Un Bresciano al fianco di Marco Aurelio

di G.L. Gregori, Vita e gesta del senatore bresciano, in Sulla via Flaminia: il mausoleo di Marco Nonio Macrino (a cura di D. Rossi), Roma 2012, pp. 286-301.

Iscrizione funeraria. III secolo d.C., dalla Tomba di M. Nonio Macrino, sulla Via Flaminia.
Iscrizione funeraria. Marmo, II secolo d.C., dalla Tomba di M. Nonio Macrino, sulla via Flaminia.

Tra i numerosi reperti architettonici disseminati nell’area dello scavo vi è anche la parte di sinistra di un monumentale architrave iscritto, che doveva essere in origine costituito da più blocchi tenuti insieme da grappe, delimitato lateralmente da un bel fregio vegetale e da modanature architettoniche. Il pesante blocco (cm 90 d’altezza, 258 di larghezza, 59 di spessore; lettere alte cm 9-14) conserva la parte iniziale di sei righe di testo, che hanno consentito di attribuire il mausoleo al senatore Marco Nonio Macrino e ai suoi familiari. Appartenevano invece all’estremità destra della medesima iscrizione due grossi frammenti, parzialmente combacianti tra loro.
I Marci Nonii erano una famiglia senatoria originaria di Brescia, i cui membri sedettero nel Senato di Roma per più generazioni durante il II secolo e il primo trentennio almeno del successivo, riuscendo a superare a quanto pare indenni le epurazioni che colpirono numerosi esponenti dell’ordine senatorio, in particolare sotto Commodo (il caso dei due fratelli Quintilii è solo quello più noto)[1] e i Severi. Marco Nonio Macrino è, almeno fino a oggi, l’unico rappresentante di questa illustre famiglia di cui possiamo ricostruire dettagliatamente la carriera, iniziata sotto Adriano, proseguita al tempo di Antonino Pio e conclusasi negli ultimi anni di Marco Aurelio[2]. Purtroppo né di lui, né di alcun altro membro della famiglia vi è sicura traccia nella documentazione letteraria antica, che pure menziona spesso senatori coinvolti nelle vicende del tempo[3]. Fondamentale diventa perciò il contributo di alcune iscrizioni, latine e greche.

Ricostruzione assiometrica dell'area del foro romano, a Brescia.
Ricostruzione assiometrica dell’area del foro romano, a Brescia.

Nonostante i numerosi incarichi di natura civile e militare l’abbiano portato presto e per molto tempo lontano dalla sua città, sia a Roma sia nelle province, Macrino mantenne sempre con Brescia e con la locale classe dirigente uno stretto legame. Negli anni in cui egli era governatore della Pannonia superiore (159-161 d.C.) la colonia ricambiò i suoi favori scegliendolo quale suo patrono e onorandolo pubblicamente con una statua in luogo pubblico.
È molto probabile che il senatore possedesse una casa dentro le mura di Brixia e numerose ville nel territorio. Due statue gli furono infatti dedicate, in anni differenti, da due ufficiali equestri (Lucio Ussio Picentino e Tito Giulio Giuliano) in servizio quando, negli anni 150-153 d.C., egli fu governatore della Pannonia inferiore e poi quando, negli anni 159-161 d.C., gli fu affidata l’amministrazione della Pannonia superiore; una terza fu posta dal figlio Marco Nonio Arrio Muciano Manlio Carbone, mentre il padre era console (154 d.C.). Dal momento che per nessuna di queste tre basi fu chiesta ai decuriones la necessaria autorizzazione per l’occupazione di suolo pubblico, possiamo affermare che le statue erano destinate ad ambiti privati: se le prime due dediche sono di provenienza ignota, quella promossa dal figlio fu recuperata, fuori contesto, presso la località collinare di Cellatica al margine settentrionale della pianura bresciana, dove forse Macrino aveva una sua residenza suburbana (ammesso che la base non sia stata portata qui da Brescia, distante solo pochi chilometri).

A sua volta Macrino si ricordò, nel suo testamento, di alcuni suoi concittadini, da lui definiti amici, esponenti verosimilmente della locale élite, che furono da lui onorati con statue destinate forse alle case o ai sepolcri dei medesimi[4]. Il nostro senatore compare pure in due dediche sacre, che confermano quanto egli fosse legato alla sua terra: la prima (da tempo perduta) viene dalla località di Botticino Sera, nell’area pedemontana a est di Brescia, e potrebbe far pensare a un interessamento dei Marci Nonii nello sfruttamento delle locali cave di marmo, o per lo meno all’esistenza sul posto di loro proprietà. L’altra, ben più nota, fu recuperata nell’area della grande villa romana di Toscolano Maderno, che, costruita nel I secolo d.C. sulla costa occidentale del lago di Garda, subì interventi di trasformazione sino all’inizio del V secolo, con una fase importante proprio nella prima metà del II secolo d.C. In questa seconda dedica sacra Macrino chiedeva ai Dii Conservatores il dono della salute per la moglie Arria. L’epiteto di Conservator, che per Giove compare sulle monete già in età augustea, ma che si afferma nelle iscrizioni soprattutto a partire dall’età antonina, divenne poi comune anche per altre divinità, per cui non possiamo sapere nell’intervento di chi confidasse il nostro senatore. Altre proprietà i Marci Nonii le avevano già, o le acquisiranno in seguito, nell’Alto Garda, presso Castel Toblino, e sulle sponde del lago d’Iseo, presso Predore, nell’attuale territorio di Bergamo.

Resti dei muri di fondazione e dei pavimenti con decorazione musiva nella Villa dei Nonii Arrii, a Toscolano (Bs).
Resti dei muri di fondazione e dei pavimenti con decorazione musiva nella Villa dei Nonii Arrii, a Toscolano (Bs).

Nato attorno al 111 d.C., Macrino aveva rivestito come primo incarico quello di Xvir stlitibus iudicandis, con il compito di presiedere, con i suoi colleghi, il tribunale dei centumviri che si occupava di eredità, di tutele e di altre questioni d’ambito civile. Seguirono due consecutivi tribunati militari, il primo presso la legione VII Gemina, accampata nel nord della Spagna (attuale León), il secondo, forse, presso la X Fretense, di stanza a Gerusalemme, o in alternativa presso la X Gemina, dislocata a Vindobona (odierna Wien), nella Pannonia superiore[5]. Rientrato a Roma fu questore; poi partì per l’Oriente, come assistente del proconsole d’Asia (legatus proconsulis). Di nuovo a Roma, fu nei primi anni dell’impero di Antonino Pio in successione di tempo tribuno della plebe e pretore. Deposta quest’ultima carica, gli furono affidati due degli incarichi spettanti agli ex pretori: il comando della legione XIV Gemina, di stanza a Carnuntum in Pannonia superiore, e poi l’amministrazione della confinante provincia di Pannonia inferiore, con capitale Aquincum (151-153 d.C.). Nel 154 d.C. Macrino fu nominato console suffetto, subentrando con il collega ai due consoli ordinari dell’anno, Lucio Vero, figlio adottivo dell’imperatore Antonino Pio, e T. Sestio Laterano.

L'area interessata dall'invasione di Quadi e Marcomanni nel 170 d.C.
L’area interessata dall’invasione di Quadi e Marcomanni nel 170 d.C.

Seguirono, nell’arco dei successivi venti anni, ben quattro incarichi di rango consolare. Dapprima il nostro senatore fu chiamato, in qualità di curator, a far parte della ristretta commissione preposta al controllo dell’alveo e delle rive del Tevere[6]. Quindi, negli ultimi anni di regno di Antonino Pio (159-161 d.C.), fu inviato quale legatus Augusti pro praetore a governare la Pannonia superiore, una provincia strategica per la difesa dei confini dell’impero, come dimostreranno gli eventi successivi. È allora che Macrino, a Brescia, ricevette sia la statua da parte di Tito Giulio Giuliano, sia la statua nel Foro da parte dell’intera comunità, che proprio in quegli anni lo sceglieva come patrono. I governatori delle province imperiali restavano in carica mediamente per un triennio; per ora il documento più tardo attestante la presenza di Macrino in Pannonia superiore è un diploma militare dell’8 febbraio del 161 d.C.. Un mese dopo moriva Antonino Pio, l’imperatore dei cui favori Macrino aveva certamente goduto.

Legionario dell'epoca di M. Aurelio (illustrazione di A. McBride).
Legionario dell’epoca di M. Aurelio (illustrazione di A. McBride).

Al momento non sappiamo se Macrino sia uscito di carica proprio con l’inizio dell’impero di Marco Aurelio e Lucio Vero[7]; stando alla documentazione in nostro possesso non sembrerebbe che negli anni compresi tra il 161 e il 169 d.C. gli sia stata affidata alcuna carica o missione: in particolare non è documentata una sua partecipazione né alla lunga campagna contro Vologese IV, re dei Parti, condotta in prima persona da Lucio Vero tra il 162 e il 166 d.C., né alla prima spedizione germanica, guidata di lì a poco da entrambi i principi contro le popolazioni danubiane (168-169 d.C.).
Sappiamo invece che dopo la prematura scomparsa di Lucio Vero nei primi mesi del 169 d.C., Macrino fece parte con altri amici della casa imperiale del sodalizio degli Antoniniani Veriani, un collegio sacerdotale che, originariamente istituito per il culto del divo Antonino Pio (sodales Antoniniani), estese poi le sue competenze anche al culto del divo Vero[8]. Si trattava per Macrino del secondo sacerdozio, essendo il senatore già stato cooptato, al pari di altri Marci Nonii prima e dopo di lui, nell’antichissimo e prestigioso collegio dei XVviri sacris faciundis, uno dei quattuor amplissima collegia, preposto alla consultazione dei libri Sibillini e a vigilare sui culti stranieri.
Nell’autunno dello stesso anno (169 d.C.) Macrino fu chiamato da Marco Aurelio a partecipare alla expeditio Germanica et Sarmatica contro Quadi e Marcomanni con il rango di luogotenente e consigliere (legatus et comes) del principe, insieme al genero Claudio Pompeiano, a Ponzio Leliano Larcio Sabino e Dasumio Tullo, ex governatori della Pannonia superiore, a Sosio Prisco e Giulio Vero.

Si trattò tuttavia per lui di una breve esperienza: già nel secondo semestre del 170 d.C. egli lasciava, probabilmente, il fronte sarmatico, per ricoprire il proconsolato d’Asia, essendo ormai passati sedici anni dal suo consolato suffetto[9].
È, questo del suo proconsolato, il periodo in cui a Efeso, la metropoli provinciale, Macrino venne onorato con una statua nell’agorà bassa, per iniziativa di uno dei più eminenti e ricchi notabili del luogo, il sofista Flavio Damiano, che a lui si rivolge in chiusura di dedica definendolo σωτήρ τής ἐπαρχέιας[10], vale a dire “salvatore della provincia”, titolo per nulla comune per un governatore provinciale. L’epiteto di “salvatore” veniva generalmente attribuito a divinità o all’imperatore, ma non ad altri personaggi, fossero essi governatori, magistrati o privati benemerenti, se non per motivazioni eccezionali. Il titolo di “salvatore della provincia” risulta poi ancor più raro, almeno per il II secolo d.C. Recentemente B. Puech si è limitata a constatare che l’iscrizione non fornisce dati specifici sulle circostanze del conferimento dell’epiteto, mentre Fr. Kirbihler ha ipotizzato una connessione con la crisi alimentare che colpì l’Asia al tempo della guerra partica di Lucio Vero: Macrino avrebbe “salvato” la popolazione provinciale dalla carestia, provvedendo a garantire un approvvigionamento granario di emergenza.
Ma tale compito annonario non sembra rientrasse nelle competenze di un governatore, mentre caratterizzava l’azione evergetica di molti notabili municipali (come lo stesso Damiano), elargitori di sitoniai ai propri concittadini. Il ruolo di “salvatore” dovrà piuttosto connettersi a un altro tipo di crisi ai danni della provincia. La situazione generale di quegli anni è ben riassunta nella Historia Augusta[11]: un consistente gruppo di barbari (tra i quali anche Rossolani, Bastarni, Peucini, Alani e Costoboci, definibili con il termine generico di genti “sarmatiche” o “scitiche”), già stanziati tra il fiume Nistro (Dniestr), i Carpazi orientali e l’area del delta del Danubio (la cosiddetta Scythia Minor), aveva attraversato il confine rappresentato dal basso corso del fiume, presso la costa occidentale del Ponto, facendo irruzione nella Mesia Inferiore (l’attuale Dobrogia), allora relativamente sguarnita di truppe. La documentazione epigrafica e numismatica permette di ricostruire le tappe principali del percorso dei barbari: il primo assalto si concentrò sulla città di Tropaeum Traiani, poi sembra che gli invasori si siano divisi in due gruppi: il primo, tra cui i Costoboci, attaccò Durostorum sul Danubio e piegò a sud-ovest verso l’entroterra della Mesia, arrivando a distruggere Nicopolis ad Histrum; attraversò poi la Tracia, devastò Serdica (odierna Sofia) e giunse nei pressi di Scupi (odierna Skopje), da dove si diresse a sud, entrando in Macedonia e nella Grecia continentale, sino alla Focide (Elatea), alla Beozia (Tespie) e alle porte dell’Attica[12].

Direttrici dell'invasione dei Costoboci nel 170 d.C.
Direttrici dell’invasione dei Costoboci nel 170 d.C.

L’altro gruppo, del quale facevano parte probabilmente i Bastarni, seguì invece il litorale pontico, in direzione sud-est, minacciando Kallatis e in Tracia attaccò Apollonia Pontica, che subì gravi danni, per ricomparire, poi, aldilà del Bosforo, nella provincia d’Asia. Non dovrebbe stupire una certa capacità di navigazione costiera da parte di popolazioni, quali Bastarni e Peucini, abitanti da lungo tempo presso i laghi e canali della Peuce insula, l’isola della foce del Danubio delimitata da uno dei principali bracci navigabili del fiume.
Macrino si insediò dunque in Asia nel corso di una piena crisi causata dai barbari, subentrando probabilmente a Sesto Quintilio Massimo, che insieme al fratello Sesto Quintilio Condiano era stato inviato da Marco Aurelio ad assumere un incarico straordinario di governo sull’intera Grecia sconvolta dall’incursione dei Costoboci.
Il pericolo rappresentato dai Bastarni sembrerebbe dare un significato pregnante al reclutamento straordinario che l’autorità imperiale richiese probabilmente in quell’occasione alle città d’Asia, demandandone l’onerosa responsabilità operativa alle classi dirigenti locali, sotto il controllo del governatore. Pare infatti probabile che proprio il proconsole, supremo rappresentante dell’autorità imperiale, avesse il ruolo di sollecitare e coordinare le prestazioni di contingenti o il versamento corrispondente di tributi (come è documentato a Thyatira)[13] da parte delle varie città, rispettandone i privilegi, ma esigendo al contempo l’ottemperanza degli accordi di symmachia con Roma. La “salvezza della provincia” d’Asia sarà stata assicurata da Macrino in quanto il governatore nel momento della grave crisi barbarica seppe organizzare e coordinare, con i mezzi a sua disposizione, un’efficace reazione.

Con il prestigioso proconsolato d’Asia cessavano fino a oggi le nostre conoscenze sulla vita e la carriera del bresciano Marco Nonio Macrino: dopo il 170-171 d.C. di lui si perdevano le tracce. Essendo del resto ormai sessantenne si poteva anche presumere che egli fosse morto poco dopo il suo rientro. Grazie agli importanti ritrovamenti di via Vitorchiano possiamo ora dire che la carriera di Macrino non era ancora giunta al termine. Si può tentare una ricostruzione di massima della monumentale iscrizione che doveva comparire sulla fronte del mausoleo basandoci sulla dedica bresciana riutilizzata nella basilica forense e soprattutto su quella greca trovata a Efeso: entrambe riportano infatti le varie tappe del suo lungo cursus honorum, ma la seconda è più completa, in quanto posteriore di circa un decennio all’altra.
Il testo poteva grosso modo recitare così:

[M(ARCO)] NONIO M(ARCI) FIL(IO) FAB(IA TRIBU)MACRINO [CONSULI, PROCONSULI ASIAE
XVVIR(O) SACRIS F]AC(IUNDIS) SODALI VERIANO ANTONINIANO, AMICO AUGUSTOR(UM)?]
COMITI LEG(ATO) IMP(ERATORIS) ANTONINI AUG(USTI) EX[PEDITIONIS GERMANIC(AE)
ET SARMATIC(AE)? LEGATO] AUG(USTI) PR(O) PR(AETORE) P[ROVINCIARUM BAETICAE? ET HISPA]NIAE
CITERIORIS ITEM PANNONIAE SUP[ERIORIS ITEM PANNONIAE INFERIORIS, CURATO]RI A[LVEI
TIBERIS, LEG(ATO) LEG(IONIS) XIIII GEM(INAE), PRAET(ORI), TR(IBUNO) PL(EBIS), LEG]ATO
PROVINCIAE ASIAE, QUAESTOR[I, TRIBUNO MILITUM LEG(IONIS) X FRETENS(IS)? ITEM LEG(IONIS)
VII GEMINAE, XVIR(O) STLITIBUS IUDICAN]DIS PATRI OPTIMO ET FLAVI[AE —]
M(ARCUS) NONIU[S ARRIUS —].

Proposta di ricostruzione grafica dell'iscrizione del mausoleo di M. Nonio Macrino e dei suoi familiari.
Proposta di ricostruzione grafica dell’iscrizione del mausoleo di M. Nonio Macrino e dei suoi familiari.

Ipotizzando che fossero state ricordate tutte le tappe della sua quarantennale carriera, avremmo al momento meno di un terzo del campo epigrafico originario che doveva complessivamente svilupparsi per circa 23 piedi, pari a poco meno di 7m.
Veniamo in particolare a sapere per la prima volta che, dopo l’Asia, Macrino fu inviato da Marco Aurelio nella provincia di Spagna Citeriore, con l’incarico di legatus Augusti pro praetore, il quarto di rango consolare (dopo la curatela del Tevere, il governatorato della Pannonia Superiore e il proconsolato d’Asia). Stando al racconto dell’Historia Augusta, in questo caso confermato dall’Epitome de Caesaribus, non erano in realtà stati solo Marcomanni, Quadi e Iazigi da un lato, Costoboci e Bastarni dall’altro, a procurare problemi all’impero con i loro ripetuti tentativi di sconfinamento. Le cose non andavano bene neppure nelle Spagne: il biografo c’informa infatti che «cum Mauri Hispanias prope omnes vastarent, res per legatos bene gestae sunt». Questo passo è molto noto e sempre è stato citato da quegli studiosi che dagli inizi del Novecento a oggi si sono occupati delle incursioni maure nella Betica nel corso del II secolo dell’impero, insieme a quello in cui si afferma che a Settimio Severo, destinato inizialmente a ricoprire la questura nella senatoria provincia di Betica, «… Sardinia adtributa est, quod Baeticam Mauri populabantur». Se non si rese necessario un diretto intervento di Marco Aurelio, fu perché i suoi legati seppero brillantemente far fronte alla situazione[14]. Vi è oggi un sostanziale accordo nel distinguere, al tempo di Marco Aurelio, due scorrerie di Mauri in Spagna: la prima si sarebbe verificata attorno agli anni 170-173, l’altra nel 175-177. Se l’etnico subì durante l’impero una progressiva estensione di significato, in senso stretto per Mauri devono intendersi le popolazioni indigene della Mauretania Tingitana, ma gli studiosi discutono ancora se a sbarcare in Betica siano state le tribù stanziate sul massiccio dell’Atlante e del Rif o non piuttosto quelle della costa.

Marco Aurelio. Sesterzio, Roma 170 d.C. Æ 21,9 gr. D – MANTONINVSAVGTRPXXIIII, testa laureata rivolta a destra.
Marco Aurelio. Sesterzio, Roma 170 d.C. Æ 21,9 gr. Dritto: M.ANTONINVS.AVG.TR.P.XXIIII, testa laureata rivolta a destra.

A fronteggiare la prima delle due ravvicinate incursioni maure fu inviato nell’inedita veste di legatus Augusti sia della Baetica (passata per l’occasione sotto il controllo diretto dell’imperatore), sia dell’Hispania Citerior il pluridecorato generale romano, comes di Marco Aurelio e Lucio Vero nella prima campagna germanica, Gaio Aufidio Vittorino: questi di lì a poco (172-173 d.C.) venne però trasferito in Africa come proconsole: lì, grazie alla presenza della legione III Augusta e di truppe ausiliarie, avrebbe potuto, all’occorrenza, inviare rinforzi al procuratore di Tingitana e contenere sul nascere future ribellioni maure. Non era la prima volta che Roma si trovava ad affrontare i problemi creati dalle diverse popolazioni berbere e seminomadi della Tingitana (più che di tribù occorrerebbe parlare di confederazione di tribù, definite nelle nostre iscrizioni come gentes), alcune delle quali soggette a tributo, altre no, tra le quali quella dei Baquates era solo la più nota (ma vi erano anche gli Autololes, i Macennites, i Bavares, gli Zegrenses, i Baniures…). Eloquente testimonianza dell’instabilità di queste relazioni sono le cosiddette arae pacis rinvenute a Volubilis, cronologicamente distribuite tra i regni di Marco Aurelio e di Probo, nelle quali si ricorda la conclusione positiva dei colloqui intercorsi di volta in volta tra i vari procuratori imperiali che si succedevano e i principes locali. Visti sotto quest’ottica, si può pensare che i provvedimenti menzionati nella tabula Banasitana per l’anno 177 a favore di un princeps della tribù degli Zegrenses, al quale veniva conferita, unitamente ai membri della sua famiglia, la cittadinanza romana, oltre che a premiare la fedeltà a Roma di questo capo, mirassero anche a diffondere tra gli altri capi tribù il messaggio che un atteggiamento collaborazionista nei confronti di Roma sarebbe stato analogamente premiato.
Ciò che per la prima volta si era verificato sotto Marco Aurelio fu che i Mauri avessero oltrepassato il mare portando lo scompiglio nella Baetica, e non solo, in un momento in cui le Hispaniae stavano attraversando una crisi profonda, forse anche a causa delle continue leve militari, e il grosso delle legioni romane era impegnato altrove. Il momento era difatti per i rebelles (come vengono definiti i nostri Mauri in uno dei testi che li riguarda) dei più propizi: sul suolo iberico era presente la sola legio VII Gemina, il cui accampamento peraltro si trovava lontano, nel nord della Tarraconensis, e l’imperatore non avrebbe potuto inviare rinforzi consistenti a causa, prima della concentrazione di truppe sul fronte danubiano e poi del tentativo di usurpazione di Avidio Cassio[15].
Fu allora che Marco Aurelio mandò in Spagna un distaccamento militare comandato dal procuratore imperiale Giulio Giuliano, che per l’occasione ottenne anche l’incarico di praepositus vexillationis in Hispanias adversus Mauros rebelles[16]: i Romani dichiararono in quell’occasione un vero e proprio bellum, definito nelle iscrizioni Mauricum o Maurorum[17].

Mappa dell'Africa Tingitana (Mauretania).
Mappa dell’Africa Tingitana (Mauretania).

Comunemente si ritiene che, soprattutto le incursioni degli anni 170-173, avessero creato pochi problemi all’impero e che, nonostante l’Historia Augusta parli al plurale dell’intervento in Hispania di legati imperiali, di fatto i meriti di aver ristabilito, sia pure momentaneamente, la tranquillità vadano attribuiti al solo Aufidio Vittorino con il supporto tattico del cavaliere Giulio Giuliano. Oggi, grazie alla testimonianza offerta dalla monumentale iscrizione urbana di Macrino, possiamo dire che le cose probabilmente non andarono così, che i disordini dovettero protrarsi per più anni e che più di un legato fu chiamato a fronteggiare i Mauri. La scelta di inviare nel 172-173 in Citerior a sostituire Vittorino proprio Macrino, reduce dai successi militari conseguiti durante il suo proconsolato d’Asia, può spiegarsi, a mio avviso, solo con la situazione d’emergenza determinata dai Mauri nella Baetica, e più in generale nelle Hispaniae, e che non si era evidentemente ancora risolta. Il proconsolato d’Asia e d’Africa, infatti, in condizioni normali coronavano la carriera di un senatore, venendo in età antonina subito prima della prefettura urbana o di un secondo consolato.
È ragionevole pensare che anche a Macrino fosse stato affidato il governo congiunto della Baetica e della Citerior; nella dedica per Giulio Giuliano si parla del resto di un incarico svolto in Hispanias adversus Mauros rebelles: il pericolo interessava soprattutto le comunità della provincia inerme di Baetica, normalmente governata da un proconsole, ma l’unica legione presente in Hispania stazionava nel nord della Citerior, provincia affidata a un legato imperiale. Roma non sembra dunque aver sottovalutato (ma forse neppure sopravvalutato) il pericolo rappresentato dalle incursioni dei Mauri, se a farvi fronte fu inviato Marco Nonio Macrino, comes di Marco Aurelio nella campagna germanica e sarmatica (169-170 d.C.), poi proconsole e salvatore della provincia d’Asia dalle incursioni barbariche (170-171 d.C.).
La pace sancita nel 173 d.C., a seguito dei colloqui tra il procuratore della Tingitana P. Elio Crispino e Ucmetius, princeps dei Macennites e dei Baquates, farebbe pensare che solo allora la situazione in Spagna fosse, almeno provvisoriamente, tornata sotto il controllo romano, proprio grazie al nostro Macrino e ai suoi collaboratori. Il fatto di trovare operativi, contestualmente, in Spagna Macrino, come legato imperiale, e Giuliano, come praepositus vexillationis, non sembra casuale; i due si conoscevano da tempo: Giuliano, infatti, attorno al 170 d.C., era stato praepositus vexillationis adversus Castabocas rebelles in Acaia e Macedonia, mentre Macrino, governatore d’Asia, doveva fronteggiare il pericolo rappresentato dalle incursioni dei Bastarni. Prima ancora però, negli anni in cui Macrino era stato legato di Pannonia superiore (159-161 d.C.), Giuliano aveva operato in quella provincia come ufficiale equestre (si veda supra). I punti di contatto tra le carriere di Macrino e di Giuliano, nell’arco di oltre un decennio, sono a mio avviso troppi perché si possa pensare a semplici coincidenze.
Oltre che sulla carriera di Macrino l’iscrizione del suo mausoleo ci restituisce un’altra, inattesa e importante informazione. Alla quinta riga compare una donna di nome Flavia (la stessa di cui si è poi ritrovata la statua, priva di testa, che la ritrae come Pudicitia): tutto lascerebbe pensare che si tratti della moglie del senatore. Ma dalla dedica che Macrino pose sulla riva bresciana del Garda agli dèi per impetrare la salute della moglie, sapevamo che la matrona si chiamava Arria. Dunque o Macrino si era risposato con una Flavia (ricordo che infuriava allora in Italia la peste), o sua moglie non si chiamava semplicemente Arria, anche se questo gentilizio doveva essere avvertito come l’elemento più importante del suo nome e degno di essere trasmesso ai figli e ai discendenti, che infatti si chiameranno da allora in poi e per più generazioni Nonii Arrii.

Statua femminile, nella posa della dea Pudicitia. Copia romana del II secolo d.C. da originale greco del IV sec. a.C. (Thasos). Istanbul Archaeological Museum.
Statua femminile, nella posa della dea Pudicitia. Copia romana del II secolo d.C. da originale greco del IV sec. a.C. (Thasos). Istanbul Archaeological Museum.

Se è alquanto improbabile che una matrona della metà del II secolo d.C. avesse un’onomastica ridotta al solo gentilizio, è anche logico che nell’iscrizione del mausoleo di famiglia essa comparisse con il suo nome completo. Secondo quanto mi suggerisce F. Chausson, è possibile che la moglie di Macrino fosse in realtà una Flavia Arria: in tal caso ella poteva essere imparentata da un lato con la famiglia senatoria degli Arrii Antonini, cui apparteneva lo stesso imperatore Antonino Pio da parte della madre Arria Fadilla (e questo potrebbe spiegare la particolare importanza attribuita al gentilizio Arrius, -a anche nell’onomastica dei discendenti), dall’altro con la famiglia senatoria dei Flavii Apri, i cui membri si trovarono a ricoprire ripetutamente il consolato negli stessi anni dei Nonii. Troverebbe così finalmente una spiegazione plausibile anche l’onomastica dell’ultimo rampollo dei Nonii, M. Nonio Arrio Paolino Apro, che fece a quanto pare carriera sotto Severo Alessandro: egli potrebbe infatti aver ereditato il cognome Paolino dagli Arrii Antonini e il cognome Apro dai Flavii Apri, l’uno e l’altro proprio per il tramite della nostra Flavia Arria. Dalla nuova iscrizione apprendiamo, infine, che il sepolcro romano fu dedicato al padre e alla madre (ma probabilmente anche ad altri, vista l’ampiezza della lacuna alla r. 5, difficilmente colmabile con la sola onomastica della donna) dal figlio, del cui nome purtroppo resta solo l’inizio, forse quello stesso Marco Nonio Arrio Muciano Manlio Carbone che a Brescia aveva dedicato al padre, quando egli era console, una statua (si veda supra) e della cui carriera non conosciamo alcun dettaglio, ma siamo ancora lontani dal conoscere con certezza tutti i discendenti di Macrino con i loro precisi reciproci legami di parentela. Colpisce indubbiamente il fatto che il figlio volle che il suo nome comparisse all’ultima riga centrato e con lettere ben più alte di quelle del padre e della madre. Egli potrebbe aver agito di propria iniziativa, ma anche ottemperando alle volontà testamentarie dell’ottimo padre (come lo definisce nel testo), portando a compimento un’opera iniziata qualche tempo prima, vivo ancora Macrino, come vari indizi stilistici indurrebbero a supporre.
Alcuni dettagli paleografici, l’incisione di alcune lettere a cavallo tra due blocchi contigui e la difformità nel modulo di alcuni caratteri farebbero ipotizzare che il testo sia stato inciso dopo che l’architrave era già stato posto in opera e che l’iscrizione sia stata realizzata da mani diverse, come risulta particolarmente evidente alla r. 5, in corrispondenza dell’inizio dell’onomastica femminile. Va detto, anche, che nel suo complesso l’iscrizione sembra, non senza qualche forzatura, ispirarsi ai prodotti della prima età imperiale e che il ductus delle lettere ha ben poco a che vedere con quello che caratterizza i testi ufficiali d’età antonina.

Guerrieri quadi e marcomannici (I-II secolo d.C.). Illustrazione di G. Embleton.
Guerrieri quadi e marcomannici (I-II secolo d.C.). Illustrazione di G. Embleton.

Non sappiamo quando il nostro morì: forse, vista la sua grande esperienza in campo militare, se fosse stato ancora vivo, nonostante l’età, Marco Aurelio e Commodo l’avrebbero chiamato a partecipare anche all’expeditio Germanica secunda, di cui la nuova iscrizione non fa menzione. Si può dunque ipotizzare che Macrino fosse morto prima del 178 d.C., pur non potendo a priori escludere che egli al ritorno dalla Spagna si fosse ritirato a vita privata. Egli dovette comunque morire prima di Marco Aurelio (17 marzo 180 d.C.); in caso contrario alla r. 2 del nostro testo l’imperatore sarebbe stato ricordato come divus. La scelta del luogo, tra il V e il VI miglio dell’antica via Flaminia, mi pare infine significativa. Chi aveva adeguate risorse finanziarie cercava di realizzare i propri sepolcri non troppo lontano dalla città, perché essi, con le loro epigrafi esposte in facciata, fossero più facilmente notati. Perché Macrino avrebbe dovuto scegliere una località del suburbio, sia pure lungo una via consolare di grande traffico? L’unica spiegazione che al momento mi viene in mente è che non lontano dal mausoleo vi fosse un’altra delle residenze di Macrino, finora documentate solo nel territorio bresciano[18]. Quest’ipotesi mi pare suggestiva perché nel territorio dell’odierna Tor di Quinto (il toponimo è parlante), tra le antiche vie Flaminia e Cassia, sono stati effettivamente trovati resti di grandi ville romane. Non troppo lontano da qui poi, al V miglio della via Clodia, nell’odierna località dell’Acqua Traversa (presso il sito dell’attuale Villa Manzoni, al civico 473 della via Cassia), vi era per esempio la fastosa villa di Lucio Vero[19].

Il mausoleo di Macrino non fu tuttavia costruito, come avvenne in altri casi, all’interno della proprietà, ma con un affaccio diretto sulla via Flaminia, anche a costo di obliterare con il suo recinto sepolcri precedenti.
[…]

Note:

1 – HA, Vita Commodi Antonini 4, 9: «Domus praeterea Quintiliorum omnis extincta».
2 – PIR2, N 140. I testi che lo ricordano sono almeno una decina; essi provengono per lo più da Brescia (I. It., X, V, 112, 124, 129, 130, 131, 150; AE 1997, 721 = 1999, 728) e dal suo territorio (I. It., X, V, 763 – Botticino Sera; 1026 – Toscolano Maderno), ma anche dalla lontana Efeso (I. Eph., VII 1, 3029). Macrino compare inoltre nei seguenti diplomi militari: Eck, Pangerl 2009 (come legatus Augusti pro praetore di Pannonia inferiore nel 152 d.C.) e AE 1994, 1393; 1999, 1351; 2001, 1640; 2002, 1726; 2004, 1904, 1905 (diplomi che menzionano il suo successivo incarico di legatus Augusti pro praetore di Pannonia superiore, ricoperto nel triennio 159-161 d.C.).
3 – Troppo generico e probabilmente corrotto per quanto riguarda il cognome è il riferimento che troviamo in HA, Vita Clodi Albini 2, 3 a un «Nonius Murcus» (!) che, al pari di Settimio Severo, avrebbe parlato male di Commodo ai soldati aspirando all’impero. Pochi anni prima dell’assassinio di Commodo, M. Nonius Arrius Mucianus (figlio o nipote di Macrino) dichiarò la sua fedeltà al principe, dedicandogli a Brescia ben due statue e rivolgendosi a lui come fortissimo principi: l’occasione fu forse suggerita dall’eliminazione del prefetto del pretorio, già favorito di Commodo, M. Aurelius Cleander: I. It., X, V, 101-102 (a. 189 d.C.).
4 – M. Caecilius Privatus, M. Licinius C. Lucretius Censorinus e Sex. Valerius Primus: I. It., X, V, 112, 124, 150. Sappiamo che il secondo di questi personaggi era fratello del cavaliere romano M. Licinius C. Lucretius Postuminus, mentre il terzo era figlio di un magistrato locale e di una donna che aveva ricevuto l’eccezionale onore di un funerale pubblico. Sulla consuetudine di onorare gli amici dedicando statue nelle loro case si veda la documentazione bresciana raccolta da Gregori 2001.
5 – La questione è ora affrontata in Gregori 2011, cui si rinvia: fino a oggi si riteneva invece, sulla base della dedica ricevuta da Macrino a Efeso, che il secondo tribunato di Macrino fosse stato esercitato presso la legione XVI Flavia Firma di stanza in Commagene: l’ipotesi, formulata da Egger 1906, p. 62, ha goduto di incontrastata fortuna, ma non si è tenuto conto del fatto che potrebbe esserci stato un fraintendimento del lapicida che trasferì su pietra il testo della minuta. Come tribuno della X Fretense o della X Gemina è possibile che Macrino abbia partecipato negli anni 132-135 d.C. alla guerra giudaica di Adriano, che vide per l’appunto impegnate, sia pure con un numero diverso di contingenti, entrambe le legioni: cfr. Migliorati 2003, pp. 303-316; Eck 2007.
6 – Cfr. Le Gall 2005, pp. 163-164. Tra gli eventi funesti che colpirono Roma sotto Antonino Pio si ricordava anche un’inondazione del Tevere, ma non sappiamo in quale anno preciso del suo principato essa abbia avuto luogo: HA, Vita Antonini Pii 9, 3.
7 – Non sappiamo ancora chi sia subentrato a Macrino nel governo della Pannonia superiore e a partire da quando; dopo Macrino è attestato C. Iulius Commodus Orfitianus, cos. suff. nel 157 d.C., ma non sono noti gli anni dell’arrivo di questi in Pannonia: Thomasson 2009, p. 39.
8 – Furono colleghi di Macrino Marco Ponzio Leliano Larcio Sabino, Quinto Pompeo Sosio Prisco, Lucio Venuleio Aproniano Ottavio Prisco, Tito Pomponio Proculo Vitrasio Pollione, Quinto Pompeo Senecione Sosio Prisco, alcuni dei quali espressamente menzionati nelle fonti come amici e comites. Rüpke, Glock 2005, pp. 342-354 ipotizzano una cooptazione di Macrino già tra i sodales Antoniniani (dopo la morte di Antonino Pio), prima quindi che questi mutassero la loro denominazione in quella di Antoniniani Veriani; cfr. già Pflaum 1966, pp. 456-464. Secondo SHA, Vita M. Antonini philosophi 7, 11 («sodales ex amicissimis Aurelianos creavere») i sodales Antoniniani sarebbero stati scelti da Marco Aurelio e Lucio Vero tra gli amici più cari del defunto imperatore. La dedica di Efeso, oltre alla cooptazione di Macrino tra i sodales Antoniniani Veriani, ricorda in effetti che egli fece parte del gruppo ristretto degli amici della casa imperiale: «Ἀντωνεινιανὸν Οὐηριανὸν ἐκ τῶν συνκατηξιωμ[έ]νων φιλτάτων ἱερέα».
9 – Di solito in età antonina tra consolato e proconsolato d’Asia e Africa è attestato un intervallo di 14/15 anni; Sestio Laterano, console nello stesso anno di Macrino, fu per esempio inviato come proconsole in Africa nel 168/169 d.C. (Alföldy 1977, p. 112); egli era stato tuttavia console ordinario e non suffetto, come Macrino, e d’altra parte la nomina di Macrino potrebbe essere stata rinviata a causa dell’emergenza bellica determinata dalle incursioni barbariche al di qua del Danubio; cfr. Alföldy 1977, pp. 110-124, 217. Sul predecessore di Macrino in Asia: Thomasson 2009, p. 86.
10 – Così secondo l’integrazione accolta nelle I. Eph., VII 1, 3029, a suo tempo proposta da H. Dessau (ILS 8830) e perfezionata da Wilhelm 1928. Sul sofista Flavio Damiano si veda di recente Puech 2002, pp. 190-200; Barresi 2007, pp. 137-151.
11 – Vita Marci Antonini philosophi 22, 1: «Gentes omnes ab Illyrici limite usque in Galliam conspiraverunt, ut Marcomanni, Varistae, Hermunduri et Quadi, Suevi, Sarmatae, Lacringes et Burei † hi aliique cum Victualis, Sosibes, Sicobotes, Roxolani, Basternae, Halani, Peucini, Costoboci».
12 – Grande scalpore suscitò in quel frangente la distruzione del celebre santuario di Eleusi, una eco della quale si ritrova, con toni drammatici, in Elio Aristide, or. 22 (il cosiddetto threnos Eleusinios): proprio i riferimenti contenuti nella subscriptio consentono di dire che nel giugno del 171 d.C. Macrino si trovava in Asia come proconsole.
13 – Da Thyatira in Lidia proviene il decreto onorario per un tal Laibianos, figlio di Kallistratos, il quale aveva anticipato in favore della città il pagamento del pesante tributo bastarnico richiesto dal fisco imperiale: TAM, V 2, 982, rr. 13-15, con le osservazioni tuttora condivisibili di von Premerstein 1912, p. 166; cfr. anche Magie 1950, pp. 1517 nota 48, 1535 nota 13.
14 – Sul problema delle incursione maure nelle Spagne al tempo di Marco Aurelio si veda ora Gregori 2009-2010 pp. 56-65 con la nutrita bibliografia precedente; si veda in particolare Thouvenot 1939; Blázquez 1978, pp. 483-488; Alföldy 1985; Arce 1987, pp. 38-46; Corell i Vicent 1988; Asorey Garcia 1995; Rahmoune 2001; Gozalbes Cravioto 2002; Bernard 2009; Morillo 2009.
15 – Sulla legione VII Gemina si veda ora Palao 2006. Dubita dell’intervento della legione e pensa invece a quello di truppe ausiliarie, Le Roux 1982, pp. 376-377; infatti da un censimento condotto sulle testimonianze epigrafiche attestanti la presenza della legio VII Gemina nelle province spagnole dalla metà alla fine del II secolo d.C. (Le Roux 1982, pp. 210-216), risultano essere assai poche le attestazioni della legione al di fuori dai confini della Citeriore dove era di stanza e in particolare nella confinante provincia inerme della Betica. Segnalo in particolare l’epitaffio del legionario Ti. Claudius Festus, caduto all’età di 24 anni, e quindi ancora in servizio, e sepolto a Italica (Eph. Ep., VIII 2, n. 92 = CILA, II 2, n. 407; Le Roux 1982, p. 211 n. 142).
16 – CIL VI 41271. Sul personaggio e la sua lunga carriera, culminata con la prefettura del pretorio al tempo di Commodo in sostituzione del defenestrato Cleandro (189-190 d.C.): PIR2, I 615; Howe 1942, p. 67 n. 10; Pflaum 1960, pp. 178-181.
17 – Di bellum Maurorum si fa menzione nella dedica di Singilia Barba in onore di Vallio Massimiano, che nel 177 d.C. restituì nuovamente le province spagnole all’antica pace: CIL II/5, 783 = ILS 1354a. Sarebbe invece caduto, secondo Alföldy 1985, p. 106, in occasione delle operazioni militari del 171 d.C. il primipilo (della legio VII Gemina?) L. Cornelius Potitus, qui […] in bello Maurico periit (CIL II/14, 131, da Liria, nell’Hispania Citerior), dal momento che nel 175-177 la reazione romana non sarebbe stata affidata all’unica legione di stanza nella Tarraconense, quanto piuttosto alle truppe ausiliarie comandate dal procuratore Vallio Massimiano (cfr. Corelli Vicent 1988, pp. 498-504); sulla controversa datazione di questo testo si veda anche Castillo 1991, pp. 86-87 (scettica sulla datazione proposta da G. Alföldy); Seguí Marco, García-Gelabert Pérez 1998, pp. 1378-1380. È possibile che avesse partecipato a questa stessa spedizione il centurione P. Aelius Romanus, lodato nel suo epitaffio come debellator hostium provinciae Hispaniae (CIL VIII 2786 = ILS 2659, da Lambaesis), anche se la VII Gemina non compare nella lista delle legioni nelle quali egli aveva prestato servizio come centurione (III Augusta, VII Claudia, XX Valeria Victrix, I Italica); Gebbia 2004b, pp. 1631-1632 pensa invece che Elio Romano avesse militato in Spagna agli ordini di Vallio Massimiano nel 177 d.C.
18 – Com’è noto, iscrizioni di cavalieri e senatori rinvenute lungo strade di lunga percorrenza non comportano necessariamente che presso il luogo di ritrovamento vi fosse anche una proprietà del personaggio; tuttavia per iscrizioni rinvenute lontano da Roma, luogo di sepoltura e luogo di soggiorno possono effettivamente coincidere; in ogni caso l’abbinamento di fonti epigrafiche e dati archeologici va fatto con prudenza: Chioffi 1999.
19 – HA, Vita Veri 8, 8: «Villam praterea extruxit in via Clodia famosissimam, in qua per multos dies et ipse ingenti luxuria debacchatus est cum libertis suis et amicis paribus, quorum praesentia nulla inerat reverentia». Cfr. Mastrodonato 1999-2000; Vistoli 2005.

Posidonio, Marcello e la Sicilia

di E. Gabba, in «ΑΠΑΡΧΑI». Nuove ricerche e studi sulla Magna Grecia e la Sicilia Antica in onore di Paolo Enrico Arias, II, Pisa 1982, pp. 611-614.

Grandi personalità come Scipione Africano, Flaminino, L. Emilio Paolo e Scipione Emiliano hanno trovato nella storiografia greca del II sec. a.C. raffigurazioni esemplari. I giudizi e le valutazioni che leggiamo in Polibio e nelle biografie di Plutarco, che ampiamente ne deriva, sono il riflesso in campo storiografico di atteggiamenti diffusi nel mondo greco. I motivi ellenistici della raffigurazione del sovrano come emanazione della divinità si combinano con teorie evemeristiche e con le credenze popolari nei poteri superumani dei grandi capi. Polibio cercò di razionalizzare la «leggenda» di Scipione Africano[1].

P. Cornelio Lentulo Marcellino. Roma, 50-49 a.C. Denario, Ar. 93 g. (Dritto) Marcellinus: Testa nuda di M. Claudio Marcello, verso destra, con un triskele (simbolo della Sicilia) affiancato

È difficile sottovalutare l’influenza che devono avere avuto sopra i membri ella classe dirigente romana gli onori quasi divini che tante personalità politiche romane ricevevano in Grecia già agli inizi del II sec. a.C. e più in seguito. Gli intellettuali greci, sempre più di frequente a fianco dei politici romani, avranno, volontariamente o meno, favorito in questi il sorgere di un senso di superiorità e soprattutto la consapevolezza del valore culturale e civile della missione di Roma.

Nella valorizzazione dei grandi personaggi politici romani e nella idealizzazione delle loro virtù civili ed umane gli intellettuali trovavano la legittimazione culturale del diritto di Roma al dominio del mondo. Il loro contributo alla creazione di una coscienza imperiale, cioè del diritto al dominio, nella classe dirigente romana deve essere stato decisivo. Questa stessa coscienza, a sua volta, la classe oligarchica cercò di trasmettere in vari modi a tutte le altre componenti del corpo sociale[2].

Sulla scia dei molti intellettuali greci attivi a Roma, e soprattutto di Polibio, deve essere intesa la «missione» di Panezio. Egli svolse con piena consapevolezza il compito di fornire una preparazione culturale all’élite di governo, unica e fondamentale garanzia perché, come già si augurava Polibio, la gestione del potere da parte di Roma avvenisse in modo degno, e accettabile da parte dei sudditi. Più tardi Posidonio mostrerà acutamente la decadenza e la corruzione del potere romano soprattutto nell’amministrazione provinciale e nello sfruttamento delle classi inferiori, e le responsabilità in tutto ciò del ceto equestre. Tuttavia egli indicherà altrettanto chiaramente di conservare fiducia nelle capacità di rigenerazione e di ripresa della classe dirigente senatoriale, che gli appariva sempre depositaria di una grande tradizione di virtù civili, rinnovate dall’apporto culturale greco, e di sapienza politica[3].

Anche la personalità di Marcello ha conosciuto una trasfigurazione idealizzata, per la quale il vincitore di Siracusa viene presentato nella biografia plutarchea come esempio di umanità e di mitezza, come un modello di eroe stoico. Anzi un passo estremamente significativo di Plutarco, Marc., 20, 1-2, afferma che, mentre i Romani erano sempre apparsi agli stranieri, cioè ai Greci, terribili in guerra e temibili nei combattimenti e non avevano mai fornito esempi di comprensione e di umanità e di virtù politiche, proprio Marcello per primo mostrò ai Greci che i Romani sapevano essere più giusti: benefattore di privati e di città in Sicilia, se Enna, Megara e Siracusa ebbero a subire condizioni non benevole, la responsabilità ricade piuttosto sulle vittime che non su coloro che agirono in quel modo verso di esse. Il pianto di Marcello al momento della caduta di Siracusa (19, 2), il vano tentativo di evitare il saccheggio (19, 4-6), il dolore per l’uccisione di Archimede (19, 8-12) sono altrettante prove del suo animo sensibile e moderato. D’altro canto il trasporto a Roma del bottino artistico siracusano, oggetto di vivissima critica da parte di Polibio (IX 10: Walbank, Hist. Comm. II 134-136), nonché dei tradizionalisti (Liv. XXV 40, 2; Catone, XXXIV 4, 4), si configura per il biografo, che ripete compiaciuto un’affermazione attribuita allo stesso Marcello, come un mezzo per ingentilire e istruire i Romani (21).

La morte di Archimede. Copia del XVI sec. di un mosaico romano. Frankfurt a.M., Städelsches Kunstinstitut. «E in particolare la sciagura di Archimede addolorò Marcello. Accadde infatti che egli stesse esaminando qualcosa tra sé su un disegno e, avendo dedicato alla ricerca della soluzione contemporaneamente sia la concentrazione che lo sguardo, non si accorse in tempo dell’accorrere dei Romani né della presa della città; e quando improvvisamente gli si presentò un soldato e gli ordinò di seguirlo da Marcello, non voleva prima di concludere il problema e di condurlo alla dimostrazione; e quello, adiratosi e avendo estratto la spada, lo uccise». (Plut., Marc. 19, 4)

La priorità vantata da Plutarco pone, allora, Marcello al primo posto in quell’elenco di illustri Romani ricordati più sopra, che la storiografia greca presentava come esemplari del mondo romano, e quasi come garanzia di legittimità per l’egemonia di Roma.

Di quali materiali sia, in ultima analisi, contesta la biografia plutarchea di Marcello non è facile dire: elementi polibiani e annalistici sono presenti, variamente mescolati a notizie di differente provenienza: il tutto probabilmente inserito su di uno schema biografico precedente e con personali apporti di Plutarco[4]. Il quale cita quattro volte Posidonio (1, 1; 9, 7; 20, 11; 30, 8 = Jacoby, FGrHist F 41-42-43-44; commento a IIC, pp. 189-190). Mentre il De Sanctis riteneva molto circoscritta l’utilizzazione di questo storico, un allievo di F. Jacoby, M. Mühl, in un’ampia ricerca apposita, sostenne la teoria, basata su di un’interpretazione unitaria della biografia, che la personalità di Marcello aveva formato l’oggetto di un’opera particolare di Posidonio, seguita da Plutarco[5]. In quest’opera lo storico di Apamea aveva voluto raffigurare il generale romano come modello di uomo politico, educato dal pensiero stoico, esempio di umanità e di clemenza, aperto consapevolmente all’influenza della cultura greca. L’operetta sarebbe stata offerta da Posidonio ad un discendente di Marcello, e precisamente al console del 51 a.C. F. Münzer in una recensione della ricerca di Mühl, mentre riconosceva la validità dell’interpretazione idealizzata in senso stoico di Marcello nella biografia plutarchea, respingeva l’ipotesi di uno scritto speciale e sosteneva l’idea di un excursus biografico nelle Storie posidoniane, secondo ben noti esempi della storiografia greca classica[6]. I rapporti di Posidonio con il Marcello edile nel 91 a.C., padre del console del 51, spiegherebbero l’origine di questa digressione in onore dell’antenato. Il Münzer, tuttavia, avanzava dubbi (e probabilmente a ragione: contra Jacoby, IIC, p. 190) sull’appartenenza a questo excursus di tutti e quattro i rinvii posidoniani della biografia.

Anche il Jacoby, pur non escludendo la possibilità di uno scritto biografico particolare, preferiva pensare ad un excursus delle Storie. Poiché il F 51 (=Strab. 3.4.13: introduzione alla guerra contro Viriato) ricorda il Macello console nel 152, egli pensava di collocare a quel punto l’excursus stesso, sempre spiegato con le personali relazioni di Posidonio con la famiglia dei Marcelli.

La biografia plutarchea presenta indubbiamente un’interpretazione di Marcello coerente e unitaria. Il fulcro di questa interpretazione, al di là del tono generale naturalmente elogiativo, è rappresentato dall’atteggiamento umano di Marcello a Siracusa nel cap. 19; dal brano, riferito esplicitamente a Posidonio, nel cap. 20 sul comportamento di Marcello verso i vinti siciliani; e dall’interpretazione favorevole a Roma, e in netta posizione polemica con Polibio, del bottino siracusano. Non vi è alcun motivo per attribuire a Posidonio altro materiale della biografia, né il tono generale della stessa, che sarà capace rielaborazione e inquadramento plutarcheo del materiale disparato. Le altre tre citazioni di Posidonio (oltre a quella del cap. 20) sono marginali. Münzer era portato a ritenere che le prime due (1, 1: sul significato del cognomen Marcellus; 9, 7: Marcello spada, Fabio Massimo scudo di Roma, ricorrente anche in Fab. Max. 19, 1-4) non appartenessero all’excursus. La quarta (30, 8) ricorda un’offerta di Marcello dal bottino siracusano al tempio di Atena a Lindo con la relativa iscrizione: essa si riconnette alla tematica del cap. 20. La mia conclusione è, dunque, che non vi è alcun motivo per ritenere con il Mühl che l’excursus di Posidonio contenesse una vera e propria, se pur breve, biografia del personaggio. Ritengo più probabile, valorizzando la tematica della citazione al cap. 20, che le notizie su Marcello, con un’idealizzazione in senso stoico, avessero un ambito più limitato e, al tempo stesso, più pertinente al contesto delle Storie nel quale erano inserite. Naturalmente questo mio ragionamento non respinge la spiegazione, avanzata sia dal Mühl che dal Münzer e dal Jacoby, che i rapporti dello storico di Apamea con qualche membro della famiglia dei Marcelli possono in qualche modo aver influenzato la sua interpretazione del grande antenato (sebbene questa teoria non abbia più gran valore). Se consideriamo allora, che il frammento di Posidonio al cap. 20 si riferisce specificamente all’atteggiamento umano di Marcello in Sicilia, ritengo probabile che le notizie su Marcello (l’excursus) si trovassero per l’appunto in un contesto di storia siciliana. Non è difficile indicare dove: nella premessa alla narrazione della prima guerra servile.

È un dato oramai generalmente accettato che la narrazione posidoniana delle guerre servili in Sicilia (dal libro VIII in avanti delle Storie) si ritrova nei frammenti dei libri XXXIV/XXXV di Diodoro. La narrazione diodorea è per noi ricostruibile dal riassunto di Fozio e dai vari escerti costantiniani. I rapporti fra questi due gruppi di notizie sono certamente complessi e sono stati anche di recente rimessi in discussione[7]: esistono evidenti parallelismi, ma anche passi non facilmente riconducibili ad un’esposizione già all’origine unitaria (nel Jacoby F 108 le varie narrazioni sono giustapposte). Certamente bisogna considerare con attenzione e cautela i differenti intendimenti e le diverse «lavorazioni» del testo «posidoniano» di Diodoro nel riassunto di Fozio e negli excerpta.

Ad ogni modo, soprattutto dall’inizio del riassunto di Fozio appare chiaro che la narrazione posidoniana della prima guerra servile era introdotta da un’esposizione della storia della provincia romana nei sessant’anni della sua istituzione, vale a dire dalla fine della seconda guerra punica. La notazione cronologica con cui si apre il testo di Fozio, appartiene certamente a Posidonio così come la nota, per nulla banale, che quel periodo era stato in tutti i suoi aspetti felice per la provincia. L’intendimento dello storico era, evidentemente, di contrapporre la buona amministrazione e la prosperità di quegli anni al successivo periodo con il grave peggioramento e deterioramento della situazione dovuti in larga misura agli equites. Le cause di questa nuova situazione sono individuate dallo storico nel modificarsi delle condizioni economiche e sociali dell’isola con i gravissimi riflessi anche nel campo politico-amministrativo per il coinvolgimento dei governatori stessi, e il loro atteggiamento verso i provinciali. Questo quadro introduttivo travalicava, forse, i limiti del periodo anteriore alla prima guerra servile e forniva le motivazioni di fondo di tutta la situazione della provincia di Sicilia: si potrebbe spiegare, così, l’accenno, anacronistico avanti il 122 a.C., agli equites che giudicavano i governatori provinciali nella quaestio de repetundis. I cavalieri erano notoriamente la bestia nera di Posidonio.

Penso che proprio all’inizio di questa introduzione storica sulla provincia di Sicilia, e in piena consonanza con essa, anni felici per la Sicilia, si collocassero le notizie su Marcello e sul suo comportamento umano e clemente verso le città siciliane: quasi a mostrare quali erano state fin dal principio la politica romana nell’isola e la bontà dell’amministrazione, che, poi, dopo circa sessant’anni, avevano assunto modi tutt’affatto diversi. Quanto Posidonio tenesse a mettere in evidenza i meriti dei governatori provinciali romani che avevano amministrato saggiamente le province loro affidate, è ben noto. Ma val la pena di ricordare l’alto elogio che egli tesseva di un governatore della Sicilia, probabilmente L. Sempronio Asellio, dopo la seconda guerra servile, e della sua opera illuminata per restaurare il benessere della provincia (Diod. XXXVII 8).

M. Claudio Marcello. Statua, marmo. Roma, Musei Capitolini.

È in questa prospettiva che, a mio credere, si collocano assai bene le lodi per Marcello e per il suo comportamento in Sicilia al momento della conquista: un rovesciamento profondo nella valutazione del responsabile della distruzione di Siracusa e della morte di Archimede, fatti che avevano colpito in modo assai grave la coscienza civile e la sensibilità politica e culturale greca[8].

Certamente per Posidonio uomini come Marcello avevano legittimato l’egemonia romana fin dal suo nascere e da loro dovevano venire l’esempio e la garanzia per la rigenerazione della classe di governo romana. Alla valutazione realisticamente negativa di Polibio e alla critica del moralismo tradizionalista riflessa poi in Livio, Posidonio contrapponeva il valore culturale del trasporto a Roma del bottino artistico da Siracusa. Per questa via Marcello diventava consapevolmente anche uno dei tramiti, e cronologicamente anzi il primo, del processo di introduzione della cultura greca a Roma; un problema storico che, da un punto di vista specificamente culturale, non aveva che scarsamente interessato Polibio, ma che era invece capitale nelle riflessioni politico-filosofiche e storiografiche di Panezio e di Posidonio.

***

Note:

[1] E. Gabba, P. Cornelio Scipione Africano e la leggenda, Atheneum 53 (1975), pp. 3-17.

[2] E. Gabba, Storiografia greca e imperialismo romano, RSI 86 (1974), pp. 638-640.

[3] Cfr. spec. P. Desideri, L’interpretazione dell’impero romano in Posidonio, RIL 106 (1972), pp. 481-493; inoltre H. Strasburger, Poseidonios on Problems of the Roman Empire, JRS 55 (1965), pp. 40-53; P. Treves, La filosofia greca e il diritto romano, I, Acc. Naz. Lincei, Problemi di attualità di Scienza e di Cultura, n. 221, Roma 1976, pp. 27-65.

[4] G. De Sanctis, Storia dei Romani 2, III 2, pp. 366-373; R. Flacelière – E. Chambry, Plutarque, Vies, IV, Paris 1966, pp. 179-191.

[5] M. Mühl, Posidonios un der plutarchische Macellus. Untersuchungen zur Geschichtsschreibung des Posidionios von Apameia (Klassïsche-Philologische Studien, 4), Berlin 1925. 

[6] F. Münzer (rev.), Poseidonios und der plutarchische Marcellus by Max Mühl, Gnomon 2 (1925), pp. 96-100.

[7] ] F.P. Rizzo, Posidonio nei frammenti diodorei sulla prima guerra servile in Sicilia, in Studi di Storia Antica offerti dagli allievi a E. Manni, Roma 1976, pp. 259-293. Cfr. anche G.P. Verbrugghe, Narrative Pattern in Posidonius’ History, Historia 24 (1975), pp. 189-204 e Id., Sicily 210-70 B.C.: Livy, Cicero and Diodorus, TAPhA 103 (1972), pp. 535-559. Per Diodoro mi riferisco all’edizione di F.R. Walton, Diodorus of Sicily, XII, London-Cambridge 1967, p. 56 sgg. (Loeb Classical Library).

[8] Un cenno all’ipotesi qui prospettata è già in A. Klotz, Die Quellen der Plutarchischen Lebensbeschreibung des Marcellus, RhM 83 (1934), p. 294.

Storiografia greca e imperialismo romano (III-I secolo a.C.)

di E. Gabba, RivStoIt 86 (1974), 625-642.

Roma domina il mondo politico e culturale greco dalla fine del III secolo a.C. Si può dire che da questo momento ogni manifestazione letteraria greca sia collegata direttamente o indirettamente con quel complesso di eventi e di situazioni che siamo soliti chiamare imperialismo romano[1].

Soprattutto la storiografia è occupata da questo problema. Naturalmente un discorso sulla storiografia greca dell’imperialismo romano non può non cominciare con Polibio: tuttavia è importante indicare come il problema dell’espansione romana sia stato visto anche da altri storici greci, minori rispetto a Polibio ma non meno significativi. Nella lunga galleria dei molti storici greci dal III al I secolo a.C. si potrà per ora fermare l’attenzione soltanto su alcuni: la selezione avrà inevitabilmente carattere personale. Nell’opera storica di Polibio la discussione critica con storici suoi predecessori o suoi contemporanei ha una parte notevole[2].

Polibio raffigurato in un bassorilievo su una lastra di marmo di un monumento perduto. Museo Nazionale della Civiltà Romana, Roma.
Presunto ritratto di Polibio di Megalopoli. Rilievo, marmo, c. II secolo a.C., da Kleitor (Arcadia). Roma, Museo Nazionale della Civiltà Romana.

Questa polemica non ha, però, carattere univoco e può, anzi, essere distinta in almeno quattro tipi fondamentali. Il caso più semplice si ha quando Polibio, consapevole degli strumenti tecnici e delle conoscenze specifiche di cui dispone, può colpire gli errori e l’incompetenza di altri autori. Più complesso è il caso della polemica propriamente politica, anche se questo fondamento è talora mascherato sotto obiezioni sul modo di presentare i fatti storici e sulla finalità stessa della storia. Si pensi ai capitoli del libro II contro Filarco. In altri casi la polemica ha carattere quasi personale. Per esempio Polibio scrive contro Timeo con lo scopo di denigrare un concorrente pericoloso che aveva, come lui ma prima di lui, avvertito il nuovo ruolo di Roma nella storia mondiale. Egli mette in rilievo presunti o veri errori di Timeo, ma al fondo vi è la gelosia di mestiere e la concorrenza.

Forse ancora più importante è il quarto tipo di discussione polemica, che è di vero e proprio metodo storico e che è rivolta contro opere in contrasto con l’interpretazione storica polibiana. Polibio ha la precisa volontà, spesso e volentieri ripetuta, di scrivere storia universale. Egli è consapevole di vivere in un momento storico eccezionale, caratterizzato dall’emergere di Roma a potenza egemonica universale. L’egemonia romana rappresentava in un grado mai prima raggiunto, l’unità del mondo conosciuto; essa forniva, al tempo stesso, il centro per una nuova visione unitaria della storia mondiale (I 2, 1). Ma non basta l’unità dell’argomento a dare unitarietà all’opera storiografica: si richiede nello storico unità di pensiero e di idee, capacità di abbracciare con ambio sguardo l’unità del periodo storico soprattutto nella concatenazione delle cause degli avvenimenti (V 32, 45). Come si sa il concetto dell’unità, o dell’intreccio (symplokḗ), degli avvenimenti mondiali è legato in Polibio in primo luogo all’esito della guerra annibalica. La battaglia di Zama è vista come la decisione su chi doveva essere il dominatore del mondo (XV 9, 2; V 33, 4; VIII 1, 3). Questo concetto, prima di diventare canone storiografico con Polibio, era stato argomento politico acutamente percepito dall’etolo Agelao già nel 217 a.C. (V 104, 3)[3]. Poco prima della vittoria romana di Cinoscefale l’autore di un oracolo riferito da Plutarco (de Pyth. Orac. 11; Just. XXX 4, 1-4) ripeteva ancora l’idea che la vittoria dei Troiani sui Fenici suonava come l’avviso della guerra contro la Grecia e l’Asia.

Pavel Glodek, Battaglia di Cinoscefale
La battaglia di Cinoscefale. Illustrazione di P. Glodek.

La concezione universalistica della storia mondiale, centrata su Roma, è strettamente collegata in Polibio all’idea di una precisa volontà imperialistica dei Romani, sia pure in accordo con i piani nascosti della Tyche. Questa volontà finisce per essere il vero elemento unificante della storia dei cinquantatré anni dalla guerra di Annibale a Pidna (I 3, 6; VIII 1, 3). In questo modo Polibio si inserisce consapevolmente nella generale interpretazione della storia greca, intesa come un succedersi di egemonie (I 2, 25). Questa concezione si era venuta ampliando, in seguito, su di un piano mondiale: tutta la storia universale si presentava come una successione di grandi imperi egemonici[4].

L’elemento nuovo, offerto dalla supremazia romana, consisteva nell’ampiezza del fenomeno, mai raggiunta prima, e che faceva sì che il fenomeno stesso dovesse essere indagato nelle sue cause. Da questa concezione della storia universale trae origine la polemica polibiana contro le storie parziali, e contro le epitomi che danno una falsa immagine di universalità, solo perché accostano, senza un’idea che li unifichi, fatti della storia dei Greci e dei barbari, come nelle annotazioni cronografiche scritte sui muri per ordine pubblico (V 33, 5 e in generale 1-7)[5].

Frammento della biga di Ares. Rilievo, marmo, prima metà del II secolo a.C., fregio est, dall'Altare di Zeus Sotere e Atena Niceforo. Berlin, Pergamonmuseum.
Frammento della biga di Ares. Rilievo, marmo, prima metà del II secolo a.C., fregio est, dall’Altare di Zeus Sotere e Atena Niceforo. Berlin, Pergamonmuseum.

La polemica contro le storie parziali è quella che a noi interessa. Essa importava molto anche a Polibio, che frequentemente torna a ripetere la sua critica (VIII 12; III 32). Nelle storie parziali, dedicate ad un singolo pur grande avvenimento, si perde necessariamente la visione d’insieme e il concatenamento dei fatti. È impossibile osservare la storia mondiale da un punto di vista limitato: soltanto Roma e il suo impianto istituzionale e militare possono rappresentare il centro della storia, qualunque sia il giudizio che si dia su di essi. Fra le storie parziali sono comprese anche le storie locali, come si vede dalla polemica polibiana contro gli storici di Rodi (XVI 14, 1). Tenendo presente questa concezione universalistica della storia con al centro Roma, si comprende bene il ragionamento di Polibio nel libro IX, probabilmente all’inizio (12). Qui lo storico in due capitoli sostiene la superiorità della storia pragmatica, in quanto storia contemporanea di fatti politici e militari concernenti popoli, città, re, sopra altri due generi storiografici, quello genealogico-mitico e quello interessato alla storia delle colonie, delle fondazioni, delle parentele (perì tàs apoikías, éti dè syngeneías kaì ktíseis).

La Battaglia di Pidna. Illustrazione di P. Connolly.
La Battaglia di Pidna. Illustrazione di P. Connolly.

Polibio non nega la legittimità di questi altri due generi storiografici, che si rivolgono, fra l’altro, a categorie di lettori diverse dagli uomini politici interessati alla storiografia pragmatica. Tuttavia in essi, pur ampiamente trattati da molti storici, è impossibile dire cose nuove, e si corre anzi il rischio di copiare dai predecessori, che hanno narrato accuratamente i fatti antichi. La storia pragmatica, in quanto storia contemporanea, può offrire una narrazione arricchita dai nuovi dati del progresso tecnico e, quindi, utile ai lettori, che sono messi in grado di poter agire quasi scientificamente secondo le circostanze. La storia non contemporanea, e specialmente quella delle origini, è così svalutata da Polibio in nome della concezione utilitaristica della storia. Di colonie, fondazioni e parentele avevano parlato tanto Eforo quanto Timeo (XII 26 d 2). Tuttavia, qui Polibio si riferisce piuttosto ad un genere specifico di storie ben vivo al suo tempo. La sua svalutazione colpisce ancora una volta la storiografia locale, già condannata come storiografia parziale. Eppure, è ben possibile dimostrare come anche questa storiografia locale non fosse affatto distaccata dall’attualità dei problemi politici e come, per esempio, l’emergere di Roma condizionasse, e in sensi opposti, anche la sua indagine. È proprio la concezione pragmatica della storia che impedisce a Polibio di comprendere e valutare appieno gli aspetti politici, attuali e impegnati di tipi di storiografie diversi dal suo.

D’altro canto, bisogna facilmente ammettere la verità dell’orgogliosa consapevolezza di Polibio per aver trovato nell’emergere di Roma e nel suo dominio il nuovo motivo unificante della storia mondiale. Questa sua concezione deve essere vista nel quadro più generale della storiografia greca dei secoli III e II a.C. Dopo Geronimo di Cardia gli stati monarchici greci non rappresentano più motivi ispiratori per una visione unitaria della storia greca, quale si era avuta nel IV secolo con Eforo e Teopompo. L’equilibrio politico degli Stati ellenistici non assurge a canone interpretativo della storia greca[6].

Spostare il baricentro storico e porre la grecità e i popoli dell’Occidente a nuovo momento centrale della storia, come fece Timeo, era nel III secolo un atto troppo ardito, o troppo intelligente, che doveva trovare la sua verifica soltanto un secolo dopo[7].

Mappa del Mediterraneo nel II secolo a.C.
Mappa del Mediterraneo nel II secolo a.C.

La storiografia delle monarchie ellenistiche si indirizza in due direzioni. Si hanno da un lato trattazioni monografiche di storia politica, che hanno il loro centro nei singoli re, e biografie. La fortuna del genere biografico per capi di stato, re e generali in questo periodo è stata ben dimostrata dal Momigliano[8].

Dall’altro lato le nuove entità statali ellenistiche, per legittimare la propria continuità con il passato, hanno interesse a valorizzare le tradizioni pregreche delle regioni ora da poco sottoposte al loro dominio. Manetone e Berosso sono gli esempi più insigni di questa tendenza sostenuta dallo stesso potere statale. Questo interesse si combina con la curiosità per paesi e popoli nuovi suscitata nel mondo greco dalla conquista dell’Oriente. Nasce una nuova fase della ricerca etnografica, che acquistò scientificità dell’apporto della riflessione filosofica ed antropologica. Ecateo di Abdera, Megastene e poi Agatarchide, sul quale ritorneremo, sono fra i nomi più significativi[9].

Le storie dedicate ai singoli Stati greci tradizionali perdono significato. Come già aveva notato acutamente Wilamowitz, l’attidografia finisce alla metà del III secolo a.C. con la fine della libertà politica di Atene dopo la guerra cremonidea[10]. L’opera di Filarco, che concentrava il suo principale interesse su Sparta, era al servizio dell’ideologia licurgica di Cleomene III e non poteva avere svolgimento dopo la fine di quel sogno. Polibio contribuì con la sua critica cattiva a svalutare ingiustamente Filarco, nemico di Arato. È in questo contesto che si nota dal III secolo a.C. un curioso ed imponente risorgere della storiografia locale. Le radici del fenomeno non possono essere trovate soltanto nel prevalere in questa età degli interessi eruditi, antiquari e documentari. Questi interessi forniscono i materiali per la ricerca erudita che caratterizza questa storiografia, anche come conseguenza dell’indirizzo di studi della scuola peripatetica, ma le sue motivazioni sono più complesse. Di nuovo Wilamowitz aveva osservato che dove sopravvive una qualche libertà politica, come a Rodi e ad Eraclea Pontica, la storiografia locale dura sino alla fine dell’età ellenistica, e si collega anche alla grande politica[11].

Busto di stratega greco ignoto. Marmo, copia romana di età adrianea da originale del 400 a.C. ca. Museo Pio Clementino (Musei Vaticani).
Busto di stratega greco ignoto. Marmo, copia romana di età adrianea da originale del 400 a.C. ca. Museo Pio Clementino (Musei Vaticani).

La teoria di Wilamowitz può essere ampliata. La storiografia locale greca del III e II secolo a.C. è in generale caratterizzata da patriottismo locale e l’indagine sul passato, sulle origini mitiche e protostoriche, vuole valorizzare il periodo aureo delle città, quello del loro libero sorgere e della loro autonomia. Per le città d’Asia minore si risale talora anche alla grande età preellenica[12].

Il fondamento di questa ricerca sul passato è semplicemente politico, di contrapposizione al presente. Le póleis, politicamente esautorate e sommerse nell’ambito delle grandi formazioni statali ellenistiche, riaffermano così la loro individualità storica risalendo alle loro origini eroiche e alle fasi della loro vita libera[13]. È dunque basilare anche in questi casi un’esigenza di libertà, idealizzata nel passato, poiché essa è politamente perduta nel presente. È una reazione, ad un tempo, alla storiografia biografica dei sovrani, e alle tendenze culturali cosmopolitiche favorite dai poteri monarchici. Le vere o false parentele delle città con altre città, che tanta parte hanno in questa storiografia locale, non sono altro che un riflesso storiografico di quelle connessioni di consanguineità invocate nelle iscrizioni con tanta frequenza dal III secolo a.C. come argomento e motivazione di atti politici[14].

Esse avranno anche nel nostro caso lo stesso significato: vantare parentela con Atene o con Sparta, con l’ambiente ionico o con quello dorico, ricollegarsi a grandi personaggi mitici significava spesso per le città tentare di sollevarsi dalla compagine etnica e statale nella quale erano immerse. L’artificiosità del procedimento non fa che accrescere il suo valore politico, come è evidentissimo nel caso delle parentele di città greche con Roma. Si ricordi che tale sistema fu adottato dalla storiografia romana fin dal suo inizio con Fabio Pittore. Catone nei libri II e III delle Origines insisteva sulle origini greche di molte città italiche. Varrone collegherà poi la storia arcaica di Roma alla storia greca. Dionigi di Alicarnasso sfrutterà un amplissimo materiale di questo tipo nella sua problematica sulle origini greche di Roma.

Certamente questo carattere politico della storiografia locale poteva difficilmente essere apprezzato da Polibio, attento ai fatti politici e militari contemporanei e orgoglioso della sua visione universalistica. Ma val la pena di mostrare, con esempi tolti proprio da opere storiche locali di età polibiana, quale fosse l’impegno attuale che animava questa storiografia minore.
Il commento di Demetrio di Scepsi al «Catalogo dei Troiani» nell’Iliade (30 libri per soli sessanta versi!) era opera di grande erudizione e di largo impegno. Esso venne scritto nella prima metà del II secolo a.C.; servì da modello al «Catalogo delle navi» di Apollodoro di Atene e fu ampiamente usato da Strabone[15].

Enea fugge da Troia. Rilievo, marmo locale, I sec. d.C., dal Sebasteion di Afrodisia.
Enea fugge da Troia. Rilievo, marmo locale, I sec. d.C., dal Sebasteion di Afrodisia.

L’opera era resa vivace dalla partecipazione dell’autore, dal suo patriottismo locale, dalla diretta conoscenza dei luoghi. Egli interpretava il testo omerico nel senso di rappresentare il regno di Priamo come un ampio stato territoriale, che si estendeva da Cizico fino al golfo di Adramitto, ed era articolato in otto o nove principati sottoposti alla signoria di Troia. Demetrio, tuttavia, negava che la Ilio dei suoi tempi rappresentasse la continuazione della Ilio di Priamo. Ironizzava sulle ambiziose pretese degli Iliensi e descriveva la loro cittadina come un misero villaggio. Demetrio dichiarava di essere stato ad Ilio al momento dello sbarco dei Romani in Asia nel 190 a.C. e probabilmente sarà stato presente alle solenni cerimonie con le quali il console L. Cornelio Scipione aveva sacrificato al tempio di Atena, mentre Iliensi e Romani riconfermavano la loro parentela (Liv. XXXVII 27, 1-3). Altrettanto significativa era la teoria di Demetrio circa la città di Scepsi. La città era stata la reggia di Enea, il quale non sarebbe sopravvissuto alla guerra di Troia. Discendenti di Ettore e di Enea, Scamandrio e Ascanio, avrebbero regnato, dopo la caduta di Ilio, a Scepsi, spostata però più in basso rispetto alla sede più antica. Una dinastia, dunque, troiana sarebbe sopravvissuta nella Troade, ma non ad Ilio (che era stata distrutta), come avevano pensato Ellanico ed Acusilao. Demetrio polemizzava anche contro le teorie che non fosse perito nella guerra troiana e avesse lasciato la Troade per vagabondare nell’Occidente e arrivare in Italia. Anche Dionigi di Alicarnasso ci ha conservato l’eco di queste discussioni polemiche sul destino di Enea (I 53, 45).

La presa di posizione di Demetrio non può essere dovuta solamente a patriottismo locale. Lo stesso contrasto intuito fra Scepsi e la città di Ilio dei suoi tempi va oltre una pur comprensibile polemica campanilistica. Negare l’emigrazione di Enea o dei Troiani in Italia significativa togliere la base alla teoria – già da tempo diffusa e all’inizio del II secolo a.C. ben sfruttata – dell’origine troiana di Roma. Ironizzare sulle pretese di Ilio di rappresentare la continuità con la città di Priamo acquistava significato polemico in un momento in cui i Romani intendevano sfruttare la parentela con Ilio per presentarsi nell’Oriente grecizzato come gli eredi dei Troiani (Just. XXXI 8, 1-4).

L’opera di Demetrio, dunque, non era soltanto di erudizione e di filologia, ma affrontava problemi di storia arcaica ricchi di implicazioni politiche estremamente attuali. La sua trattazione sulla Troade si inseriva direttamente nella problematica dell’espansionismo romano nel mondo greco. La sua teoria su Enea si contrapponeva consapevolmente ad almeno altri tre autori originari della Troade contemporanei di Demetrio: Egesianatte di Alessandria Troade, Polemone di Ilio, Agatocle di Cizico. Egesianatte, uomo politico, «amico» di Antioco III e ambasciatore del re presso Flaminino nel 196 e a Roma nel 193 a.C., aveva scritto dei «Trōikà», che Demetrio conosceva, sotto il nome di Cefalio di Gergizio, «autore molto antico»[16].

Egli probabilmente voleva così acquistare pregio alla sua opera e forse anche ricollegarla alla tradizione della Sibilla di Marpesso nel territorio di Gergizio. Egesianatte faceva morire Enea in Tracia, ma faceva venire in Italia alcuni dei suoi figli. Romolo e Romo avrebbero fondato Capua, il suolo Romo anche Roma. Egli era piuttosto favorevole ai Romani, dei quali riconosceva in questo modo l’origine troiana. La critica di Demetrio alle teorie dell’emigrazione di Enea, ripetuta da Strabone, si rivolgeva molto probabilmente ad Egesianatte ed anche a Polemone di Ilio, il maggior antiquario della Troade, che faceva arrivare Enea in Italia dopo un passaggio in Arcadia[17].

A Egesianatte o a Polemone deve risalire la valorizzazione in senso filo-romano della Sibilla Troiana, o di Marpesso o di Gergizio, e del suo vaticinio per il viaggio di Enea in Occidente. Il collegamento della Sibilla con Enea appartiene allo stesso ambito nel quale si poteva interpretare il famoso verso di Il. XX 307, con la profezia di dominio della Troade assegnato ai discendenti di Enea, come una promessa del dominio universale dei Romani e addirittura modificare il testo omerico con una «congettura politica»: anche di questo parlava Demetrio.

T. Quinzio Flaminino. Testa colossale, marmo, II secolo a.C. ca. Delfi, Museo Archeologico Nazionale.
T. Quinzio Flaminino. Testa colossale, marmo, II secolo a.C. ca. Delfi, Museo Archeologico Nazionale.

Il caso di Agatocle di Cizico è altrettanto indicativo. Questo storico che, seguendo Wilamowitz, Perret e Alföldi, penso sia da datare agli inizi del II secolo a.C., offriva un quadro più complesso[18]. Egli faceva venire Enea in Italia con seguaci Frigi e con una nipote, Rhome, figlia di Ascanio (che invece rimaneva in Asia). Rhome avrebbe consacrato sul Palatium, dove poi sarebbe sorta la città di Roma, un tempio alla Fides. Agatocle doveva trovar modo di parlare di Roma discutendo dell’area cizicena prima della fondazione della colonia milesia. Egli riconduceva la preistoria della sua città all’ambiente troiano; sfruttava i collegamenti, già in Omero, di Enea con la Frigia e identificava senz’altro Frigi e Troiani (un’identificazione che è pure ricordata da Dionig. I 29, 1). Egli faceva infine conquistare il Lazio stesso dai Frigi. Noi sappiamo che i rapporti fra Roma e la Frigia avevano acquistato un nuovo significato dopo il 204 a.C. con l’introduzione del culto della Magna Mater in Roma. Come conclusione finale vi era il collegamento di Roma con Fides. Proprio all’inizio del II secolo a.C. il motivo della Fides giocava un ruolo notevole nella politica estera romana, nel quadro delle teorizzazioni sul bellum iustum e la difesa degli alleati. La Fides è il tema centrale nel peana dei Calcidesi in onore di Flaminino (Plut. Flam. XVI 7)[19].

Orbene, Demetrio respingeva, implicitamente o esplicitamente, tutte queste ricostruzioni storiche interessate e faceva restare Enea in Asia. È bene ricordare che Demetrio conosceva Diocle di Pepareto, lo storico locale che aveva fornito a Fabio Pittore la narrazione sulle origini di Roma. Lo stesso Diocle avrà avuto occasione di toccare l’argomento di Roma in qualche connessione con la storia arcaica della sua isola[20].

Ad ogni modo la polemica di Demetrio doveva aver avuto una notevole efficacia, se, come sembra, Polibio rifiutava l’origine troiana dei Romani, mentre forse ammetteva la venuta in Italia degli Arcadi con Evandro[21].

Il rifiuto delle origini troiane di Roma poteva avere conseguenze gravi: avvalorava la teoria dell’origine barbara di Roma, rendeva problematica la possibilità di indicare una data abbastanza precisa per la stessa fondazione di Roma. Quando Dionigi cita per combatterle le opinioni di autori che facevano dei più antichi Romani una massa di sbandati senza casa, di vagabondi e di barbari (I 4, 2) egli allude a storici anti-romani che indulgevano con compiacimento sulle origini misere ed oscure della città[22]. Noi comprendiamo bene a questo punto quale gravissimo significato polemico avesse il fatto che nei «Chronikà» di Apollodoro (pubblicati nei tre libri verso il 144-143 a.C., cui se ne aggiunse un quarto dopo il 120-119) non fosse indicato l’anno della fondazione di Roma: perché non si può stabilire quando un’accozzaglia di vagabondi si sia riunita e congregata[23].

La fondazione di una città per i Greci era un atto serio, preciso e responsabile. Tali non dovevano essere considerate le origini di Roma. Che l’omissione di una data di fondazione fosse già in Eratostene non diminuisce la gravità della constatazione in un cronografo della fine del II secolo a.C. L’omissione di Apollodoro era senza dubbio intenzionale: egli conosceva bene per esempio Timeo e quindi la sua datazione di Roma. Ma nei «Chronikà» la storia di Roma prima del II secolo a.C. era trascurata e soltanto gli eventi recenti erano ricordati con una certa ampiezza. Quando noi leggiamo in Dionig. I 74-74 una lunga serie di ragionamenti appoggiati alle discrepanti testimonianze di autori greci e latini circa l’anno di fondazione di Roma, non ci deve sfuggire il valore ideologico dello sforzo dello storico che vuol reagire anche con la precisione cronologica ai denigratori della città dominatrice del mondo.
La storiografia locale non era soltanto interessata a problemi di storia delle origini. Le vicende delle città erano narrate, di regola, fino alle età più recenti. Si avevano, quindi, connessioni con problemi di politica più generale. Quando la città aveva conservato una certa importanza, l’interpretazione locale degli eventi politici generali è, malgrado l’opinione contraria di Polibio, di grande interesse. Questo è, per esempio, il caso dell’opera storica di Memnone di Eraclea Pontica, che è l’erede di una catena di notevoli storici locali, Nymphis, Promathidas, Domitius Kallistratos[24].

T. Quinzio Flaminino. Denario, Roma 126 a.C. Ar. 3,85 gr. Dritto: Testa di Roma elmata verso destra.
T. Quinzio Flaminino. Denario, Roma 126 a.C. Ar. 3,85 g. Dritto: Testa di Roma elmata verso destra.

Il riassunto di Fozio consente di vedere come e quando la storia di Eraclea venisse ad intrecciarsi con quella dell’espansione romana in Asia. Al momento dell’esposizione della guerra contro Antioco lo storico dava un excursus (Jacoby, FGrHist, 434, par. 18) di storia romana, nel quale si trattava anche dell’origine del popolo, del suo insediamento in Italia, della fondazione di Roma. Purtroppo non sappiamo quali fossero le idee dello storico su questi argomenti. Sebbene egli desse rilievo alla conquista della città ad opera dei Galli e all’invio di una corona d’oro ad Alessandro, che aveva scritto ai Romani di prendere il comando, se ne erano capaci, o di cedere ai più forti, il tono generale verso la politica romana in Asia è nel complesso favorevole.

Diverso si presenta il caso dell’opera di Antistene, storico rodio, che Polibio unisce a Zenone nella polemica già accennata, nella quale, tuttavia, di Antistene non si parla se non per dire che anch’egli era troppo disposto a favorire la propria patria. D’altro canto Polibio ha stima grande dei due storici rodii, in quanto anch’essi erano uomini politici dedicatisi alla storiografia per nobili motivi. Il silenzio di Polibio su Antistene è però imbarazzante. Flegonte di Tralles ci ha conservato un grosso frammento attribuito ad un Antistene, filosofo peripatetico, che dallo Zeller in poi è generalmente identificato, e penso a ragione, con lo storico rodio[25].

La narrazione di Antistene è molto strana. Un generale romano, Publio, improvvisamente divenuto pazzo, si mette a pronunciare vaticini ed oracoli ai suoi soldati. Egli profetizza le prossime vittorie romane in Asia su Antioco e i Galati, ma anche una terribile invasione dell’Asia contro l’Europa, l’Italia e Roma, guidata da un re e apportatrice di lutti e distruzione. A conferma di queste sue previsioni il generale romano prevede la propria morte ad opera di una belva. Il che avviene puntualmente: la rossa bestia infernale divora Publio, con l’eccezione della testa che continua a profetizzare sventure.

L. Livineio Regolo. Aureo, Roma, 42 a.C. Au 8, 26 gr. Rovescio: L(ucius) Regulus IIIIvir a(uro) p(ublico) f(eriundo). Enea, voltato a destra, portante Anchise sulla spalla sinistra.
L. Livineio Regolo. Aureo, Roma, 42 a.C. Au 8, 26 g. Rovescio: L(ucius) Regulus IIIIvir a(uro) p(ublico) f(eriundo). Enea, voltato a destra, portante Anchise sulla spalla sinistra.

La scena è ambientata nella Locride occidentale, dominata dagli Etoli. La datazione è collocata verso il 190 a.C. Il generale romano è sicuramente Publio Cornelio Scipione Africano. La narrazione è intessuta di oracoli in versi di tipo sibillistico, che devono essere confrontati con i versi anti-romani nel libro III degli Oracula Sibyllina. Il testo si lascia ricondurre ad ambienti oracolari: Publio profetizza, ad un certo punto, seduto su una quercia come avveniva a Dodona. Non mancano connessioni con credenze magiche, come il rosso mostro infernale e la testa che parla, una sopravvivenza nel folklore e nella magia del mito di Orfeo, studiata dal Deonna[26].

Siamo di fronte ad un frammento di propaganda anti-romana di poco posteriore all’età della guerra contro Antioco, quando si poteva sperare in una rivincita dell’Asia contro l’Italia e Roma, forse ad opera di Antioco stesso e di Annibale. L’origine pare sicuramente etolica. Valerio Anziate (in Liv. XXXVII 48) sapeva che gli Etoli avevano messo in circolazione notizie false sulla morte dell’Africano e di suo fratello Lucio e sulla distruzione dell’esercito romano. Il motivo anti-romano sarà stato sfruttato dalla propaganda seleucidica, che noi conosciamo bene per le calunnie divulgate più tarde contro i Giudei.
La diffusione di queste strane profezie è testimoniata dalla loro presenza nell’opera di Antistene. Noi ignoriamo il contesto in cui il brano conservatoci da Flegonte era inserito[27]; ma si può abbastanza facilmente dire che non doveva essere favorevole a Roma. Forse per questo Polibio parla pochissimo di Antistene.

La presenza di questo materiale in un’opera storica locale rodia ci dà un’idea del carattere popolare che tale storiografia poteva talora assumere. Questo materiale profetico-oracolare si inseriva nel contesto della propaganda sibillistica che, come si è già accennato, crebbe di intensità proprio all’inizio del II secolo a.C. e si sviluppò soprattutto in Asia. Agli oracoli preromani attribuiti alla Sibilla Troiana, che vaticinava ai discendenti di Enea il dominio del mondo, si contrappongono quelli anti-romani e filo-asiatici riferiti da Antistene e dagli Oracula Sibyllina (III, spec. 350-362). Il motivo è il contrasto tra l’Europa, ora rappresentata da Roma, e l’Asia. In questo stesso periodo si diffonde la teoria orientale della successione degli imperi che avevano tenuto il dominio del mondo, teoria ora completata con l’aggiunta di Roma. L’opera di Emilio Sura, de annis populi Romani, citata in Velleio I 6, 6, nella quale il motivo era accolto, sembra cronologicamente da collocare poco dopo il 189 a.C. Come è noto il motivo della successione degli imperi poté poi essere sviluppato tanto in senso filo-romano (come in Dionig. I 2, 14 ed Appian. praefatio, 32 sgg.) quanto anti-romano.
La complessità dei motivi accolti nella storiografia locale e la sua connessione con la problematica politica del momento si accrescono ancora se consideriamo quale sia la posizione di Cornelio Scipione nel frammento di Antistene. La sua presentazione come profeta di sventure per la sua patria e per se stesso si può facilmente spiegare con la diffusione in ambito greco, ben testimoniata da Polibio, dell’idea dell’Africano come di un personaggio ispirato dalla divinità nelle sue azioni e dotato di qualità profetiche.

Dalla tradizione assai ampia sulla cosiddetta «leggenda di Scipione», così bene studiata da ultimo dallo Walbank, mette conto qui, ora, di ricordare solo gli aspetti storiografici[28]. Nella sua fondamentale discussione del problema, a proposito della conquista di Nova Carthago nel 209 a.C., Polibio (X 220) ci dice che tale raffigurazione superumana dell’Africano era un’opinione generalmente diffusa ed anche accolta da tutti gli storici del suo tempo. Polibio combatte tale opinione sviluppando una sua interpretazione razionalistica delle azioni di Scipione. Tuttavia la raffigurazione più che umana di Scipione si era presto e ampiamente diffusa: forse intorno al 190 a.C. lo stesso Scipione aveva sentito la necessità di scrivere al suo amico, il re Filippo V di Macedonia, spiegando l’episodio di Nova Carthago e ridimensionando le narrazioni favolose in circolazione. Scipione profeta di sventure nella Locride è forse il pendant orientale della leggenda occidentale di Scipione. Val la pena ancora di notare che la gens Cornelia continuò ad avere nel II e poi nel I secolo a.C. un’ampia parte nella tradizione oracolare sibillistica: basti pensare a Silla e al catilinario Cornelio Lentulo Sura.

Giovanni Battista Tiepolo, Scipione l'Africano libera Massiva. Olio su tela, 1719-21. Baltimora, Walters Art Museum
Giovanni Battista Tiepolo, Scipione l’Africano libera Massiva. Olio su tela, 1719-21. Baltimora, Walters Art Museum.

La teoria delle doti sovrumane di Scipione e dell’appoggio e favore accordatigli dalla divinità si prestava ad una duplice interpretazione. Da un lato si innalzava a livelli quasi divini la personalità dell’Africano: la poesia di Ennio, specialmente nello Scipio, deve aver avuto la sua parte in questo svolgimento. Dall’altro si poteva accentuare la responsabilità della Fortuna nei successi dei Romani, a scapito del loro merito. Dionigi di Alicarnasso dice che questo appunto era uno dei fondamentali motivi della storiografia anti-romana, che rimproverava alla Fortuna di aver donato, senza alcun merito, ad una città così poco degna una signoria così grande e per tanto tempo (I 5). Il ruolo della Fortuna nell’ascesa di Roma era divenuto presto un tópos storiografico e letterario. Nella complessa concezione della Tyche dello stesso Polibio l’emergere del dominio romano per valore e capacità militare e politica è visto in accordo con i disegni preordinati del Destino. Nell’inno a Roma della poetessa Melinno, databile nella prima metà del II secolo a.C., il dominio di Roma è inteso come indistruttibile proprio perché dato dal Fato[29].

Ma è chiaro che il motivo della Fortuna aveva soprattutto una funzione anti-romana e nel riferimento di Dionigi esso è collegato strettamente con la qualifica di barbari data ai Romani. Sebbene esistessero dal V e IV secolo a.C. accenni ad un’origine greca di Roma, la concezione di Roma come città barbara era dominante fra III e II secolo a.C. Nel già citato discorso dell’etolo Agelao, Romani e Cartaginesi sono considerati entrambi barbari. Questa teoria della barbarie romana, alla quale si contrapponeva un’ideologia panellenica, ebbe un declino piuttosto rapido, ma essa risorgerà nel I secolo a.C. nell’età di Mitridate[30]. Lo stesso Polibio, come ha dimostrato H.H. Schmitt, colloca i Romani in una categoria intermedia tra i Greci e i barbari[31].

È sforzo comune della storiografia romana già al suo inizio il voler grecizzare Roma, reagendo a questa connotazione negativa. Gli stessi sviluppi iniziali della letteratura latina, dovuti ad autori non romani provenienti dall’Italia meridionale, rappresentano non soltanto la recezione a Roma della letteratura e della cultura greche, ma anche l’inserimento più o meno consapevole della città nell’ambito culturale e politico della Magna Grecia. Il motivo di Roma città barbara aveva probabilmente acquistato sviluppo dopo la conquista romana delle città greche della Magna Grecia e della Sicilia. Proprio negli ambienti politico-culturali di Taranto era nato il primo tentativo di ricupero culturale dei Romani nell’ambito greco con la teoria del re legislatore Numa Pompilio seguace di Pitagora[32].

Ulpiano Checa, La ninfa Egeria detta a Numa le leggi di Roma. Olio su tela, 1886.
Ulpiano Checa, La ninfa Egeria detta a Numa le leggi di Roma. Olio su tela, 1886.

La teoria risale probabilmente ad Aristosseno ed essa cercava di inserire Roma, così come altre popolazioni indigene dell’Italia meridionale, nella sfera di influenza politico-culturale greca. Le stesse teorie dell’origine troiana e della derivazione arcadica di Roma erano state proposte in origine dal mondo greco con lo scopo di immettere anche Roma nel filone tradizionale della storia greca: esse vennero poi a rappresentare una copertura giustificava dall’emergere della potenza romana e del suo predominio. E con lo stesso valore queste teorie furono accolte volentieri in ambito romano. Polibio non era interessato a questa problematica, che è in sostanza quella dell’ellenizzazione di Roma e dell’Italia tanto in età arcaica quanto nell’età a lui contemporanea. Questo problema, anzi, era in contrasto con la sua interpretazione pragmatica dell’emergere della potenza romana, una potenza che fondamentalmente non apparteneva al mondo greco, sebbene non fosse propriamente barbara. D’altro canto la teoria dell’acculturazione pitagorica di Roma era caduta, come canone storiografico, quando se ne dimostrò l’impossibilità cronologica, sebbene continuasse a durare come motivo storico-culturale.

Polibio è consapevole che, nella dinamica della storia, l’egemonia romana, come già quella di Atene e di Sparta, può essere giudicata come volta a trasformarsi in dispotismo (philarchía)[33]. Egli accetta la teoria romana del iustum bellum, per esempio contro Cartagine, e riconosce che i Romani hanno dimostrato saggezza e valore nella conquista dell’impero e che lo hanno accresciuto usando un atteggiamento conciliante e umano verso i vinti. Polibio sa anche che contro i nemici recidivi la guerra romana è spietata e sterminatrice e che la difesa della conquista è spesso necessariamente brutale. Questo vale non soltanto per le guerre finali contro la Macedonia, Cartagine e la Lega Achea, ma già prima per le ultime fasi delle guerre galliche[34]. Proprio perché è la logica interna stessa dell’imperialismo che spinge a desiderare di più e a difendere l’impero con ogni mezzo, Polibio può trascurare motivazioni specifiche per le singole conquiste.

Un altro storico di storia universale contemporaneo di Polibio, Agatarchide di Cnido, era in questo senso più esplicito[35]. Le due sezioni della sua opera, «Sull’Asia» e «Sull’Europa», non si lasciano individuare con chiarezza. La conclusione della sua storia era probabilmente la caduta del Regno di Macedonia. Tuttavia possiamo arguire cosa pensasse dei Romani da un commento inserito nella sua opera etnografica «Sul Mar Rosso», a proposito della popolazione araba dei Sabei: per loro fortuna essi hanno la loro sede lontano da coloro che tendono verso ogni luogo le proprie forze per impossessarsi dei beni altrui[36].

Agatarchide scriveva questa sua operetta dopo il 146 a.C., forse verso il 132 a.C., quando anche il Regno di Pergamo era stato già assorbito dai Romani. Sebbene vissuto nell’ambiente egiziano, presso personaggi politicamente influenti, in un periodo storico nel quale il regno tolemaico doveva a Roma la sua stessa sopravvivenza, Agatarchide dava una valutazione assolutamente negativa dell’espansione romana, riportata al puro spirito di conquista. Su per giù nei medesimi anni anche l’elogio dei Romani contenuto nel primo libro dei Maccabei (I 8, 1-16) dava come motivazione per la conquista romana della Spagna le miniere d’oro e d’argento. Polibio e Agatarchide concordavano nell’intendere l’espansionismo romano come cosciente volontà di potenza, ma differivano nella valutazione dello stesso, sebbene, com’è noto, Polibio rinviasse ai posteri il giudizio morale sull’impero romano.

L. Emilio Lepido Paolo. Denario, Roma 62 a.C. Ar. 3,90 gr. Dritto: Paullus Lepidus - Concordia. Testa di Concordia con diadema e velo, verso destra.
L. Emilio Lepido Paolo. Denario, Roma 62 a.C. Ar. 3,90 g. Dritto: Paullus Lepidus – Concordia. Testa di Concordia con diadema e velo, verso destra.

Quando si riconosce la brutalità della condotta romana di guerra, è difficile parlare di umanità in relazione alla politica romana e al popolo romano in generale. Si può esaltare qualche personalità dominante e caratterizzarla come figura di alto livello morale. Scipione Africano, L. Emilio Paolo, Scipione Emiliano sono personaggi già idealizzati in Polibio e scelti a rappresentare la philanthrōpía, la moderazione nella vittoria, la magnitudo animi. Essi riscattano con le loro virtù gli aspetti odiosi dell’imperialismo e finiscono per impersonare la stessa Roma. La giustizia dell’impero romano sta nella virtù di alcuni grandi capi. Lo stesso Ennio negli Annales aveva tessuto l’elogio della sapientia politica romana al di sopra del puro valore militare[37].

La raffigurazione di questi grandi personaggi rappresenta anche il momento di passaggio ad una nuova fase storiografica, intesa a giustificare il dominio romano da un punto di vista dottrinario. Queste giustificazioni erano divenute assolutamente necessarie dopo le distruzioni di Cartagine e di Corinto e le gravi reazioni dell’opinione pubblica greca. Le sole teorie giustificative romane, riflesse nei loro documenti ufficiali inviati alle città greche, e presenti nella prima annalistica con l’articolata concezione del iustum bellum, non bastavano più[38].

Lo stesso motivo, romano e polibiano, che la guerra contro i nemici recidivi (superbi) è di necessità una guerra di sterminio, si arricchisce del corollario che la distruzione di Cartagine è un beneficio per l’umanità tutta, perché i Cartaginesi rappresentavano la parte ferina del genere umano. Troviamo questo concetto in un frammento di Diodoro (XXVII 13-18) relativo alla discussione in Senato sulle condizioni di pace da dare a Cartagine dopo la guerra annibalica[39]. Si tratta di discorsi nei quali si intrecciano riflessioni teoriche greche e aspetti pratici della politica romana: esse sembrano presupporre la terza guerra punica. Da un lato si insiste sulla moderazione e sulla clemenza da usare nella vittoria e sui mutamenti di fortuna cui sono soggette le vicende umane. Dall’altro si mette in chiaro l’impossibilità per i Cartaginesi di pretendere clemenza. Il paragone di Cartagine con la bestia feroce la cui distruzione è utile per tutti non sembra polibiano; esso presuppone forse il famoso contrasto del 150 a.C. fra Catone e Scipione Nasica sulla legittimità e l’opportunità della terza guerra punica. Lo svolgimento delle idee presenti in questi passi condurrà anche al virgiliano parcere subiectis et debellare superbos.

La difesa ideologica dell’imperialismo romano e della sua fondamentale giustizia fu assunta, come sembra probabile, dal filosofo stoico Panezio[40]. Egli reagiva anche contro le teorie che erano state espresse nella stessa Roma da Carneade nel 155 a.C. e che condannavano l’impero romano da un punto di vista morale. Sostanzialmente risale a Panezio la concezione dell’utilità per i sottoposti che il dominio e il potere siano nelle mani dei migliori e non dei più forti. Orbene, si potevano rappresentare i Romani come i migliori e i più degni soltanto a patto di guardare a taluni grandi personaggi, la cui preparazione culturale e le cui alte idealità morali valevano a giustificare un’egemonia di Roma sui Greci. La figura di Scipione Emiliano è stata certamente idealizzata da Cicerone, ma non è dubbio che la missione culturale di Panezio sia consistita appunto nella cosciente preparazione morale e culturale di un élite nell’ambito della classe dirigente romana[41].

Posidonio di Apamea. Busto, marmo, inizi I sec. a.C.. dalla Collezione Farnese. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
Posidonio di Apamea. Busto, marmo, inizi I sec. a.C.. dalla Collezione Farnese. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

La consapevolezza di Panezio in questo senso era certamente molto superiore a quella degli altri Greci venuti a Roma nella prima metà del II secolo a.C. e dello stesso Polibio. Non si trattata più soltanto di introdurre a Roma elementi della cultura e dell’educazione greca, ma di dimostrare con un’azione pratica la validità di una teoria, elaborata inizialmente come esigenza greca per offrire, di nuovo, ai dominatori romani una copertura ideologica.

Fondamentalmente questa teoria ha rappresentato la base per la successiva interpretazione dell’impero romano offerta da Posidonio[42]. Questo storico, continuatore dell’opera di Polibio, non discute le basi della legittimità del dominio romano, ma cerca invece di spiegare le cause della decadenza morale e politica della classe dirigente e dell’intera compagine sociale. Questa decadenza è vista come la conseguenza della cupidigia e dell’avidità, che avevano condotto alla distruzione di Cartagine; nonché della prepotenza, dell’arroganza del potere, che deriva dalla ricchezza eccessiva e dalla mancanza di freni esterni. Lotte civili e malgoverno dei sudditi ne sono le conseguenze ulteriori e dirette. La sensibilità storica consente a Posidonio di superare il semplice ragionamento moralistico e di inserire nel quadro suggerito dall’argomentazione teorico-filosofica i dati concreti della realtà storica. Insurrezioni servili e proletarie, comportamenti arroganti verso gli alleati, depravazione morale della gioventù, lo sfruttamento delle province ad opera del ceto equestre e di governatori corrotti, il dissidio fra Senato e cavalieri sono altrettanti aspetti della crisi dello Stato romano. Tuttavia anche in questa ricostruzione storica non sembrano mancare elementi positivi: talune personalità esemplari e lo stesso Senato depositario nel complesso di una saggia tradizione politica consentono di immaginare nuovamente un impero giusto e fondato sul consenso dei sudditi. L’impero universale romano consentì, ad ogni modo, a Posidonio una maggior apertura etnografica e geografica specialmente sull’Occidente.

Polibio e Posidonio scrivevano di storia contemporanea. Entrambi conoscevano bene i problemi della loro età e pur nella diversità dei contesti storici in cui vivevano la loro adesione alla potenza romana era sincera. Essi erano consapevoli dell’esistenza di posizioni storiografiche anti-romane e le loro opere rappresentavano nel complesso una reazione critica a favore di Roma. La guerra mitridatica, l’ultimo tentativo della libertà greca, rimise in circolazione i motivi della pubblicistica anti-romana. Lo storico mitridatico Metrodoro di Scepsi trovava modo, non si sa come, di rinfacciare a Roma ancora il saccheggio della città etrusca di Volsinii nel 265-264 a.C. e il bottino delle duemila statue[43].

Le argomentazioni più viete sulla Roma delle origini erano riesumate con intenzioni ostili. La reazione di Dionigi di Alicarnasso ha consapevolmente un fondamento politico. Far conoscere ai Greci la storia arcaica di Roma vuol dire per lui respingere le dicerie false e incontrollate messe in circolazione sulle origini delle città, dimostrare che la sua ascesa a potenza dominante non è frutto del caso, ma la conclusione di un processo storico caratterizzato dal rispetto degli dèi, dalla giustizia e da molte altre virtù. La teoria della grecità dei Romani sostenuta da Dionigi nella temperie augustea non era nuova; aveva, anzi, dietro di sé una tradizione assai antica nella storiografia greca e romana. Elevata a motivo conduttore della ricerca storica in Dionigi, essa appariva la conclusione di svariati filoni storiografici. Inseriva la storia di Roma nello svolgimento della storia greca; poneva l’impero romano come momento ultimo e stabile nella successione degli imperi mondiali; superava la polemica sulla barbarie di Roma e sulla indegnità al dominio del mondo; valorizzava la grande capacità di assimilazione del popolo romano e offriva così un contesto storico rinnovato alla teoria di Panezio sul diritto dei migliori al comando.

Il libro I di Dionigi, dedicato all’etnografia italica e alla dimostrazione del carattere greco di Roma, rivaluta per un’ampia finalità politica i complessi motivi della storiografia locale greca e dell’antiquaria romana del II e I secolo a.C. I problemi di genealogia, colonizzazione, fondazione e parentela, che Polibio aveva lasciato da parte, dimostrano di poter essere trattati con spirito d’indipendenza, capacità critica, novità di risultati. Dionigi riconferma quello che è stato detto a proposito di storici locali del II secolo a.C. e cioè che anche la storiografia antiquaria locale può avere un preciso fondamento politico e una sua attualità. La fusione in Dionigi di temi di storiografia generale – l’emergere di Roma a potenza dominante in Italia prima della guerra contro Pirro – e di motivi della ricerca antiquaria rappresenta il risultato più notevole della sua opera. Quest’opera va intesa sullo sfondo della Roma augustea e della letteratura greca contemporanea. Il problema storico dell’impero romano e della collaborazione del mondo politico e culturale greco con esso assumeva aspetti nuovi. L’opera storica di Dionigi indicava, pur nella trattazione delle fasi arcaiche di Roma, la via per il superamento dei contrasti presenti in Polibio e Posidonio e può quindi essere considerata, emblematicamente, come la conclusione della polemica storiografica greca sull’imperialismo romano e come la base per la nuova coesistenza del mondo greco e del mondo romano entro l’impero ecumenico.

***

Note:

[1] In generale, si vd. S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, 3, II 1, Bari 1972, 53 sgg.

[2] F.W. Walbank, Polemic in Polybius, JRS 52 (1962), pp 1-12; Id., Polibius, Berkeley 1972, 48 sgg.; P. Pédech, La culture de Polybe et la science de son temps, in Polybe, Entretiens sur l’Antiquité Classique, XX, Genève 1974, 42-46.

[3] J. Deininger, Der politische Widerstand gegen Rom in Griechenland 217-86 v. Chr., Berlin 1971, 25-29.

[4] La teoria sembra essere stata elaborata in ambiti orientali, originariamente con funzione anti-greca; subì poi svariati adattamenti nella sibillistica giudica e nella storiografia greca, anche in relazione e in conseguenza dell’emergere di Roma: così D. Flusser, The Four Empires in the Fourth Sibyl and in the Book of Daniel, IOS 2 (1972), 148-175, ma A. Momigliano, Daniele e la teoria greca della successione degli imperi (1980), ora in Settimo contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, Roma 1984, 297-304 sostiene l’origine greca.

[5] Il passo è di interpretazione controversa: F.W. Walbank, A Historical Commentary on Polybius, I, Oxford 1957, 563.

[6] H.H. Schmitt, Polybios und das Gleichgewicht der Mächte, in Polybe…, cit., 67-93.

[7] A. Momigliano, Atene nel III secolo a.C. e la scoperta di Roma nelle Storie di Timeo di Tauromenio (1959), ora in Terzo contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, Roma 1966, I, 23-53.

[8] A. Momigliano, Lo sviluppo della biografia greca, Torino 1974, 85 sgg.

[9] A. Dihle, Zur hellenistischen Ethnographie, in Grecs et Barbares, Entretiens sur l’Antiquité Classique, VIII, Genève 1962, 207-232.

[10] U. v. Wilamowitz-Moellendorff, Greek Historical Writings and Apollo, Oxford 1908, p.13 (testo tedesco della prima conferenza con lievi varianti in Reden und Vorträge4, Berlin, 216 sgg.).

[11] Oltre allo scritto citato alla nota precedente cfr. Id., Die griechische Literatur del Altertums, in Die Kultur der Gegenwart, I, 8, Leipzig-Berlin 1905, 109-112, ed anche Id., Hellenistische Dichtung in der Zeit des Kallimachos 2, Berlin 1962, 44-50.

[12] Naturalmente la storiografia locale del III-I secolo a.C. ha una premessa lontana nella letteratura degli Oroi: F. Jacoby, Die Entwicklung der griechischen Historiographie (1909), ora in Abhandlungen zur griechischen Geschichtsschreibung, Leiden 1956, pp. 49-50, 61. Inoltre nel IV secolo a fianco della storiografia delle Elleniche si era avuta una storiografia pur sempre politica ma con un punto di osservazione più ristretto, perché cittadino o regionale (L. Canfora, in RIL 107 (1973), 1151-1153). Essa reagiva, in certo modo, alla monopolizzazione storiografica delle grandi città egemoniche. Per la Messenia: C. Pearson, The Pseudo-History of Messenia and its Authors, Historia 11 (1962), 397-426.

[13] P. Zancan, Il monarcato ellenistico nei suoi elementi federativi, Padova 1934; V. Ehrenberg, Lo Stato dei Greci, Firenze 1967, 279.

[14] Il problema è toccato di frequente nella ricerca storico-epigrafica di L. Robert. Cfr. anche D. Musti, Sull’idea di συγγένεια in iscrizioni greche, ASNSP 32 (1963), 225-239.

[15] G. Raede, Demetrii Scepsii quae supersunt. Diss. Phil., Gryphiswaldiae 1880; E. Schwartz, Griechische Geschichtsschreiber, Leipzig 1957, 106-114.

[16] Testimonianze e frammenti in Jacoby, FGrHist 45.

[17] L. Preller, Polemonis Periegetae fragmenta, Lipsiae 1838, fr. XXXVIII, p. 69; C. Müller, Frag. Hist. Gr., III, fr. 37.

[18] Testimonianze e frammenti in Jacoby, FGrHist 472. U.v. Wilamowitz-Moellendorff, Antigonos von Karistos, Phil. Unters., IV, Berlin 1881, 176; A. Alföldi, Die trojanischen Urahnen der Römer, Basel 1957, 11-12; J. Perret, Les origins de la légende troyenne de Rome (281-31), Paris 1942, 380-386. Datazione alla prima metà del III secolo a.C. in Jacoby, FGrHist IIIb (Texte), pp. 372-374, (Noten) 219-220.

[19] Importanti i vari saggi di P. Boyancé, ora riuniti in Études sur la religion romaine, Roma, École Fr. de Rome, 1972, 91-152.

[20] Jacoby, FGrHist 820 T 1. Secondo Jacoby, l’opera di Diocle sarebbe stata una “Fondazione di Roma”.

[21] E. Bickermann, Origines gentium, CPh 47 (1952), 67; E. Gabba, in Miscellanea di studi alessandrini in memoria di A. Rostagni, Torino 1963, 192, n. 21.

[22] H. Fuchs, Der geistige Widerstand gegen Rom in der antiken Welt, Berlin 1938, 14 sgg., 40 sgg.

[23] F. Jacoby, Apollodors Chronik, Phil. Unters., XVI, Berlin 1902, 26-28; FGrHist, II B, 723. Di opposto parere S. Mazzarino, op. cit., 354-355.

[24] P. Desideri, Studi di storiografia eracleota. I. Promathidas e Nymphis, SCO 16 (1967), 366-416; II. La guerra con Antioco il Grandeibid., 19-20 (1970-71), 487-537.

[25] Jacoby, FGrHist 257 F 36, cap. III = A. Giannini, Paradoxographorum graecorum reliquiae, Milano, s.a., 184-196. Per l’identificazione: E. Zeller, Über Antisthenes aus Rhodos, «SB Berlin», 1067-1083. In generale, A. Momigliano, Polibio, Posidonio e l’imperialismo romano, Acc. Scienze Torino. Atti 107 (1972-73), 703-704.

[26] W. Deonna, Orphée et l’oracle de la tête coupée, REG 38 (1925), 44-69.

[27] S. Mazzarino, op. cit., II 1, 155-161.

[28] F.W. Walbank, The Scipionic Legend, PCPS 193 (1967), 54-69.

[29] C.M. Bowra, Melinno’s Hymn to Rome, JRS 47 (1957), 21-28; H. Bengtson, Das Imperium Romanum in griechischer Sicht, Gymnasium 71 (1964), 153-154, e ora in Kl. Schriften zur Alten Geschichte, München 1974, 552-554. Datazione al III secolo a.C. in S. Mazzarino, op. cit., II 1, 506, n. 370.

[30] Deininger, op. cit., 34-37.

[31] H.H. Schmitt, Hellenen Römer und Barbaren. Eine Studie zu Polybios. Wiss. Beilage zum Jahresbericht 1957-58 d. Hum. Gymnasium Aschaffenburg.

[32] E. Gabba, in Les origines de la république romaine, Entretiens sur l’Antiquité Classique, XIII, Genève 1967, 154-164.

[33] Tale giudizio è in una delle interpretazioni della pubblica opinione greca a proposito della terza guerra contro Cartagine: Polyb. XXXVI 9, 5-8.

[34] Diod. XXXII 2 e 4. La derivazione del passo da Polibio sembra sicura: M. Gelzer, Kleine Schriften, II, Wiesbaden 1963, 64-66; F.W. Walbank, Polybius, cit., 178-181; Polyb. II 19, 11; 21, 9.

[35] Testimonianze e frammenti in Jacoby, FGrHist 86. Il commento in II C, 150-154. Inoltre, H. Strasburger, Die Wesensbestimmung der Geschichte durch die antike Geschichtsschreibung, Wiesbaden 1966, 88 sgg.; P. Fraser, Ptolemaic Alexandria, Oxford 1972, I, 516; 544 sgg.

[36] P. Fraser, The Alexandrian view of Rome, BSAA 42 (1967), 7-8. Il passo in C. Müller, Geographi Graeci minores, I, Paris 1855, 189 sgg., par. 102.

[37] S. Mariotti, Lezioni su Ennio 2, Torino 1966, 111-114.

[38] H. Drexler, Bellum iustum, RhM 102 (1959), 97-140.

[39] H. Volkmann, Griechische Rhetorik oder römische Politik? Bemerkungen zum römischen «Imperialismus», Hermes 82 (1954), pp. 465-476; F.R. Walton, Diodoros of Sicily, Loeb Classical Library, London- Cambridge Mass., 1957, 219, n. 1.

[40] In generale per quanto è detto più sotto: A. Garbarino, Roma e la filosofia greca dalle origini alla fine del II secolo a.C., Torino 1973, I, 37 sgg.; II, 380 sgg.

[41] K. Abel, Die kulturelle Mission des Panaitios,  Antike und Abendland 17 (1971), 119-143.

[42] H. Strasburger, Posidonios on Problems of the Roman Empire, JRS 55 (1965), 40-53; P. Desideri, L’interpretazione dell’impero romano in Posidonio, RIL 106 (1972), 481-493; A. Momigliano, Polibio…, cit., 693-707.

[43] Jacoby, FGrHist 184 F 12.

Il massacro nel foro di Tarquinia

di M. Di Fazio, Sacrifici umani e uccisioni rituali nel mondo etrusco, Rendiconti 21/3 (2001), pp. 445-448.

Lastra fittile di rivestimento raffigurante una coppia di cavalli alati, dallo spazio frontonale del Santuario dell'Ara della Regina (Tarquinia). IV secolo a.C. Museo Archeologico Nazionale di Tarquinia.
Coppia di cavalli alati. Lastra fittile di rivestimento, IV sec. a.C. ca., dallo spazio frontonale del Santuario dell’Ara della Regina (Tarquinia). Tarquinia, Museo Archeologico Nazionale.

 

Un episodio chiave […] è il noto massacro che nel 358 a.C. i Tarquiniesi compiono di trecentosette prigionieri romani catturati dopo una vittoria in uno dei primissimi scontri della guerra che opporrà le due città per alcuni anni. Il racconto liviano permette di stabilire pochi punti, ma interessanti[1]. Quattro anni dopo, sono i Romani ad aver la meglio e catturare molti prigionieri tarquiniesi; di questi, trecentocinquantotto (i più nobili) vengono trasferiti a Roma, il resto viene trucidato sul posto. Coloro che arrivano a Roma vengono fustigati e decapitati nel Foro, «pro immolatis in foro Tarquiniensium Romanis poenae hostibus redditum»[2]. In entrambe le occasioni è il Foro della città vittoriosa ad ospitare l’esecuzione. Ma i Tarquiniesi immolarunt i prigionieri, mentre a Roma il popolo decise che gli Etruschi venissero virgis caesi ac securi percussi. Questa differenza terminologica è stata considerata in vario modo. Per Pfiffig, il termine immolare usato da Livio non è particolarmente significativo: un semplice equivalente di occidere o obtruncare[3]. Per Briquel, invece, la scelta del termine ha un chiaro significato religioso[4]. Livio usa immolare sempre con connotazione religiosa, mentre, per descrivere le decisioni dei Romani quattro anni dopo, adotta i termini della procedura normale del delitto capitale (virgis caesi ac securi percussi), che è all’incirca l’espressione impiegata nel caso della messa a morte dei figli di Bruto (II 5, 8), esempio fondante del delitto capitale[5].

Le ricerche di Eva Cantarella hanno portato alla conclusione che, nel mondo romano, la decapitazione con la scure non ha un connotato religioso, come ritenuto invece da parecchi studiosi, Mommsen in testa[6]: non c’è affinità tra il sacrificio religioso e questa forma di esecuzione capitale che è la securi percussio. Prima del Principato la decapitazione è molto rara, e riservata ad insubordinati, ribelli, prigionieri di guerra[7]. Sembrano rimanere nelle fonti relative al mondo romano solo pochi casi di massacro di prigionieri ammantato di ritualità […].

 

Il grande affresco iliadico, che rappresenta Achille (Aχle) in atto di sgozzare un prigioniero troiano (truial), in onore dell’ombra di Patroclo (hinθial Patrucles), al cospetto di Xarun e Vanθ, assistito dagli eroi Agamennone (Aχmenrun), Aiace Telamonio (Aivas Tlamunus) e Aiace Oileo (Aivas Vilatas). Pannello della parete sinistra della Tomba François, Necropoli di Tarquinia. IV secolo a.C. ca.
Il grande affresco iliadico, che rappresenta Achille (Aχle) in atto di sgozzare un prigioniero troiano (truial), in onore dell’ombra di Patroclo (hinθial Patrucles), al cospetto di Xarun e Vanθ, assistito dagli eroi Agamennone (Aχmenrun), Aiace Telamonio (Aivas Tlamunus) e Aiace Oileo (Aivas Vilatas). Pannello della parete sinistra della Tomba François, Necropoli di Tarquinia. IV secolo a.C. ca.

 

Nella sua analisi dell’episodio, Briquel sottolinea come altri casi simili nell’annalistica romana compaiano solo per sottolineare la crudeltà etrusca[8]. Perciò molte indicazioni e molti dati possono essere stati falsati nelle fonti, per esempio in Livio, e di conseguenza alcune supposizioni rischiano di rivelarsi azzardate. Briquel, sostenendo l’eccezionalità dell’episodio, riprende la lettura dell’affresco della Tomba François come illustrazione della messa a morte dei Romani a Tarquinia: anche se lo sfondo del ciclo pittorico è Vulci, i temi rappresentati conserverebbero memoria di questo avvenimento. Se Torelli vedeva nella strage un atto espiatorio in onore di un defunto di rango[9], lo studioso francese avanza un’ipotesi. Dai pochi lacerti ricavabili dalle fonti riguardo all’Etrusca disciplina, sappiamo di un tipo di sacrificio etrusco particolare: quello delle hostiae animales, la cui immolazione con versamento di sangue permette all’anima del defunto di giungere alla condizione di dii animales, «immortali»[10]. Allora i fatti del 358 si spiegherebbero in funzione delle hostiae animales, come una grandiosa offerta di sangue umano ad una divinità, senza la normale ripartizione alimentare, che appunto in questi casi non era richiesta: si sarebbe trattato quindi di un vero sacrificio umano[11]. Date le circostanze belliche, e dato il clima di ostilità di cui abbiamo traccia nelle pitture della Tomba François, non si sarebbe esitato a sacrificare veramente uomini in sostituzione di animali. Il modello dell’Iliade[12], con l’episodio dei funerali di Patroclo ben presente nell’immaginario etrusco, sovrapposto al rito delle hostiae, avrebbe condotto a questa esecuzione di massa[13].

C’è da dire però che le hostiae non paiono sempre collegate a funerali[14]: forse potevano aver luogo anche presso i templi di alcune divinità. Quali? Il passo è troppo breve per permettere considerazioni più approfondite, ma va ancora considerato il luogo in cui dal testo si deduce siano stati effettuati questi massacri. La localizzazione nel foro di Tarquinia (o meglio in quello che il romano Livio indica come forum), quindi vicino il santuario dell’Ara della Regina, non può non far pensare alle testimonianze del culto di Artume/Artemide rinvenute nei pressi del santuario: quell’Artemide sorella di Apollo, assimilato ad una divinità indigena con caratteri oracolari e inferi, al quale bene si potrebbero riferire sacrifici umani[15]. Ma anche se tempio e “foro” sono prossimi, come nel caso di Tarquinia, dobbiamo ricordare che la fonte ambienta l’episodio nel “foro”, non vicino al tempio o in prossimità di altari e sacelli. Meglio, con Torelli, sottolineare proprio questo dato: il sacrificio […] dei prigionieri non avviene fuori città, presso il tumulo gentilizio, come nel caso dei Focei a Caere, ma all’interno della città, a ribadire una nuova dimensione del politico e del sociale[16].

Ricostruzione del Tempio del Santuario dell'Ara della Regina, dedicato al culto di Artume e Aplu, a Tarquinia.
Ricostruzione del Tempio del cosiddetto Santuario dell’Ara della Regina, dedicato al culto di Artume e Aplu, a Tarquinia.

Dobbiamo comunque ricordare come, a partire da Karl Julius Beloch, il passo sia stato tutt’altro che esente da critiche. In particolare, è stata sottolineata l’esatta e sospetta coincidenza di numero fra i Romani uccisi nel foro di Tarquinia e i Fabii sterminati al Cremera dai Veienti nel corso della loro guerra personale nel 477 a.C.[17]; inoltre, nella guerra con Tarquinia, lo sfortunato comandante era proprio un Fabio, Q. Fabio Ambusto: non è da escludere la volontà delle fonti di far ricadere queste colpe sulla gens Fabia. L’episodio ha la parvenza di una delle tante duplicazioni che troviamo in particolare nell’opera di Livio. Torelli, per dare credito all’episodio, si appoggia su due labili constatazioni: l’elogium degli Spurinna, da cui veniamo a sapere che in effetti le prime fasi del conflitto romano-tarquiniese furono a favore degli Etruschi, e le pitture della Tomba François che serberebbero memoria di questi fatti[18]. Ma, com’è stato osservato, se solo quattro anni dopo i Romani riuscivano a vendicarsi nella maniera che abbiamo visto, vi sarebbero stati ben pochi motivi di rievocare un episodio che aveva avuto tale seguito[19].

Va invece sottolineata l’esistenza di almeno un altro caso analogo, oltre a quello dei Fabii, che è narrato da Polibio: nel 271 a.C. i Romani cingono d’assedio Reggio, in cui un presidio romano chiesto dagli stessi Reggini si era ribellato. Alla fine, riconquistata la città, dei quattromila soldati del presidio alcuni vengono condotti a Roma e, nel foro, fustigati e decapitati «secondo il costume romano». Il numero di questi prigionieri, secondo Polibio, è più di trecento; ancora una volta abbiamo a che fare con analogie che suonano sospette[20].

Ma un piccolo “colpo di scena” lo troviamo in Svetonio: durante le guerre civili, Ottaviano assedia Perugia nell’inverno del 41/40 a.C. Espugnata la città, il futuro Augusto sacrifica un certo numero di notabili ai Mani degli Iulii, forse (è stato osservato) applicando ai nemici i loro stessi riti[21]. Anche in questo caso, è facile indovinare il numero: trecento. Non abbiamo sufficienti informazioni sull’avvenimento: ma è facile immaginare la difficoltà e l’imbarazzo degli storiografi vicini all’ambiente augusteo (Livio in particolare[22]) verso un episodio non certo lusinghiero per Augusto; e forse qui possiamo trovare una chiave interpretativa per gli episodi citati.

 

Bronzetto di oplita etrusco, da Siena. 600 a.C. Museo Archeologico di Siena.
Oplita etrusco. Statuetta, bronzo, 600 a.C. ca., da Siena. Siena, Museo Archeologico.

Note:

 

[1] Liv. VII 15, 10.

[2] Id. VII 19, 13.

[3] A.J. Pfiffig, Religio Etrusca, Graz 1975, p.110.

[4] D. Briquel, Sur un épisode sanglant des relations entre Rome et les cités étrusques: les massacres de prisonniers au cours de la guerre de 358/351, in R. Bloch (éd.), La Rome des Premiérs Siécles. Legende et Histoire, actes t.r. (Paris 1990), Firenze 1992, pp. 37-46. Già J. Gagé, De Tarquinies à Vulci, MEFRA 74 (1962), p. 95 aveva sostenuto che il termine immolare non era utilizzato a caso da Livio.

[5] Cfr. Liv. V 21, 8; VIII 9, 1; XXII 5, 19; XLII 30, 8.

[6] E. Cantarella, I supplizi in Grecia e a Roma, Milano 1991, p. 154.

[7] Ibid., p. 386, n. 28. Dobbiamo comunque eliminare dall’elenco dei prigionieri decapitati il povero Vitruvio Vacco, che, dopo essere stato imprigionato, verberatum necari (Liv. VIII 20, 7).

[8] D. Briquel, op. cit., p. 42.

[9] M. Torelli, Delitto religioso. Qualche indizio sulla situazione in Etruria, in Le délit relgieux dans la cité antique, atti conv. (Roma 1978), Roma 1981, p. 5.

[10] Libri Acheruntici (Nigidio Figulo, attraverso Cornelio Labeone). Cfr. A.J. Pfiffig, op. cit., pp.178-181; D. Briquel, Regards étrusques sur l’au-delà, in F. Hinard (éd.), La mort, les morts et l’au-delà, Actes coll. (Caen 1985), Caen 1987, pp. 263-277; Id., I riti di fondazione, in M. Bonghi Jovino – C. Chiaramonte Treré (a cura di), Tarquinia: ricerche, scavi e prospettive, atti conv. (Milano 1986), Milano-Roma 1987, pp. 171-190.

[11] D. Briquel, op. cit., Firenze 1992, pp. 44-46.

[12] Cfr. Il. XXIII, 175-176: «δώδεκα δὲ Τρώων μεγαθύμων υἱέας ἐσθλοὺς / χαλκῷ δηϊόων» («e dodici splendidi figli dei Troiani animosi / passandoli per le armi»). Cfr. Il. XXIII, 181-182: «δώδεκα μὲν Τρώων μεγαθύμων υἱέας ἐσθλοὺς / τοὺς ἅμα σοὶ πάντας πῦρ ἐσθίει» («Dodici splendidi figli dei Troiani animosi il fuoco / tutti con te li divora»).

[13] D. Briquel, op. cit., p. 46.

[14] Arnob. adv. nat. II 62.

[15] Cfr. G. Colonna, Apollon, les Etrusques et Lipara, MEFRA 96 (1984), pp. 571-572; Id., Divinitiés peu connues du panthéon étrusque, in P. Gaultier – D. Briquel (éd.), Les plus religieux des hommes, atti conv. (Paris 1992), Paris 1997, p. 167.

[16] M. Torelli, op. cit., p. 6.

[17] K.J. Beloch, in M. Torelli, op. cit., p. 3; cfr. G. De Sanctis, Storia dei Romani, II, Torino 1964, p. 255. Cfr. Liv. II 50, 11.

[18] M. Torelli, op. cit., pp. 3-4.

[19] F. Zevi, Prigionieri troiani, in Studi in memoria di L. Guerrini, Roma 1996, p. 123, n. 41: il massacro fu ampiamente vendicato quattro anni dopo (e non l’anno seguente come per Zevi), per cui non c’era motivo di rievocare l’episodio.

[20] Polyb. I 7, 12. Non è il caso qui di addentrarci in analisi testuali per cercare di stabilire eventuali priorità fra i testi; ma può essere interessante ricordare che il nome “Fabio”, presente nei Fasti nei sette anni fra il 485 e il 479, manca per i successivi undici anni (H.H. Scullard, A History of the Roman World, London 1983 [= tr.it. Storia del mondo romano, Milano 1992, vol. I, p. 146, n. 10]), e questa può essere una prova della preminenza del racconto relativo allo sterminio dei Fabii.

[21] Suet. Aug. XV 1. Cfr. J. Heurgon, La vie quotidienne chez les Étrusques, Paris 1962 (= tr.it. La vita quotidiana degli Etruschi, Milano 1992, p. 285). Perugia conservava ancora una sua identità etrusca; perugino era M. Perperna, uno dei capi mariani più in vista, che nel 78 a.C. è al fianco di Lepido con l’Etruria tutta per una rivolta non fortunata (Sall. Hist., I 67). Sull’assedio di Perugia, cfr. P. Wallmann, Untersuchungen zu militärische Problemen des Perusinischen Krieges, Talanta 6 (1974), pp. 58-91.

[22] Cfr. S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, II, 2, Bari 1966, pp. 40 sgg.

La lex Sempronia agraria

di D. Pangaro, Sulla legge agraria di Tiberio Gracco. La versione di Appiano, in InStoria, N. 59 – Novembre 2012 (XC).

La versione di Appiano

La res publica romana, come ci riporta il libro I delle Guerre Civili di Appiano, non appena effettuava la conquista militare di un determinato territorio lo suddivideva, e ne rendeva una parte ager publicus: questo terreno dello Stato, e quindi dei cives romani, veniva dato agli abitanti delle nuove realtà coloniali che si potevano creare a ridosso delle nuove conquiste oppure o anche a chi si insediava in città già esistenti. La Repubblica romana era solita riconoscere due tipi di giurisdizione alle colonie: erano propriamente dette coloniae Latinae (colonie di diritto latino) e coloniae civium Romanorum (colonie di diritto romano). Queste due realtà giuridiche avevano scopi comuni in origine, ma diritti ed assegnazioni di terra estremamente diverse: se concordiamo con l’ipotesi che queste servissero all’assolvimento di compiti difensivi di territori e coste, si dovrà però notare che queste erano partecipi dell’attività dello Stato in maniera differente, e usufruivano dell’ager in parti non eguali.
Le colonie di diritto latino godevano di parziali diritti, ed avevano un quantitativo di terra più o meno uguale per tutti gli insediamenti dello stesso tipo giurisdizionale: giusto per citare qualche cifra diciamo che a Thurii, colonia calabrese dedotta nel 194 a.C., i 3000 pedites e i 300 equites ebbero come dotazione circa 20 iugeri i primi, 40 iugeri i secondi; nell’altra colonia calabrese di Vibo, dedotta circa un anno dopo, i 3700 pedites e i 300 equites, ricevettero rispettivamente 15 iugeri e 30 iugeri.
Numeri importanti, e di sicuro maggiori rispetto a quelli dati in dotazione ai coloni romani, in genere 2 iugeri: ai non addetti ai lavori sembrerebbe che la res publica romana favorisse la nascita di colonie latine e sfavorisse invece quelle di diritto romano, scoraggiando queste ultime con la magra dotazione dei 2 iugeri. In realtà, il fatto stesso di essere cittadini romani dava diritto d’accesso a tutto l’ager publicus, potendo quindi sfruttare l’immenso territorio ottenuto con la conquista. D’altro canto, Roma non poteva occuparsi di approvvigionare le colonie latine, che, anzi, dovevano diventare esse stesse fonte di reddito e di milizie per la res publica: si dovevano creare le condizioni necessarie allo sviluppo di realtà statali formalmente autonome, favorendo la crescita in loco di attività economiche assai redditizie, laddove nelle colonie romane sussisteva il modello socio-agrario della piccola azienda familiare.

La deduzione delle colonie, sia romane sia latine, doveva seguire un iter preciso e prestabilito; in altre parole, occorrevano le giuste formule giuridiche recitate dagli “attori” preposti: in origine ogni nuova colonia veniva avallata con un senatus consultum; considerando che con tale termine si indicava solitamente quella delibera fatta dal Senato in casi d’emergenza, con cui si dava ordine perentorio ai consoli di eseguire gli ordini della res publica a qualsiasi costo, e se si prende ad esempio quello contro i Baccanali e quello ultimum che portò Mario a intervenire contro i suoi tirapiedi Glaucia e Saturnino, si ha l’impressione che l’atto di fondar colonie fosse – almeno nei primi momenti – una procedura straordinaria, forzata e mal voluta dall’élite patrizia.

Il decreto stabiliva la natura giuridica della colonia (romana o latina) e il numero dei coloni che vi si dovevano recare; in seguito i comitia tributa eleggevano tre commissari incaricati della deduzione coloniale. Questi Triumviri coloniae deducendae agroque dividendo si occupavano di pianificare l’impianto urbano, di stabilire i confini della colonia, di preparare la costituzione della nuova comunità e infine reclutavano i coloni. La costituzione ne definiva la religiosità, l’ambito delle cerimonie, ne assicurava la legge, l’ordine e l’amministrazione della giustizia, oltre che specificare i magistrati locali e la loro modalità di elezione. Ma prima di ciò, i triumviri dovevano suddividere il territorio destinato ai nuovi coloni. Da questa suddivisione venivano escluse le terre viritane, l’ager compascuus, l’ager occupatorius, l’ager publicus stipendiorus datus adsignandus (lasciato al medesimo titolo agli antichi proprietari), l’ager publicus a censoribus locatus e l’ager quaestorius. Il territorio veniva diviso secondo un reticolato di quadrati, che misuravano circa 20 actus (710 metri) per ogni lato, coprendo una superficie totale di 200 iugeri: questi quadrati presero il nome di centurie, da cui la definizione di centuriazione del territorio. Si prendeva come punto di riferimento l’Est, un elemento naturale, e si tracciava una linea verso Ovest: questa prendeva nome di decumanus maximus; perpendicolarmente si tracciava una seconda linea, il kardo maximus, della stessa lunghezza (asse Nord-Sud). Di norma, il decumanus maximus corrispondeva alla strada principale, ed era più largo rispetto al Kardo Maximus, considerato come strada di livello inferiore. In seguito, si tracciavano altri decumani e altri kardines paralleli a quelli principali, in modo da formare un reticolato di quadrati (la centuriazione).
Volendo rifarci alle fonti, Varrone nel De re rustica ci dà informazioni preziosissime a riguardo dei sistemi di misurazione romane: l’unità fondamentale era il giogo, che in Campania era definito “verso”, mentre presso i Romani e nel Lazio era chiamato “iugera”; 1 giogo (o iugera) era l’estensione di terreno che una coppia di buoi poteva arare in un giorno. Uno iugera corrispondeva a 2 actus quadrati: 1 actus era uguale a 120 piedi in lunghezza e larghezza; 2 iugeri formavano un heredium, un estensione di terra che si vuole sia stato per la prima volta distribuito da Romolo; 100 heredia costituivano una centuria, che era un’area di forma quadrata con lato di 2400 piedi. Le centurie erano disposte in modo che ce ne siano 2 per ogni lato, formando il saltus. L’affidamento ai coloni veniva definito tramite un sorteggio tra gli aventi diritto, e perciò il nome sors degli appezzamenti di terreno dati a questi.
Non sempre il decumanus maximus era orientato nella direzione Est-Ovest, ma poteva essere anche Nord-Sud: in questo caso si dirà che la centuriazione sarà rivolta verso Sud, quindi in Meridiem. Questo orientamento fu eseguito a Cosenza, dove si è riscontrata una centuriazione rettangolare di 200 iugera sulla sinistra del fiume Crati orientata, appunto, in Meridiem, ovvero verso Sud.
Le colonie avevano molteplici scopi: avamposto di difesa delle coste e di controllo interno del territorio, ma potevano essere un’eventuale testa di ponte per un futuro avanzamento nella conquista in un determinato scenario ostile, come anche semplice sfogo demografico di una popolazione in esubero. L’attività coloniaria fu, come ci dice Velleio Patercolo, particolarmente attiva a partire dal 383 a.C., diffondendo la colonizzazione nelle regioni limitrofe del Lazio, per poi arrestarsi nel periodo di tempo tra il 218 e il 203 a.C., arco di tempo in cui Annibale restò in Italia; l’attività coloniale riprese, almeno in apparenza, nel 197 a.C., con la fondazione delle coloniae maritimae lungo l’Italia meridionale tirrenica, continuando poi negli anni del secondo tribunato di Gaio Gracco con le colonie di Scolacium Minervorum, Tarentium Neptunia e Cartagine, prima colonia extra-italica, consacrata a Giunone (Carthago Iunionia). Nell’età dei Gracchi, a differenza di quanto fossero stati negli anni precedenti, le colonie si distinsero per il ruolo economico e sociale che andavano rivestendo, ovvero si rivelarono un mezzo potente per risollevare le condizioni agricole nella penisola italiana, oltre che provvedere al bisogno delle masse di veterani.

Illustrazione che mostra l’utilizzo della groma per la centuriazione dei campi. Ricostruzione di G. Moscara.

Tiberio Gracco e la sua “vecchia” legge

Nel primo dei cinque libri delle Guerre Civili, il tredicesimo dei ventiquattro che compongono la Ῥωμαϊκά (Storia romana) di Appiano ci viene mostrata, sullo sfondo di una tensione via via crescendo tra alcuni personaggi, i più illuminati del tempo, e i rappresentanti della res publica, tanto gelosi del proprio potere quanto impauriti nel perderlo: questa situazione sfocerà in contrasti dapprima sul piano politico-legale ma successivamente in ripetuti massacri, conseguente poi a una situazione terriera difficile, che schiacciava il civis romano, o l’Italico, proprietari di piccoli appezzamenti di terra, mentre ingrassava il patrimonio fondiario dei grandi possidenti terrieri. Da quello che apprendiamo dal testo di Appiano, la terra presa da Roma veniva, quando non assegnata per le deduzioni coloniali, venduta o affittata. I Romani erano soliti distinguere le terre conquistate, denominandole in maniera differente a seconda dell’utilizzatore finale: l’ager colonicus era dedicato alla fondazione di colonie; l’ager viritanus datus adsignatus, ovvero assegnazioni viritane (da viritim), date ai singoli cittadini; con ager compascuus scripturarius si denominava la parte comune di terreno lasciata al pascolo; infine l’ager occupatorius o arcifinalis, che era appannaggio esclusivo dei cittadini romani, pagando però un canone all’Erario. Sull’ager viritanus ci sarebbe da dire un altro aspetto molto importante, ovvero quello sociale. Queste assegnazioni sono fatte a favore dei poveri e dei veterani, e quindi con lo scopo di aiutare la plebe, oltre che di eliminare i latifondi frazionando i terreni. Le assegnazioni viritane erano sempre in minore quantità rispetto alle altre tipologie per l’ovvio motivo di non poter ricavare da queste terre del denaro da parte dello Stato: ma dai Gracchi in poi, questa tendenza cambiò, grazie alla formulazione di leggi agrarie e dalle entrate fiscali delle provincie.
In Appiano vi è citato ager publicus detto quaestorius: era detto così perché era il questore a decidere dell’alienazione di un determinato lotto di terra; la proprietas restava comunque alla res publica (che ufficialmente ne rimaneva il dominus), ma venivano garantiti a chi lo acquistava alcuni diritti, tra i quali l’ereditarietà e la possessio perpetua. Il terreno pubblico indicato per l’affitto era classificato come censorius, poiché erano i censori che tramite una sorta di gara d’appalto mettevano a disposizione la terra, che poteva produrre il più alto tasso di rendita; in cambio si chiedeva al cittadino possessore la corresponsione di un vectigal. La terra non assegnata era affidata – tramite un editto – a chiunque volesse coltivarla, dietro pagamento – anche qui – di un vectigal annuo che poteva essere un decimo, per quanto riguardava le seminagioni, e un quinto, per le colture arboree.

La fonte di Appiano, oltre a ciò, spiega che la terra incolta non fosse assegnata in questo modo per la mancanza di tempo, ma perché questi terreni non erano stimati abbastanza produttivi […]. Il dato riferito dallo storico alessandrino potrebbe restituire una notizia negativa, in quanto mostrerebbe la carenza di cives, cioè un’oligandrìa, volenterosi di lavorare nuove terre in cui non mancavano quelle popolazioni locali italiche cui venivano sottratte. Va inoltre ricordato che ai coloni romani era assegnato un terreno in ottime condizioni, con strutture preesistenti tali da poterlo rendere pronto allo sfruttamento.

Eugene Guillaume, Les Gracques. Gruppo scultoreo in bronzo, 1853. Ajaccio, Musée de Palais Fesch.

I ricchi imperversavano, prendendo per se la terra incolta che invece “spettava” agli italici, acquistando i terreni oppure offrendo dei canoni maggiori allo Stato: si rafforzava il ceto dei grandi possidenti terrieri a discapito dei piccoli proprietari, diventati capitecensi e quindi scesi in fondo all’ordinamento censitario. Si ricorse alle disposizioni di legge, limitando a 500 iugeri il terreno usufruibile per ogni cives romano, né di poter pascolare più di 100 capi di bestiame grosso o 500 di minuto. Ci si avvalse anche di un giuramento per vincolare tutti a rispettare le disposizioni dando, per un determinato arco di tempo, respiro ai ‘nuovi poveri’, che poterono restare sulle loro terre pagando l’affitto stabilito e coltivare il lotto assegnato loro fin dall’inizio.
In seguito, mancando forse un organo di controllo o perché coloro che erano preposti a farlo erano i maggiori detrattori della legge, tutto ritornò a una situazione di caos, con i ricchi che spadroneggiavano sulle terre dello Stato e che, servendosi di prestanome compiacenti, si fecero intestare gli affitti di altre terre, per poi impossessarsene in maniera definitiva, lasciando così la penisola italiana piena sia di poveri non volenterosi di prestar servizio militare e di crescere figli, sia di schiavi impiegati nelle enormi estensioni di terra. Sullo sfondo di questo scenario scompaginato fece il suo ingresso Tiberio Sempronio Gracco che intendeva, grazie alla sua riforma, dare nuovo respiro alle masse di poveri cacciati con la forza dalle loro terre, e quindi nuova linfa al nerbo costituente della più grande ricchezza di Roma, il suo esercito. Egli era uomo nobile e ambiziosissimo, di grande potenza nel parlare, con un’oratoria che avrebbe potuto far apparire bella anche una causa meno nobile: fece una serie di discorsi, in cui ebbe parole di preoccupazione verso quella stirpe italica che tanto aveva dato a Roma, e che rischiava di esaurirsi a causa della povertà e della scarsezza demografica; inoltre inveì contro gli schiavi, inutili per la milizia e giammai fedeli ai padroni. Così il tribuno Tiberio Gracco propose di rinnovare la legge che vietava di occupare oltre 500 iugeri di ager publicus, con l’aggiunta di una clausola che consentiva, ai figli degli occupanti, di avere 250 iugeri a testa, per un totale di 1000 iugeri come possesso permanente e garantito: la terra che avanzava da questa riorganizzazione sarebbe stata riassegnata tra i poveri tramite l’istituzione di una commissione di tre uomini, un triumvirato agrario.
L’esubero di terra, quella occupata e usufruita senza un pagamento di canone verso i detentori, sarebbe stata incamerata e successivamente suddivisa in lotti di 30 iugeri da distribuire parte ai cives romani, parte agli italici non come libera proprietà, ma come concessione ereditaria e inalienabile. Il primo di questi triumvirati agrari fu composto da Tiberio Gracco, da suo fratello Gaio e dal suocero del primo Appio Claudio Pulcro: essi furono incaricati dell’incameramento e dell’assegnazione della terra in esubero, ma successivamente ebbero affidata l’importante e difficile mansione di indicare legalmente le terre demaniali e quelle di proprietà privata, compito che prima spettava solo ai censori, a consoli e pretori; Velleio Patercolo ci riporta inoltre la notizia che tale triumvirato fondava colonie. Plutarco nella Vita di Tiberio ci dice che il lavoro di Tiberio, e quindi della commissione triumvirale, poté procedere con calma poiché non vi furono opposizioni: si può intendere calma nell’accezione di un lavoro immenso, ossia la ricognizione di tutto l’ager publicus, e di conseguenza la demarcazione dei confini delle singole proprietà. Le assegnazioni non potevano essere fatte immediatamente dopo l’approvazione della legge: alcuni soggetti potevano dimostrarsi restii a cedere il surplus di terra, altri invece avere rimostranze a causa di assegnazione di terre non coltivabili. Si ritiene infatti che le assegnazioni siano state effettuate non prima del 131 a.C., e da questo deduciamo che la partecipazione di Tiberio Gracco sia stata solo all’inizio della parte preparatoria, ovvero non abbia partecipato all’attività triumvirale. Si aggiunga inoltre che tra il 132 e il 131 a.C. si svilupperà un’intensa attività reazionaria anti-graccana. Come ultimo esempio del pensiero politico-economico di Tiberio Gracco, cioè la sua propensione alla questione della terra, riportiamo l’episodio del re Attalo III di Pergamo, morto nel 133 a.C., e del suo testamento, in cui nominava il popolo di Roma erede del suo regno. Tiberio Gracco propose una legge a favore del popolo, in base alla quale le ricchezze regali, trasportate a Roma, sarebbero state distribuite ai cittadini beneficiari della terra estratta a sorte, affinché potessero procurarsi gli attrezzi necessari alla coltivazione. Questo gesto, insieme allo schierarsi a favore della plebe rurale e alla deposizione illegale del tribuno Marco Ottavio lo portò a inimicarsi il Senato: fu un punto di non ritorno per la politica e la vita del Gracco, che perì poco dopo insieme a 300 dei suoi, accusato di aver violato la santità del suo collega Ottavio. Tiberio Sempronio Gracco, che secondo Appiano fu ucciso per colpa del suo programma, ottimo ma attuato con la violenza, per Velleio Patercolo propose leggi che suscitarono in tutti intempestive cupidigie: egli sovvertì qualsiasi norma e trascinò lo Stato a rischi precipitosi e gravi anche se, a distanza di poche righe dice che si distinse come oratore insieme al fratello Gaio, dicendo inoltre che entrambi usarono malamente le loto ottime qualità.
Egli propose non nuove leggi, ma rinnovò semplicemente quelle che appartenevano a un momento storico-politico in cui non sentiva il bisogno di proiettarsi verso la conquista mediterranea, ma di considerarsi pólis, con soldati-contadini auto-sufficienti che combattevano per la città, ma che ritornavano al momento della raccolta. Nel momento storico in cui Tiberio fece il suo lavoro, Roma si considera potenza mondiale, combatte e conquista fuori dai confini fisici della penisola italiana, comportando quindi lunghi periodi di permanenza lontano dalla fonte di ricchezza primaria, ovvero la terra.