώρης θεηταί).

Anzi, è probabile che proprio durante il soggiorno ad Atene, riflettendo sui fatti delle guerre persiane, Erodoto abbia intuito la vasta portata di questo avvenimento e abbia riconosciuto anche l’eccezionalità del ruolo storico sostenuto da Atene stessa, protagonista a Maratona (490) e a Salamina (489): le vittorie sulla cui fama la classe dirigente fondava il primato della città rispetto alle altre e con le quali giustificava l’adozione di una linea politica che aveva ormai assunto atteggiamenti decisamente egemonici.

La novità di Erodoto nel considerare questi fatti consiste soprattutto nell’aver compreso di trovarsi di fronte non più a eventi dalle motivazioni mitiche, ma a dinamiche dipendenti dalla volontà umana, che hanno avuto origine da una diretta e ben leggibile catena di cause e conseguenze, iniziata con il tributo imposto ai Greci d’Asia da Creso, re di Lidia, e conclusa con la rivolta della Ionia e con l’inevitabile rappresaglia persiana.

La posizione di Atene, dunque, era stata decisiva in tutta la vicenda, perché la sua classe politica, che aveva sostenuto con ogni mezzo la libertà dell’Ellade (Hdt. VII 139), aveva anche fatto sì che la civiltà democratica avesse la meglio sull’assolutismo achemenide. Da questo punto di vista, Erodoto andava assai al di là di una semplice adesione alla propaganda periclea o di un generico sentimento “nazionale”: la profondità e l’acume della sua analisi sono testimoniati dall’atteggiamento di critica perplessità con cui lo storico guardava all’imperialismo di Atene, timoroso di cogliervi gli stessi germi di autodistruzione che avevano minato alle fondamenta la mole dell’Impero persiano, spintosi ormai al di là di quell’umana misura capace di garantire non solo una solida pace, ma anche la durata nel tempo.

Dalla fusione di questi due elementi, l’esperienza del viaggiatore curioso e l’attenta indagine degli umani eventi, scaturisce la vera novità dell’opera erodotea. L’ignoranza delle lingue, l’essersi affidato a informatori talora inattendibili, la brevità di alcuni soggiorni comportarono la saltuaria ricezione di falsità e assurdità già in parte notate dagli antichi, che alimentarono un filone critico secondo cui Erodoto sarebbe stato un sedentario che in parte lavorò di fantasia, inventando le testimonianze, e in parte le copiò dai propri predecessori; ma l’ingente registrazione da parte sua di dati esatti e di notizie comunque circolanti nei Paesi descritti sembra decisamente smentire questa prospettiva.

Quanto alla struttura, nell’originario progetto dell’autore, l’opera si articolava probabilmente in λόγοι («racconti»), destinati a letture pubbliche; solo più tardi assunse la forma di un’ampia narrazione scritta, a cui fu dato, dopo la scomparsa dell’autore, il titolo generico di ἱστορίαι («storie», «indagini storiche»). Anche la suddivisione in nove libri, intitolati ciascuno a una Musa, risale all’età ellenistica ed è da attribuire al grammatico alessandrino Aristarco di Samotracia (c. 216-144 a.C.).

Degli ultimi eventi della vita di Erodoto si conosce ben poco: secondo le fonti antiche, sarebbe scomparso a Turi, negli anni immediatamente successivi allo scoppio della guerra del Peloponneso, cioè dopo il 430; ma non si è certi, perché i rapporti fra Atene e la colonia si erano deteriorati, ed è probabile che, data la sua amicizia con Pericle, lo storico fosse tornato ad Atene, terminando là i suoi giorni, sebbene nell’agorà di Turi si additasse la sua tomba come una delle glorie locali.

Erodoto. Busto, copia romana di II secolo da un originale greco di V secolo a.C., dalla Stoà di Attalo. Atene, Museo dell’Antica Agorà.

2. Erodoto e le Ἱστορίαι: la “questione erodotea”

È una teoria abbastanza diffusa fra gli studiosi che l’opera di Erodoto sia stata pubblicata dopo l’inizio della seconda guerra peloponnesiaca, presumibilmente intorno al 425, quando lo storico doveva essere già morto da tempo, forse senza portare a compimento il suo lavoro. A sostegno di quest’ultima ipotesi, si citano la conclusione troppo brusca e la mancanza di alcune parti, a cui l’autore rinvia o di cui preannuncia la trattazione, ma che poi non compaiono: si tratta in particolare di due «promesse» mancate, una in VII 213, in cui si dice che il racconto della morte di Efialte verrà più oltre e questo non accade, e l’altra in I 184, in cui si annuncia, parimenti senza esito, che nell’ambito del λόγος assiro si parlerà dei sovrani di Babilonia.

Tuttavia, non è nemmeno da escludere che questi apparenti segni di incompiutezza siano in realtà le tracce di un lavoro di organizzazione e di sistematizzazione del materiale raccolto, probabilmente condotto a termine durante il soggiorno ad Atene, quando Erodoto decise di porre fine ai suoi lunghi viaggi; altri hanno obiettato che queste e consimili contraddizioni siano pur sempre spiegabili come disattenzioni nell’ambito di un lavoro ampio, intricato, decennale.

Inoltre, siccome Erodoto appare ancora legato alla tradizione rapsodica della Ionia, il fatto che la sua narrazione si concluda piuttosto bruscamente con l’episodio della presa di Sesto sull’Ellesponto (478), potrebbe far pensare che egli fosse stato attratto dall’idea di un finale «aperto» simile a quello dell’Iliade e dell’Odissea, a cui si potesse facilmente riallacciare con un successivo racconto.

Vare e altre questioni si riconnettono al problema dell’unità di concezione e di composizione dell’opera, tanto che non è fuori luogo parlare di una vera e propria «questione erodotea», in cui, per sommi capi, si possono distinguere due fondamentali tendenze, quella antiunitaria e quella associativa. La teoria antiunitaria, sostenuta da Scholl, Bauer e Kirchhoff, supponeva che l’opera di Erodoto fosse stata concepita in origine come una serie di λόγοι indipendenti l’uno dall’altro, destinati a letture pubbliche, riuniti poi artificiosamente in un’unica redazione scritta. L’elemento più importante a suffragio di questa teoria è la struttura organicamente uniforme di tutti i λόγοι: prima la descrizione del Paese e la sua posizione geografica, poi le osservazioni sui costumi degli abitanti e sulle loro leggi, con indagini su consuetudini e tradizioni; infine, a conclusione, cenni più o meno ampi di storia politica. La teoria dei λόγοι fu ripresa anche da Jacoby, Powell e De Sanctis; quest’ultimo, in particolare, elaborò il cosiddetto «principio associativo», secondo il quale Erodoto avrebbe concepito l’iniziale progetto di trattare in λόγοι separati la storia dei popoli poi entrati a far parte dell’Impero achemenide; solo in un secondo momento, l’autore avrebbe deciso di trattare gli avvenimenti del conflitto greco-persiano, finendo poi per concentrarsi esclusivamente su di essi e modificando il piano dell’opera. Testimonianza di questa deviazione dall’intento originale sarebbe l’evidente sproporzione fra lo spazio dedicato ai λόγοι etnografici (i primi cinque libri) e quello adibito alla trattazione delle guerre persiane (gli altri quattro). Secondo un’altra teoria, invece, il primitivo disegno di Erodoto sarebbe stato appunto quello di considerare le guerre persiane come punto focale dell’intera opera.

Ritratto doppio di Erodoto e Tucidide. Erma bifronte, calco in gesso da un originale greco (c. 400-375 a.C.). Praha, Galerie antického umění v Hostinném.

3. La cultura di Erodoto

Indipendentemente dalla dotta serie di supposizioni circa la struttura e la composizione delle Storie, il confronto fra l’opera erodotea e la coeva letteratura del V secolo a.C. mette in luce un altro aspetto forse più interessante; quando l’opera, precedentemente nota attraverso le pubbliche letture e la circolazione di alcune sue parti manoscritte, fu pubblicata ufficialmente verso il 425, dovette sembrare già anacronistica, animata da concezioni esistenziali e religiose e da ideali politici ormai avviati al tramonto, espressi con un linguaggio e in uno stile che si ricollegavano meglio alla prima metà del secolo, piuttosto che ai suoi ultimi anni.

Infatti, se i prosatori del passato e le memorie orali dei periegeti e degli etnografi costituirono per Erodoto un prezioso riferimento per la sua metodologia, l’ottica con la quale egli considerò gli avvenimenti e i valori della storia e le azioni umane è analoga a quella dominante nel mondo dell’ἔπος, in cui le persone agivano spinte da quello stesso desiderio di gloria (κλέος) e di ricordo (μνήμη) che lo storico considera nel proemio il fine ultimo della sua fatica. Ma dalla sua opera i semidei sono del tutto scomparsi; rimane comunque fortissimo e immutabile il fascino della figura eroica, unitamente al desiderio dello storico di analizzare gli eventi con l’intento di cogliervi, accanto all’operato umano, il segno di una presenza divina.

Anche i discorsi sapientemente costruiti, sullo sfondo di scene ben adeguate, richiamano al mondo epico; ma non bisogna trascurare nemmeno l’apporto della poesia lirica, soprattutto dell’elegia guerresca di Callino e di Tirteo e di quella gnomica di Solone. Dalla tradizione dei primi due, infatti, Erodoto derivò la figura del cittadino combattente, pronto al sacrificio della vita per il bene della collettività; da quella dell’ultimo, invece, egli trasse il concetto della vita associata fondata su ideali di equilibrio, misura e ordine, improntati a un modello di giustizia divina, che non ammette violazioni e la cui potenza si manifesta sia nella breve esistenza dei singoli che nel più ampio volgersi delle generazioni e nel ciclo di ascesa e di declino di città e nazioni.

Erodoto. Busto, copia romana del II sec. d.C. da originale greco della prima metà del IV sec. a.C. da Athribis (od. Benha, Basso Egitto). New York, Metropolitan Museum of Art.

La convinzione che l’universo si reggesse su leggi di equilibrio regolato da un ordine di giustizia trascendente, riflesso nella storia e negli eventi umani, all’epoca di Erodoto trovava la sua più piena espressione nella tragedia, alla quale veniva riconosciuto un altissimo valore civico ed educativo. Lo storico fu largamente debitore a questo genere letterario: per esempio, considerando i Persiani di Eschilo, indipendentemente dalla somiglianza dei contenuti, l’affinità fra i due autori risalta soprattutto nella giustificazione religiosa degli avvenimenti, secondo la quale la sconfitta di Serse è dovuta all’intervento degli dèi, necessario per castigare l’orgoglio del sovrano, divenuto ormai un’intollerabile forma di ὕβρις. Perciò, tanto in Eschilo quanto in Erodoto, ecco evidenziarsi, sulla scia della γνώμη di Solone, l’idea di una divinità restauratrice di giustizia, il cui operare, spesso misterioso per l’intelletto umano, si rivela attraverso segni premonitori, come sogni e oracoli.

Quando poi il destino dell’individuo si compie, dando vita a una vicenda emblematica, suscettibile di essere ridotta a paradigma universale, allora è chiaro il rapporto concettuale fra Erodoto e Sofocle, soprattutto nei drammi delle Trachinie e dell’Edipo re. Ma, al di là di queste rassomiglianze di pensiero, il debito di Erodoto verso i tragici si rivela anche nei modi della costruzione del racconto, fitto di dialoghi, di vivaci scambi di battute e caratterizzato da una profonda e acuta analisi psicologica dei personaggi, oltre che dalla creazione di veri e propri episodi drammatici.

Tutto il V secolo fu caratterizzato in Grecia da un profondo e continuo travaglio intellettuale e morale, destinato a trasformare radicalmente la concezione dell’esistenza, della storia e della reazione dell’uomo di fronte agli eventi. In questo senso, l’opera di Erodoto offre un contributo di notevole originalità, perché non si limita a dar vita a un nuovo genere di letteratura e di conoscenza. Infatti, in Erodoto c’è la volontà di rintracciare nella molteplicità delle vicende storiche, dei principi unitari e universali, vere e proprie categorie interpretative. Nella sua ricerca di un elemento ordinatore, l’autore lo evidenziò nel rapporto fra causa ed effetto, identificato di volta in volta in fattori sociali, economici, politici, ma soprattutto in una visione simultanea dell’agire divino e umano, già presente nella poesia epica.

Ma nel mondo omerico, l’intervento divino nelle cose umane appariva spesso determinato dall’arbitrio e dal capriccio; al contrario, in Erodoto, esso si configura come necessità di giustizia e di mantenimento della misura e dell’ordine, spesso violati per orgoglio e per spirito di prevaricazione (ὕβρις), a cui la δίκη divina deve necessariamente contrapporsi. In questo modo, l’analisi del rapporto causa-effetto si attua attraverso l’individuazione di due diversi livelli di realtà, quella umana e quella divina. Da questa concezione scaturisce in Erodoto una visione dinamica della storia, in un perenne alternarsi di atti di ὕβρις e di reintegrazione della δίκη.

Secondo le convinzioni dello storico di Alicarnasso, al di sopra di tutto, come principio subordinante e mai subordinato, sta il «fato» (ἡ μοίρα, ἡ πεπρωμένη μοίρα), che gli dèi accettano in funzione della loro onniscienza. Per indicare la divinità, Erodoto usa in genere i termini ὁ θεός, τὸ θεῖον, preferendo il sostantivo al singolare e in senso indeterminato, piuttosto che indicare con il loro nome le varie divinità. Il mondo dell’uomo, con tutto l’insieme degli eventi in cui egli agisce o subisce, è dipendente dal volere del fato e da quello della divinità. Generalmente, l’individuo crede di essere il protagonista degli avvenimenti, ma, a una più attenta osservazione, risulta invece condizionato da forze che lo trascendono e da una precisa serie di regole. Queste norme, eterne e universali, non sono mai state scritte (ἄγραφοι νόμοι); quando l’uomo le viola, commette un atto di empietà (τὸ ἀνόσιον), che provoca inevitabilmente la punizione divina, ma non sempre contro il diretto colpevole. La giustizia degli immortali, infatti, non ha gli stessi mezzi né gli stessi ritmi di quella umana, e può dilatarsi nel tempo, cogliendo anche un discendente, lontano, ma appartenente al medesimo γένος e quindi ugualmente responsabile, in base al concetto dell’ereditarietà della colpa.

Oxford, Sackler Library. P. Oxy. 2099 A 01 (II sec.). Frammento di Hist. VIII di Erodoto.

4. Le fonti di Erodoto

Per quanto originale e innovativo, Erodoto non creò dal nulla la sua opera, ma si servì dei resoconti di coloro che lo avevano preceduto nei viaggi, citando talvolta anche direttamente le sue fonti, come accade con Scilace di Carianda (ricordato in IV 44) ed Ecateo di Mileto (di cui fa riferimento in II 143). Uno degli interessi più significativi della prima storiografia greca si connetteva alle esplorazioni geografiche di territori sconosciuti o poco noti e alla conseguente produzione di relazioni relative a tali viaggi, specialmente alle circumnavigazioni di continenti o di isole (i cosiddetti «peripli», περίπλοι). Oltre alle indicazioni strettamente collegate alla navigazione (approdi, porti, rotte, sorgenti, distanze), queste descrizioni contenevano talora notizie di carattere storico, etnografico e socio-economico riguardanti le contrade adiacenti. Proprio in questo ambito si era distinto innanzitutto Scilace (Σκύλαξ) di Carianda (Caria), che, come attesta lo stesso Erodoto (IV 44), verso la fine del VI secolo (c. 516-512?) per incarico di re Dario I compì una spedizione navale che lo portò in trenta mesi dal corso dell’Indo al golfo arabico. Del resoconto da lui redatto restano solo alcuni frammenti, nei quali si può comunque ravvisare la ricchezza dei suoi interessi geografici ed etnografici. Su un terreno meno insicuro si può collocare la figura di Ecateo (Ἑκαταῖος) di Mileto, figlio di Egesandro, vissuto fra il 560/50 e il 480 circa, che viaggiò a lungo per i territori dell’Impero persiano, soprattutto in Egitto, e giocò un ruolo cospicuo nell’ambito dell’insurrezione ionica (fra il 500 e il 494), dapprima suggerendo la costruzione di una flotta dopo aver invano cercato di dissuadere i concittadini dall’aggredire la potenza achemenide, poi negoziando la pace dopo la sconfitta. Compose due libri di una Periegesi (Περιήγησις ο Περίοδος γῆς) e successivamente quattro libri di Genealogie (Γενεαλογίαι).

Scena di udienza reale. Rilievo, pietra calcarea, c. V secolo a.C. dal portico settentrionale dell’Apadana di Persepolis. Teheran, Mūze-ye Mellī-ye Īrān.

5. Le premesse metodologiche (Hdt. I proem.)

Pur dimostrando di avere più di un debito nei confronti di Ecateo, Erodoto si discosta da lui in modo netto per quello che riguarda i contenuti e gli orientamenti dell’indagine. Mentre infatti il Milesio concentrava l’attenzione sulle leggende genealogiche degli antichi eroi del mito, l’opera erodotea si presenta come una ἱστορίης ἀπόδεξις («esposizione di una ricerca») incentrata sull’uomo e sulle sue vicende: questa è la grande novità dell’opera di Erodoto (I proem.):

Ἡροδότου Θουρίου ἱστορίης ἀπόδεξις ἥδε, ὡς μήτε τὰ γενόμενα ἐξ ἀνθρώπων τῷ χρόνῳ ἐξίτηλα γένηται, μήτε ἔργα μεγάλα τε καὶ θωμαστά, τὰ μὲν Ἕλλησι, τὰ δὲ βαρβάροισι ἀποδεχθέντα, ἀκλέα γένηται, τά τε ἄλλα καὶ δι’ ἣν αἰτίην ἐπολέμησαν ἀλλήλοισι.

Questa è l’esposizione delle ricerche di Erodoto di Alicarnasso, perché gli eventi umani non svaniscano con il tempo e le imprese grandi e meravigliose, compiute sia dai Greci sia dai barbari, non restino senza fama; in particolare, per quale causa essi si fecero guerra.

È possibile riconoscere, già da qui, il debito nei confronti dell’ἔπος: lo scopo dichiarato dell’indagine è quello di preservare alla memoria le imprese μεγάλα («grandi») e θωμαστά («degne di essere ammirate»), in modo che, con il trascorrere del tempo, esse non rimangano ἀκλέα, cioè prive di κλέος. Il ruolo dello storico risulta quindi equiparabile a quello dell’aedo epico, che vuole salvaguardare il κλέος ἄφθιτον («la gloria imperitura», Il. IX 413) degli eroi: quello che cambia è l’orizzonte, che si sposta dal piano mitologico di dèi e semi-dèi a quello umano delle vicende storiche. Il proemio erodoteo menziona specificamente τὰ γενόμενα ἐξ ἀνθρώπων («gli eventi umani»): si tratta di un’affermazione di portata decisiva, perché sposta l’attenzione dello storico decisamente su un altro piano. Anche l’intento di narrare tali vicende ὡς μήτε… τῷ χρόνῳ ἐξίτηλα γένηται («perché… con il tempo non svaniscano») nasconde in nuce la contrapposizione fra il “tempo” che tutto divora e la “storia” che si prefigge di preservare la memoria, consolidatasi nei secoli come luogo comune, presente anche all’anonimo manzoniano nel celeberrimo proemio de I promessi sposi: «L’historia si può veramente deffinire una guerra illustre contro il tempo».

Anche l’impiego del termine ἔργα è determinante: con esso si intendono sia le «imprese» umane, con particolare attenzione alle vicende delle guerre persiane, sia i «monumenti» eretti dall’uomo e destinati a rimanere nel tempo. Anche questo passaggio si rivela metodologicamente rilevante: oggetto dell’indagine storiografica sono sì gli eventi e le imprese umani, ma non in modo indiscriminato. Allo storico spetta il compito di selezionare ciò che è veramente importante e degno di essere tramandato, attuando un’operazione di sintesi e di discernimento critico, che costituisce il tratto più peculiare della sua attività.

Nella chiusa del proemio sono da sottolineare due concetti: αἰτίη, ovvero la ricerca delle cause degli eventi, come fondamento dell’indagine storica, e πόλεμος, la guerra come argomento di analisi privilegiato.

Amazzonomachia. Bassorilievo, marmo, 353-350 a.C. ca. dal fregio del Mausoleo di Alicarnasso (od. Bodrum, Turchia). London, British Museum.

6. Le cause del conflitto

Per quel che riguarda la materia trattata, dunque, il racconto storiografico presuppone il patrimonio della tradizione epica e lo supera: nella prospettiva di Erodoto, infatti, la guerra di Troia non è che uno degli episodi di quel grande confronto-scontro fra Oriente e Occidente, che trova il suo momento culminante nella guerra tra Persiani e Greci, di cui l’autore fu testimone. Come in Omero, anche in Erodoto è la guerra il fenomeno «grande» e degno di essere ricordato, ma lo storico, facendo riferimento alla αἰτίη, la «causa», introduce la novità di organizzare gli eventi in rapporto causale, con un significativo progresso rispetto all’epica e aprendo la strada verso l’istituzione della storia come scienza.

Ciò che fa seguito al proemio (I 1-4) verte appunto sul tema della causa iniziale dell’ostilità fra Greci e barbari con il ricorso a una congerie di tradizioni mitiche (Fenici rapitori di Io da Argo, Greci rapitori di Europa da Tiro in Fenicia e poi di Medea dalla Colchide, Paride rapitore di Elena e conseguente guerra di Troia), che vengono tuttavia osservate con un occhio distaccato e scettico: Erodoto, per esempio, dichiara esplicitamente di non saper scegliere fra una versione persiana e una fenicia (I 5). Le tradizioni mitiche vengono però subito lasciate definitivamente da parte a favore della fissazione di un punto d’inizio ben meditato e significativo, cioè l’avvio della dominazione del lidio Creso sulle πόλεις d’Asia Minore.

Di qui l’esordio di un percorso ampio, involuto, ricco di digressioni che si dipartono dal racconto principale e arrivano ad abbracciare più capitoli o un intero libro, e tuttavia costante nel ritorno alla rotta principale nel punto in cui essa era stata abbandonata.

Adrien Guignet, Serse sull’Ellesponto. Olio su tela, XIX secolo.

Questa rotta riguarda gli avvenimenti relativi agli ottant’anni di storia che vanno dalla quasi contemporanea ascesa al trono, rispettivamente di Lidia e di Persia, di Creso e di Ciro il Grande (560-558 a.C.) fino alla battaglia di Micale (479) e all’occupazione di Sesto (478): avvenimenti visti, almeno inizialmente, attraverso i regni dei primi quattro Achemenidi, da Ciro a Serse.

Se tuttavia nei primi quattro libri, dedicati alle campagne militari condotte dai re persiani per la sottomissione di popoli limitrofi o ribelli, le vicende greche compaiono all’interno di digressioni non dissimili da quelle dedicate ad altri popoli, a partire dal V libro esse assurgono a soggetto principale e alla fine dominante del racconto, con la rivolta ionica, la battaglia di Maratona, e le guerre persiane del 480-478.

Ciò non toglie che dietro il prodotto finito, o semi-finito, intercorresse una lunga fase di stesure parziali e forse talvolta di singoli λόγοι in sé compiuti su definiti ambiti geo-etnografici. Questa in sintonia con una situazione comunicativa che, se nella forma del testo pervenuta appare già investita da un fortissimo senso della scrittura e delle sue possibilità e funzioni, presuppone sullo sfondo un comporre in vista di recite pubbliche al cospetto di mutevoli uditori (funzione acroamatica). La necessità di informare e intrattenere il pubblico spiega la struttura e le modalità comunicative dell’opera, che presenta elementi novellistici e meravigliosi, divagazioni e narrazioni nei quali emerge il piacere di raccontare e la volontà di affascinare l’ascoltatore, mantenendone vivo l’interesse.

Se l’autore presenta la propria opera come ἱστορίης ἀπόδεξις («esposizione di una ricerca»), ἱστορίη dunque definisce tutto il lavoro di ricerca che ha preceduto la stesura definitiva. In esso confluiscono i dati provenienti dalla αὐτοψία («visione diretta»), da lui privilegiata fin dove possibile, perché tesa a verificare personalmente l’oggetto stesso dell’indagine; e l’ἀκοή τῶν λόγων («ascolto dei discorsi»), ovvero la testimonianza orale di dotti e sacerdoti (λόγιοι ἄνδρες), viaggiatori e di altri. Erodoto distingue con cura fra ciò che ha visto e ciò che ha sentito dire e tende a prestar fede ai suoi interlocutori, solo se essi, a loro volta, siano stati testimoni oculari dei fatti (αὐτόπται). La veridicità dei discorsi uditi è controllata attraverso un metodo critico che seleziona, prima di tutto, gli informatori: i più attendibili sono, secondo Erodoto, οἱ ἐπιχώριοι («gli abitanti del posto»). È impossibile, però, rintracciare un atteggiamento univoco dell’autore verso la tradizione orale che ha raccolto: talora egli si pone di fronte a essa in un rapporto neutrale e distaccato, esaurendosi la ricerca nell’esposizione di più testimonianze, avvalorate attraverso τὸ συμβάλλεσθαι («il confronto»), tra cui egli volutamente non sceglie, animato dallo zelo di riferire comunque ciò che gli sia stato raccontato; talora invece il suo giudizio (γνώμη) sulla plausibilità delle fonti s’impone sul mero impegno di registrarle, ed egli si compiace di esercitare la propria critica su storie favolose, sottolineando di non credere ciecamente a tutto quanto gli sia stato esposto. Oppure Erodoto cerca di scegliere tra le sue fonti, per esempio facendo seguire a un sommario della storia di un luogo costruito sulla testimonianza di informatori locali un racconto che si basa prevalentemente sulla parola di altri.

Pittore anonimo. Combattimento tra un oplita greco e tre arcieri persiani. Pittura vascolare su λήκυθος attica a figure nere, c. 490-480 a.C. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

7. Il principio di λέγειν τὰ λεγόμενα (Hdt. VII 152)

Nel caso di più versioni dello stesso evento, l’autore si premura di proporle tutte, seguendo il principio di λέγειν τὰ λεγόμενα, «riferire ciò che si dice» (VII 152, 3). Non si tratta, però, di una rinuncia all’esercizio della critica. Erodoto non mira alla totalità nella registrazione storiografica, ma si prefigge di evitare qualsiasi manipolazione o inquinamento delle fonti, trasmettendole così come sono, indipendentemente dalla loro veridicità, sulla quale egli non si pronuncia:

[152, 1] Εἰ μέν νυν Ξέρξης τε ἀπέπεμψε ταῦτα λέγοντα κήρυκα ἐς Ἄργος καὶ Ἀργείων ἄγγελοι ἀναβάντες ἐς Σοῦσα ἐπειρώτων Ἀρτοξέρξην περὶ φιλίης, οὐκ ἔχω ἀτρεκέως εἰπεῖν, οὐδέ τινα γνώμην περὶ αὐτῶν ἀποφαίνομαι ἄλλην γε ἢ τήν περ αὐτοὶ Ἀργεῖοι λέγουσι. [2] Ἐπίσταμαι δὲ τοσοῦτο, ὅτι, εἰ πάντες ἄνθρωποι τὰ οἰκήια κακὰ ἐς μέσον συνενείκαιεν ἀλλάξασθαι βουλόμενοι τοῖσι πλησίοισι, ἐγκύψαντες ἂν ἐς τὰ τῶν πέλας κακὰ ἀσπασίως ἕκαστοι αὐτῶν ἀποφεροίατο ὀπίσω τὰ ἐσηνείκαντο. Οὕτω [δὴ] οὐδ’ Ἀργείοισι αἴσχιστα πεποίηται. [3] Ἐγὼ δὲ ὀφείλω λέγειν τὰ λεγόμενα, πείθεσθαί γε μὲν οὐ παντάπασιν ὀφείλω (καί μοι τοῦτο τὸ ἔπος ἐχέτω ἐς πάντα τὸν λόγον)· ἐπεὶ καὶ ταῦτα λέγεται, ὡς ἄρα Ἀργεῖοι ἦσαν οἱ ἐπικαλεσάμενοι τὸν Πέρσην ἐπὶ τὴν Ἑλλάδα, ἐπειδή σφι πρὸς τοὺς Λακεδαιμονίους κακῶς ἡ αἰχμὴ ἑστήκεε, πᾶν δὴ βουλόμενοι σφίσι εἶναι πρὸ τῆς παρεούσης λύπης.

Che Serse abbia inviato davvero un araldo ad Argo a fare quelle proposte, che ambasciatori argivi, giunti a Susa, abbiano interrogato davvero Artaserse a proposito del patto di amicizia, non so dire con certezza e nessun’altra opinione espongo in proposito se non quella che riportano gli stessi Argivi. Solo questo io so: se tutti gli uomini mettessero in comune i propri mali, volendo scambiarli con quelli dei vicini, dopo aver dato uno sguardo ai mali di chi gli sta accanto, ognuno sarebbe contento di riportarsi indietro quel che aveva lì portato. Così, non sarebbero gli Argivi ad aver fatto la cosa più vergognosa. Quanto a me, io devo riferire ciò che si narra, ma non sono tenuto a crederci – quest’affermazione valga per ogni racconto –, poiché anche questo si dice, che furono gli Argivi a chiamare il Persiano in Grecia, poiché la guerra con i Lacedemoni si era conclusa in modo disastroso per loro, e preferivano per sé qualsiasi sorte rispetto al doloroso presente.

In questo modo, il pubblico è, per così dire, reso compartecipe dell’indagine e nell’esprimere valutazioni di merito; lo storico mantiene un atteggiamento flessibile, in quanto talora prende posizione indicando le proprie preferenze, ma più spesso lascia che sia il lettore a formarsi un’opinione, senza condizionarlo con nessun giudizio. Infatti, come osserva a proposito dell’assassinio di Policrate di Samo, αἰτίαι μὲν δὴ αὗται διφάσιαι λέγονται τοῦ θανάτου τοῦ Πολυκράτεος γενέσθαι, πάρεστι δὲ πείθεσθαι ὁκοτέρῃ τις βούλεται αὐτέων («sono queste le due ragioni che si raccontano a proposito della morte di Policrate: ognuno può prestar fede a quale delle due preferisce», III 122, 1).

London, British Library. G. Rawlinson, A.J. Grant, Herodotus: The Text of Canon Rawlinson’s Translation, London 1897, 387. Mappa del mondo secondo Erodoto.


8. L’antropologia erodotea

Al di là del corretto uso degli strumenti di conoscenza e del reperimento di fonti attendibili, la ricostruzione di nuove mappe culturali richiedeva a Erodoto l’elaborazione di un modello interpretativo che gli permettesse un’adeguata lettura del nuovo e del diverso.

Nel creare un metodo di ἱστορίη antropologica, Erodoto è giunto ad approntare uno schema di raccolta e organizzazione dei materiali che risulta operativo per tutti i λόγοι, anche se non in tutti viene necessariamente sviluppato in ogni sua articolazione. Esso consiste in un quadro che ha come cornice da un lato la descrizione geografica di un territorio, dall’altro l’enumerazione delle sue θαυμάσια («meraviglie»); fra l’una e l’altra viene appunto delineata una sezione etnografica che prevede come stazioni fondamentali: una ἀρχαιολογία («serie di ragguagli sull’antichità») di un popolo, a proposito delle vicende dei suoi antenati fin dal più remoto passato; una rassegna dei νόμιμα («costumi e tradizioni»), dalle istituzioni religiose (divinità, pratiche cultuali, cerimoniali e riti, oracoli, modalità di sepoltura, giuramenti, ecc.) a quelle militari e politiche; una descrizione della δίαιτα («vita quotidiana») degli abitanti di una regione, con notizie sull’alimentazione, sul vestiario, sulle abitazioni, ecc.

Insistito, nell’esposizione e (talora) nella valutazione di tali costumanze, appare il riferimento al corrispondente uso greco, in una prospettiva naturalmente ellenocentrica ma non per questo ellenocratica: Erodoto misura ciò che è «diverso» sulla base del «noto», soprattutto perché egli ha il problema di comunicare il λόγος elaborato sul singolo Paese straniero a un tipo di uditorio che, pur variando di composizione, è in ogni caso costituito da comunità greche.

Wilhelm von Kaulbach, La battaglia di Salamina. Olio su tela, 1862-1864. München, Städtische Galerie im Lenbachhaus und Kunstbau.

D’altra parte, l’adozione costante di un destinatario ellenico – e di conseguenza della cultura greca – come termine di riferimento e di misura, se relativizza le altre civiltà, almeno nella scelta dei campi d’interesse a cui subordinare l’osservazione delle caratteristiche ritenute più qualificanti per la loro comprensione, Erodoto finiva per relativizzare, con un effetto di ritorno, la stessa cultura greca. Ciò emerge, per esempio, quando (II 158, 5) l’autore si compiace di osservare che non meno dei suoi connazionali gli Egizi «chiamano barbari tutti coloro che non parlano la loro lingua».

Altro criterio largamente sfruttato da Erodoto è quello della “simmetria”, in un bisogno di conferire ordine e trasparenza alla realtà ricorrendo a una cornice di opposizioni sistematiche. Ciò è evidente quando egli riflette (IV 36, 1) che, se ci sono uomini oltre il vento del Nord (Borea), devono essercene anche oltre il vento del Sud (Noto), oppure quando osserva gli Egizi, coerentemente con un clima peculiare e con un fiume che presenta una natura diversa da quella di tutti gli altri, hanno adottato quasi in tutto usi e costumi all’inverso degli altri popoli: per questo in Egitto le donne frequentano il mercato e commerciano, mentre gli uomini stanno a casa e tessono, gli uomini portano pesi sulla testa e le donne sulle spalle, le donne orinano in piedi e gli uomini accovacciati, e così via.

Talora il principio di simmetria opera non nel contrasto fra un certo popolo e il resto dell’ecumene ma fra due culture, le quali si prospettano allora come i poli estremi di uno spettro comprensivo di multiformi possibilità. Da questo punto di vista è particolarmente marcata l’opposizione fra Sciti ed Egizi, collocati rispettivamente verso il margine settentrionale e quello meridionale del mondo erodoteo: per esempio, il Nilo si gonfia quando gli altri fiumi si prosciugano, mentre il Danubio non varia mai di regime; il Nilo tiene insieme l’Egitto, i fiumi della Scizia la dividono in distretti e servono da barriere alle invasioni; in Egitto la natura appare, attraverso il sistema della canalizzazione delle acque, sotto il controllo umano, in Scizia la natura sfugge completamente al dominio degli uomini; gli Egizi eccellono nella loro memoria del passato e si ritengono il popolo più antico, mentre gli Sciti sostengono di essere quello più giovane.

Fondamentale, come nel trattato ippocratico Sulle arie le acque i luoghi, è il nesso vincolante fra il territorio in cui una civiltà vive e prospera e il suo orizzonte esperienziale: per esempio, secondo quest’ottica, i Greci derivano dalla povertà del loro suolo la virtù che permette loro di sottrarsi sia agli stenti sia al dispotismo (cfr. VII 102); gli Egizi sono, dopo i Libici, i più sani fra tutte le genti, «poiché le stagioni lì non cambiano» (II 77); e, alla fine dell’opera, alla proposta di Artembare che i Persiani abbandonino la loro terra aspra per abitarne una migliore, re Ciro obietta ricordandogli che da terre molli nascono caratteri molli (IX 122).

Per quanti i condizionamenti ambientali e climatici possano comportare differenze anche qualitative nel modo di vivere e nella mentalità dei singoli popoli come dei singoli individui, il relativismo culturale, che costituisce il nocciolo dell’indagine erodotea, reclama però attenzione e rispetto per ogni forma di civiltà. La lezione importante che Erodoto ne trae è che non esiste alcun criterio oggettivo valido per valutare pregi o difetti delle singole culture, meritevoli ciascuna di rispetto, nella propria specifica alterità, tanto che il disprezzo verso differenti costumi e tradizioni si prospetta, nella personalità emblematicamente negativa del sovrano achemenide Cambise, come un sintomo di pazzia.

Apollo Didimo. Testa, copia romana in marmo del c. 120-140 dell’originale greco del c. 470 a.C., opera di Canaco, dalla Villa Hadriana, Tivoli. London, British Museum.

9. Lo stile erodoteo

Aristotele, nella Retorica (III 9, 1409a22-b12), entro una fondamentale opposizione tra stile paratattico o «continuo», caratteristico dell’esposizione orale (λέξις εἰρομένη), e stile ipotattico, tipico dello scritto (λέξις κατεστραμμένη), considera il primo sgradevole per mancanza di struttura, il secondo più moderno, e come esempio di stile antiquato cita Erodoto. A parte il giudizio di valore, lo stile erodoteo può veramente essere considerato come esemplare di un andamento paratattico che, agglutinando i particolari dell’esposizione, procede, almeno nell’effetto che intende suscitare, «semplice, senza fatica e trascorrente con agilità da un argomento all’altro» (Plutarco, De Herodoti malignitate 854e), coerentemente sia con un tipo di comunicazione che almeno inizialmente si poneva come recitativo-aurale sia con una “poetica” intesa in prima istanza a registrare piuttosto che ad analizzare e dibattere le forme e gli eventi del mondo. Cicerone gli riconosce fluidità e naturalezza, come un fiume tranquillo che scorre «senza nessun intoppo» (quasi sedatus amnis fluit, Cicerone, Orator 39).

E la vocazione all’excursus, all’inserimento del particolare secondario, alle προσθῆκαι («aggiunte») e alle παρενθῆκαι («inserzioni»), all’ornamentazione arguta del tratto episodico, al gusto per il meta-racconto (cioè il racconto nel racconto), nonché la predisposizione al reimpiego di storie già di per sé appartenenti al dominio della fiction – vere e proprie «novelle», come quella di Candaule e Gige o quella dell’anello di Policrate – tendono a suscitare un flusso verbale scintillante e piacevole, impreziosito da memorie poetiche attinte soprattutto al serbatoio della dizione epica o al suo archivio di convenzioni (per questo nell’antichità Erodoto fu detto Ὁμηρικώτατος, «assai simile a Omero»): per esempio, la superiore bellezza e statura dei condottieri o i duelli intorno al corpo di un caduto, come nello scontro sul cadavere di Leonida (VII 225, 1). Del resto, l’ammirazione per le grandi personalità del passato induceva gli storici antichi a delineare efficaci ritratti dei protagonisti degli eventi narrati, tanto che questa tendenza sarebbe divenuta un τόπος del genere storiografico. Naturalmente il ritratto può anche descrivere non tanto l’aspetto fisico del personaggio, quanto il suo modo di comportarsi e di parlare, così che se ne possa ricavare un quadro morale positivo o negativo, generalmente confermato dalle azioni o dal giudizio dei contemporanei. Le finalità etiche e didascaliche che ne caratterizzano l’opera erodotea hanno indotto l’autore a prediligere il ritratto “morale”.

Jacques-Louis David, Leonida e l’esercito spartano alle Termopili. Olio su tela, 1814.

Né mancano, specialmente nei dialoghi, echi della contemporanea tragedia. Quanto ai discorsi riportati, una delle differenze più notevoli fra storiografia antica e storiografia moderna riguarda l’importanza a essi accordata e il modo di riferirli. Se in un’opera moderna un discorso è un documento di attendibilità indiscussa e dev’essere citato solo con questo carattere e questa funzione, per gli autori antichi, a partire da Erodoto, il λόγος rappresentava, oltre che la premessa teorica dell’ἔργον («azione»), anche un mezzo di straordinaria efficacia per caratterizzare un personaggio proprio attraverso il suo modo di esprimersi, o per trasmettere una riflessione o un ammonimento universali. Oltretutto, il discorso era uno dei modi più diretti per mettere in risalto le abilità retoriche dell’autore.

Tutte queste esigenze facevano sì che i discorsi risultassero sempre adeguati ai personaggi e alle situazioni: ma ciò poteva dipendere tanto dalla loro autenticità quanto dalla capacità dello scrittore di costruirli secondo gli schemi della verisimiglianza (τὸ εἰκός) e in conformità della situazione in cui venivano pronunciati (ὁ καιρός). Erodoto, dunque, ha inserito nelle sue Storie un gran numero di discorsi, alcuni di pura invenzione, altri costruiti proprio seguendo questi schemi, senza preoccuparsi di giustificare in alcun modo le proprie scelte.

D’altronde, nei passi di più meditata scrittura, Erodoto sa realizzare una struttura più rigorosa e compatta, e anche là dove domina l’andamento «coordinato», la semplicità dell’effetto è un’intenzione comunicativa piuttosto che una povertà di mezzi. Le linee del discorso sono infatti quasi sempre controllate da una volontà organizzatrice che sotto l’apparenza di lasciar fluire le frasi con libera naturalezza e con trascolorante varietà (ποικιλία), consce a fondo l’arte di abbandonare e riprendere al momento giusto un motivo, di suggellare una sequenza attraverso la composizione ad anello, di incastrare l’una dentro l’altra digressioni di diversa ampiezza e rilievo.

Teseo e Antiope. Statua, marmo, VI sec. a.C. dal frontone ovest del Tempio di Apollo Eretrio. Calcide, Museo Archeologico.

10. Lo ionico erodoteo

Anche sul versante dialettale lo ionico usato da Erodoto è solo la componente dominante della sua lingua, che non a torto il retore Ermogene di Tarso, vissuto circa tra il 160 e il 225 d.C., nel suo trattato Περὶ ἰδεῶν [Sulle forme stilistiche] (F 12 Rabe), contrappose allo ionico puro di Ecateo. Nel linguaggio erodoteo, infatti, sono presenti sia termini tecnici provenienti da diverse aree dialettali (desunti così da testi scritti come da esperienze di viaggio) sia atticismi almeno in parte ricollegabili al soggiorno ateniese, sia soprattutto epicismi, spesso inseriti per conferire al discorso una patina arcaizzante. Per questo, Ermogene la definì una «lingua contaminata» (διάλεκτος μεμιγμένη).

Va peraltro tenuto presente che tutti questi tratti extra-ionici vanno riconsiderati all’interno del problema della trasmissione del testo, alla quale sono comunque da addebitare quelle forme pseudo-ioniche e iper-ioniche, inserite dai grammatici intenzionati a «restituire» un tenore dialettale di puristica normalità.

Tra i caratteri peculiari del linguaggio di Erodoto si possono individuare il fenomeno della psilosi, cioè la tendenza alla perdita dello spirito aspro e delle aspirazioni: p. es., ἀπικόμενος → ἀφικόμενος («che sta arrivando»); talora mancano di contrazione anche le consonanti: p. es., δέκομαι → δέχομαι («accettare»). In effetti, la contrazione è piuttosto rara: si possono trovare forme come καλεόμενος → καλούμενος («chiamato»), δοκέει → δοκεῖ («sembra»), ἀπαιτέειν → ἀπαιτεῖν («esigere»). Si riscontrano forme di contrazioni diverse dall’att., come ἐμεῦ → ἐμοῦ («mio»), ποιεῦμαι → ποιοῦμαι («essere creato»). Quanto alle vocali, caratteristico è il fenomeno dell’etacismo, ovvero l’impiego di η al posto di α lungo anche quando è puro: αἰτίη → αἰτία («causa»), ἱστορίη → ἱστορία («indagine»); nei sostantivi in -εια, -οια anche α breve subisce etacismo, come in εὐνοίη → εὔνοια («favore»). In certi casi ε sostituisce α: p. es., τέσσερες → τέσσαρες («quattro». Si registrano, altresì, i dittonghi αι → α, ει → ε, ου → ο: così, αἰεί → ἀεί («sempre»), ξεῖνος → ξένος («straniero»), μοῦνος → μόνος («solo»). A proposito delle consonanti, si rileva l’uso di κ per π in pronomi e avverbi, come in κῶς → πῶς («come?»), κότε → πότε («allora»).

Georges Rochegrosse, Gli eroi di Maratona. Olio su tela, 1911.

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Cinisca di Sparta

Cinisca (Κυνίσκα) fu una nobildonna spartana appartenente alla casa reale degli Euripontidi, figlia di re Archidamo II (476-427) e sorella di Agide II (427/6-401) e di Agesilao II (400-360).

Il suo nome, piuttosto insolito, che letteralmente significa “cucciola”, “cagnolina”, ricorda il soprannome Cinisco dell’avo paterno Zeussidamo (Hdt. VI 71).

È significativo che il nome della donna evochi il mondo della caccia, un’attività propria delle classi elevate, che vedevano in essa il perfetto addestramento alla guerra; a tal proposito potrebbe essere indicativo che, stando a una notizia di Aristotele (Hist. an. 608a 25), le femmine di bracco laconico fossero preferite ai maschi per intelligenza e versatilità.

Quello che si sa per certo sul conto di Cinisca, a dire il vero, non è molto: Pausania (III 8, 1) la descrive come una donna «particolarmente ambiziosa» (φιλοτιμότατα), molto probabilmente dotata di un carattere competitivo, e perciò desiderosa di compiere imprese memorabile.

Ragazza spartana in corsa. Statuetta (decorazione di un vaso), bronzo, 550-540 a.C. ca., dal Santuario di Dodona. Museo Archeologico Nazionale di Atene.

Dalla stessa fonte si apprende che Cinisca passò alla storia per essere stata la prima donna a possedere una scuderia tutta sua, ad aver allevato cavalli e ad aver trionfato per ben due volte di seguito alle Olimpiadi, rispettivamente durante la XCVI (intorno al 396) e nel corso della XCVII (intorno al 392). Insomma, per la prima volta una donna si cimentava con successo su un terreno esclusivamente maschile, aprendo la partecipazione alle Olimpiadi ad altre, naturalmente lacedemoni (μάλιστα ταῖς ἐκ Λακεδαίμονος γεγόνασιν), anche se – chiosa il Periegeta – «nessuna di quelle si distinse mai nella vittoria quanto lei» (ὧν [ἡ] ἐπιφανεστέρα ἐς τὰς νίκας ‹οὐδεμία› ἐστὶν αὐτῆς). In ogni caso, non stupisce molto che un simile primato possa essere stato strappato da una spartiata.

Com’è noto, infatti, mentre nelle altre πόλεις dell’Ellade le cittadine di buona famiglia vivevano praticamente segregate in casa, escluse da qualsiasi attività pubblica, eccetto rare occasioni di natura religiosa, a Sparta, invece, fin dalla più tenera età, le donne erano ammesse alla partecipazione della vita della comunità degli ὅμοιοι.

Come ricorda Plutarco (Lyc. 14), il legislatore Licurgo aveva disposto che «le ragazze tenessero in allenamento il proprio corpo con la corsa, la lotta, il lancio del disco e del giavellotto», nella convinzione che grazie all’attività fisica «il frutto del loro ventre, mettendo fin dal principio vigorose radici in corpi vigorosi, si sviluppasse poi nel migliore dei modi: e anche perché loro stesse, giungendo al parto irrobustite, resistessero con successo e senza fatica alle doglie». Per questo motivo, conclude Plutarco, si tramandava che, quando una straniera le chiese come le spartane fossero riuscite a tenere una supremazia sui propri mariti, la regina Gorgò, sposa di Leonida, avrebbe sentenziato: «Perché siamo le uniche a generare veri maschi».

Edgar Degas, Giovani Spartani. London National Gallery.

Potrebbe meravigliare il caso di Cinisca, sapendo che l’esclusione delle donne dai giochi panellenici era del tutto fuori discussione. Ciononostante, approfondendo la questione, da Pausania si apprende che solo le «donne nubili» (παρθένοι) potevano assistere alle competizioni, mentre a quelle sposate l’accesso era assolutamente precluso. Quando la scuderia di Cinisca prese parte alle gare olimpiche per la prima volta, ella doveva avere quasi cinquant’anni (cfr. Moretti, IAG 41, 43, secondo il quale, la principessa lacedemone era nata intorno al 440). A causa del silenzio delle fonti su un eventuale marito e sulla presenza di figli, si è ipotizzato che Cinisca, nonostante l’età avanzata, fosse rimasta nubile per scelta, dato che la sua ostinata passione per l’ippica non le avrebbe lasciato il tempo per dedicarsi alla vita coniugale (cfr. Pomeroy 2002, 21).

Comunque, è molto probabile che Cinisca non abbia assistito personalmente alle gare: secondo l’uso greco, infatti, il proprietario della scuderia ingaggiava un auriga professionista e, in caso di vittoria, il riconoscimento andava all’allevatore dei cavalli, non all’atleta. Un esempio autorevole di ciò è sicuramente la vittoria di Ierone, tiranno di Siracusa, nella corsa dei carri ai giochi delfici del 470, celebrata da Pindaro nella prima Pythica.

Va ricordato che, in seguito alla violazione della tregua sacra (ἐκεχειρία) per avere invaso Firco e Lepreo ed essersi rifiutati di pagare una multa di due mine per ogni soldato invasore, nel 420 gli Spartani erano stati espulsi dagli Elei dai giochi olimpici (Thuc. V 49-50), mentre nel 399-397 un esercito lacedemone marciò sull’Elide per obbligarla a riconoscere l’indipendenza della Trifilia e dell’Arcadia, per punirla dell’alleanza segreta con Atene durante la guerra peloponnesiaca e per ripristinare la partecipazione di Sparta alle successive Olimpiadi (Xen. Hell. III 2, 21-31). Fu allora che Cinisca poté iscrivere la propria scuderia alle gare del τέθριππον.

Pittore Dinos. Pelope rapisce Ippodamia, figlia di Enomao. Pittura vascolare sul lato A di un’anfora attica bi-ansata a figure rosse, c. 420-410 a.C. da Casalta. Arezzo, Museo Archeologico Statale.

Ma perché questo accadde? Secondo Senofonte (Ages. 9, 6), sarebbe stato re Agesilao a convincere sua sorella Cinisca «ad allevare un tiro di cavalli da corsa» (ἁρματοτροφεῖν) allo scopo di dimostrare che ottenere con questo la vittoria fosse segno non di virtù (ἀνδραγαθίας), bensì di ricchezza (πλούτου). Il sovrano, invece, preferiva dotare la propria casa «di opere e suppellettili virili, addestrando cani da caccia e allevando cavalli atti alla guerra» (ἀνδρὸς ἔργοις καὶ κτήμασι… κύνας τε πολλοὺς θηρευτὰς καὶ ἵππους πολεμιστηρίους τρέφοντα), attività che ricordano l’ideale dell’individuo virtuoso di età arcaica (cfr. Solon. F 23 West).

Considerando «ammirevole e magnanimo» l’atteggiamento di Agesilao, suo protettore e benefattore, lo scrittore ateniese sembra mettere in discussione un principio ancora invalso nella sua città, in cui il costoso mantenimento di cavalli da corsa era considerato un’attività degna del massimo riguardo ed eventuali vittorie panelleniche erano celebrate in grande pompa con la concessione di onori particolari al proprietario del cocchio; i trionfi, infatti, davano lustro alla città ancor prima che al suo ricco cittadino.

Nell’altra biografia di Agesilao non meno celebrativa, Plutarco (Ages. 20, 1) ripete quasi parola per parola l’aneddoto senofonteo, ma sostituisce il termine ἀνδραγαθία con il più generico ἀρετή. Il poligrafo di Cheronea aggiunge un particolare che Senofonte evita: alcuni spartiati «si credevano importanti e insuperbivano perché allevavano cavalli da competizione» (ἀπὸ ἱπποτροφίας δοκοῦντας εἶναί τινας καὶ μέγα φρονοῦντας), suscitando il disappunto del re e inducendolo a convincere la sorella a scendere in lizza con la propria scuderia.

I resoconti di Senofonte e Plutarco contrastano apertamente con quello di Pausania (III 8, 1), che sembra attribuire l’iniziativa agonale alla sola Cinisca. In effetti, la chiosa di Senofonte alla ἀνδραγαθία nella competizione con le quadrighe (Xen. Ages. 9, 7, cfr. anche Hier. 11, 5) poggia sull’idea che non esista alcun merito o particolare distinzione personale nel possedere ricchezze e investirle per far fronte alle proprie necessità ma che non hanno nessuna utilità per la patria.

Ora, proprio questa glossa avrebbe offerto il destro per cassare dalla figura di Cinisca ogni capacità di iniziativa, merito e influenza per farne una sorta di “marionetta” nelle mani del fratello, tutto intento a cogliere l’eco del successo di Cinisca per inserirla nella sua propaganda egemonica (cfr. Cartledge 1987, 150; Shipley 1997, 247-248), ossessionato dal dovere di cancellare l’onta che Alcibiade aveva causato alla sua famiglia e ripristinare l’onore della sua casa (cfr. Kyle 2003).

Premi dei giochi panatenaici, istmici, argivi e nemei (IG II² 3145). Rilievo frammentario, marmo, II secolo. New York, Metropolitan Museum of Art.

Secondo questa interpretazione, inoltre, il legittimo trionfo olimpico della donna si mescolerebbe a una serie di scandali per truffa e corruzione che colpirono diversi concorrenti nei giochi agli inizi del IV secolo (Perry 2003).

Se, invece, si attribuisce ogni responsabilità agonale alla stessa Cinisca, sulla scorta del Periegeta, si vedrà come rispetto ad altre celebri concittadine costei abbia saputo sfruttare la propria posizione sociale e la propria ricchezza in modo diverso, usandoli per compiere imprese personali e mettendo in luce proprio le vittorie olimpiche (cfr. Pomeroy 2002, 76, che ha scorto nella principessa euripontide una ribelle rispetto al potere smisurato del fratello). In tal senso, Cinisca incarnava perfettamente gli ideali della nuova Sparta di Agesilao: individualismo e benessere economico.

D’altra parte, la possibilità che una donna lacedemone disponesse di un patrimonio tale da consentirle di mantenere un allevamento equino tutto suo è probabilmente connessa alla revisione della ῥήτρα operata dall’eforo Epitadeo agli inizi del IV secolo: in base alla nuova normativa, un cittadino poteva fare una donazione in vita o predisporre un lascito dopo la morte dei beni di famiglia in favore di qualsiasi spartano (Plut. Agis 5; cfr. Xen. Lac. 15).

La capacità patrimoniale di Cinisca non proveniva certo da una dote né dalla condizione di «unica erede» (πατροῦχος), data la presenza di due fratelli, ma derivava dal nuovo sistema ereditario lacedemone, in base al quale nel novero degli eredi figuravano anche le donne (cfr. McDowell 1986, 99-110; Hodkinson 2000, 65-112). Si potrebbe presumere che, in forza delle recenti disposizioni, i regali fratelli avessero proceduto a una redistribuzione del cospicuo patrimonio paterno, oppure che a Cinisca fosse andata una parte dei beni del fratello Agide dopo la scomparsa di quest’ultimo nel 401.

Cavallo. Testa, frammento di statua, marmo, c. 515 a.C., forse dalla quadriga di un frontone. Madrid, Museo del Prado.

Quel che è certo è che riuscire a mettere un ἅρμα nell’ippodromo di Olimpia era già di per sé una bella dimostrazione di ricchezza e prestigio, e farlo addirittura vincere ingaggiando uno dei migliori aurighi sulla piazza lo era ancor di più. Inoltre, bisognava disporre di vaste proprietà con pascoli adatti agli equini, di stalle attrezzate e di personale specializzato nella cura degli animali (allevatori, addestratori e veterinari) e nella manutenzione dei carri; infine, bisognava avere il denaro necessario per le spese di viaggio.

Insomma, la ἱπποτροφία («allevamento equino») era un’attività dispendiosa e davvero onerosa, ma lo era ancor di più se le finalità per cui era condotta erano la competitività, l’acquisizione e il miglioramento costante di una scuderia, affinché animali e atleti fossero sempre più efficienti. Fin dalle guerre persiane gli Spartiati erano specializzati proprio nell’allevamento equino: in particolare, coloro che possedevano i cavalli messenici erano i più ricchi tra i Greci e naturalmente i re, che avevano vaste proprietà fondiarie, erano i più ricchi di tutti (Paus. VI 2, 1-2; Plat. Alc. I 122d-123a). Sebbene, inoltre, non siano pervenute notizie di vincitori lacedemoni nel τέθριππον olimpico una generazione dopo le guerre persiane, è noto invece che tra il 448 e il 388 le scuderie di Sparta dominavano con successo le competizioni ippiche e ben otto di loro avevano ottenuto fino a dieci vittorie consecutive (cfr. Nafissi 1991, 165-167; Hodkinson 2000, 308-309).

Quanto ai due trionfi di Cinisca, Pausania (VI 1, 6) riferisce che il grande scultore Apellea di Megara realizzò in suo onore un gruppo scultoreo di bronzo, esposto nel santuario di Zeus Olimpio, che rappresentava il cocchio con i cavalli e l’auriga grazie ai quali la principessa aveva vinto. Accanto a questa scultura fu posto un ritratto della donna, sempre di Apellea, sul cui basamento di marmo fu inciso un epigramma di autore incerto e di stile non proprio letterario.

Prospero Piatti, I giochi Erei. Olio su tela, 1901.

Proprio la base fu rinvenuta negli scavi archeologici condotti da una spedizione tedesca a Olimpia alla fine dell’Ottocento ed è stato possibile ricostruire il testo dell’epigrafe grazie a una sua copia confluita nell’Anthologia Palatina (XIII 16):

Σπάρτας μὲν [βασιλῆες ἐμοὶ]

πατέρες καὶ ἀδελφοί, ἅ̣[ρματι δ’ὠκυπόδων ἵππων]

νικῶσα Κυνίσκα εἰκόνα τάνδ’ ἔσ̣τ̣α̣σ̣ε̣. μόν[αν]

δ’ἐμέ φαμι γυναικῶν Ἑλλάδος ἐκ πάσας τό̣[ν]-

δε λαβε͂ν στέφανον.

vacat

Ἀπελλέας Καλλικλέος ἐπόησε.

[I re] di Sparta sono [mio] padre

e i [miei] fratelli; con un [carro di cavalli dai piedi veloci]

io, Cinisca, vittoriosa, ho eretto questa statua:

e dichiaro di essere l’unica donna in tutta la Grecia

ad aver riportato questa corona.

La fece Apellea, figlio di Callicle.

Iscrizione celebrativa di Cinisca di Sparta (IvO 160). Frammento di base di statua, pietra locale, post 396 a.C. Olimpia, Museo degli Antichi Giochi Olimpici.

L’orgogliosa dichiarazione di Cinisca combina, da un lato, l’esaltazione del proprio lignaggio regale e del proprio genere e, dall’altro, però, non si adatta bene con la tradizionale ideologia spartana; in effetti, i Lacedemoni non erano soliti commemorare eventi di questo tipo con tanta pompa, con immagini personali e addirittura con componimenti celebrativi; l’unico precedente che si potrebbe accostare era l’epigramma composto da Simonide per onorare re Pausania, vincitore sui Persiani a Platea nel 479, e inciso su un tripode di bronzo votato a Delfi (Paus. III 8, 2).

Per quanto la φιλοτιμία fosse uno dei valori più antichi perseguiti a Sparta, l’iscrizione di Olimpia dà l’idea dell’importanza che Cinisca attribuì all’impresa compiuta dalla sua scuderia e al primato conquistato, ma offre anche la misura del riconoscimento che ella si aspettava che le tributassero. Sempre Pausania altrove (V 12, 5) registra che, nientemeno che nel pronao del tempio di Zeus Olimpio, la principessa spartana aveva dedicato un’altra opera di Apellea, un gruppo di sette cavallini di bronzo ( ἵπποι… χαλκοῖ), di cui la spedizione archeologica tedesca scoprì il basamento sul quale era inciso: ᾿Απε]λλέας Καλλικλέους [ἐποί]ησε («Lo fece Apellea, figlio di Callicle», Curtius, Adler 1896, n° 634).

Iscrizioni in onore di Cinisca sono state rinvenute anche sul suolo lacedemone: il suo nome compare sul capitello e sull’abaco dorici, che forse sostenevano degli ex voto, dedicati a Elena nel Meneleion (IG V 1, 235). Tra le rovine dello stesso santuario agli inizi del XX secolo gli scavi della British School portarono alla luce delle statuette fittili che rappresentavano delle donne a cavallo e che probabilmente erano connesse a una competizione equestre rituale, al termine della quale la vincitrice faceva offerte al tempio (cfr. Arrigoni 1985, 93 n. 146).

Pittore anonimo, Auriga su carro. Decorazione geometrica a figure nere su ὑδρία di terracotta, c. VII secolo a.C. Herakleion, Museo Archeologico.

Le lettere KYN compaiono incise anche su un frammento marmoreo repertato presso l’Amykleion, santuario di Apollo Giacinzio ad Amicle (IG V 1, 1567), alle cui feste, le Giacinzie, le ragazze spartane sfilavano in processione a bordo di carri addobbati (Athen. IV 17, 139f.; cfr. Arrigoni 1985, 94 n. 149).

Ora, di norma il vincitore del τέθριππον era considerato un vero e proprio eletto, un favorito degli dèi, impregnato di χάρισμα presso il suo popolo; e del prestigio, dell’autorità e dell’influenza che Cinisca riscosse nella sua Sparta testimonia il fatto che, dopo la sua scomparsa (avvenuta in una data imprecisata dopo il 392), seconda solo all’omerica Elena, le fu tributato un culto eroico con tanto di tempio: il suo ἡρῷον fu eretto presso il Platanista, un luogo nel centro di Sparta, dove gli efebi spartani si addestravano alla guerra, e accanto al δρόμος, dove correvano i giovani di entrambi i sessi, non lontano dalla tomba di Alcmane e dal Meneleion (Paus. III 15, 1). Nonostante di lei non si sia conservata alcuna massima laconica, Cinisca nondimeno riuscì con la propria impresa a lasciare un segno indelebile nella memoria collettiva della sua comunità.

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La battaglia di Maratona (490 a.C.)

Nel 490 a.C. prese l’avvio quella che si presentava a tutti gli effetti come una vera e propria spedizione punitiva contro Atene ed Eretria, colpevoli di aver aiutato gli Ioni ribelli (499-493), ma che aveva certamente anche l’obiettivo di estendere il controllo persiano nell’Egeo.

Pittore di Dario. Re Dario I riceve in udienza alcuni dignitari (dettaglio). Pittura vascolare su cratere a volute apulo a figure rosse (detto Vaso di Dario), c. 340-320 a.C. da Taranto. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

I generali Artaferne e Dati, con una flotta di 300 navi, puntarono sulle Cicladi, distrussero Nasso, sacrificarono ad Apollo sull’isola di Delo e sottomisero il resto dell’arcipelago; poi mossero contro l’Eubea, dove presero Caristo e distrussero Eretria, i cui abitanti, asserviti, furono deportati alla corte di Susa.

Dall’Eubea, quindi, i Persiani passarono agevolmente in Attica, sbarcando presso la piana di Maratona con almeno 20.000 uomini. Secondo Erodoto di Alicarnasso (VI 102), sarebbe stato l’esule Ippia a consigliare ai condottieri achemenidi il punto migliore dove poter manovrare un esercito di così grandi dimensioni: egli sperava di riottenere, grazie all’aiuto persiano, la tirannide ateniese.

Milziade, membro del nobile γένος dei Filaidi, eletto stratego nonostante gli avversari politici lo accusassero di aspirare alla tirannide, convinse i concittadini a uscire dalle mura e a farsi incontro agli invasori proprio a Maratona.

Combattimento fra Greci e Persiani. Bassorilievo, marmo, fine V secolo a.C. Dal fregio meridionale del Tempio di Atena Nike.

Intanto, l’araldo Filippide, inviato a chiedere soccorso ai Lacedemoni, si sentì rispondere che sarebbero intervenuti, ma che la spedizione, per motivi religiosi, non sarebbe partita prima del plenilunio (era il nono giorno del mese Carneo, corrispondente all’agosto-settembre); i rinforzi spartani (2000 uomini) giunsero soltanto a battaglia conclusa. A Maratona si unirono alle forze ateniesi, comprendenti circa 10.000 unità, solo 1000 Plateesi, come sempre fedeli alleati di Atene.

La sproporzione delle forze in campo fu motivo di esitazione tra i Greci: fu Milziade a convincere i colleghi del collegio degli strateghi, e soprattutto l’arconte polemarco Callimaco, della necessità di accettare battaglia per avere «una patria libera e una città che fosse la prima della Grecia» (Hdt. VI 109, 6, πατρίς τε ἐλευθέρη καὶ πόλις πρώτη τῶν ἐν τῇ Ἑλλάδι).

Nike di Callimaco, polemarco ateniese, per il successo di Maratona. Statua frammentaria, marmo pario, 480 a.C., dall’Acropoli di Atene. Atene, Museo dell’Acropoli.

Dopo diversi giorni, in attesa, da parte ateniese, dei rinforzi lacedemoni, da parte persiana, dello scoppio in Atene di sedizioni fomentate dai partigiani dei Pisistratidi, Milziade decise di attaccar battaglia: l’esercito greco, forte sulle ali e debole al centro, sfondò ai lati e cedette al centro, aggirando con una manovra a tenaglia l’armata del Grande Re (Hdt. VI 112-114).

[𝟏𝟏𝟐] Ὡς δέ σφι διετέτακτο καὶ τὰ σφάγια ἐγίνετο καλά, ἐνθαῦτα ὡς ἀπείθησαν οἱ Ἀθηναῖοι, δρόμῳ ἵεντο ἐς τοὺς βαρβάρους· ἦσαν δὲ στάδιοι οὐκ ἐλάσσονες τὸ μεταίχμιον αὐτῶν ἢ ὀκτώ. οἱ δὲ Πέρσαι ὁρῶντες δρόμῳ ἐπιόντας παρεσκευάζοντο ὡς δεξόμενοι, μανίην τε τοῖσι Ἀθηναίοισι ἐπέφερον καὶ πάγχυ ὀλεθρίην, ὁρῶντες αὐτοὺς ἐόντας ὀλίγους, καὶ τούτους δρόμῳ ἐπειγομένους οὔτε ἵππου ὑπαρχούσης σφι οὔτε τοξευμάτων. ταῦτα μέν νυν οἱ βάρβαροι κατείκαζον· Ἀθηναῖοι δὲ ἐπείτε ἀθρόοι προσέμειξαν τοῖσι βαρβάροισι, ἐμάχοντο ἀξίως λόγου. πρῶτοι μὲν γὰρ Ἑλλήνων πάντων τῶν ἡμεῖς ἴδμεν δρόμῳ ἐς πολεμίους ἐχρήσαντο, πρῶτοι δὲ ἀνέσχοντο ἐσθῆτά τε Μηδικὴν ὁρῶντες καὶ [τοὺς] ἄνδρας ταύτην ἐσθημένους· τέως δὲ ἦν τοῖσι Ἕλλησι καὶ τὸ οὔνομα τὸ Μήδων φόβος ἀκοῦσαι.

[𝟏𝟏𝟑] Μαχομένων δὲ ἐν τῷ Μαραθῶνι χρόνος ἐγίνετο πολλός. καὶ τὸ μὲν μέσον τοῦ στρατοπέδου ἐνίκων οἱ βάρβαροι, τῇ Πέρσαι τε αὐτοὶ καὶ Σάκαι ἐτετάχατο· κατὰ τοῦτο μὲν δὴ ἐνίκων οἱ βάρβαροι καὶ ῥήξαντες ἐδίωκον ἐς τὴν μεσόγαιαν, τὸ δὲ κέρας ἑκάτερον ἐνίκων Ἀθηναῖοί τε καὶ Πλαταιέες. νικῶντες δὲ τὸ μὲν τετραμμένον τῶν βαρβάρων φεύγειν ἔων, τοῖσι δὲ τὸ μέσον ῥήξασι αὐτῶν συναγαγόντες τὰ κέρεα ἀμφότερα ἐμάχοντο, καὶ ἐνίκων Ἀθηναῖοι. φεύγουσι δὲ τοῖσι Πέρσῃσι εἵποντο κόπτοντες, ἐς ὃ ἐπὶ τὴν θάλασσαν ἀπικόμενοι πῦρ τε αἴτεον καὶ ἐπελαμβάνοντο τῶν νεῶν. [𝟏𝟏𝟒] Καὶ τοῦτο μὲν ἐν τούτῳ τῷ πόνῳ ὁ πολέμαρχος Καλλίμαχος διαφθείρεται, ἀνὴρ γενόμενος ἀγαθός, ἀπὸ δ’ ἔθανε τῶν στρατηγῶν Στησίλεως ὁ Θρασύλεω· τοῦτο δὲ Κυνέγειρος ὁ Εὐφορίωνος ἐνθαῦτα ἐπιλαμβανόμενος τῶν ἀφλάστων νεός, τὴν χεῖρα ἀποκοπεὶς πελέκεϊ πίπτει, τοῦτο δὲ ἄλλοι Ἀθηναίων πολλοί τε καὶ ὀνομαστοί.

Pittore anonimo. Combattimento tra un oplita greco e tre arcieri persiani. Pittura vascolare su λήκυθος attica a figure nere, c. 490-480 a.C. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

[𝟏𝟏𝟐] Come si furono schierati e i sacrifici risultarono favorevoli, allora gli Ateniesi, appena ricevettero il segnale, si lanciarono di corsa contro i barbari: lo spazio tra di loro non era inferiore a otto stadi. I Persiani, vedendoli arrivare di corsa contro di loro, si prepararono ad accoglierli e tacciavano gli Ateniesi di una follia del tutto rovinosa vedendo che erano in inferiorità numerica e che per di più avanzavano di corsa privi di cavalleria e di arcieri. Proprio questo pensavano i barbari; ma gli Ateniesi, come si scontrarono con loro a ranghi serrati, combatterono in modo memorabile. Primi infatti tra tutti i Greci, quelli che conosciamo, andarono contro i nemici di corsa, per primi sostennero la vista dell’abbigliamento medo e degli uomini che lo indossavano, benché fino ad allora per i Greci fosse motivo di paura anche il solo sentire il nome dei Medi. [𝟏𝟏𝟑] Il combattimento a Maratona durò a lungo. Al centro dello schieramento prevalevano i barbari, là dove erano schierati i Persiani stessi e i Saci. In questo settore i barbari stavano vincendo e, rotte le fila, incalzavano verso l’interno; su entrambe le ali, invece, vincevano gli Ateniesi e i Plateesi. Vincendo lasciavano scappare la parte dei barbari che era stata volta in fuga, ma, riunendo le ali in un solo corpo, assalirono coloro che avevano sfondato il centro e gli Ateniesi furono vincitori. Inseguirono abbattendoli i Persiani in rotta, finché, giunti al mare, ricorsero al fuoco e si gettarono sulle navi. [𝟏𝟏𝟒] In questo scontro cadde il polemarco, che si era dimostrato uomo valoroso, e morì uno degli strateghi, Stesileo figlio di Trasileo; qui cadde anche Cinegiro, figlio di Euforione, colpito da un colpo d’ascia alla mano mentre si aggrappava agli aplustri di una nave; e persero la vita anche molti altri Ateniesi famosi.

Secondo la tradizione, le perdite ammontarono, per i Persiani, a 6400 uomini, mentre fra i Greci si contarono 192 caduti, seppelliti nel cosiddetto tumulo di Maratona.

Schema ricostruttivo e proiezione ortogonale del Tumulo dei Maratonomachi, con corredo [Δελτίον Ἀρχαιολογικόν, 1885-1892].

Dati imbarcò i superstiti sulla flotta e doppiò il Capo Sunio, con l’intento di sbarcare al Falero e di attaccare direttamente Atene, cogliendo la città sguarnita. L’ammiraglio persiano contava forse su appoggi interni, cui allude lo stesso Erodoto (VI 115; 124), parlando di un presunto segnale che gli sarebbe stato dato con uno scudo, secondo alcuni da parte degli Alcmeonidi.

La manovra fu però impedita dalla rapidità con cui Milziade rientrò con i suoi uomini da Maratona, lasciandovi il collega Aristide; evidentemente, la sconfitta sul campo era stata per i Persiani meno disastrosa di quanto la propaganda attica non lasci intendere.

Elmetto di tipo corinzio, con iscrizione (Μιλτιάδης ἀνέ[θ]ηκεν [τ]ῷ Δι[ΐ], «Milziade offre [questo] a Zeus»), c. V secolo a.C. Olimpia, Museo Archeologico.

La spedizione, in realtà, va considerata come un insuccesso parziale: Atene aveva certo resistito, ma Eretria era stata punita, Nasso e le Cicladi erano state sottomesse e conquistate, e il controllo achemenide sull’Egeo si era notevolmente esteso.

Scena di combattimento tra Ateniesi e Persiani. Illustrazione di P. Dennis.

Dal punto di vista greco, invece, la vittoria di Maratona fu sentita come un evento di eccezionale importanza, perché l’appassionata volontà di difendere la propria ἐλευθερία aveva potuto superare la sproporzione delle forze in campo; essa fu celebrata con dediche di grande rilievo, sia sull’Acropoli di Atene che a Delfi, in sede panellenica, e fu poi ricordata dalla tradizione come uno dei grandi meriti di Atene verso la Grecia, fondamento e giustificazione delle sue aspirazioni egemoniche.

La generazione dei “Maratonomachi”, i combattenti di Maratona, avrebbe costituito per le generazioni a venire un modello politico e un punto di riferimento etico, insistentemente rievocato nella poesia, nella storiografia e nell’oratoria.

Luc-Olivier Merson, Fidippide, o il soldato di Maratona. Olio su tela, 1869. Collezione privata.

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