Gli aspetti scenografici del teatro greco

di F. Ferrari, R. Rossi, L. Lanzi, Bibliothéke. Storia della letteratura, antologia e autori della lingua greca. 2. Atene e l’età classica, Bologna 2012, 10-15.

L’edificio teatrale greco è costituito da cavea, orchestra e scena. Una tarda tradizione riconnette i più antichi spettacoli teatrali in Atene all’agorà, con panche di legno e tavolati provvisori, ma in età classica le rappresentazioni si svolgevano nel teatro di Dioniso, situato ai piedi della scarpata meridionale dell’Acropoli e dominante l’area cultuale dedicata a Dioniso.

La cavea (il θέατρον vero e proprio come «luogo donde si guarda») era costituita dalle gradinate appoggiate a un pendio a conca e tagliate in senso verticale da scalinate (κλίμακες) che la dividevano in settori e in senso orizzontale da corridoi (διαζώματα) che consentivano un rapido affollamento e svuotamento del teatro.

Gli spettatori si distribuivano secondo gerarchie giuridiche e sociali: i seggi più vicini all’orchestra erano riservati agli alti funzionari della πόλις e agli orfani dei caduti in guerra, mentre il settore inferiore ai cittadini di pieno diritto.

Ricostruzione planimetrica del Teatro di Dioniso, Atene [Campanini, Scaglietti 2004, 70].

Al centro della prima fila, su una poltrona di pietra, sedeva il sacerdote di Dioniso, al quale il dio stesso si rivolge burlescamente in Aristofane, Rane 297: ἱερεῦ, διαφύλαξόν μ΄, ἵν’ ὦ σοι ξυμπότης («Ehi, sacerdote, salvami se vuoi che io continui a bere con te!»).

L’orchestra (ὀρχήστρα, cioè lo «spazio della danza»), al centro della quale sorgeva la θυμέλη («l’altare di Dioniso»), aveva un diametro di circa 20 metri o poco più e forma dapprima circolare, poi semicircolare, ma il coro (χορός) della tragedia si muoveva in formazione rettangolare (su cinque file quando il coro, con Sofocle, passo da 12 a 15 elementi) dopo aver fatto il suo ingresso preceduto da un suonatore di flauto doppio (αὐλητής).

Più liberi e variati erano i movimenti del coro comico, costituito da 24 elementi, che potevano raffigurare, oltre che uomini, esseri della più varia natura, molto spesso animali, ma anche nuvole o città (rispettivamente nelle Nuvole di Aristofane e nelle Città di Eupoli). Mentre i cori del ditirambo (διθύραμβος) eseguivano la τυρβασία circolare, la danza composta e stilizzata caratteristica della tragedia era chiamata ἐμμέλεια; le danze proprie del dramma satiresco e della commedia erano invece rispettivamente la vivace «sicinnide» (σίκιννις) e il lascivo «cordace» (κόρδας).

Pittore dell’Altalena (attribuito), Gruppo di coreuti che incede su sostegni di legno e trampoli (forse Titani). Pittura vascolare da un’anfora attica a figure nere, c. 550-525 a.C. Christchurch, University of Canterbury.

Fra la scena (ἐμμέλεια) e le due proiezioni dell’emiciclo della cavea si aprivano due corridoi laterali (εἴσοδοι o πάροδοι) che consentivano l’accesso degli spettatori alla cavea e l’ingresso, oltre che del coro, degli attori che non uscissero dall’edificio scenico. È dubbia la regola secondo cui da destra sarebbero entrati i personaggi provenienti dalla città, da sinistra quelli provenienti dalla campagna.

I drammi più antichi di Eschilo non sembrano presupporre un edificio scenico (σκηνή) quale invece compare sicuramente nell’Orestea del 458: si trattò inizialmente su una linea tangente all’orchestra di una costruzione in legno con tendaggi, con la trasformazione in requisito dell’area teatrale di un locale originariamente adibito a deposito per maschere, costumi e attrezzatura scenica e a camerino per i cambiamenti di costume degli attori. La scena fungeva da sfondo all’azione identificandosi volta a volta con un palazzo, un tempio, una tenda militare, una grotta.

Fra il 338 e il 330 a.C. il teatro di Dioniso, su iniziativa dell’oratore Licurgo, fu ricostruito in pietra (σκηνή compresa). Poi la scena fu proiettata in avanti per mezzo di un alto proscenio sostenuto da un colonnato.

Furono altresì create quinte girevoli su pali (περίακτοι), con decorazioni di paesaggi, che permettevano rapidi mutamenti di luogo. In relazione alla nuova struttura dovette essere introdotto anche un tipo a suola fortemente rialzata di quegli stivaletti in pelle con incurvatura delle punte che rappresentavano la consueta calzatura degli attori (i κόθορνοι, «coturni»).

Secondo una dubbia testimonianza dell’enciclopedia bizantina (X sec.) denominata Suda (φ 609) la decorazione della scena sarebbe stata introdotta per la prima volta, fra VI e V secolo a.C., da Formo di Siracusa, che avrebbe usato una tenda fatta di pelli conciate e dipinte di rosso (ἐχρήσατο […] σκηνῇ δερμάτων φοινικῶν), ma Aristotele fa della scenografia un invenzione di Sofocle (Poetica 1449a 18- 19), mentre Vitruvio (VII 1, 11) informa che Eschilo adottò la σκηνογραφία giovandosi dell’aiuto del pittore Agatarco di Samo. I pannelli decorati dovevano mostrare uno o più edifici o sfondi paesistici.

Scena tragica davanti a un palazzo. Pittura vascolare a figure rosse da un cratere tarentino, c. 350 a.C. Würzburg, Martin von Wagner Museum.

Un problema che è stato largamente discusso è quello dell’area antistante l’edificio scenico e retrostante l’orchestra, ovvero del cosiddetto proscenio (προσκήνιον): si dibatte se nel teatro del V secolo a.C. lo spazio in questione fosse costituito da una pedana soprelevata rispetto al livello dell’orchestra. Certo è che, se pure questa pedana esisteva, essa era tale da non impedire la comunicazione verbale e il transito dei personaggi e dei coreuti fra proscenio e orchestra (perciò, non avrebbe comunque potuto superare il dislivello corrispondente a due o tre scalini).

Dibattuta è anche la questione del numero di porte che si aprivano sulla facciata dell’edificio scenico: due sembrano richieste nelle Coefore di Eschilo (oltre a quella centrale, la porta degli alloggi delle donne, verso cui si precipita un servo) e tre nella Pace di Aristofane (abitazione di Trigeo, dimora di Zeus, caverna dello scarabeo). Anche il tetto della σκηνή poteva essere eventualmente utilizzato come spazio occupato dagli attori: da esso, per esempio, balza al suolo il servo frigio nell’Oreste di Euripide. Inoltre, ugualmente a un livello soprelevato, poteva essere utilizzata una piattaforma (θεολογεῖον) invisibile agli spettatori su cui gli attori salivano dal retro della scena.

Un altro problema che ha diviso gli studiosi riguarda l’esistenza e, in caso positivo, la frequenza di utilizzo, già nel corso del V secolo, di una sorta di basso carrello su ruote (ἐκκύκλημα), una piattaforma che, sospinta in avanti ed eseguendo un movimento circolare, serviva a rendere visibile al pubblico quanto avveniva nella parte più interna della scena: di esso trattano, con descrizioni sensibilmente divergenti, fonti tarde, fra cui gli scoli, cioè i commenti ai testi drammatici.

Un probabile uso di questa macchina si trova nell’Antigone di Sofocle (vv. 1294 ss., rappresentata nel 442 a.C.): Creonte, ormai conscio della catena di morti atroci che hanno decimato la famiglia a causa della sua ostinazione, vede da ultimo anche il corpo della moglie Euridice avvinto all’altare di Zeus Ercheo (Ἕρκειος, «Protettore del focolare domestico»), posto nel cortile interno del palazzo. Uscita di scena, la donna aveva annunciato che sarebbe andata a pregare per il figlio Emone e per la casata tutta. Grazie all’ἐκκύκλημα, gli spettatori potevano vedere l’altare domestico sul quale Euridice, dopo essere andata a piangere il figlio Megareo e ora anche Emone, si è tolta la vita.

Va rammentato, di passaggio, che le scene violente non potevano essere proposte sulla scena ed era, quindi, sempre un narratore – spesso un servo o un messaggero – a riferire al coro e al pubblico l’accaduto. Solo grida si potevano udire “dietro le quinte” e immaginare quanto si stava perpetrando o, come in questo caso, scorgere il cadavere. Oltre a questo, un altro celebre finale in cui si sarebbe fatto ricorso alla macchina è quello dell’Ippolito (430) di Euripide, mentre, per restare alla produzione sofoclea, si pensi all’Elena (v. 1458) e, probabilmente, all’Aiace (v. 344).

Ricostruzione schematica delle principali macchine teatrali in uso sulla σκηνή (link).

In ogni caso, a un tale congegno alludono due passi parodici di Aristofane. Negli Acarnesi (vv. 406-409) Diceopoli supplica Euripide di uscire di casa per prestargli qualche straccio dei suoi eroi cenciosi:

D                        Ti chiama Diceopoli di Collide: io!

E                         Ma non ho tempo!

D                      E dai: fatti trasportare fuori sul carrello!

E                         Ma non è possibile!

                       Su, avanti!

E                         Ecco, mi farò metter fuori sul carrello: non ho tempo di scendere!

Nelle Tesmoforiazuse è lo stesso Euripide a cercare l’aiuto di Agatone, il quale sta uscendo dalla σκηνή (νν. 95-96):

E                        Silenzio!

P                        Che c’è?

E                        Agatone sta uscendo!

P                        E quale sarebbe?

E                        Lui, quello che si fa metter sul carrello!

Pacificamente accertato è invece, per alcuni drammi, il ricorso a una macchina del volo, detta γέρανος («gru»), che – grazie a un sistema di cavi, carrucole e ganci – serviva per tenere sollevato in aria un personaggio o fargli percorrere un certo tragitto aereo.

Nella Pace di Aristofane, con parodia del perduto Bellerofonte di Euripide (dove il protagonista volava in groppa a Pegaso), Trigeo impartisce istruzioni dapprima allo scarabeo che intende cavalcare per recarsi a colloquio con Zeus (vv. 82-87):

T Oh, buono, buono: rallenta, asinello mio!
Non slanciarti con troppo impeto,
fin da principio fidando nella tua forza,
prima di aver ammorbidito
i muscoli col battito veloce delle ali!
E non soffiarmi addosso questo puzzo, per pietà!

Poi si rivolge al macchinista addetto alla manovra, il μηχανοποιός (vv. 174-176):

T Macchinista, pensa a me!
Già mi sento turbinare un vento sotto l’ombelico:
se non stai attento, ingrasserò lo scarabeo!

Con la macchina del volo arriva Oceano nel Prometeo di Eschilo (vv. 284 ss.), fugge per l’etere Medea alla fine dell’omonimo dramma euripideo, appaiono talora gli dèi di cui si dice che giungono per l’aria, come, nelle chiuse di alcuni drammi euripidei, Tetide (Andromaca), Atena (Ione), i Dioscuri (Elettra).

Pittore anonimo. Il volo di Medea. Pittura vascolare da un κρατήρ-κάλυξ lucano a figure rosse, c. 400 a.C. Cleveland, Museum of Art.

Talvolta i personaggi potevano comparire in scena anche su un carro da parata, come nell’Agamennone eschileo il sovrano argivo e la sua prigioniera Cassandra o, nell’Elettra di Euripide, Clitennestra, che si reca in campagna a far visita alla figlia.

Nell’area scenica potevano comparire anche tombe e altari, come, in Eschilo, nelle Supplici, dove uno rialzo sacro adorno di statue e altari degli dèi (una κοινοβωμία) diventa l’asilo delle Danaidi, o nelle Coefore, dove il tumulo di Agamennone è il luogo presso il quale Elettra scorge le orme del fratello e poi intona insieme con lui e con le coreute il commo di invocazione (κομμός) al padre defunto. E in Euripide si rifugiano ai piedi di un altare, fra gli altri, Andromaca perseguitata da Ermione e la sposa e i figli di Eracle perseguitati dal tiranno Lico (Eracle).

Occasionalmente anche un letto poteva essere portato alla vista degli spettatori. come, in Euripide, nel caso di Fedra delirante nell’Ippolito e di Oreste malato nell’Oreste o in Aristofane, per Strepsiade che, tormentato dal pensiero dei debiti, si agita su un pagliericcio al principio delle Nuvole.

“Io non lodo gli Ateniesi”: una critica al sistema democratico ([Xen.], Ath. pol. 1, 1-5)

Nel corso della guerra del Peloponneso, di fronte alle difficoltà provocate dal conflitto, ad Atene fra coloro che si erano illusi in una sua rapida soluzione, non mancarono voci, anche autorevoli, che attribuirono la responsabilità di quanto stava accadendo agli esponenti più radicali della democrazia.

Probabilmente, questa nostalgia per un governo democratico moderato o addirittura oligarchico, che escludesse dalla gestione del potere le classi sociali più umili, favorite invece dalle riforme di Efialte e di Pericle, scaturì dalla volontà di trovare un capro espiatorio sul quale sfogare il malcontento della situazione, piuttosto che da ben ragionate motivazioni storiche e politiche; tuttavia, fu anch’essa un eloquente segno dei tempi.

Tale è lo spirito che anima un trattatello di tre capitoli, per un totale di cinquantatré paragrafi, intitolato Costituzione degli Ateniesi (Ἀθηναίων πολιτεία) e inserito nel corpus delle opere di Senofonte.

Per questo motivo il suo autore, a noi sconosciuto, è indicato con l’appellativo di “Pseudo-Senofonte” o anche con quello di “Vecchio oligarca”, escogitato dagli studiosi della scuola inglese con felice fantasia, perché si adegua bene alle sue simpatie politiche, forse più giustificabili in una persona attempata che in un giovane.

L’opera, di carattere retorico-dimostrativo, esprime un punto di vista ostile alla democrazia e delinea, con amara ma realistica rassegnazione, i tratti essenziali della politica interna ateniese e del comportamento della città nei confronti degli alleati. Il fatto che l’autore si esprima in termini molto generali, considerando gli aspetti della politica ateniese senza agganciarli con precisi riferimenti alla realtà storica, rende molto difficile, se non addirittura impossibile, la datazione esatta dell’opuscolo, probabilmente composto prima del 411 a.C., quando avvenne ad Atene il “colpo di Stato” oligarchico dei Quattrocento.

Tale ipotesi è avvalorata dall’affermazione, contenuta nell’opuscolo, che la democrazia ateniese appare invincibile – parole che sarebbero fuori luogo, se fossero state pronunciate dopo che il governo democratico era stato appena abrogato.

Gli esiti negativi della seconda fase della guerra, che intaccarono significativamente il prestigio di Atene sul piano politico, economico e militare, spinsero molti intellettuali del tempo a ricercarne le cause nell’organizzazione democratica della città, profondamente mutata dalle riforme dell’età di Pericle.

Come spesso accade in simili occasioni, nelle quali il desiderio di suggerire la soluzione di uno stato di crisi si manifesta in forme di conservatorismo fine a sé stesso, e perciò antistorico, la difficile situazione della città fu attribuita ai cambiamenti istituzionali, ai quali l’autore dell’opuscolo contrappone il mito di un “buon governo” di stampo nostalgicamente oligarchico.

Pittore Brygos. Scena di votazione con ψῆφοι (gettoni). Pittura vascolare su una κύλιξ attica a figure rosse, c. 490 a.C. Malibu, J. Paul Getty Museum.

[1. 1] Περὶ δὲ τῆς Ἀθηναίων πολιτείας, ὅτι μὲν εἵλοντο τοῦτον τὸν τρόπον τῆς πολιτείας οὐκ ἐπαινῶ διὰ τόδε, ὅτι ταῦθ’ ἑλόμενοι εἵλοντο τοὺς πονηροὺς ἄμεινον πράττειν ἢ τοὺς χρηστούς· διὰ μὲν οὖν τοῦτο οὐκ ἐπαινῶ. ἐπεὶ δὲ ταῦτα ἔδοξεν οὕτως αὐτοῖς, ὡς εὖ διασῴζονται τὴν πολιτείαν καὶ τἆλλα διαπράττονται ἃ δοκοῦσιν ἁμαρτάνειν τοῖς ἄλλοις Ἕλλησι, τοῦτ’ ἀποδείξω.

[2] Πρῶτον μὲν οὖν τοῦτο ἐρῶ, ὅτι δικαίως ‹δοκοῦσιν› αὐτόθι [καὶ] οἱ πένητες καὶ ὁ δῆμος πλέον ἔχειν τῶν γενναίων καὶ τῶν πλουσίων διὰ τόδε, ὅτι ὁ δῆμός ἐστιν ὁ ἐλαύνων τὰς ναῦς καὶ ὁ τὴν δύναμιν περιτιθεὶς τῇ πόλει, καὶ οἱ κυβερνῆται καὶ οἱ κελευσταὶ καὶ οἱ πεντηκόνταρχοι καὶ οἱ πρῳρᾶται καὶ οἱ ναυπηγοί, ‑ οὗτοί εἰσιν οἱ τὴν δύναμιν περιτιθέντες τῇ πόλει πολὺ μᾶλλον ἢ οἱ ὁπλῖται καὶ οἱ γενναῖοι καὶ οἱ χρηστοί. ἐπειδὴ οὖν ταῦτα οὕτως ἔχει, δοκεῖ δίκαιον εἶναι πᾶσι τῶν ἀρχῶν μετεῖναι ἔν τε τῷ κλήρῳ καὶ ἐν τῇ χειροτονίᾳ, καὶ λέγειν ἐξεῖναι τῷ βουλομένῳ τῶν πολιτῶν. [3] ἔπειτα ὁπόσαι μὲν σωτηρίαν φέρουσι τῶν ἀρχῶν χρησταὶ οὖσαι καὶ μὴ χρησταὶ κίνδυνον τῷ δήμῳ ἅπαντι, τούτων μὲν τῶν ἀρχῶν οὐδὲν δεῖται ὁ δῆμος μετεῖναι· ‑ οὔτε τῶν στρατηγιῶν κλήρῳ οἴονταί σφισι χρῆναι μετεῖναι οὔτε τῶν ἱππαρχιῶν· ‑ γιγνώσκει γὰρ ὁ δῆμος ὅτι πλείω ὠφελεῖται ἐν τῷ μὴ αὐτὸς ἄρχειν ταύτας τὰς ἀρχάς, ἀλλ’ ἐᾶν τοὺς δυνατωτάτους ἄρχειν· ὁπόσαι δ’ εἰσὶν ἀρχαὶ μισθοφορίας ἕνεκα καὶ ὠφελείας εἰς τὸν οἶκον, ταύτας ζητεῖ ὁ δῆμος ἄρχειν. [4] ἔπειτα δὲ ὃ ἔνιοι θαυμάζουσιν ὅτι πανταχοῦ πλέον νέμουσι τοῖς πονηροῖς καὶ πένησι καὶ δημοτικοῖς ἢ τοῖς χρηστοῖς, ἐν αὐτῷ τούτῳ φανοῦνται τὴν δημοκρατίαν διασῴζοντες. οἱ μὲν γὰρ πένητες καὶ οἱ δημόται καὶ οἱ χείρους εὖ πράττοντες καὶ πολλοὶ οἱ τοιοῦτοι γιγνόμενοι τὴν δημοκρατίαν αὔξουσιν· ἐὰν δὲ εὖ πράττωσιν οἱ πλούσιοι καὶ οἱ χρηστοί, ἰσχυρὸν τὸ ἐναντίον σφίσιν αὐτοῖς καθιστᾶσιν οἱ δημοτικοί. [5] ἔστι δὲ πάσῃ γῇ τὸ βέλτιστον ἐναντίον τῇ δημοκρατίᾳ· ἐν γὰρ τοῖς βελτίστοις ἔνι ἀκολασία τε ὀλιγίστη καὶ ἀδικία, ἀκρίβεια δὲ πλείστη εἰς τὰ χρηστά, ἐν δὲ τῷ δήμῳ ἀμαθία τε πλείστη καὶ ἀταξία καὶ πονηρία· ἥ τε γὰρ πενία αὐτοὺς μᾶλλον ἄγει ἐπὶ τὰ αἰσχρὰ καὶ ἡ ἀπαιδευσία καὶ ἡ ἀμαθία ‹ἡ› δι’ ἔνδειαν χρημάτων ἐνίοις τῶν ἀνθρώπων.

[1. 1] La costituzione degli Ateniesi, che scelsero questo modo di governarsi, io non l’approvo per questa ragione, e cioè che, avendo scelto siffatta forma, permisero alla canaglia di star meglio dei cittadini onesti; per questo motivo, dunque, io non l’approvo. Ma siccome ciò a loro sembrò giusto, io dimostrerò come bene conservino la loro linea politica, anche perseguendo con coerenza atti che gli altri Greci considerano disdicevoli.

[2] Per prima cosa, dunque, dirò questo, che a buon diritto qui i nullatenenti e il popolino sembrano godere vantaggi sugli aristocratici e sui ricchi, perché è il popolo che conduce le navi e assicura potenza alla città, e così pure i timonieri, i capiciurma, i pentecontarchi, i proreti e gli armatori: sono costoro che forniscono forza alla città, molto più che gli opliti, gli aristocratici e i cittadini onesti. Poiché, insomma, le cose stanno così, appare giusto che a tutti sia dato di partecipare alle cariche pubbliche, sia a quelle per sorteggio sia a quelle elettive e che qualsivoglia cittadino abbia libertà di parola. [3] D’altronde, quelle magistrature, che, se ben esercitate, recano al popolo sicurezza e rischi, se mal gestite, il popolo non vuole rivestirle – infatti, la gente pensa che non sia conveniente aspirare al sorteggio delle strategie o delle ipparchie –; il popolo, infatti, sa che trarrò maggiore giovamento non assumendo tali magistrature, ma lasciando che le rivestano i più capaci. Al contrario, il popolo cerca di esercitare quei ruoli che offrono una ricompensa e che possono essere redditizie per il proprio patrimonio. [4] Inoltre, alcuni stupiscono che gli Ateniesi in ogni ambito attribuiscano maggior importanza al volgo, agli indigenti e ai popolani piuttosto che ai migliori; ma proprio in questo è evidente che essi tutelano la democrazia. Difatti, dato che i poveri, i popolani e i peggiori stanno bene, se gente simile aumenta di numero, essi rafforzano la democrazia; se invece fossero avvantaggiati i ricchi e la gente onesta, allora i popolani renderebbero più forti i loro avversari. [5] In ogni parte della Terra l’aristocrazia è nemica della democrazia: infatti, tra i migliori sono minime la smodatezza e l’ingiustizia, mentre massima è l’inclinazione al bene; invece, nel popolo sono assai diffuse l’ignoranza, l’indisciplina e la malvagità; la povertà spinge la gente ad azioni vergognose e così anche la mancanza di educazione e l’ignoranza, che in certi individui sorgono dalla mancanza di mezzi.

Iscrizione della «Legge contro la tirannide». Personificazione di Democrazia che incorona Demos (bassorilievo). Marmo, 337-376 a.C. ca. da Atene. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

Il brano considerato si apre con l’iniziale enunciazione del credo politico dell’autore, che oppone in modo inconciliabile l’ottica dei χρηστοί, la «gente per bene», cioè gli aristocratici, a quella dei πονηρoi, la «canaglia», ovvero i membri del popolo.

Secondo il suo punto di vista, il governo ateniese si fonda su presupposti sbagliati, perché concede potere a chi dovrebbe esserne escluso; tuttavia, il sistema è forte perché si regge su una sua logica perversa e su meccanismi ben funzionanti. Infatti, se è vero che l’egemonia ateniese si regge sulla talassocrazia, allora le classi sociali che hanno permesso alla città di giungere a tale potenza non sono i maggiorenti, che militano fra le schiere dei cavalieri o in quelle degli opliti, ma i popolani, con il loro lavoro di carpentieri, timonieri, rematori.

L’amara constatazione fa un chiaro riferimento alla situazione che si verificò ai tempi di Temistocle, quando lo statista si appoggiò alle classi sociali più umili (θῆτες) per la costituzione e l’equipaggiamento della flotta da guerra che avrebbe dovuto fronteggiare l’armata di Serse a Salamina (480 a.C.). Da quel periodo, infatti, cominciò il declino dell’esercito formato da cavalieri e da opliti, provenienti dalle classi più ricche e altolocate. Tutte le altre riforme, tese a favorire sempre più il popolo a dispetto degli aristocratici, hanno avuto origine da tali presupposti; ed è logico che sia così, perché queste due classi sono opposte per natura in qualunque luogo.

Il passo si conclude con osservazioni che richiamano il rigido conservatorismo di alcuni scrittori del VI secolo a.C., come, per esempio, Teognide di Megara, il quale, come il “Vecchio oligarca”, sottolineava le differenze fra χρηστοί e πονηροί considerandole addirittura frutto di diversità genetica.

In questo senso, l’autore dell’opuscolo appare appena un po’ più tollerante del suo durissimo predecessore, perché concede alla «canaglia» almeno qualche circostanza attenuante: se gli indigenti sono quello che sono, lo devono alla natura, ma in parte anche alla miseria, che li spinge al male e che li ha privati di un’adeguata educazione, grazie alla quale avrebbero potuto migliorare almeno qualche aspetto del loro spregevole carattere.

Poseidone e Apollo. Frammento di rilievo (particolare), marmo, V secolo a.C. dal fregio degli dèi del Partenone. Atene, Museo dell’Acropoli.

***

Riferimenti bibliografici:

C.S. Bearzot, F. Landucci Gattinoni, L. Prandi (eds.), L’Athenaion politeia rivisitata. Il punto su Pseudo-Senofonte, Milano 2011.

C.S. Bearzot, M. Canevaro, T. Gargiulo, E. Podigghe (eds.), Athenaion Politeiai tra storia, politica e sociologia: Aristotele e Pseudo-Senofonte, Milano 2018.

L. Canfora, Studi sull’“Athenaion Politeia” pseudosenofontea, Torino 1980.

L. Canfora, Anonimo Ateniese. La democrazia come violenza, Palermo 1986.

S. Cataldi, Democrazia e facoltà di parola nel “Vecchio Oligarca”, Ktema 27 (2002), 173-181.

S. Ferrucci, La democrazia diseguale. Riflessioni sull’Athenaion Politeia dello pseudo Senofonte, I 1-9, Pisa 2013.

M.J. Fontana, L’Athenaion Politeia del V secolo a.C., Palermo 1968.

W.G. Forrest, The Date of the Pseudo-Xenophontic Athenaion Politeia, Klio 52 (1970), 107-116.

M. Gigante, G. Maddoli (eds.), L’Athenaion Politeia dello Pseudo-Senofonte, Napoli 1997.

E. Hohl, Zeit und Zweck der pseudoxenophontischen Athenaion Politeia, CPh 45 (1950), 26-35.

W. Lapini, Filologia ciclica: il caso dell’Athenaion Politeia dello Pseudo-Senofonte, Klio 80 (1998), 325-335.

D. Lenfant (éd.), Les aventures d’un pamphlet antidémocratique: transmission et réception de la Constitution des Athéniens du Pseudo-Xénophon (Ve siècle avant J.-C.), Paris 2020.

D. Levystone, La « Constitution des Athéniens » du Pseudo-Xénophon : d’un dispotisme à l’autre, RFHIP 21 (2005), 3-48.

J. Marr, Making Sense of the Old Oligarch, Hermathena 160 (1996), 37-43.

Y. Nakategawa, Athenian Democracy and the Concept of Justice in Pseudo-Xenophon’s “Athenaion Politeia”, Hermes 123 (1995), 28-46.

C. Neri, Noterelle allo Pseudo-Senofonte, IFC 10 (2010-2011), 199-223.

F. Roscalla, Πεϱὶ δὲ τῆϛ ᾽ Aϑηναίων πολιτείαϛ…, QUCC 50 (1995), 105-130.

G. Serra, La costituzione degli Ateniesi dello Pseudo-Senofonte, Roma 1979.

G. Serra, Ἀθηναίων πολιτεία: un falso Senofonte o un falso di Senofonte?, IFC 12 (2012-2013), 161-189.

H. Wolff, Die Opposition gegen die radikale Demokratie in Athen bis zum Jahre 411 v.Chr., ZPE 36 (1979), 279-302.

Erodoto di Alicarnasso

1. Le notizie biografiche

I dati della vita di Erodoto (Ἡρόδοτος), considerato già dagli antichi il vero pater historiae (Cic. Leg. I 1, 5), sono scarsi e incerti; tra le poche notizie sicure, si sa che nacque fra il 490 e il 480 a.C. ad Alicarnasso (l’od. Bodrum, Turchia), la città caria sulla costa meridionale dell’Asia Minore di fronte all’isola di Cos, che, fondata dalla dorica Trezéne, era stata profondamente influenzata dalla cultura ionica prevalente nelle città limitrofe.

I nomi dei genitori, Lyxes il padre e Dryò la madre, e quello dello zio (o cugino), il poeta epico Paniassi, inducono a pensare a una famiglia misto cario-greca. In ogni caso, Erodoto fu un Greco d’Oriente, rampollo di una nobile schiatta, che, negli anni immediatamente successivi alle guerre persiane, fu coinvolta nelle lotte per rovesciare il locale tiranno, Lygdamis II.

La Suda (Suda s.v. Ἡρόδοτος, η 536 Adler) individua la ragione della dimestichezza di Erodoto con il dialetto ionico nel suo soggiorno a Samo, dovuto a quel fallito tentativo di espellere il tiranno, a cui partecipò insieme con Paniassi. L’esilio a Samo si concluse non molto prima del 454, quando Erodoto sarebbe tornato in patria e Alicarnasso, ormai libera dalla tirannide (si racconta, anzi, che lo stesso Erodoto avesse contribuito alla cacciata del despota), entrò a far parte della Lega delio-attica.

Jean-Léon Gérôme, Il re Candaule. Olio su tela, 1859.

Da allora iniziarono i suoi viaggi: fra il 448 e il 447 fu prima in Egitto, dove dovette soggiornare circa quattro mesi, e di lì visitò la Fenicia e la Mesopotamia. Secondo la consuetudine dei periegeti e dei logografi ionici, Erodoto raccolse un materiale ricchissimo e assai vario, destinato a confluire poi nella sua opera, caratterizzata, però, da un profondo spirito innovatore e da finalità diverse rispetto a quelle di coloro che l’avevano preceduto. Animato da un vivo desiderio di conoscere popoli, usi e costumi di genti diverse dai Greci, sulla base delle attestazioni più esplicite che si possono ricavare dai suoi scritti, Erodoto ebbe una conoscenza diretta anche della costa settentrionale del Ponto Eusino e della Tracia.

In ambito greco, egli si trattenne a Delfi, a Sparta, fra le città della Beozia e soprattutto ad Atene. Qui gli furono tributati onori civili, nel 445/4, in seguito alle pubbliche letture delle sue storie (lo storico Diillo, FGrHist. 73 F 3, ricordava a tal proposito addirittura la pubblicazione di un decreto, che per queste letture autorizzava la spesa, alquanto inverosimile, di dieci talenti!); nella capitale attica Erodoto dovette entrare in rapporto con gli ambienti intellettuali del tempo, come testimoniano le notizie di una sua amicizia con Sofocle (in particolare, i vv. 909-912 dell’Antigone presuppongono il racconto relativo alla moglie di Intaferne in Erodoto III 119, 6).

Lo storico visitò anche la Magna Grecia e si recò nella colonia panellenica di Turi fondata, da poco per volontà di Pericle nel 444/3, sulle rovine dell’antica Sibari, facendone per un certo periodo la sua patria d’elezione. Nel corso del soggiorno in Italia meridionale Erodoto ebbe anche modo di compiere un’incursione in Cirenaica.

La precisa conoscenza delle tradizioni locali, così come l’esattezza delle descrizioni topografiche, testimoniano esperienze di viaggio nelle isole dell’Egeo e della Grecia continentale. Di Turi Erodoto assunse tutti i diritti inerenti alla πολιτεία e i suoi legami con la città furono tanto stretti che in alcuni manoscritti del IV secolo a.C. egli era detto «di Turi», come attestano Aristotele (Aristot. Rhet. 1409a) e Duride di Samo (FGrHist. 76 F 64).

Karl Schwerzek, Erodoto. Statua, marmo di Lasa, 1898. Wien, Parlamentsgebäude.

Quella di Erodoto fu un’attività di viaggiatore che non sembra essersi rivolta in prima istanza a soddisfare la curiosità dell’uomo, in quanto le aree scelte non sono specificamente quelle del conflitto greco-persiano, ma dovette comunque essere intrapresa come risposta a un interesse intellettuale: sembra significativo in proposito che lo stesso Erodoto affermi che lo scopo dei viaggi di Solone (I 30) e di Anacarsi (IV 76) era quello di osservare (θεωρίη) e che in III 139, 1, più genericamente, dichiari, a proposito di coloro che visitavano l’Egitto, che alcuni vi si recavano «per commercio, altri come soldati, altri anche per visitare il Paese» (κατ’ ἐμπορίην, [οἱ δὲ στρατευόμενοι], οἱ δέ τινες καὶ αὐτῆς τῆς χώρης θεηταί).

Anzi, è probabile che proprio durante il soggiorno ad Atene, riflettendo sui fatti delle guerre persiane, Erodoto abbia intuito la vasta portata di questo avvenimento e abbia riconosciuto anche l’eccezionalità del ruolo storico sostenuto da Atene stessa, protagonista a Maratona (490) e a Salamina (489): le vittorie sulla cui fama la classe dirigente fondava il primato della città rispetto alle altre e con le quali giustificava l’adozione di una linea politica che aveva ormai assunto atteggiamenti decisamente egemonici.

La novità di Erodoto nel considerare questi fatti consiste soprattutto nell’aver compreso di trovarsi di fronte non più a eventi dalle motivazioni mitiche, ma a dinamiche dipendenti dalla volontà umana, che hanno avuto origine da una diretta e ben leggibile catena di cause e conseguenze, iniziata con il tributo imposto ai Greci d’Asia da Creso, re di Lidia, e conclusa con la rivolta della Ionia e con l’inevitabile rappresaglia persiana.

La posizione di Atene, dunque, era stata decisiva in tutta la vicenda, perché la sua classe politica, che aveva sostenuto con ogni mezzo la libertà dell’Ellade (Hdt. VII 139), aveva anche fatto sì che la civiltà democratica avesse la meglio sull’assolutismo achemenide. Da questo punto di vista, Erodoto andava assai al di là di una semplice adesione alla propaganda periclea o di un generico sentimento “nazionale”: la profondità e l’acume della sua analisi sono testimoniati dall’atteggiamento di critica perplessità con cui lo storico guardava all’imperialismo di Atene, timoroso di cogliervi gli stessi germi di autodistruzione che avevano minato alle fondamenta la mole dell’Impero persiano, spintosi ormai al di là di quell’umana misura capace di garantire non solo una solida pace, ma anche la durata nel tempo.

Dalla fusione di questi due elementi, l’esperienza del viaggiatore curioso e l’attenta indagine degli umani eventi, scaturisce la vera novità dell’opera erodotea. L’ignoranza delle lingue, l’essersi affidato a informatori talora inattendibili, la brevità di alcuni soggiorni comportarono la saltuaria ricezione di falsità e assurdità già in parte notate dagli antichi, che alimentarono un filone critico secondo cui Erodoto sarebbe stato un sedentario che in parte lavorò di fantasia, inventando le testimonianze, e in parte le copiò dai propri predecessori; ma l’ingente registrazione da parte sua di dati esatti e di notizie comunque circolanti nei Paesi descritti sembra decisamente smentire questa prospettiva.

Quanto alla struttura, nell’originario progetto dell’autore, l’opera si articolava probabilmente in λόγοι («racconti»), destinati a letture pubbliche; solo più tardi assunse la forma di un’ampia narrazione scritta, a cui fu dato, dopo la scomparsa dell’autore, il titolo generico di ἱστορίαι («storie», «indagini storiche»). Anche la suddivisione in nove libri, intitolati ciascuno a una Musa, risale all’età ellenistica ed è da attribuire al grammatico alessandrino Aristarco di Samotracia (c. 216-144 a.C.).

Degli ultimi eventi della vita di Erodoto si conosce ben poco: secondo le fonti antiche, sarebbe scomparso a Turi, negli anni immediatamente successivi allo scoppio della guerra del Peloponneso, cioè dopo il 430; ma non si è certi, perché i rapporti fra Atene e la colonia si erano deteriorati, ed è probabile che, data la sua amicizia con Pericle, lo storico fosse tornato ad Atene, terminando là i suoi giorni, sebbene nell’agorà di Turi si additasse la sua tomba come una delle glorie locali.

Erodoto. Busto, copia romana di II secolo da un originale greco di V secolo a.C., dalla Stoà di Attalo. Atene, Museo dell’Antica Agorà.

2. Erodoto e le Ἱστορίαι: la “questione erodotea”

È una teoria abbastanza diffusa fra gli studiosi che l’opera di Erodoto sia stata pubblicata dopo l’inizio della seconda guerra peloponnesiaca, presumibilmente intorno al 425, quando lo storico doveva essere già morto da tempo, forse senza portare a compimento il suo lavoro. A sostegno di quest’ultima ipotesi, si citano la conclusione troppo brusca e la mancanza di alcune parti, a cui l’autore rinvia o di cui preannuncia la trattazione, ma che poi non compaiono: si tratta in particolare di due «promesse» mancate, una in VII 213, in cui si dice che il racconto della morte di Efialte verrà più oltre e questo non accade, e l’altra in I 184, in cui si annuncia, parimenti senza esito, che nell’ambito del λόγος assiro si parlerà dei sovrani di Babilonia.

Tuttavia, non è nemmeno da escludere che questi apparenti segni di incompiutezza siano in realtà le tracce di un lavoro di organizzazione e di sistematizzazione del materiale raccolto, probabilmente condotto a termine durante il soggiorno ad Atene, quando Erodoto decise di porre fine ai suoi lunghi viaggi; altri hanno obiettato che queste e consimili contraddizioni siano pur sempre spiegabili come disattenzioni nell’ambito di un lavoro ampio, intricato, decennale.

Inoltre, siccome Erodoto appare ancora legato alla tradizione rapsodica della Ionia, il fatto che la sua narrazione si concluda piuttosto bruscamente con l’episodio della presa di Sesto sull’Ellesponto (478), potrebbe far pensare che egli fosse stato attratto dall’idea di un finale «aperto» simile a quello dell’Iliade e dell’Odissea, a cui si potesse facilmente riallacciare con un successivo racconto.

Vare e altre questioni si riconnettono al problema dell’unità di concezione e di composizione dell’opera, tanto che non è fuori luogo parlare di una vera e propria «questione erodotea», in cui, per sommi capi, si possono distinguere due fondamentali tendenze, quella antiunitaria e quella associativa. La teoria antiunitaria, sostenuta da Scholl, Bauer e Kirchhoff, supponeva che l’opera di Erodoto fosse stata concepita in origine come una serie di λόγοι indipendenti l’uno dall’altro, destinati a letture pubbliche, riuniti poi artificiosamente in un’unica redazione scritta. L’elemento più importante a suffragio di questa teoria è la struttura organicamente uniforme di tutti i λόγοι: prima la descrizione del Paese e la sua posizione geografica, poi le osservazioni sui costumi degli abitanti e sulle loro leggi, con indagini su consuetudini e tradizioni; infine, a conclusione, cenni più o meno ampi di storia politica. La teoria dei λόγοι fu ripresa anche da Jacoby, Powell e De Sanctis; quest’ultimo, in particolare, elaborò il cosiddetto «principio associativo», secondo il quale Erodoto avrebbe concepito l’iniziale progetto di trattare in λόγοι separati la storia dei popoli poi entrati a far parte dell’Impero achemenide; solo in un secondo momento, l’autore avrebbe deciso di trattare gli avvenimenti del conflitto greco-persiano, finendo poi per concentrarsi esclusivamente su di essi e modificando il piano dell’opera. Testimonianza di questa deviazione dall’intento originale sarebbe l’evidente sproporzione fra lo spazio dedicato ai λόγοι etnografici (i primi cinque libri) e quello adibito alla trattazione delle guerre persiane (gli altri quattro). Secondo un’altra teoria, invece, il primitivo disegno di Erodoto sarebbe stato appunto quello di considerare le guerre persiane come punto focale dell’intera opera.

Ritratto doppio di Erodoto e Tucidide. Erma bifronte, calco in gesso da un originale greco (c. 400-375 a.C.). Praha, Galerie antického umění v Hostinném.

3. La cultura di Erodoto

Indipendentemente dalla dotta serie di supposizioni circa la struttura e la composizione delle Storie, il confronto fra l’opera erodotea e la coeva letteratura del V secolo a.C. mette in luce un altro aspetto forse più interessante; quando l’opera, precedentemente nota attraverso le pubbliche letture e la circolazione di alcune sue parti manoscritte, fu pubblicata ufficialmente verso il 425, dovette sembrare già anacronistica, animata da concezioni esistenziali e religiose e da ideali politici ormai avviati al tramonto, espressi con un linguaggio e in uno stile che si ricollegavano meglio alla prima metà del secolo, piuttosto che ai suoi ultimi anni.

Infatti, se i prosatori del passato e le memorie orali dei periegeti e degli etnografi costituirono per Erodoto un prezioso riferimento per la sua metodologia, l’ottica con la quale egli considerò gli avvenimenti e i valori della storia e le azioni umane è analoga a quella dominante nel mondo dell’ἔπος, in cui le persone agivano spinte da quello stesso desiderio di gloria (κλέος) e di ricordo (μνήμη) che lo storico considera nel proemio il fine ultimo della sua fatica. Ma dalla sua opera i semidei sono del tutto scomparsi; rimane comunque fortissimo e immutabile il fascino della figura eroica, unitamente al desiderio dello storico di analizzare gli eventi con l’intento di cogliervi, accanto all’operato umano, il segno di una presenza divina.

Anche i discorsi sapientemente costruiti, sullo sfondo di scene ben adeguate, richiamano al mondo epico; ma non bisogna trascurare nemmeno l’apporto della poesia lirica, soprattutto dell’elegia guerresca di Callino e di Tirteo e di quella gnomica di Solone. Dalla tradizione dei primi due, infatti, Erodoto derivò la figura del cittadino combattente, pronto al sacrificio della vita per il bene della collettività; da quella dell’ultimo, invece, egli trasse il concetto della vita associata fondata su ideali di equilibrio, misura e ordine, improntati a un modello di giustizia divina, che non ammette violazioni e la cui potenza si manifesta sia nella breve esistenza dei singoli che nel più ampio volgersi delle generazioni e nel ciclo di ascesa e di declino di città e nazioni.

Erodoto. Busto, copia romana del II sec. d.C. da originale greco della prima metà del IV sec. a.C. da Athribis (od. Benha, Basso Egitto). New York, Metropolitan Museum of Art.

La convinzione che l’universo si reggesse su leggi di equilibrio regolato da un ordine di giustizia trascendente, riflesso nella storia e negli eventi umani, all’epoca di Erodoto trovava la sua più piena espressione nella tragedia, alla quale veniva riconosciuto un altissimo valore civico ed educativo. Lo storico fu largamente debitore a questo genere letterario: per esempio, considerando i Persiani di Eschilo, indipendentemente dalla somiglianza dei contenuti, l’affinità fra i due autori risalta soprattutto nella giustificazione religiosa degli avvenimenti, secondo la quale la sconfitta di Serse è dovuta all’intervento degli dèi, necessario per castigare l’orgoglio del sovrano, divenuto ormai un’intollerabile forma di ὕβρις. Perciò, tanto in Eschilo quanto in Erodoto, ecco evidenziarsi, sulla scia della γνώμη di Solone, l’idea di una divinità restauratrice di giustizia, il cui operare, spesso misterioso per l’intelletto umano, si rivela attraverso segni premonitori, come sogni e oracoli.

Quando poi il destino dell’individuo si compie, dando vita a una vicenda emblematica, suscettibile di essere ridotta a paradigma universale, allora è chiaro il rapporto concettuale fra Erodoto e Sofocle, soprattutto nei drammi delle Trachinie e dell’Edipo re. Ma, al di là di queste rassomiglianze di pensiero, il debito di Erodoto verso i tragici si rivela anche nei modi della costruzione del racconto, fitto di dialoghi, di vivaci scambi di battute e caratterizzato da una profonda e acuta analisi psicologica dei personaggi, oltre che dalla creazione di veri e propri episodi drammatici.

Tutto il V secolo fu caratterizzato in Grecia da un profondo e continuo travaglio intellettuale e morale, destinato a trasformare radicalmente la concezione dell’esistenza, della storia e della reazione dell’uomo di fronte agli eventi. In questo senso, l’opera di Erodoto offre un contributo di notevole originalità, perché non si limita a dar vita a un nuovo genere di letteratura e di conoscenza. Infatti, in Erodoto c’è la volontà di rintracciare nella molteplicità delle vicende storiche, dei principi unitari e universali, vere e proprie categorie interpretative. Nella sua ricerca di un elemento ordinatore, l’autore lo evidenziò nel rapporto fra causa ed effetto, identificato di volta in volta in fattori sociali, economici, politici, ma soprattutto in una visione simultanea dell’agire divino e umano, già presente nella poesia epica.

Ma nel mondo omerico, l’intervento divino nelle cose umane appariva spesso determinato dall’arbitrio e dal capriccio; al contrario, in Erodoto, esso si configura come necessità di giustizia e di mantenimento della misura e dell’ordine, spesso violati per orgoglio e per spirito di prevaricazione (ὕβρις), a cui la δίκη divina deve necessariamente contrapporsi. In questo modo, l’analisi del rapporto causa-effetto si attua attraverso l’individuazione di due diversi livelli di realtà, quella umana e quella divina. Da questa concezione scaturisce in Erodoto una visione dinamica della storia, in un perenne alternarsi di atti di ὕβρις e di reintegrazione della δίκη.

Secondo le convinzioni dello storico di Alicarnasso, al di sopra di tutto, come principio subordinante e mai subordinato, sta il «fato» (ἡ μοίρα, ἡ πεπρωμένη μοίρα), che gli dèi accettano in funzione della loro onniscienza. Per indicare la divinità, Erodoto usa in genere i termini ὁ θεός, τὸ θεῖον, preferendo il sostantivo al singolare e in senso indeterminato, piuttosto che indicare con il loro nome le varie divinità. Il mondo dell’uomo, con tutto l’insieme degli eventi in cui egli agisce o subisce, è dipendente dal volere del fato e da quello della divinità. Generalmente, l’individuo crede di essere il protagonista degli avvenimenti, ma, a una più attenta osservazione, risulta invece condizionato da forze che lo trascendono e da una precisa serie di regole. Queste norme, eterne e universali, non sono mai state scritte (ἄγραφοι νόμοι); quando l’uomo le viola, commette un atto di empietà (τὸ ἀνόσιον), che provoca inevitabilmente la punizione divina, ma non sempre contro il diretto colpevole. La giustizia degli immortali, infatti, non ha gli stessi mezzi né gli stessi ritmi di quella umana, e può dilatarsi nel tempo, cogliendo anche un discendente, lontano, ma appartenente al medesimo γένος e quindi ugualmente responsabile, in base al concetto dell’ereditarietà della colpa.

Oxford, Sackler Library. P. Oxy. 2099 A 01 (II sec.). Frammento di Hist. VIII di Erodoto.

4. Le fonti di Erodoto

Per quanto originale e innovativo, Erodoto non creò dal nulla la sua opera, ma si servì dei resoconti di coloro che lo avevano preceduto nei viaggi, citando talvolta anche direttamente le sue fonti, come accade con Scilace di Carianda (ricordato in IV 44) ed Ecateo di Mileto (di cui fa riferimento in II 143). Uno degli interessi più significativi della prima storiografia greca si connetteva alle esplorazioni geografiche di territori sconosciuti o poco noti e alla conseguente produzione di relazioni relative a tali viaggi, specialmente alle circumnavigazioni di continenti o di isole (i cosiddetti «peripli», περίπλοι). Oltre alle indicazioni strettamente collegate alla navigazione (approdi, porti, rotte, sorgenti, distanze), queste descrizioni contenevano talora notizie di carattere storico, etnografico e socio-economico riguardanti le contrade adiacenti. Proprio in questo ambito si era distinto innanzitutto Scilace (Σκύλαξ) di Carianda (Caria), che, come attesta lo stesso Erodoto (IV 44), verso la fine del VI secolo (c. 516-512?) per incarico di re Dario I compì una spedizione navale che lo portò in trenta mesi dal corso dell’Indo al golfo arabico. Del resoconto da lui redatto restano solo alcuni frammenti, nei quali si può comunque ravvisare la ricchezza dei suoi interessi geografici ed etnografici. Su un terreno meno insicuro si può collocare la figura di Ecateo (Ἑκαταῖος) di Mileto, figlio di Egesandro, vissuto fra il 560/50 e il 480 circa, che viaggiò a lungo per i territori dell’Impero persiano, soprattutto in Egitto, e giocò un ruolo cospicuo nell’ambito dell’insurrezione ionica (fra il 500 e il 494), dapprima suggerendo la costruzione di una flotta dopo aver invano cercato di dissuadere i concittadini dall’aggredire la potenza achemenide, poi negoziando la pace dopo la sconfitta. Compose due libri di una Periegesi (Περιήγησις ο Περίοδος γῆς) e successivamente quattro libri di Genealogie (Γενεαλογίαι).

Scena di udienza reale. Rilievo, pietra calcarea, c. V secolo a.C. dal portico settentrionale dell’Apadana di Persepolis. Teheran, Mūze-ye Mellī-ye Īrān.

5. Le premesse metodologiche (Hdt. I proem.)

Pur dimostrando di avere più di un debito nei confronti di Ecateo, Erodoto si discosta da lui in modo netto per quello che riguarda i contenuti e gli orientamenti dell’indagine. Mentre infatti il Milesio concentrava l’attenzione sulle leggende genealogiche degli antichi eroi del mito, l’opera erodotea si presenta come una ἱστορίης ἀπόδεξις («esposizione di una ricerca») incentrata sull’uomo e sulle sue vicende: questa è la grande novità dell’opera di Erodoto (I proem.):

Ἡροδότου Θουρίου ἱστορίης ἀπόδεξις ἥδε, ὡς μήτε τὰ γενόμενα ἐξ ἀνθρώπων τῷ χρόνῳ ἐξίτηλα γένηται, μήτε ἔργα μεγάλα τε καὶ θωμαστά, τὰ μὲν Ἕλλησι, τὰ δὲ βαρβάροισι ἀποδεχθέντα, ἀκλέα γένηται, τά τε ἄλλα καὶ δι’ ἣν αἰτίην ἐπολέμησαν ἀλλήλοισι.

Questa è l’esposizione delle ricerche di Erodoto di Alicarnasso, perché gli eventi umani non svaniscano con il tempo e le imprese grandi e meravigliose, compiute sia dai Greci sia dai barbari, non restino senza fama; in particolare, per quale causa essi si fecero guerra.

È possibile riconoscere, già da qui, il debito nei confronti dell’ἔπος: lo scopo dichiarato dell’indagine è quello di preservare alla memoria le imprese μεγάλα («grandi») e θωμαστά («degne di essere ammirate»), in modo che, con il trascorrere del tempo, esse non rimangano ἀκλέα, cioè prive di κλέος. Il ruolo dello storico risulta quindi equiparabile a quello dell’aedo epico, che vuole salvaguardare il κλέος ἄφθιτον («la gloria imperitura», Il. IX 413) degli eroi: quello che cambia è l’orizzonte, che si sposta dal piano mitologico di dèi e semi-dèi a quello umano delle vicende storiche. Il proemio erodoteo menziona specificamente τὰ γενόμενα ἐξ ἀνθρώπων («gli eventi umani»): si tratta di un’affermazione di portata decisiva, perché sposta l’attenzione dello storico decisamente su un altro piano. Anche l’intento di narrare tali vicende ὡς μήτε… τῷ χρόνῳ ἐξίτηλα γένηται («perché… con il tempo non svaniscano») nasconde in nuce la contrapposizione fra il “tempo” che tutto divora e la “storia” che si prefigge di preservare la memoria, consolidatasi nei secoli come luogo comune, presente anche all’anonimo manzoniano nel celeberrimo proemio de I promessi sposi: «L’historia si può veramente deffinire una guerra illustre contro il tempo».

Anche l’impiego del termine ἔργα è determinante: con esso si intendono sia le «imprese» umane, con particolare attenzione alle vicende delle guerre persiane, sia i «monumenti» eretti dall’uomo e destinati a rimanere nel tempo. Anche questo passaggio si rivela metodologicamente rilevante: oggetto dell’indagine storiografica sono sì gli eventi e le imprese umani, ma non in modo indiscriminato. Allo storico spetta il compito di selezionare ciò che è veramente importante e degno di essere tramandato, attuando un’operazione di sintesi e di discernimento critico, che costituisce il tratto più peculiare della sua attività.

Nella chiusa del proemio sono da sottolineare due concetti: αἰτίη, ovvero la ricerca delle cause degli eventi, come fondamento dell’indagine storica, e πόλεμος, la guerra come argomento di analisi privilegiato.

Amazzonomachia. Bassorilievo, marmo, 353-350 a.C. ca. dal fregio del Mausoleo di Alicarnasso (od. Bodrum, Turchia). London, British Museum.

6. Le cause del conflitto

Per quel che riguarda la materia trattata, dunque, il racconto storiografico presuppone il patrimonio della tradizione epica e lo supera: nella prospettiva di Erodoto, infatti, la guerra di Troia non è che uno degli episodi di quel grande confronto-scontro fra Oriente e Occidente, che trova il suo momento culminante nella guerra tra Persiani e Greci, di cui l’autore fu testimone. Come in Omero, anche in Erodoto è la guerra il fenomeno «grande» e degno di essere ricordato, ma lo storico, facendo riferimento alla αἰτίη, la «causa», introduce la novità di organizzare gli eventi in rapporto causale, con un significativo progresso rispetto all’epica e aprendo la strada verso l’istituzione della storia come scienza.

Ciò che fa seguito al proemio (I 1-4) verte appunto sul tema della causa iniziale dell’ostilità fra Greci e barbari con il ricorso a una congerie di tradizioni mitiche (Fenici rapitori di Io da Argo, Greci rapitori di Europa da Tiro in Fenicia e poi di Medea dalla Colchide, Paride rapitore di Elena e conseguente guerra di Troia), che vengono tuttavia osservate con un occhio distaccato e scettico: Erodoto, per esempio, dichiara esplicitamente di non saper scegliere fra una versione persiana e una fenicia (I 5). Le tradizioni mitiche vengono però subito lasciate definitivamente da parte a favore della fissazione di un punto d’inizio ben meditato e significativo, cioè l’avvio della dominazione del lidio Creso sulle πόλεις d’Asia Minore.

Di qui l’esordio di un percorso ampio, involuto, ricco di digressioni che si dipartono dal racconto principale e arrivano ad abbracciare più capitoli o un intero libro, e tuttavia costante nel ritorno alla rotta principale nel punto in cui essa era stata abbandonata.

Adrien Guignet, Serse sull’Ellesponto. Olio su tela, XIX secolo.

Questa rotta riguarda gli avvenimenti relativi agli ottant’anni di storia che vanno dalla quasi contemporanea ascesa al trono, rispettivamente di Lidia e di Persia, di Creso e di Ciro il Grande (560-558 a.C.) fino alla battaglia di Micale (479) e all’occupazione di Sesto (478): avvenimenti visti, almeno inizialmente, attraverso i regni dei primi quattro Achemenidi, da Ciro a Serse.

Se tuttavia nei primi quattro libri, dedicati alle campagne militari condotte dai re persiani per la sottomissione di popoli limitrofi o ribelli, le vicende greche compaiono all’interno di digressioni non dissimili da quelle dedicate ad altri popoli, a partire dal V libro esse assurgono a soggetto principale e alla fine dominante del racconto, con la rivolta ionica, la battaglia di Maratona, e le guerre persiane del 480-478.

Ciò non toglie che dietro il prodotto finito, o semi-finito, intercorresse una lunga fase di stesure parziali e forse talvolta di singoli λόγοι in sé compiuti su definiti ambiti geo-etnografici. Questa in sintonia con una situazione comunicativa che, se nella forma del testo pervenuta appare già investita da un fortissimo senso della scrittura e delle sue possibilità e funzioni, presuppone sullo sfondo un comporre in vista di recite pubbliche al cospetto di mutevoli uditori (funzione acroamatica). La necessità di informare e intrattenere il pubblico spiega la struttura e le modalità comunicative dell’opera, che presenta elementi novellistici e meravigliosi, divagazioni e narrazioni nei quali emerge il piacere di raccontare e la volontà di affascinare l’ascoltatore, mantenendone vivo l’interesse.

Se l’autore presenta la propria opera come ἱστορίης ἀπόδεξις («esposizione di una ricerca»), ἱστορίη dunque definisce tutto il lavoro di ricerca che ha preceduto la stesura definitiva. In esso confluiscono i dati provenienti dalla αὐτοψία («visione diretta»), da lui privilegiata fin dove possibile, perché tesa a verificare personalmente l’oggetto stesso dell’indagine; e l’ἀκοή τῶν λόγων («ascolto dei discorsi»), ovvero la testimonianza orale di dotti e sacerdoti (λόγιοι ἄνδρες), viaggiatori e di altri. Erodoto distingue con cura fra ciò che ha visto e ciò che ha sentito dire e tende a prestar fede ai suoi interlocutori, solo se essi, a loro volta, siano stati testimoni oculari dei fatti (αὐτόπται). La veridicità dei discorsi uditi è controllata attraverso un metodo critico che seleziona, prima di tutto, gli informatori: i più attendibili sono, secondo Erodoto, οἱ ἐπιχώριοι («gli abitanti del posto»). È impossibile, però, rintracciare un atteggiamento univoco dell’autore verso la tradizione orale che ha raccolto: talora egli si pone di fronte a essa in un rapporto neutrale e distaccato, esaurendosi la ricerca nell’esposizione di più testimonianze, avvalorate attraverso τὸ συμβάλλεσθαι («il confronto»), tra cui egli volutamente non sceglie, animato dallo zelo di riferire comunque ciò che gli sia stato raccontato; talora invece il suo giudizio (γνώμη) sulla plausibilità delle fonti s’impone sul mero impegno di registrarle, ed egli si compiace di esercitare la propria critica su storie favolose, sottolineando di non credere ciecamente a tutto quanto gli sia stato esposto. Oppure Erodoto cerca di scegliere tra le sue fonti, per esempio facendo seguire a un sommario della storia di un luogo costruito sulla testimonianza di informatori locali un racconto che si basa prevalentemente sulla parola di altri.

Pittore anonimo. Combattimento tra un oplita greco e tre arcieri persiani. Pittura vascolare su λήκυθος attica a figure nere, c. 490-480 a.C. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

7. Il principio di λέγειν τὰ λεγόμενα (Hdt. VII 152)

Nel caso di più versioni dello stesso evento, l’autore si premura di proporle tutte, seguendo il principio di λέγειν τὰ λεγόμενα, «riferire ciò che si dice» (VII 152, 3). Non si tratta, però, di una rinuncia all’esercizio della critica. Erodoto non mira alla totalità nella registrazione storiografica, ma si prefigge di evitare qualsiasi manipolazione o inquinamento delle fonti, trasmettendole così come sono, indipendentemente dalla loro veridicità, sulla quale egli non si pronuncia:

[152, 1] Εἰ μέν νυν Ξέρξης τε ἀπέπεμψε ταῦτα λέγοντα κήρυκα ἐς Ἄργος καὶ Ἀργείων ἄγγελοι ἀναβάντες ἐς Σοῦσα ἐπειρώτων Ἀρτοξέρξην περὶ φιλίης, οὐκ ἔχω ἀτρεκέως εἰπεῖν, οὐδέ τινα γνώμην περὶ αὐτῶν ἀποφαίνομαι ἄλλην γε ἢ τήν περ αὐτοὶ Ἀργεῖοι λέγουσι. [2] Ἐπίσταμαι δὲ τοσοῦτο, ὅτι, εἰ πάντες ἄνθρωποι τὰ οἰκήια κακὰ ἐς μέσον συνενείκαιεν ἀλλάξασθαι βουλόμενοι τοῖσι πλησίοισι, ἐγκύψαντες ἂν ἐς τὰ τῶν πέλας κακὰ ἀσπασίως ἕκαστοι αὐτῶν ἀποφεροίατο ὀπίσω τὰ ἐσηνείκαντο. Οὕτω [δὴ] οὐδ’ Ἀργείοισι αἴσχιστα πεποίηται. [3] Ἐγὼ δὲ ὀφείλω λέγειν τὰ λεγόμενα, πείθεσθαί γε μὲν οὐ παντάπασιν ὀφείλω (καί μοι τοῦτο τὸ ἔπος ἐχέτω ἐς πάντα τὸν λόγον)· ἐπεὶ καὶ ταῦτα λέγεται, ὡς ἄρα Ἀργεῖοι ἦσαν οἱ ἐπικαλεσάμενοι τὸν Πέρσην ἐπὶ τὴν Ἑλλάδα, ἐπειδή σφι πρὸς τοὺς Λακεδαιμονίους κακῶς ἡ αἰχμὴ ἑστήκεε, πᾶν δὴ βουλόμενοι σφίσι εἶναι πρὸ τῆς παρεούσης λύπης.

Che Serse abbia inviato davvero un araldo ad Argo a fare quelle proposte, che ambasciatori argivi, giunti a Susa, abbiano interrogato davvero Artaserse a proposito del patto di amicizia, non so dire con certezza e nessun’altra opinione espongo in proposito se non quella che riportano gli stessi Argivi. Solo questo io so: se tutti gli uomini mettessero in comune i propri mali, volendo scambiarli con quelli dei vicini, dopo aver dato uno sguardo ai mali di chi gli sta accanto, ognuno sarebbe contento di riportarsi indietro quel che aveva lì portato. Così, non sarebbero gli Argivi ad aver fatto la cosa più vergognosa. Quanto a me, io devo riferire ciò che si narra, ma non sono tenuto a crederci – quest’affermazione valga per ogni racconto –, poiché anche questo si dice, che furono gli Argivi a chiamare il Persiano in Grecia, poiché la guerra con i Lacedemoni si era conclusa in modo disastroso per loro, e preferivano per sé qualsiasi sorte rispetto al doloroso presente.

In questo modo, il pubblico è, per così dire, reso compartecipe dell’indagine e nell’esprimere valutazioni di merito; lo storico mantiene un atteggiamento flessibile, in quanto talora prende posizione indicando le proprie preferenze, ma più spesso lascia che sia il lettore a formarsi un’opinione, senza condizionarlo con nessun giudizio. Infatti, come osserva a proposito dell’assassinio di Policrate di Samo, αἰτίαι μὲν δὴ αὗται διφάσιαι λέγονται τοῦ θανάτου τοῦ Πολυκράτεος γενέσθαι, πάρεστι δὲ πείθεσθαι ὁκοτέρῃ τις βούλεται αὐτέων («sono queste le due ragioni che si raccontano a proposito della morte di Policrate: ognuno può prestar fede a quale delle due preferisce», III 122, 1).

London, British Library. G. Rawlinson, A.J. Grant, Herodotus: The Text of Canon Rawlinson’s Translation, London 1897, 387. Mappa del mondo secondo Erodoto.


8. L’antropologia erodotea

Al di là del corretto uso degli strumenti di conoscenza e del reperimento di fonti attendibili, la ricostruzione di nuove mappe culturali richiedeva a Erodoto l’elaborazione di un modello interpretativo che gli permettesse un’adeguata lettura del nuovo e del diverso.

Nel creare un metodo di ἱστορίη antropologica, Erodoto è giunto ad approntare uno schema di raccolta e organizzazione dei materiali che risulta operativo per tutti i λόγοι, anche se non in tutti viene necessariamente sviluppato in ogni sua articolazione. Esso consiste in un quadro che ha come cornice da un lato la descrizione geografica di un territorio, dall’altro l’enumerazione delle sue θαυμάσια («meraviglie»); fra l’una e l’altra viene appunto delineata una sezione etnografica che prevede come stazioni fondamentali: una ἀρχαιολογία («serie di ragguagli sull’antichità») di un popolo, a proposito delle vicende dei suoi antenati fin dal più remoto passato; una rassegna dei νόμιμα («costumi e tradizioni»), dalle istituzioni religiose (divinità, pratiche cultuali, cerimoniali e riti, oracoli, modalità di sepoltura, giuramenti, ecc.) a quelle militari e politiche; una descrizione della δίαιτα («vita quotidiana») degli abitanti di una regione, con notizie sull’alimentazione, sul vestiario, sulle abitazioni, ecc.

Insistito, nell’esposizione e (talora) nella valutazione di tali costumanze, appare il riferimento al corrispondente uso greco, in una prospettiva naturalmente ellenocentrica ma non per questo ellenocratica: Erodoto misura ciò che è «diverso» sulla base del «noto», soprattutto perché egli ha il problema di comunicare il λόγος elaborato sul singolo Paese straniero a un tipo di uditorio che, pur variando di composizione, è in ogni caso costituito da comunità greche.

Wilhelm von Kaulbach, La battaglia di Salamina. Olio su tela, 1862-1864. München, Städtische Galerie im Lenbachhaus und Kunstbau.

D’altra parte, l’adozione costante di un destinatario ellenico – e di conseguenza della cultura greca – come termine di riferimento e di misura, se relativizza le altre civiltà, almeno nella scelta dei campi d’interesse a cui subordinare l’osservazione delle caratteristiche ritenute più qualificanti per la loro comprensione, Erodoto finiva per relativizzare, con un effetto di ritorno, la stessa cultura greca. Ciò emerge, per esempio, quando (II 158, 5) l’autore si compiace di osservare che non meno dei suoi connazionali gli Egizi «chiamano barbari tutti coloro che non parlano la loro lingua».

Altro criterio largamente sfruttato da Erodoto è quello della “simmetria”, in un bisogno di conferire ordine e trasparenza alla realtà ricorrendo a una cornice di opposizioni sistematiche. Ciò è evidente quando egli riflette (IV 36, 1) che, se ci sono uomini oltre il vento del Nord (Borea), devono essercene anche oltre il vento del Sud (Noto), oppure quando osserva gli Egizi, coerentemente con un clima peculiare e con un fiume che presenta una natura diversa da quella di tutti gli altri, hanno adottato quasi in tutto usi e costumi all’inverso degli altri popoli: per questo in Egitto le donne frequentano il mercato e commerciano, mentre gli uomini stanno a casa e tessono, gli uomini portano pesi sulla testa e le donne sulle spalle, le donne orinano in piedi e gli uomini accovacciati, e così via.

Talora il principio di simmetria opera non nel contrasto fra un certo popolo e il resto dell’ecumene ma fra due culture, le quali si prospettano allora come i poli estremi di uno spettro comprensivo di multiformi possibilità. Da questo punto di vista è particolarmente marcata l’opposizione fra Sciti ed Egizi, collocati rispettivamente verso il margine settentrionale e quello meridionale del mondo erodoteo: per esempio, il Nilo si gonfia quando gli altri fiumi si prosciugano, mentre il Danubio non varia mai di regime; il Nilo tiene insieme l’Egitto, i fiumi della Scizia la dividono in distretti e servono da barriere alle invasioni; in Egitto la natura appare, attraverso il sistema della canalizzazione delle acque, sotto il controllo umano, in Scizia la natura sfugge completamente al dominio degli uomini; gli Egizi eccellono nella loro memoria del passato e si ritengono il popolo più antico, mentre gli Sciti sostengono di essere quello più giovane.

Fondamentale, come nel trattato ippocratico Sulle arie le acque i luoghi, è il nesso vincolante fra il territorio in cui una civiltà vive e prospera e il suo orizzonte esperienziale: per esempio, secondo quest’ottica, i Greci derivano dalla povertà del loro suolo la virtù che permette loro di sottrarsi sia agli stenti sia al dispotismo (cfr. VII 102); gli Egizi sono, dopo i Libici, i più sani fra tutte le genti, «poiché le stagioni lì non cambiano» (II 77); e, alla fine dell’opera, alla proposta di Artembare che i Persiani abbandonino la loro terra aspra per abitarne una migliore, re Ciro obietta ricordandogli che da terre molli nascono caratteri molli (IX 122).

Per quanti i condizionamenti ambientali e climatici possano comportare differenze anche qualitative nel modo di vivere e nella mentalità dei singoli popoli come dei singoli individui, il relativismo culturale, che costituisce il nocciolo dell’indagine erodotea, reclama però attenzione e rispetto per ogni forma di civiltà. La lezione importante che Erodoto ne trae è che non esiste alcun criterio oggettivo valido per valutare pregi o difetti delle singole culture, meritevoli ciascuna di rispetto, nella propria specifica alterità, tanto che il disprezzo verso differenti costumi e tradizioni si prospetta, nella personalità emblematicamente negativa del sovrano achemenide Cambise, come un sintomo di pazzia.

Apollo Didimo. Testa, copia romana in marmo del c. 120-140 dell’originale greco del c. 470 a.C., opera di Canaco, dalla Villa Hadriana, Tivoli. London, British Museum.

9. Lo stile erodoteo

Aristotele, nella Retorica (III 9, 1409a22-b12), entro una fondamentale opposizione tra stile paratattico o «continuo», caratteristico dell’esposizione orale (λέξις εἰρομένη), e stile ipotattico, tipico dello scritto (λέξις κατεστραμμένη), considera il primo sgradevole per mancanza di struttura, il secondo più moderno, e come esempio di stile antiquato cita Erodoto. A parte il giudizio di valore, lo stile erodoteo può veramente essere considerato come esemplare di un andamento paratattico che, agglutinando i particolari dell’esposizione, procede, almeno nell’effetto che intende suscitare, «semplice, senza fatica e trascorrente con agilità da un argomento all’altro» (Plutarco, De Herodoti malignitate 854e), coerentemente sia con un tipo di comunicazione che almeno inizialmente si poneva come recitativo-aurale sia con una “poetica” intesa in prima istanza a registrare piuttosto che ad analizzare e dibattere le forme e gli eventi del mondo. Cicerone gli riconosce fluidità e naturalezza, come un fiume tranquillo che scorre «senza nessun intoppo» (quasi sedatus amnis fluit, Cicerone, Orator 39).

E la vocazione all’excursus, all’inserimento del particolare secondario, alle προσθῆκαι («aggiunte») e alle παρενθῆκαι («inserzioni»), all’ornamentazione arguta del tratto episodico, al gusto per il meta-racconto (cioè il racconto nel racconto), nonché la predisposizione al reimpiego di storie già di per sé appartenenti al dominio della fiction – vere e proprie «novelle», come quella di Candaule e Gige o quella dell’anello di Policrate – tendono a suscitare un flusso verbale scintillante e piacevole, impreziosito da memorie poetiche attinte soprattutto al serbatoio della dizione epica o al suo archivio di convenzioni (per questo nell’antichità Erodoto fu detto Ὁμηρικώτατος, «assai simile a Omero»): per esempio, la superiore bellezza e statura dei condottieri o i duelli intorno al corpo di un caduto, come nello scontro sul cadavere di Leonida (VII 225, 1). Del resto, l’ammirazione per le grandi personalità del passato induceva gli storici antichi a delineare efficaci ritratti dei protagonisti degli eventi narrati, tanto che questa tendenza sarebbe divenuta un τόπος del genere storiografico. Naturalmente il ritratto può anche descrivere non tanto l’aspetto fisico del personaggio, quanto il suo modo di comportarsi e di parlare, così che se ne possa ricavare un quadro morale positivo o negativo, generalmente confermato dalle azioni o dal giudizio dei contemporanei. Le finalità etiche e didascaliche che ne caratterizzano l’opera erodotea hanno indotto l’autore a prediligere il ritratto “morale”.

Jacques-Louis David, Leonida e l’esercito spartano alle Termopili. Olio su tela, 1814.

Né mancano, specialmente nei dialoghi, echi della contemporanea tragedia. Quanto ai discorsi riportati, una delle differenze più notevoli fra storiografia antica e storiografia moderna riguarda l’importanza a essi accordata e il modo di riferirli. Se in un’opera moderna un discorso è un documento di attendibilità indiscussa e dev’essere citato solo con questo carattere e questa funzione, per gli autori antichi, a partire da Erodoto, il λόγος rappresentava, oltre che la premessa teorica dell’ἔργον («azione»), anche un mezzo di straordinaria efficacia per caratterizzare un personaggio proprio attraverso il suo modo di esprimersi, o per trasmettere una riflessione o un ammonimento universali. Oltretutto, il discorso era uno dei modi più diretti per mettere in risalto le abilità retoriche dell’autore.

Tutte queste esigenze facevano sì che i discorsi risultassero sempre adeguati ai personaggi e alle situazioni: ma ciò poteva dipendere tanto dalla loro autenticità quanto dalla capacità dello scrittore di costruirli secondo gli schemi della verisimiglianza (τὸ εἰκός) e in conformità della situazione in cui venivano pronunciati (ὁ καιρός). Erodoto, dunque, ha inserito nelle sue Storie un gran numero di discorsi, alcuni di pura invenzione, altri costruiti proprio seguendo questi schemi, senza preoccuparsi di giustificare in alcun modo le proprie scelte.

D’altronde, nei passi di più meditata scrittura, Erodoto sa realizzare una struttura più rigorosa e compatta, e anche là dove domina l’andamento «coordinato», la semplicità dell’effetto è un’intenzione comunicativa piuttosto che una povertà di mezzi. Le linee del discorso sono infatti quasi sempre controllate da una volontà organizzatrice che sotto l’apparenza di lasciar fluire le frasi con libera naturalezza e con trascolorante varietà (ποικιλία), consce a fondo l’arte di abbandonare e riprendere al momento giusto un motivo, di suggellare una sequenza attraverso la composizione ad anello, di incastrare l’una dentro l’altra digressioni di diversa ampiezza e rilievo.

Teseo e Antiope. Statua, marmo, VI sec. a.C. dal frontone ovest del Tempio di Apollo Eretrio. Calcide, Museo Archeologico.

10. Lo ionico erodoteo

Anche sul versante dialettale lo ionico usato da Erodoto è solo la componente dominante della sua lingua, che non a torto il retore Ermogene di Tarso, vissuto circa tra il 160 e il 225 d.C., nel suo trattato Περὶ ἰδεῶν [Sulle forme stilistiche] (F 12 Rabe), contrappose allo ionico puro di Ecateo. Nel linguaggio erodoteo, infatti, sono presenti sia termini tecnici provenienti da diverse aree dialettali (desunti così da testi scritti come da esperienze di viaggio) sia atticismi almeno in parte ricollegabili al soggiorno ateniese, sia soprattutto epicismi, spesso inseriti per conferire al discorso una patina arcaizzante. Per questo, Ermogene la definì una «lingua contaminata» (διάλεκτος μεμιγμένη).

Va peraltro tenuto presente che tutti questi tratti extra-ionici vanno riconsiderati all’interno del problema della trasmissione del testo, alla quale sono comunque da addebitare quelle forme pseudo-ioniche e iper-ioniche, inserite dai grammatici intenzionati a «restituire» un tenore dialettale di puristica normalità.

Tra i caratteri peculiari del linguaggio di Erodoto si possono individuare il fenomeno della psilosi, cioè la tendenza alla perdita dello spirito aspro e delle aspirazioni: p. es., ἀπικόμενος → ἀφικόμενος («che sta arrivando»); talora mancano di contrazione anche le consonanti: p. es., δέκομαι → δέχομαι («accettare»). In effetti, la contrazione è piuttosto rara: si possono trovare forme come καλεόμενος → καλούμενος («chiamato»), δοκέει → δοκεῖ («sembra»), ἀπαιτέειν → ἀπαιτεῖν («esigere»). Si riscontrano forme di contrazioni diverse dall’att., come ἐμεῦ → ἐμοῦ («mio»), ποιεῦμαι → ποιοῦμαι («essere creato»). Quanto alle vocali, caratteristico è il fenomeno dell’etacismo, ovvero l’impiego di η al posto di α lungo anche quando è puro: αἰτίη → αἰτία («causa»), ἱστορίη → ἱστορία («indagine»); nei sostantivi in -εια, -οια anche α breve subisce etacismo, come in εὐνοίη → εὔνοια («favore»). In certi casi ε sostituisce α: p. es., τέσσερες → τέσσαρες («quattro». Si registrano, altresì, i dittonghi αι → α, ει → ε, ου → ο: così, αἰεί → ἀεί («sempre»), ξεῖνος → ξένος («straniero»), μοῦνος → μόνος («solo»). A proposito delle consonanti, si rileva l’uso di κ per π in pronomi e avverbi, come in κῶς → πῶς («come?»), κότε → πότε («allora»).

Georges Rochegrosse, Gli eroi di Maratona. Olio su tela, 1911.

***

Riferimenti bibliografici:

I. Beck, Die Ringkomposition bei Herodot und ihre Bedeutung fiir die Beweistechnik, Hildesheim-New York 1971.

A. Beltrametti, Erodoto. Una storia governata dal discorso. Il racconto morale come forma della memoria, Firenze 1986.

S. Benardete, Herodotean Inquiries, The Hague 1969.

F. Chatelet, La naissance de l’histoire, Paris 1962 (= La nascita della storia, Bari 1974).

A. Corcella, Erodoto e l’analogia, Palermo 1984.

Z. Di Tillo, Personalità e stile di Erodoto, Napoli 1967.

R. Drews, The Greek Accounts of Eastern History, Washington 1973.

H. Drexler, Herodot-Studien, Hildesheim-New York 1972.

J.A.S. Evans, Herodotus, Boston 1982.

C.W. Fornara, Herodotus. An Interpretative Essay, Oxford 1971.

M. Giraudeau, Les notions juridiques et sociales chez Hérodote. Étude sur le vocabulaire, Paris 1984.

J. Hart, Herodotus and Greek History, London 1982.

V. Hunter, Past and Process in Herodotus and Thucydides, Princeton 1982.

H.R. Immerwahr, Form and Thought in Herodotus, Cleveland 1966.

W. Krause, Herodot, AAHG 14 (1961), 25-58.

M.L. Lang, Herodotean Narrative and Discourse, Cambridge Mass.-London 1984.

A. Masaracchia, Studi erodotei, Roma 1976.

G. Schepens, L’«autopsie» dans la méthode des historiens grecs du V siècle avant J.-C., Brussel 1980.

A. de Selincourt, The World of Herodotus, London 1962.

H. Verdin, De historisch-kritische Methode von Herodotus, Brussel 1971.

H. Verdin, Hérodote historien? Quelques interprétations récentes, AC 44 (1975), 668-685.

K.H. Waters, Herodotus on Tyrants and Despots. A Study in Objectivity, Wiesbaden 1971.

K.H. Waters, Herodotus the Historian. His Problems, Methods, and Originality, London-Sidney 1985.

H. Wood, The Histories of Herodotus. An Analysis of the Formal Structure, The Hague-Paris 1972.

Οἱ βάρβαροι – I barbari: l’alterità nel mondo antico

Nell’antichità il concetto di “barbaro” subì una lunga e complessa evoluzione semantica, determinata da precisi avvenimenti storici, caricandosi di valori sempre più ampi e talora assumendo accezioni binarie.

Il latino barbarus trova corrispondenza semantica nel greco βάρβαρος, voce onomatopeica, risultante dal raddoppiamento del suono bar-: secondo la teoria linguistica più consolidata, la radice i.e. *barbar– ha dato come esito anche il sanscr. bárbarha e il corrispettivo lat.  𝑏𝑎𝑙𝑏𝑢𝑠 («balbuziente»). Occorre precisare che nell’India antica bárbarha designava chiunque non appartenesse alla casta dei Brahmini, cioè era considerato un Parya; inoltre, da bárbarha deriva anche il sostantivo barbarhatà («ispidezza», «rozzezza»).

In greco, di per sé l’aggettivo βάρβαρος indicava, senza connotazioni spregiative, l’individuo non-Greco, con il quale era difficile comunicare, perché non era in grado di esprimersi in maniera comprensibile:

ἐγὼ γὰρ αὐτοὺς βαρβάρους ὄντας πρὸ τοῦ

ἐδίδαξα τὴν φωνήν, ξυνὼν πολὺν χρόνον.

Prima erano barbari, ma io, a forza di vivere

con loro, ho insegnato loro a parlare.

(Aristoph. Av. 199-200)

Infatti, con la locuzione βαρβαρικός λόγος («discorso barbarico») si diceva un insieme di parole e versi del tutto privo di senso, benché con lo stesso βαρβαρικός si intendessero anche linguaggi afferenti alla sfera del sacro e del magico (Xen. Eph. I 5).

Amazzonomachia. Bassorilievo, marmo, 150 d.C. ca. da un frammento di sarcofago. Ostia, Museo Ostiense

D’altronde, com’è noto, nella civiltà greca proprio il linguaggio e la capacità di padroneggiare un discorso (λόγος) erano considerate le facoltà imprescindibili dell’uomo “civile” e ontologicamente “superiore”: erano, cioè, quelle competenze che distinguevano i Greci da tutti gli altri popoli. Nonostante la loro frammentazione politica, grazie alla lingua comune gli Elleni si sentirono sempre uniti: insomma, l’opposizione sostanziale che sottendeva al concetto di “barbaro” era proprio la distinzione fra Greci e non-Greci.

Comunque, almeno inizialmente, essere chiamati βάρβαροι non aveva, di per sé, un’implicazione dispregiativa. Dal V secolo a.C., tuttavia, il termine, impiegato con maggior frequenza, passò a indicare lo «straniero», nel senso di colui che nasce e vive in un luogo altro rispetto al proprio (cioè, allogeno).

Benché tra i Greci vi fosse una certa repulsione soltanto all’idea di mescolarsi e di avere rapporti con quanti non fossero delle loro parti, il concetto di βάρβαρος non si mescolava a ragioni di contrasto ideologico-politico.

Pittore di Londra E 497. Orfeo e i Traci. Pittura vascolare sul lato A di un cratere a campana attico a figure rosse, 440 a.C. ca. New York, Metropolitan Museum of Art.

Secondo Ippocrate (de aer. aq. 12), le differenze caratteriali e fisiologiche dei vari popoli sarebbero determinate dalle diversità dei climi. I viaggiatori e i cronisti, che, in epoca classica, entravano in contatto con le civiltà non-greche, osservavano meravigliati come alcuni di quei popoli fossero depositari di culture millenarie e talvolta superiori a quella dei Greci: Ecateo di Mileto ed Erodoto di Alicarnasso dimostrarono, dunque, come Greci e βάρβαροι fossero degni di essere posti sullo stesso piano. Furono però le guerre persiane (499-479 a.C.) a suscitare un più profondo senso di orgoglio e di appartenenza tra gli Elleni, tanto che il nome βάρβαροι passò a indicare tutti i nemici della grecità.

I Persiani (472 a.C.) di Eschilo sono una delle prime attestazioni dell’impiego di quel nome in senso collettivo, cioè indicante la totalità delle genti non parlante greco e assoggettate al Grande Re. Non c’è dubbio che Eschilo giocasse ancora con lo scarto linguistico del termine, facendo risaltare in più di un’occasione il suono differente della lingua dei βάρβαροι e di quella dei Greci. È da notare, piuttosto, che da allora in poi il termine subì una ridefinizione semantica, acquisendo nuove sfumature di significato: la tragedia eschilea, infatti, mise in scena la prima concettualizzazione di βάρβαρος come categoria collettivamente opposta a Ἕλλην, la prima definizione greca di una realtà che greca non era, la vera e propria polarizzazione tra due mondi.

In Erodoto (I 54-55; 57) è attestata l’accezione di βάρβαρος in senso di «colui che parla un’altra lingua», «alloglotto». Anche per lo storico di Alicarnasso, come per Eschilo, il termine entrò tra le antinomie con le quali i Greci codificarono il mondo: in sostanza, secondo la prospettiva ellenica, la grecità era una realtà a sé rispetto a un mondo di barbarie, e tale convinzione era un fattore rassicurante. Ma le guerre contro Dario e Serse suscitarono un’ulteriore antinomia, questa, sì, di natura politica: βάρβαροι erano i «sudditi» (δοῦλοι) dei sovrani achemenidi!

Il cosiddetto «Persiano morente». Testa, marmo bianco docimio, inizi del II sec. d.C. da originale pergameno della seconda metà del III sec. a.C., dal fronte nord della Domus Tiberiana. Roma, Antiquarium del Palatino.

Nel corso del V secolo a.C. l’alterità si determinava in rapporto all’appartenenza o meno alla πόλις: la «città» era infatti l’elemento identitario per gli Elleni; si era «cittadini», perché si apparteneva alla «città».

Nonostante la Musa euripidea avesse fama di proporre un patriottismo più smorzato rispetto ad altri drammaturghi, la superiorità ontologica e culturale del Greco rimaneva indiscussa. Nell’Ifigenia in Aulide (vv. 1395-1401), la figlia di Agamennone, offrendosi spontaneamente alla morte che fino a qualche attimo prima l’aveva riempita di terrore, giustificava il suo mutato atteggiamento affermando di aver compreso che ai Greci avrebbe spettato di diritto il comando sui barbari e non viceversa, perché i barbari erano «sottomessi», mentre i Greci «liberi». La differenza fra Greci e barbari stava proprio in questo: i Greci erano ἐλεύθεροι («liberi»).

I precursori del cosmopolitismo – elemento cardine del pensiero ellenistico – furono i sofisti, gli antesignani del razionalismo, spesso biasimati da Platone e d Aristotele. L’ideale che predicavano infrangeva le diverse convenzioni e convinzioni che avevano da sempre accompagnato la cultura politica dei Greci. Per i sofisti, il cosmopolitismo era prima di tutto uno stile di vita: la loro stessa professione di pedagoghi itineranti li metteva nelle condizioni di lasciare la madrepatria per spostarsi in altri luoghi in cui insegnare. Erano, dunque, criticati dagli altri pensatori più politici: per un Greco, rompere i propri legami con la patria era sempre un trauma, qualcosa che, una volta spezzato, sarebbe stato difficile da ricostruire. Tuttavia, il biasimo sulla dottrina cosmopolita venne meno non appena mutò la situazione sociale e politica nel mondo greco: la lunga guerra del Peloponneso convinse i Greci a desiderare una pace panellenica. Così, i sofisti in primis se ne fecero fautori, contribuendo, attraverso il proprio magistero, ad allargare gli orizzonti. D’altro canto, proprio grazie al loro viaggiare, costoro ebbero una chiara coscienza della molteplicità delle culture umane nel mondo rinunciando alla quasi dogmatica assolutizzazione dei modi di vita ellenici.

Il «Galata morente»: dettaglio della testa. Statua, marmo, copia romana da originale di bronzo dello scultore Epigono di Pergamo, 230-220 a.C. ca., dal Donario di Attalo I. Roma, Musei Capitolini.

Eppure, proprio nel corso della guerra del Peloponneso, in seno alla cittadinanza ateniese, si riaffermò un forte ideale patrio e tutto quello che ne poteva conseguire: insomma, ciò che non era ateniese era βάρβαρον. Un atteggiamento esclusivista si può ravvisare nei discorsi dei grandi politici dei primi del IV secolo a.C. (Demostene in testa), ma anche in Platone e Aristotele – sebbene questi sapessero come dissimularlo con ideali superiori, appellandosi al valore della παιδεία («educazione»): un individuo «non colto» e «non educato» era βάρβαρος. Nell’ottica esclusivista, Aristotele teorizzò che il dispotismo non era un male di per sé, ma lo era proprio per i Greci, che sono liberi; ai barbari, sudditi, invece andava benissimo ed era perfettamente adatto a loro.

Fu la spedizione in Oriente di Alessandro il Grande (allievo di Aristotele stesso) a condurre nell’orbita ellenica proprio i tanto osteggiati βάρβαροι, al punto tale da renderli suoi eredi e i più strenui sostenitori dell’Ellenismo. Il cosmopolitismo, dunque, si affermò sempre più grazie soprattutto al valore educativo della filosofia cinica prima e di quella stoica poi. La parola βάρβαρος divenne così un termine relativo: con l’età ellenistica, infatti, l’idea stessa di «barbaro» assunse un significato pressoché morale (cioè l’incivile par excellence) oppure geografico (cioè l’abitante dei confini del mondo conosciuto).

***

Riferimenti bibliografici:

L. Braccesi, Arrivano i barbari. Le guerre persiane tra poesia e memoria, Roma-Bari 2020.

G. Cawkwell, The Greek Wars. The Failure o f Persia, Oxford 2005.

T. Derks, N. Roymans (eds.), Ethnic Constructs in Antiquity: The Role of Power and Tradition, Amsterdam 2009.

T.J. Dunbabin, The Greeks and their Eastern Neighbors, London 1957.

P. Georges, Barbarian Asia and the Greek Experience, Baltimore-London 1994.

E. Hall, Inventing the Barbarian: Greek Self-Definition Through Tragedy, London 1991.

L. Mitchell, Panhellenism and the Barbarian in Archaic and Classical Greece, Swansea 2007.

A.H. Sommerstein, La tetralogia di Eschilo sulla guerra persiana, DeM 1 (2010), 4-20.

P. Vannicelli, A. Corcella, G. Nenci (eds.), Erodoto, Le Storie. Libro VII (Serse e Leonida), Milano 2017.

Focione di Atene

Militare e uomo politico ateniese, Focione (Φωκίων) nacque intorno al 397 a.C. da Foco, probabilmente originario del demo di Potamone.

Di lui sono ben note le doti di retore, come testimonia un passo dalla biografia che gli dedicò Plutarco (Phoc. 5, 3-5):

ὁμοίως δέ πως τοῦ Φωκίωνος καὶ ὁ λόγος ἦν ἐπὶ χρηστοῖς ἐνθυμήμασι καὶ διανοήμασι σωτήριος, προστακτικήν τινα καὶ αὐστηρὰν καὶ ἀνήδυντον ἔχων βραχυλογίαν. ὡς γὰρ ὁ Ζήνων ἔλεγεν, ὅτι δεῖ τὸν φιλόσοφον εἰς νοῦν ἀποβάπτοντα προφέρεσθαι τὴν λέξιν, οὕτως ὁ Φωκίωνος λόγος πλεῖστον ἐν ἐλαχίστῃ λέξει νοῦν εἶχε. καὶ πρὸς τοῦτ’ ἔοικεν ἀπιδὼν ὁ Σφήττιος Πολύευκτος εἰπεῖν, ὅτι ῥήτωρ μὲν ἄριστος εἴη Δημοσθένης, εἰπεῖν δὲ δεινότατος ὁ Φωκίων.

Altrettanto, erano salutari i discorsi di Focione, nutriti di utili pensieri e riflessioni, dalla brevità imperiosa, secca, sgradevole. Zenone diceva che il filosofo deve pronunciare parole dopo averle immerse nel pensiero: ebbene, il discorso di Focione conteneva il massimo di pensiero nel minimo di parole. E forse, tenendo conto di ciò, Polieutto di Sfetto osservò che Demostene era un ottimo oratore, ma il più abile a parlare era proprio Focione.

Focione. Statua, marmo, copia romana del I sec. da originale greco della seconda metà del V secolo a.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

Alunno di Platone all’Accademia (Plut. Phoc. 4, 2), rivestì la strategia (στρατηγία) per ben quarantacinque volte (ibid. 8, 1-2), molto di più non solo dei propri contemporanei ma anche di qualsiasi altro cittadino nella storia di Atene!

Nel 376/5 a.C. in qualità di trierarca, agli ordini dello στρατηγός Cabria (c. 415-357), Focione comandò l’ala sinistra della flotta ateniese nella vittoria navale sui Lacedemoni a Nasso; dopodiché, gli fu affidato l’onere di riscuotere i tributi (Plut. Phoc. 6, 2; 7, 1; Praecepta 805f).

La cronologia esatta del suo primo mandato da στρατηγός (forse nel 371/0) è incerta. È comunque sicuro che con questo ruolo nel 349/8 egli guidò un corpo di spedizione ateniese in Eubea: mentre, nello stesso periodo, Atene era impegnata a Olinto contro Filippo II di Macedonia, il contingente affidato a Focione era abbastanza circoscritto, poiché i suoi concittadini contavano che gli Eubei si sarebbero presto uniti nella lotta contro i Macedoni.

Invece, fin da subito, il comandante si trovò ad affrontare una serie di insidie tesegli tanto dai locali, quanto dai suoi stessi commilitoni che non lo sopportavano. In ogni caso, Focione ottenne una splendida vittoria nella piana di Tamine, scacciò il tiranno Plutarco di Eretria e conquistò la piazzaforte di Zaretre (Plut. Phoc. 12-13; Dem. Or. 21, 164; Aeschin. Leg. 169-170).

Probabilmente nel 344/3, ricevuta in segreto una richiesta d’aiuto dai Megaresi, Focione convinse i propri concittadini a intervenire in soccorso di Megara (Plut. Phoc. 15, 1).

Franc Kavčič, Focione con sua moglie e una signora di Ionia. Olio su tela, 1801. Ljubljana, Narodna galerija.

Eletto nuovamente stratego per l’anno 343/2, egli prese le difese di Eschine durante il noto processo della “Falsa ambasceria”, mossogli dal collega Demostene che lo accusava di corruzione: in quell’occasione, Focione dimostrò apertamente la propria posizione politica nei riguardi della monarchia macedonica (Aeschin. Leg. 170; 184).

Nella primavera dell’anno successivo lo στρατηγός, inviato nuovamente in Eubea, sconfisse in battaglia Clitarco, tiranno di Eretria, e vi stabilì un governo filo-ateniese (Diod. XVI 74, 1-2; schol. ad Aeschin. in Ctes. 103; Filocoro FGrHist. 328 F 160); poi, nel 340/39, al comando della flotta soccorse Bisanzio e la liberò dall’assedio di Filippo (Plut. Phoc. 14, 3; Apoph. 188b-c; decem orat. 851a; IG II/III² 1628c, 437; 1629d, 958).

Dopo la vittoria macedone a Cheronea (338 a.C.), Focione tornò ad Atene (Plut. Phoc. 16, 1), dove, su voto unanime, fu scelto come comandante supremo all’organizzazione della difesa della città (ibid. 16, 4); egli, tuttavia, consigliando un accordo con Filippo, fece cadere le proposte disperate con cui il predecessore, Iperide, aveva cercato di rafforzare Atene. La pace infatti poté essere raggiunta proprio grazie alla sua mediazione, inviato ambasciatore della città insieme a Eschine e a Demade, ma si dichiarò contrario all’ingresso di Atene nella Lega di Corinto, fondata dallo stesso Filippo (Plut. Phoc. 16, 5).

Nel 336 si oppose fermamente alla risoluzione di votare un sacrificio di ringraziamento per l’uccisione del re macedone e alla proposta di tributare onori all’autore materiale del delitto (ibid. 16, 8).

Gioacchino Assereto, Focione rifiuta i doni di Alessandro il Grande. Olio su tela, ante 1649. Nantes, Musée des Beaux-Arts.

Eletto nuovamente στρατηγός per l’anno successivo, ma scoppiata a Tebe una rivolta anti-macedone, Focione ammonì i propri concittadini dal prendervi parte: la sedizione, infatti, fu prontamente e duramente soffocata e Focione convinse gli Ateniesi a consegnare i capi democratici, come Demostene, Iperide e altri, ad Alessandro, che li richiedeva (Diod. XVII 15, 2; Plut. Phoc.  17, 2-4).

Alla notizia della morte di Alessandro nel 323, Focione cercò in tutti i modi di contenere gli animi degli Ateniesi dal fare una rivolta. Inoltre, si oppose strenuamente in assemblea ai discorsi di Iperide e di Leostene, che portarono alla guerra lamiaca (Plut. Phoc. 22, 5-23, 4). Eletto per l’ennesima volta στρατηγός (ibid. 24, 1), Focione condusse l’esercito ateniese contro Micione, che, sbarcato nel demo di Ramnunte, al comando di una forza macedone e truppe mercenarie, stava devastando la regione, e lo respinse (ibid. 25, 1-4).

Dopo la sconfitta dei Greci, Focione e Demade guidarono i negoziati per concludere la pace con il reggente Antipatro (Diod. XVIII 18, 2; Plut. Phoc. 26-28; Nep. 19, 2). Convinto che nessun governo ben regolato potesse sussistere senza la tutela macedonica e senza l’esclusione della democrazia, che con le sue spinte estremistiche aveva arrecato ad Atene quella sconfitta, Focione approvò le condizioni imposte da Antipatro: l’insediamento di una guarnigione macedonica al porto di Munichia e l’instaurazione di un governo oligarchico-timocratico, di cui lo stesso Focione sarebbe stato uno dei capi.

In seguito, i rapporti amichevoli e la familiarità dell’anziano στρατηγός con Nicanore di Stagira, il comandante del presidio macedonico, gli costarono la sfiducia dei suoi stessi concittadini. Nella tarda primavera del 318, Poliperconte, successo ad Antipatro nella reggenza in Macedonia, proclamò un cambio di rotta nella politica verso le πόλεις greche, favorendo il ritorno dei regimi democratici. Focione, che vedeva nella restaurazione popolare, la fine di ogni buon governo, vi si oppose, forse aiutando i Macedoni a occupare anche il Pireo. Abbandonato a al proprio destino da Poliperconte e dal figlio di questi, Alessandro, Focione fu arrestato dai democratici ateniesi e, accusato di alto tradimento, fu condannato a morte (Nep. 19, 3-4; Plut. Phoc. 38, 1).

Charles Brocas, La morte di Focione. Olio su tela, 1804. Milwaukee Art Museum.

***

Bibliografia:

C. Bearzot, Focione tra storia e trasfigurazione ideale, Milano 1985.

H.-J. Gehrke, Phokion. Studien zur Erfassung seiner historischen Gestalt, München 1976.

G.A. Lehmann, Oligarchische Herrschaft im klassischen Athen. Zu den Krisen und Katastrophen der attischen Demokratie im 5. und 4. Jahrhundert v. Chr., Opladen 1997, 32-40.

L.A. Tritle, Phocion the Good, London 1988.