La saga più potente del mondo

di P. Boitani, La saga più potente del mondo, in «Sole24Ore», 20 gennaio 2019.

Amore e guerra | Giulio Guidorizzi racconta la caduta di Troia in maniera seducente: l’idillio, la contesa, la forza, ma anche il mondo antico visto con gli occhi della modernità. Matteo Nucci indaga invece il paradigma dell’eros.

Pittore anonimo. Achille con corazza e lancia (dettaglio). Pittura vascolare da un’anfora panatenaica a figure rosse, metà V sec. a.C. Roma, Musei Vaticani.

C’era una volta La storia delle storie del mondo, un libro di Laura Cantoni Orvieto pubblicato nel 1911 e ristampato infinite volte (è ancora disponibile): raccontava ai bambini la storia di Troia e della sua guerra, da Ilo a Laomedonte al Cavallo di legno e alla fuga di Enea dalla città. Era breve, comprensibile, affascinante. Fu seguito da due volumi dedicati a Roma. L’autrice, di famiglia ebrea, si salvò, nei mesi cruciali tra novembre 1943 e ottobre 1944, trovando rifugio con il marito nella casa di riposo con il marito nella casa di riposo del Convento Cappuccino di San Carlo a Borgo San Lorenzo, Firenze. Quando ancora non sapevo leggere, ascoltavo incantato la mia nonna materna, o sua figlia, darmene lettura ad alta voce. Fu il mio primo incontro con Omero, e naturalmente non potrò mai dimenticarlo – come Giulio Guidorizzi non può dimenticare il suo, accaduto da ragazzo durante le Feste di Natale passate, anche lui rigorosamente nella casa dei nonni, a leggere l’Iliade nella traduzione di Monti, «la più bella e la più infedele delle traduzioni del poema».

La Storia delle storie del mondo mi è tornata alla mente leggendo la prima parte del Grande racconto della guerra di Troia, trecento pagine in cui il grecista racconta – a ragazzi un po’ più grandi – le vicende di quella sfortunata città e la sua fine: con abilità davvero notevole, mescolando citazioni dell’Iliade a vorticosi riassunti degli accadimenti collaterali, in tutti i particolari atti a rievocare una saga potente: la storia dell’amore, della seduzione, della contesa, poi dell’astuzia, in cui alla forza si alternano – secondo l’intuizione di Rachel Bespaloff (Adelphi ha appena pubblicato una nuova edizione del suo Sull’Iliade) – le pause dell’essere e del bello. Assicuro che la presa della narrazione, sino all’Appendice con la storia di Heinrich Schliemann, è assoluta: sebbene conosca la storia della Guerra di Troia appunto fin da quando ero bambino, non sono riuscito a staccarmi da questo Grande racconto sinché non ho terminato la prima parte: perché Guidorizzi, che conosce l’arte dell’aedo, vi suggerisce motivi che poi riprende nella più dotta seconda, perché li circonda di centinaia d’immagini affascinanti, dalle anfore greche ai mosaici e ai bassorilievi romani, dalle pitture del Medioevo e del Rinascimento sino a Poussin, Tiepolo, Canova, Moreau, Klimt (e sia lode all’editore per aver prodotto e disposto questo beau livre); perché, infine, traduce i brani dell’Iliade in maniera ispirata (sta traducendo tutto il poema per la Fondazione Valla).

Gustave Moreau, Elena alle porte Scee. Olio su tela, 1880. Paris, Musée G. Moreau.

Ecco Poseidone che, dalle vette di Samotracia, guarda le cime dell’Ida, la rocca di Priamo e le navi dei Greci, e all’improvviso discende dal picco «balzando con passi veloci: le cime dei monti e la selva / tremavano sotto i piedi immortali di Poseidone che andava». In soli tre passi raggiunge la meta, la «splendida reggia, d’oro, lucente, incrollabile» che ha nel profondo del mare. Aggioga i cavalli «veloci come il soffio dei venti, chiomati di aurea criniera» e, indossando una veste d’oro, monta sul carro, lo spinge sopra le onde mentre il mare si apre di gioia e i mostri marini saltano da tutte le grotte: «L’asse di bronzo non sfiorava le acque» – un brano che ispirerà l’autore del Sublime. Oppure l’addio doloroso di Ettore e Andromaca, la scena in cui si concentrano tutte le «lacrime delle cose» dell’Iliade.

Pittore anonimo. Commiato di Ettore da Andromaca e dal figlio. Pittura vascolare a figure rosse su cratere apulo a colonnette, 370-360 a.C. ca. Museo Archeologico Nazionale di P.zzo Jatta, Ruvo di Puglia (Bari).

Dopo il racconto, l’interpretazione antropologica: le tombe sacre, onore e vergogna, il dono, la magia, tutte le categorie moderne per comprendere il mondo di tremila anni fa, come ha fatto Lowell Edmunds nel suo ricco, dotto e brillante Stealing Helen. The Myth of the Abducted Wife in Comparative Perspective (Princeton UP, 2016). Se si vuole capire che cosa significhi il destino per i greci di Omero, non c’è niente di meglio che leggere le poche, efficacissime pagine del Grande racconto che si aprono con la bilancia d’oro sulla quale Zeus colloca il fato di Ettore e di Achille quando inizia il duello: «Immagine grandiosa», scrive Guidorizzi, nella quale si coagulano il divenire della guerra e l’esistere di due esseri umani nell’attimo che decide tutto.

Pittore Macron, Achille tiene in ostaggio il corpo di Ettore. Pittura vascolare sul tondo di una kylix attica a figure rosse, 490-480 a.C. ca. Paris, Musée du Louvre.

Anche il libro di Nucci tocca a più riprese Elena e il rapimento, il vero Principio di tutto: Eros è del resto, nella Teogonia di Esiodo (uscito da poco per la cura perfetta di Gabriella Ricciardelli negli «Scrittori greci e latini» della Valla) uno dei primi immortali, insieme a Caos, Terra e Tartaro: il più bello, colui «che scioglie le membra, e che di tutti gli dèi e degli uomini tutti / doma nel petto la mente e la saggia volontà». Ma L’abisso di Eros si apre in maniera obliqua e spettacolare con il famoso discorso di Pericle agli Ateniesi all’inizio di un’altra guerra, quella del Peloponneso narrata da Tucidide. Perché voci diffuse ad Atene e raccolte da diversi autori antichi insinuano che a comporre quel discorso sia stata Aspasia, l’amante di Pericle, l’Elena e la cagna di Atene: colei che ha irretito nell’amore il grande politico e l’ha spinto a divenire seduttore di folle con le sue orazioni.

Pittore di Ascoli Satriano. Eros. Pittura vascolare su un piatto apulo a figure rosse, 350 a.C. ca. Baltimore, Walters Art Museum.

Da questo istante iniziale in poi, L’abisso di Eros procede in modo travolgente, con passaggi mozzafiato: nelle sole pagine introduttive, verso Sparta e Therapne, il «santuario dell’amore infinito», il palazzo dove Menelao e Elena ricevono Telemaco, il figlio di Ulisse, e Pisistrato, il figlio di Nestore, nell’Odissea – una dimora dove splende «un chiarore come di sole o di luna» e brilla «il lampo del bronzo nell’echeggiante palazzo, e dell’oro ed elettro ed argento ed avorio»; poi oltre sino a Erodoto e alla sua storia della bambina bruttissima trasformata in fanciulla bellissima dal tocco di Elena. «Cosa accadde fra Elena e Menelao perché proprio questa celebre coppia potesse diventare il paradigma dell’amore infinito?», si domanda Nucci subito dopo. È una domanda complicata, che richiede di tornare indietro fino al principio: «Prendere la strada più lunga della filosofia. Quella strada platonica che non ci consente scorciatoie e non ci permette di separare le strade del pensiero da quelle su cui ci portano le nostre gambe. La strada più lunga di chi ama il sapere e perciò non smette di risalire verso le origini».

Pittore Eutimide. Elena rapita da Teseo (particolare). Anfora attica a figure rosse, V sec. a.C. ca., da Vulci. Berlin, Staatliche Antikensammlung.

Così, costruito come un coinvolgente romanzo con scene in rapidissima sequenza, L’abisso di Eros attraversa tutta la civiltà greca classica (e la nostra) dalla contesa poetica di Omero ed Esiodo – con sezioni capitali sulla nascita della filosofia e l’Encomio di Elena di Gorgia, sui Bronzi di Riace, su Saffo, Socrate, e il canto di Demodoco su Ares e Afrodite nell’Odissea – sino a Raduan Nassar e al suo Un bicchiere di rabbia, e di nuovo, in circolo perfetto, a Elena e Menelao. A Elena che abbandona il marito per la «passione afrodisiaca» che Paride desta in lei e alla quale ritorna dopo il duello tra i due contendenti sotto Troia. A suggello del libro, Nucci colloca però Platone ed Esiodo: l’uno con il Simposio, i discorsi di Aristofane e di Diotima, l’altro con il mito di Pandora nella Teogonia e nelle Opere e i giorni. Il primo per indicare che l’amore non è fusione afrodisiaca, ma «ricerca, tensione, aspirazione continua», «desiderio di superarci, di andare avanti»; il secondo per «rivalutare la disperazione», per accettare il pòlemos – il conflitto – al centro del mondo e della nostra anima. Come nel suo precedente Le lacrime degli eroi, Nucci spalanca l’abisso, e strega: eros non è cosa da poco. L’amore, scrive Platone nel Simposio, «è tendenza al possesso perpetuo del bene» e desiderio dell’immortalità.

Fuggiaschi e reietti, cioè Romani

di L. Capponi, Fuggiaschi e reietti, cioè Romani, in «La Lettura – Corriere della Sera» n°374, 29 gennaio 2019, 45.

 

Alessandro Borghi (Remo) in una scena del film.

 

Una docente universitaria di Storia antica ha visto il film «Il primo re» sulla leggenda di Romolo. Attori convincenti, ispirazione poetica, un profondo senso del sacro

La leggenda di Roma è uno dei miti di fondazione più complessi del mondo, una stratificazione di storie, leggende e presunti avvenimenti. Alla fine del II millennio il Lazio e i colli erano già abitati da trenta popoli latini, insediati in villaggi e facenti capo ad Alba Longa. Il sito che sarà di Roma era incentrato su un guado del Tevere poco più a valle dell’Isola Tiberina, ai piedi dell’Aventino. Di qui passava la strada del sale (via Salaria), elemento essenziale dell’alimentazione e della conservazione dei cibi, conteso fra i popoli italici. In quest’area già un secolo prima di Romolo c’era il centro proto-urbano Septimontium, cioè «cime divise», articolato in clan di tipo tribale, le gentes, le cui terre erano coltivate dai loro servi o clientes. Erano i Latini, i cui patres più eminenti si riunivano in assemblea, pur in assenza di un centro urbano unitario.

Secondo il folklore locale, i capi primordiali del Palatino erano re discendenti da Marte: Pico (il picchio), Fauno (il lupo) e Latino, associato a una scrofa madre di trenta maialini, cioè i trenta popoli del Lazio. La mitica dinastia dei Silvi («silvani») si conclude con i fratelli Amulio e Numitore. La figlia di Numitore, vergine sacerdotessa posta a custodire il focolare di Vesta ad Alba, è ingravidata dal dio Marte; nascono così due gemelli, di cui il maggiore è Romo o Remo, il secondo Romolo. Entrambi i nomi derivano da Rumon, nome etrusco del Tevere.

Come spesso accade nei miti indoeuropei, una colpa provoca l’espulsione dalla comunità e la migrazione in un luogo nuovo sotto la guida di un nume tutelare. «Rea» Silvia è sepolta viva e i gemelli sono gettati nel Tevere in piena, ma quando le acque si ritirano la cesta contenente gli infanti si arena ai piedi del Palatino sotto un albero di fico. Allattati da una lupa nella grotta del Lupercale, sono raccolti dal porcaro Faustolo e dalla moglie Acca Larenzia, che li allevano nella loro capanna. Questi miti locali, prodotti da un mondo di contadini e pastori, sono poi offuscati dall’inserimento del racconto delle imprese epiche di stampo omerico degli eroi troiani Enea e Ascanio (o Iulo, antenato della famiglia Giulia), introdotti nel VI secolo a.C. per nobilitare un passato mitico visto come troppo primitivo.

Remo e Romolo, appresa la verità sulle loro origini, ottengono il permesso di fondare una città al guado del Tevere, nel luogo dove erano stati allevati dalla lupa. Sondano il favore di Giove osservando il volo degli uccelli, ma ne nasce una rissa in cui Remo rimane ucciso. Romolo, rimasto unico re, dichiara guerra al Septimontium, scagliando una lancia di corniolo verso il versante sud del Palatino; la lancia prodigiosamente si conficca proprio davanti alla capanna di Acca Larenzia e Faustolo e si trasforma inalbero verdeggiante, segno indubitabile dell’assenso divino. La data della fondazione di Roma, 21 aprile, era già un capodanno pastorale, cioè la festa dei Parilia (da parere, partorire) dove si svolgeva la purificazione degli uomini e degli ovini, saltando su due fuochi, per propiziare i parti delle capre. Sul Palatino si svolgono altre osservazioni di uccelli che consacrano il colle quadrangolare come prima «Roma quadrata». Seconda impresa di Romolo è la creazione di un tempio di Vesta appena fuori dalle mura del Palatino, sulle pendici che poi diventeranno il Foro.

A Romolo, dunque, sarebbe da ascrivere la fondazione non solo della città, ma anche dello Stato e della dimensione politica e religiosa. Il re non è un monarca assoluto in questo stadio, ma un capo eletto dai capi tribù come intermediario con gli dei. Romolo conquista anche gli altri colli e autorizza molti popoli a stabilirsi a Roma. Secondo la leggenda, apre un tempio al «dio Asilo» che accoglie poveri, criminali, debitori, schiavi fuggitivi, e li integra nel corpo cittadino, assistito da Tito Tazio, capo dei Sabini che non era riuscito ad assoggettare. Fu un’unificazione innovativa, e per questo molto osteggiata e molto cruenta.

Il film Il primo re potrebbe essere accusato di discostarsi dalla tradizione leggendaria (comunque quasi tutta inventata), mentre cerca di rimanere fedele all’archeologia, ricostruita meticolosamente. Il regista Matteo Rovere sceglie di mettere in luce un aspetto fondamentale, peraltro documentato storicamente, e riconosciuto dagli stessi Romani, in primo luogo dall’imperatore Claudio, studioso lui stesso di storia antica: Roma sorge da un agglomerato di clan in cui confluiscono stranieri, esuli, fuggiaschi e guerrieri che da soli non sarebbero riusciti a sopravvivere. Essi sono guidati da divinità immanenti ed eterne come le forze della natura che li circonda: il fiume, il fuoco, gli animali della foresta, il volo degli uccelli carico di presagi.

Girare un film sulla fondazione di Roma era un’operazione senz’altro rischiosa. Poteva risvegliare forme di rigetto per il già sentito, lo scolastico, o verso inutili celebrazioni degli antichi fasti. Al contrario, i caratteri sono tridimensionali e umani. Il combattuto Remo, il riflessivo Romolo e la carismatica Vestale suscitano domande (tutte moderne) su che cosa sia il «sacro», allora e oggi. Gli attori, fotografati con eccelsa maestria, convincono e incantano, pure nei combattimenti. La lingua proto-latina, usata con misura e naturalezza, è la vera colonna sonora del film, poetica e commovente, perché ci trasporta in una dimensione lontanissima, quasi arcana, in cui riconosciamo istintivamente una parte di noi. È vero, gli antichi popoli del Lazio a volte assomigliano ad aborigeni australiani con i loro animali-totem; ma è una scelta precisa, che decostruisce un mito ingombrante, senza mai umiliarlo. Al centro della scena rimane la svolta dura e geniale che avvenne a Roma, se non proprio nel 753 a.C., in quel periodo: la trasformazione di bellicose tribù di uomini-lupo in una comunità nuova, retta da norme sociali, politiche e religiose, che travalicavano antichi individualismi per aspirare a qualcosa di più grande.

17 marzo 180: muore M. Aurelio Antonino

di Giulio Capitolino, Vita M. Antonini philosophi, in SHA IV, 28. Trad. it. a cura di P. Soverini, Scrittori della Storia Augusta, v. I, Torino, UTET, 1960, pp. 276-279.

[28, 1] Mors autem talis fuit: cum aegrotare coepisset, filium aduocauit atque ab eo primum petit, ut belli reliquias non contempneret, ne uideretur rem p. prodere. [2] Et, cum filius ei respondisset cupere se primum sanitatem, ut uellet, permisit, petens tamen, ut expectasset paucos dies, haut simul proficisceretur. [3] Deinde abstinuit uictu potuque mori cupiens auxitque morbum. [4] Sexta die uocatis amicis et ridens res humanas, mortem autem contempnens ad amicos dixit : «Quid de me fletis et non magis de pestilentia et communi morte cogitatis ?». [5] Et cum illi uellent recedere, ingemescens ait : «Si iam me dimittitis, uale uobis dico uos praecedens». [6] Et cum ab eo quaereretur, cui filium commendaret, ille respondit : «Vobis, si dignus fuerit, et dis inmortalibus». [7] Exercitus cognita mala ualetudine uehementissime dolebant, quia illum unice amarunt. [8] Septimo die grauatus est et solum filium admisit, quem statim dimisit, ne in eum morbus transiret. [9] Dimisso filio caput operuit quasi uolens dormire, sed nocte animam efflauit. [10] Fertur filum mori uoluisse, cum eum talem uideret futurum, qualis exstitit post eius mortem, ne, ut ipse dicebat, similis Neroni, Caligulae et Domitiano esset.

M. Aurelio Antonino. Busto, marmo, 161-180 d.C. ca. Roma, Museo di P.zzo Nuovo.

[28, 1] La sua morte avvenne così: quando cominciò a sentirsi male, fece chiamare il figlio e in primo luogo gli chiese di non trascurare il compimento delle ultime operazioni di guerra, perché non avesse ad apparire un traditore dello Stato. [2] E, avendogli il figlio risposto che più di ogni altra cosa gli stava a cuore la propria salute, non si oppose alla sua volontà, pregandolo, tuttavia, di attendere pochi giorni, e non partirsene seduta stante. [3] Poi si astenne dal mangiare e dal bere, bramoso ormai di morire, accrescendo così la forza del male. [4] Il sesto giorno radunò gli amici e, deridendo le cose umane e manifestando il suo disprezzo per la morte, disse loro: «Perché piangete per me e non pensate piuttosto alla pestilenza e al destino di morte che ci accomuna?». [5] E poiché quelli cercavano di scostarsi, esclamò gemendo: «Visto che già volete congedarvi da me, io vi precedo e vi dico addio». [6] E quando gli fu chiesto a chi affidasse suo figlio, rispose: «A voi, se ne sarà degno, e agli dèi immortali!». [7] I soldati, venuti a conoscenza del suo grave stato di salute, ne erano profondamente addolorati, poiché gli erano straordinariamente affezionati. [8] Il settimo giorno si aggravò, e ammise alla sua presenza solo il figlio, che del resto subito congedò, perché non avesse a subire il contagio. [9] Congedato il figlio, si coprì il capo come se volesse dormire, e durante la notte spirò. [10] Si dice che egli si augurasse che il figlio morisse, vedendolo in procinto di diventare quello che in effetti si rivelò dopo la sua morte, onde non avesse a divenire – come lui stesso diceva – un nuovo Nerone, Caligola o Domiziano.

Le idee etniche dell’antichità classica

di F. Bethencourt, Razzismi. Dalle crociate al XX secolo, trad. it. di P. Palminiello, Bologna, Il Mulino, 2013, Parte prima – Le crociate, capitolo primo – La percezione dell’altro: dai greci ai musulmani, pp. 33-36.

 

Gli uomini di lettere greci e romani ritenevano che le caratteristiche fisiche e mentali degli esser umani fossero plasmate da fattori esterni, una concezione – o teoria – dell’ambiente che ha inciso in modo cruciale sulle rappresentazioni e classificazioni dei popoli. Si supponeva che la struttura del corpo, la forza o la debolezza fisica, la durezza o docilità di carattere, l’intelligenza viva o tarda, e l’indipendenza di pensiero o viceversa la propensione alla subordinazione fossero tutte determinate, in genere, dal clima e dalla collocazione geografica, e pertanto che le differenze tra i vari popoli riflettessero le condizioni dei territori in cui ciascuno di essi aveva avuto origine. A consentire ai greci e ai romani di attribuirsi le virtù necessarie alla realizzazione dei loro progetti imperiali fu infatti la valutazione positiva della posizione geografica rispettivamente della Grecia e di Roma – una zona temperata, tra il freddo nord e il caldo sud, e collocata, per quel che concerne la Grecia, tra Oriente e Occidente (e, cosa ancora più importante, lontano dall’«arroganza», dalla «corruzione» e dal «servilismo» dell’Asia). Attenuava in parte la rigidezza di questa prospettiva il riconoscimento dei contrasti fra le popolazioni della montagna (considerate rozze e asociali) e quelle delle pianure (civili e raffinate), un riconoscimento che faceva spazio se non altro alla realtà dei conflitti di comportamento tra vicini. E non vanno dimenticati, tra gli elementi in parte non congruenti con la teoria di base, gli atteggiamenti tanto dei greci quanto dei romani nei confronti di alcuni modi di vivere diversi dal proprio – quello dei nomadi, per esempio – e di certe forme di governo, in particolare del dispotismo tipico dell’Oriente, del quale si diceva favorisse la dipendenza e la debolezza[1].

 

Pittore Oltos. Rappresentazione di un arciere scita. Pittura vascolare dal tondo di una kylix bilingue attica a figure nere, 530-520 a.C. ca. Paris, Musée du Louvre.

 

Questa teoria ambientalista si combinava talvolta con la tesi dell’ereditarietà delle caratteristiche acquisite dagli esseri umani. Le nozioni di lignaggio e autoctonia sviluppate dagli ateniesi, persuasi di avere sempre occupato lo stesso territorio e di poter vantare una stirpe pura, plasmarono l’atteggiamento dei greci e dei romani nei confronti degli altri popoli[2]. L’idea di discendenza divenne cruciale in due modi: in primo luogo, in quanto legame tra il sangue e il territorio, il quale autorizzò ad attribuire ai vari popoli (gentes) un’identità essenziale a partire dal loro aspetto, dalla lingua e dai costumi; in secondo luogo, in quanto garanzia della riproduzione all’interno di ciascun popolo delle caratteristiche determinate in origine dal suo ambiente di nascita. Dunque, i discendenti, per esempio, dei siriani avrebbero portato su di sé le più importanti caratteristiche mentali e fisiche dei loro antenati anche se nati altrove. I pregiudizi dei romani nei confronti della maggioranza dei popoli orientali, giudicati schiavi naturali, ricadevano tanto su questi popoli considerati nei loro ambienti, quanto sui migranti stabilitisi in altre province o al centro dell’impero, ossia a Roma. Più in generale, supporre che ambiente ed eredità fossero connessi e che, allo stesso modo, lo fossero anche le caratteristiche esteriori e quelle interiori implicava la negazione di qualsiasi differenza da individuo a individuo o da generazione a generazione. Il cambiamento poteva essere, in sostanza, soltanto collettivo e di fatto in direzione di un peggioramento: l’idea di discendenza esplicitata dal vanto ateniese di purezza di lignaggio tradiva una valutazione negativa degli individui di origine mista. Si supponeva che le unioni di individui di diversa discendenza generassero esseri umani inferiori, che indebolissero le qualità positive originarie. Per le stesse ragioni, un cambiamento dell’ambiente non avrebbe potuto che portare a una degenerazione degli esseri umani coinvolti e dei loro discendenti.

Cavaliere barbaro disarcionato. Statuetta, bronzo, III sec. d.C.

L’applicazione di questi criteri era tuttavia piuttosto approssimativa e contraddittoria. È possibile imbattersi, per esempio, in lodi dei coraggiosi guerrieri germanici, gallici o ispanici; non essendo mai stati sconfitti, e conservando dunque intatte le loro qualità guerresche, i germani erano considerati in effetti una minaccia. Eppure, si supponeva anche che odiassero la pace e l’impegno nel lavoro, mentre i galli erano presentati come forti bevitori e persone volubili e insubordinate, benché anche buoni oratori. La nozione di schiavitù naturale era utilizzata in riferimento a diversi popoli del Medio Oriente, ma non ai persiani, che non erano mai stati conquistati dai romani, e neppure agli ebrei, considerati un caso a parte per le continue ribellioni. L’antica civiltà egizia era rispettata, ma i suoi abitanti erano ritenuti malvagi e strani a causa della loro religione zoomorfica. L’ingegno attribuito ai fenici e ai cartaginesi era tanto grande quanto la loro supposta inaffidabilità, mentre i siriani erano presentati come effemminati, depravati e superstiziosi. Le accuse di fare ricorso alla pratica del sacrificio e all’antropofagia erano utilizzate per condannare, tra gli altri, i druidi, mentre i pregiudizi nei confronti degli ebrei avevano al centro le idee di comportamento antisociale e di religione elitaria. L’accusa di usura, la principale attività antisociale attribuita agli ebrei nel Medioevo, non compare nelle fonti greche e romane; a quanto sembra è un’invenzione del XII secolo.

 

Servo africano che porta fiasche d’olio. Mosaico, ante 79 d.C. Pompei, Casa del Menandro.

 

Che il pregiudizio cambi oggetto di frequente lo dimostra lo stesso lascito di greci e romani. I giudizi dei greci sui popoli orientali hanno finito infatti con il ricadere su loro stessi: i romani li consideravano colti e ingegnosi, ma anche arroganti, effeminati, corrotti, incostanti e poco seri. Per esprimere le loro idee preconcette nei confronti di esseri umani (e popoli), i romani si servivano, inoltre, spesso del confronto con animali. Uno dei pregiudizi sui neri africani incentrato sul colore si è il seguente: li si considerava bruciati dal sole – dall’etimologia greca del termine ‘etiope’ –, un effetto indesiderabile dalle avverse condizioni climatiche del sud estremo. Tuttavia, ciò che occorre qui sottolineare è che nel mondo greco e romana il pregiudizio era già legato alle nozioni di lignaggio e di discendenza[3]. In ogni caso, nulla dimostra che i popoli considerati etnicamente diversi fossero vittime di discriminazioni sistematiche; al contrario, la politica di concessione della cittadinanza seguita dai romani fu relativamente generosa.

 

Prigioniero gallico. Statuetta, bronzo, fine I sec. a.C., da Arles.

 

Il problema è semmai capire come questi pregiudizi mutevoli e instabili nei confronti di altri popoli, costruiti da greci e romani in risposta, in parte, ai bisogni posti loro dalle rispettive storie di espansione, abbiano risentito del processo di cristianizzazione e del declino e poi del crollo dell’Impero romano in Europa occidentale. Una cosa comunque è chiara: il concetto di conversione universale introdotto dalla prima chiesa cristiana avrebbe compromesso significativamente la precedente identificazione dei popoli con il loro territorio e la loro religione. Per quanto li si considerasse una setta del popolo ebraico, fu uno svantaggio per i primi cristiani che li si vedesse privi di legami con la tradizione e di radici storiche. Tuttavia, dopo tre secoli di repressioni e resistenze, la novità pagò. Il riconoscimento del cristianesimo e la sua adozione come religione dell’impero da parte di Costantino (321-325), seguiti dalla messa al bando del paganesimo decretata da Teodosio (392), segnarono l’identificazione del messaggio multietnico cristiano con l’ideologia imperiale del governo universale e la trasformazione della chiesa da comunità perseguitata a depositaria della religione dominante sostenuta dal potere politico.

 

Cavaliere partico. Rilievo, granito, II-I sec. a.C. ca. Torino, Palazzo Madama.

 

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Note:

[1] Seguo qui Benjamin Isaac, The Invention of Racism in Classical Antiquity, Princeton (NJ), Princeton University Press, 2006.

[2] Marcel Detienne, Comment devenir autochtone. Du pur Athénien au Français racinée, Paris, Seuil, 2003.

[3] Frank Snowden esclude invece che si nutrissero in questo periodo pregiudizi relativi alla discendenza: si veda Before Color Prejudice: The Ancient View of Blacks, Cambridge (MA), Harvard University Press, 1983.

Gli automi dell’antichità

di GREGORY T., Gli automi dell’antichità, in «Il Sole24Ore», 7 agosto 2016.

«Il meccanico» per antonomasia era già ai suoi tempi Erone (I° sec. d.C.), matematico, fisico, ingegnere fra i maggiori della scuola di Alessandria, che aveva sedotto gli uomini del Rinascimento con gli automi e altri giochi meccanici illustrati nelle sue opere e a volte realizzati nel Cinquecento e nel Seicento in parchi e dimore principesche.
Ne subì il fascino anche il giovane Descartes progettando di dedicare alla «scienza dei miracoli» un trattato di cui ci resta il suggestivo titolo Palazzo delle meraviglie (Thaumantis Regia), forse pensando di costruire egli stesso qualche automa (come un uomo danzante su una corda, cui fa riferimento negli appunti) e certo tenendo presente «le macchine che hanno la forza di muoversi da sé» nel descrivere «la macchina del corpo» nel suo trattato sull’uomo.
Ma oltre a leggere i trattati di Erone sugli automi o di pneumatica, scienziati e filologi del Rinascimento cercarono avidamente il testo greco della sua celebre Meccanica della quale si conoscevano pochi frammenti, soprattutto da citazioni di Pappo (fine III sec.): ricerca rimasta fino ad oggi senza risultato, ma compensata dalla scoperta di una sua traduzione araba (con il titolo L’elevatore di corpi pesanti) pubblicata e tradotta in francese da Camille Carra de Vaux alla fine dell’Ottocento (1893).

Il testo arabo fu poi ripubblicato in edizione critica il 1900 da Ludwing Leo Nix (con traduzione tedesca) e in parziale traduzione inglese nel 1963 per opera di Gerhardt Drachmann. Dunque la scoperta di Carra de Vaux restituiva un’opera – certo rimaneggiata dal traduttore arabo rispetto al greco (secolo IX) – di capitale importanza sia per la componente teorica, sia per la pratica relativa alla costruzione delle macchine descritte. Di particolare rilievo, all’inizio del I° libro (ma forse non così nell’originale greco), la trattazione della macchina chiamata da Pappo, unico testimone, baroulkós (complesso ingranaggio di più ruote dentate per facilitare il sollevamento di grandi pesi con una forza relativamente piccola), alla cui complessa problematica è dedicata un’ampia sezione del volume che qui presentiamo a cura di Giuseppina Ferriello, Maurizio Gatto, Romano Gatto.
Quanto alla Meccanica, sempre nel I° libro, si trovano trattazioni di problemi di geometria e di meccanica generale (piano inclinato, determinazione del centro di gravità, equilibrio dei corpi). Il II° libro tratta delle macchine semplici (l’asse con la sua ruota, la leva, la taglia, il cuneo, la vite) e complesse; il III° libro affronta soprattutto problemi di carattere pratico, come il trasporto e il sollevamento pesi in opere di costruzione. Fra l’altro la Meccanica trasmette importanti teorie di Archimede, da opere perdute.

 

Venezia, Biblioteca Marciana. Cod. Marc. gr. 516 (XIV sec.), Erone di Alessandria, Automata 13, f. 202r. Diagramma di un automa, un Bacco che dispensa vino e latte in un tempietto.

 

Oggi, dopo più di mezzo secolo, abbiamo con questo volume non solo una nuova edizione critica (con traduzione inglese) del testo arabo della Meccanica, con una raccolta di tutti i frammenti greci, ma anche – novità di grande rilievo – l’edizione di una traduzione-riduzione dell’opera dal greco in persiano (XI-XII sec.) orientata soprattutto a usi pratici.
Il testo persiano è stato ritrovato da Giuseppina Ferriello che ne ha curato qui l’edizione critica e la traduzione inglese, offrendo anche un quadro della cultura scientifica a Bagdad, uno dei centri che ha assicurato, dal secolo VIII, la diffusione della cultura scientifica greca nel mondo islamico. Ove andrà ricordata la centralità delle traduzioni come veicoli essenziali nella storia delle culture.
Volume dunque complesso e ricchissimo (anche per l’attenta ricostruzione della ricerca del testo greco dell’opera di Erone nel Rinascimento, quando sembrava apparire e scomparire), fondamentale non solo per la raccolta e il commento dei testi relativi alla Meccanica, ma per la storia del pensiero scientifico greco antico e tardoantico; opera che solo una grande istituzione scientifica (Museo Galileo – Istituto e Museo di Storia della Scienza diretto da Paolo Galluzzi) e un rigoroso editore (Leo Olschki) potevano pubblicare.

Opera che prova – se ve ne fosse bisogno – la totale inutilità dei criteri “bibliometrici” imposti dai Soloni dell’ANVUR; è infatti facilmente prevedibile che, nei prossimi anni, ben rare potranno essere le recensioni e le citazioni su riviste scientifiche di un’opera che richiede competenze plurime, sia linguistiche che storiche. Ma il «valore» dei «prodotti» (così nel gergo merceologico-aziendalistico dell’ANVUR) sembra per i suddetti Soloni ridursi all’impatto di un testo, qualcosa di simile all’indice di ascolto televisivo, con gli stessi, noti, risultati.

The Baroulkos and the Mechanics of Heron, a cura di Giuseppina Ferriello, Maurizio Gatto, Romano Gatto, Leo Olschki, Firenze, 
pagg. 432, € 49