di G.B. Conte, E. Pianezzola, Lezioni di letteratura latina. Corso integrato. 2. L’età augustea, Milano 2010, 174-195.
1. Il più grande lirico dell’età augustea
Orazio è il più grande poeta lirico dell’età augustea e, insieme a Catullo, di tutta la letteratura latina. Pur provenendo da una famiglia umile (il padre era un liberto), grazie al suo talento poetico egli riuscì a risalire la scala sociale fino a entrare a corte, dove fu in stretti rapporti con Augusto e divenne il cantore “ufficiale” della romanità.
Orazio fu anche poeta di grande versatilità. Partito dall’esperienza giovanile della lirica aggressiva degli Epodi, in seguito raggiunse risultati straordinari sia nella composizione esametrica di carattere personale e discorsivo delle Satire e delle Epistole sia nella lirica sublime delle Odi, caratterizzate da una compattezza tematica, stilistica e metrica che fanno di lui il poeta “classico” per eccellenza. Inoltre, Orazio non si limitò a comporre poesia, ma anche a rifletter sul fatto poetico: la sua lettera-saggio in versi, l’Ars poetica, in cui espone ideali poetici di armonia e misura perfettamente in linea con il suo carattere, diventerà il progetto del classicismo di ogni epoca. Grazie a Orazio, la lirica latina raggiunse una maturità straordinaria, nutrendosi di modelli consolidati (Callimaco e Saffo, come era accaduto già per Catullo) e nuovi (Alceo, Anacreonte e Pindaro) e ottenendo risultati di grande originalità.
2. Il figlio del liberto alla corte del princeps
Quinto Orazio Flacco nacque l’8 dicembre del 65 a. C. a Venusia (od. Venosa), una colonia militare romana, al confine fra Apulia e Lucania. La sua famiglia era modesta: il padre era un libertus (forse un ex servo pubblico), che aveva fatto fortuna, entrando in possesso di una piccola proprietà: più tardi, trasferitosi a Roma, vi esercitò il mestiere di esattore nelle vendite all’asta. Nonostante la modesta condizione sociale, al giovane Orazio fu assicurata la migliore educazione: compiuti i primi studi nella scuola venusina, il padre lo portò con sé nell’Urbe, dove Orazio poté frequentare le lezioni del grammatico Orbilio, ammiratore dei poeti arcaici, che usava le nerbate per convincere i suoi alunni a studiare l’Odusia di Livio Andronico (per questo Orazio escogiterà per lui l’epiteto plagosus).
Attorno ai vent’anni, come facevano i giovani di buona condizione, Orazio si recò in Achaia a perfezionare gli studi. Ad Atene approfondì le sue conoscenze filosofiche, ascoltando le lezioni di maestri come il peripatetico Cratippo di Pergamo e dell’accademico Teomnesto. Ma la sua carriera di studente fu traumaticamente interrotta. La Grecia era allora teatro di storici avvenimenti: gli uccisori di Cesare ne avevano fatto la loro principale base di operazione e fu naturale che il giovane Orazio, fresco di studi filosofici, fosse attratto dagli ideali della libertas (nonché lusingato da brillanti prospettive di carriera!). Così egli si arruolò nell’armata di Marco Giunio Bruto, ricevendo il comando di una legione con il grado di tribunus militum, il che non era poco per il figlio di un liberto!
La rotta di Filippi (ottobre 42 a.C.), però, interruppe la sua carriera militare: con amara autoironia Orazio dirà poi di avervi abbandonato lo scudo per fuggire (relicta non bene parvula, Odi II 7, 10 – un motivo già presente nella lirica greca arcaica!).
Orazio poté rientrare in patria già l’anno successivo, nel 41 a.C., grazie a un’amnistia, ma siccome il fondo paterno a Venosa era stato confiscato dai triumviri, egli dovette impiegarsi come scriba quaestorius per guadagnarsi da vivere. A questo periodo risale probabilmente anche l’inizio della sua attività poetica. Si presume che attorno alla metà del 38 a.C. Virgilio e Vario l’abbiano presentato a Gaio Clinio Mecenate, collaboratore di Cesare Ottaviano, lui stesso uomo di lettere e protettore di artisti: fu così che nove mesi più tardi Mecenate lo ammise nella cerchia dei suoi amici.
Probabilmente nel 33 a.C. Mecenate gli donò un podere nella campagna sabina, fonte per Orazio di tranquillità economica e apprezzato rifugio dagli affanni e dalle scomodità della vita urbana.
Da quel momento, la sua vita scorse senza eventi significativi, scandita soltanto dalla pubblicazione delle sue opere sotto il patronato di Mecenate e più tardi del principe stesso. Con Augusto Orazio fu in relazione abbastanza stretta, fatta di devota cordialità, ma senza servilismi: quando il princeps gli chiese di diventare suo segretario personale, Orazio declinò l’offerta con garbo e fermezza. Nel settembre dell’8 a.C. Mecenate morì, raccomandando affettuosamente il poeta alla benevolenza di Augusto. Ma Orazio doveva seguirlo nella tomba solo due mesi più tardi, il 27 novembre.
La produzione poetica oraziana comprende un libro di Epodi, in metro giambico, due libri di Satire, in esametri, quattro libri di Odi (in latino Carmina), in metri lirici, e due libri di Epistole esametriche.
3. Gli Epodi
Il nome della prima raccolta di Orazio, Epodi, rimanda alla forma metrica: l’epodo è propriamente il verso più corto che segue a un verso più lungo, formando con esso un distico. Orazio li chiamava iambi («giambi»), facendo riferimento al ritmo che prevale nella raccolta e, insieme, alludendo al recupero di quel tono aggressivo che fin dalle origini era tradizionalmente associato alla poesia giambica greca.
Gli Epodi sono dunque caratterizzati da due aspetti: l’aggressività e la polimetria. Mentre la prima caratteristica, dovuta in parte alla difficile situazione personale del periodo in cui furono composti (il ritorno di Orazio dalla Grecia dopo la sconfitta a Filippi) e in parte al genere letterario che fungeva da modello (la poesia giambica greca), non ricorre nelle opere successive di Orazio, la seconda si ritroverà nelle Odi, contraddistinte da una grande varietà ritmica.
Gli Epodi sono diciassette componimenti, scritti in un arco di tempo fra il 41 e il 30 a.C. e pubblicati insieme al II libro delle Satire. La raccolta è ordinata secondo il criterio editoriale metrico invalso a partire dall’età alessandrina ed è caratterizzata da una varietà di argomenti.
Come Orazio stesso avrebbe dichiarato in seguito, gli Epodi sono legati alla fase “giovanile” della sua attività letteraria e alle difficili condizioni di vita successive all’esperienza di Filippi: «Ero a terra, le ali tarpate, privato della casa e del fondo di mio padre: sfacciata, la povertà mi spinse a fare versi» (decisis humilem pennis inopemque paterni / et laris et fundi, paupertas impulit audax / ut versus facerem, Epistole II 2, 50-51).
A questa situazione di disagio è quasi naturale collegare asprezze polemiche, toni carichi, linguaggio poetico violento. Ciò, per molti aspetti, fa degli Epodi un caso isolato nella produzione poetica oraziana e offre un’immagine del poeta molto diversa da quello stereotipo (carico di buon gusto, affabilità, umanità cordiale, distacco dalle passioni, senso della misura) cui è stata sempre collegata la fortuna di Orazio nella cultura successiva.
Parecchi interpreti oraziani esitano però giustamente a mettere in collegamento troppo immediato gli Epodi e l’esperienza autobiografica dell’autore: occorre anzitutto saper valutare quanto questo tono aggressivo e violento sia in un certo senso obbligato, ovvero affettato e simulato, perché dovuto alle regole del genere giambico e alla imitazione dei modelli greci (Archiloco e Ipponatte, in primis). Infatti, di questa posa letteraria Orazio appare certo consapevole e, in seguito, avrebbe affermato esplicitamente (Epistole I 19, 23-25):
… Parios ego primus iambos
ostendi Latio, numeros animosque secutus
Archilochi, non res et agentia verba Lycamben.
«… Io per primo trapiantai nel Lazio i giambi
del poeta di Paro, seguendo i ritmi e gli spiriti di Archiloco,
non gli argomenti e le parole che incalzavano Licambe».
È bene osservare come l’orgogliosa dichiarazione di aver trasferito in poesia latina i ritmi e gli spiriti di Archiloco», rivendichi certamente l’abilità versificatoria (in effetti, la maggior parte degli schemi epodici oraziani ha riscontro con quanto è testimoniato nei frammenti del poeta pario), ma anche i diritti dell’originalità: il poeta afferma, infatti, di aver mutuato da Archiloco l’ispirazione aggressiva (animi), ma non i contenuti (res).
Orazio, probabilmente, vuol dire non soltanto che negli Epodi ha attinto a una realtà romana e personale, ma anche che la sua ispirazione archilochea è del tutto particolare. Se la sua situazione giovanile, disagiata e amara, poteva fargli sentire delle affinità con la passionalità accesa e il feroce spirito polemico archilocheo, non dovevano sfuggire neanche a lui le differenze. Archiloco dava voce agli odi e ai rancori, alle passioni civili e alle tristezze di un aristocratico greco del VII secolo a.C., mentre Orazio scriveva nella Roma dominata dai triumviri e sarebbe entrato presto nell’entourage di Ottaviano, dopo essere appena uscito da una rischiosa esperienza politica.
Di conseguenza, l’aggressività di Orazio non può rivolgersi che contro bersagli “minori”: personaggi scoloriti, anonimi, o addirittura fittizi (un usuraio, un arricchito, una fattucchiera, una signora invecchiata). Tutto ciò, in effetti, ha contribuito a dare un’impressione di artificiosità letteraria e si è detto anche che talvolta Orazio riesca a ricreare proprio le res di Archiloco, ma non gli animi, al contrario di quanto aveva affermato!
Un esempio famoso è l’Epodo X. In una specie di προπεμπτικόν («carme di buon viaggio») a rovescio, Orazio augura a Mevio di fare naufragio (vv. 1-14):
Mala soluta navis exit alite
ferens olentem Mevium.
ut horridis utrumque verberes latus,
Auster, memento fluctibus;
niger rudentis Eurus inverso mari
fractosque remos differat;
insurgat Aquilo, quantus altis montibus
frangit trementis ilices;
nec sidus atra nocte amicum adpareat,
qua tristis Orion cadit;
quietiore nec feratur aequore
quam Graia victorum manus,
cum Pallas usto vertit iram ab Ilio
in inpiam Aiacis ratem.
[…]
Sciolti gli ormeggi, salpa sotto sinistri auspici
la nave su cui viaggia il fetido Mevio.
Tu, Austro, ricordati di percuoterne
l’uno e l’altro fianco con spaventosi flutti;
il nero Euro, rovesciando il mare,
disperda le gomene e i remi infranti;
sorga Aquilone nello stesso modo in cui sugli alti
monti schianta i lecci che tremano;
non una stella amica gli appaia nella cupa notte,
dove tramonta il triste Orione;
non navighi un mare più pacato
di quello che navigò l’esercito vittorioso dei Greci,
quando da Ilio in cenere Pallade la sua collera
dirottò sull’empia nave di Aiace.
[…]
Il modello è qui il cosiddetto Epodo di Strasburgo di Archiloco, di cui fortunatamente è giunto un significativo frammento. Ma dal modello Orazio risulta abbastanza lontano: il poeta latino non riesce a riprodurre la serietà e la ferocia dell’invettiva archilochea perché lascia in sordina proprio il carattere personale della rampogna; a differenza di Archiloco, il cui nemico è un ex amico che lo ha offeso e tradito, Orazio non dice chi sia Mevio né spiega perché ce l’abbia con lui. In questo, come in altri casi, la violenza delle minacce e delle maledizioni suona un po’ a vuoto e talvolta può sembrare addirittura giocosa (come è chiaramente nell’Epodo III, in cui Orazio critica affettuosamente Mecenate per avergli fatto mangiare dell’aglio!).
In ogni caso, lo spirito archilocheo doveva sembrare a Orazio opportuno per esprimere le ansie e le passioni, le paure e le indignazioni di tutta una generazione: si pensi per esempio all’Epodo IV, in cui si reagisce ai repentini rivolgimenti sociali connessi alla «rivoluzione romana» insultando un servo arricchito, o alle inquietudini espresse negli epodi relativi alle guerre civili (VII e XVI).
Anche per influsso dei Giambi di Callimaco Orazio, in ogni modo, doveva sentire connaturata a una raccolta giambica l’esigenza della varietas (ποικιλία). Lavorando contemporaneamente a Satire ed Epodi, egli sembra riservare a questi ultimi quella molteplicità di temi, di toni e di livelli stilistici che la tradizione romana assegnava piuttosto all’ambito della satira. Un gruppo ben individuato è costituito, per esempio, dagli epodi “erotici” (XI, XIV e XV), poesie d’amore che svolgono motivi e situazioni della lirica erotica ellenistica e ne riproducono anche il linguaggio e l’intonazione patetica. La tradizione dell’idillio rustico (insieme a motivi ideologici più specificamente romani) è invece presente dietro l’elogio della campagna e della vita semplice dell’Epodo II, tanto più ambiguo in quanto pronunciato da un sordido usuraio.
Anche dal punto di vista dell’espressione, nonostante resti caratteristico degli Epodi un linguaggio teso e carico, che indugia sugli aspetti più crudi e talvolta ripugnanti della realtà, la poesia giambica di Orazio può ospitare una dizione più sorvegliata: accanto al poeta degli eccessi, si intravede il poeta della misura (mediocritas).
4. Le Satire
Cimentandosi nel genere satirico, che a differenza di quello giambico aveva una tradizione interamente romana, Orazio diede vita a una poesia di tono discorsivo e di argomento morale. Tuttavia, in questa produzione egli non si erge a giudice severo o a maestro pedante, ma preferisce affrontare la tematica morale con un tono non aggressivo ma benevolmente ironico (e spesso autoironico). In questo modo, Orazio comincia a costruire quell’io lirico riflessivo, realistico e moderato che si ritroverà, con profondità ancora maggiore, nelle Odi e nelle Epistole.
Un primo libro di dieci satire (lunghe da un minimo di 35 esametri a un massimo di 143), dedicato a Mecenate, fu pubblicato forse nel 35, e comunque entro il 33. Nel 30, insieme agli Epodi, apparve il II libro (otto satire soltanto, ma la terza, considerevolmente più lunga del solito, conta ben 326 versi!). In totale le Satire (lat. Sermones)contano più di 2000 versi. Le tematiche affrontate sono varie.
Quintiliano (X 1, 93) avrebbe recisamente affermato che satura quidem tota nostra est, «la satira è certamente un genere tutto nostro», ovvero genuinamente romano: egli non riusciva cioè a indicare autori greci che fossero serviti come punto di riferimento ai poeti satirici latini, di cui indicava il capostipite in Lucilio. E anche Orazio stesso, nei componimenti programmatici che forniscono le coordinate della sua poesia satirica, indicò in Lucilio l’inventore del genere (mentre non fa cenno alla satira di Ennio, che pure praticò il genere). Agli occhi di Orazio Lucilio era colui che aveva fissato due tratti fondamentali della poesia satirica: la scelta dell’esametro come forma metrica e, soprattutto, l’uso della satira come strumento dell’aggressione personale, della critica mordace. L’aggressività pareva a Orazio un elemento tanto caratteristico che si sentiva di mettere Lucilio in collegamento (piuttosto che con Ennio) con i tre grandi poeti della commedia greca antica del V secolo a. C. (Sermones I 4, 1-6):
Eupolis atque Cratinus Aristophanesque poetae
atque alii, quorum comoedia prisca virorum est,
siquis erat dignus describi, quod malus ac fur,
quod moechus foret aut sicarius aut alioqui
famosus, multa cum libertate notabant.
hinc omnis pendet Lucilius…
Eupoli, Cratino e Aristofane, i tre poeti,
e altri, che furono gli autori della commedia antica,
se c’era uno che meritava d’essere messo in berlina,
perché furfante o ladro o adultero o sicario o altrimenti
famigerato, lo bollavano senza tanti riguardi.
Da qui Lucilio dipende tutto…
Questo, dunque, era il tono con cui Lucilio rappresentava la società contemporanea, soprattutto il ceto dirigente (del quale derideva e colpiva i vizi, piuttosto che le singole personalità; dunque, non praticava l’ὀνομαστὶ κωμῳδεῖν dei commediografi greci).
Del resto, Lucilio aveva posto nella propria produzione una grande varietà di temi e di interessi: c’erano polemiche letterarie, discussioni filosofiche, questioni linguistiche o grammaticali o lettere, conversazioni. Più importante di tutti era l’elemento autobiografico. La satira luciliana ospitava fatti, personaggi e osservazioni connesse alla vita personale del poeta. Anche in questo Orazio fu consapevole di raccogliere l’eredità del maestro (Sermones II 1, 30-34):
Ille velut fidis arcana sodalibus olim
credebat libris neque, si male cesserat, usquam
decurrens alio neque, si bene; quo fit ut omnis
votiva pateat veluti descripta tabella
vita senis…
Come a fedeli compagni, ai libri egli soleva affidare
i suoi segreti, né altrove ricorreva se le cose gli andavano male,
né se gli andavano bene: perciò, avviene che tutta la vita
di questo vecchio ci sta davanti agli occhi, come fosse dipinta
su un quadretto votivo…
Nella coscienza letteraria di Orazio, dunque, la sua satira era “luciliana” perché da Lucilio ereditava i due segni distintivi dell’aggressività e dell’autobiografia. Ma Orazio stesso non sottovalutava le differenze che lo separavano dall’inventor del genere; sottolineava però principalmente quelle relative allo stile, criticando in Lucilio la sciatta e abbondante facilità soprattutto nelle satire I 4 e I 10.
Importanti differenze tra Orazio e Lucilio c’erano però anche dal punto di vista della forma dei contenuti. Lucilio dedicava attenzione ai temi della riflessione morale e perciò riallacciava alla diàtriba (διατριβή), quel genere di letteratura filosofica popolare in cui l’argomento morale era illustrato da dialoghi e aneddoti; ma non era chiaro il rapporto che intercorreva tra diàtriba e aggressività, che dalla diàtriba era assente.
Caratteristico della satira di Orazio è proprio un collegamento stabile e organico di queste due componenti: l’attacco personale è sempre collegato con l’intenzione di ricerca morale. Al piacere gratuito dell’aggressione, ancora vivace in Lucilio (in cui sembrava rivivere lo spirito della commedia aristofanea), Orazio sostituisce l’esigenza di analizzare e indagare i vizi mediante l’osservazione critica e la rappresentazione comica delle persone.
Questa ricerca morale empirica non si propone il proselitismo, non cerca di convertire gli altri a un modello prefabbricato di virtù né di riformare il mondo, ma soltanto di individuare una strada per pochi (per il poeta stesso e un gruppo illuminato di amici) attraverso le storture di una società in crisi.
In questo senso la satira oraziana è intimamente collegata (più ancora della lirica) al circolo di poeti, letterati e uomini politici che si raccoglievano intorno all’intelligente guida di Mecenate.
Lucilio attaccava con virulenza i cittadini eminenti, avversari di cui condivideva la condizione. Ciò non sarebbe stato possibile al figlio di un liberto: ma, quel che più conta, per trarre insegnamento dalla condotta dei propri simili criticandone gli errori non era necessario scegliere bersagli di elevato livello sociale. Orazio guardava piuttosto a un piccolo mondo di irregolari (cortigiane, parassiti, artisti, imbroglioni, filosofi di strada, affaristi, ecc.). Come gli aveva insegnato suo padre, imparava da chi gli stava vicino, da quelli che incontrava per strada (Sermones I 4, 105-106):
… insuevit pater optimus hoc me,
ut fugerem exemplis vitiorum quaeque notando.
«… quel galantuomo di mio padre me l’ha insegnato,
a fuggire i vizi, facendomeli conoscere uno a uno con gli esempi».
La morale oraziana, dunque, pur essendo costruita con materiali elaborati dalle filosofie ellenistiche filtrati dalla diatriba, è fortemente radicata nel buon senso tradizionale, di cui Orazio rivendica con orgoglio la componente italica e contadina.
Gli obiettivi fondamentali della sua ricerca sono l’αὐτάρκεια (l’«autosufficienza interiore») e la μετριότης (la «moderazione», il «giusto mezzo»). Questi concetti accomunavano diverse scuole filosofiche, impegnate a proteggere l’individuo dalla schiavitù dei beni esterni e dai contraccolpi della fortuna. L’importanza dell’αὐτάρκεια era stata sostenuta da molti sapienti ed era presente anche nell’Epicureismo, di cui Orazio si professava seguace, che limitava i diritti della voluptas alla soddisfazione di pochi bisogni naturali. Anche la μετριότης, presente già nella saggezza greca arcaica (che la sintetizzava nel motto μηδὲν ἄγαν, («nulla di troppo») e formulata nel modo più coerente da Aristotele, era un concetto condiviso da Epicuro, per il quale la ricerca del piacere non doveva essere confusa con una pratica degli eccessi.
Si insiste sull’Epicureismo perché è caso mai questa la scuola di pensiero più presente nella satira oraziana. Era invece inevitabile che l’empirismo e il realismo della sua morale, che conferiscono ai Sermones quella bonaria ragionevolezza apprezzata in ogni epoca, entrassero in conflitto con l’astrattezza e con il rigorismo degli stoici (con i quali il poeta latino polemizza in Sermones I 3).
Direttamente all’Epicureismo si collegano Sermones I 2 contro l’adulterio e le sue inutili follie (si raccomanda il soddisfacimento naturale del bisogno sessuale) e soprattutto il rilievo che nell’opera hanno i problemi dell’amicizia e la rappresentazione della cerchia di sodali. L’affinità intellettuale, l’indulgenza, la dedizione, la comunanza di vita, la compattezza nei confronti dell’esterno: tutto ciò risente delle teorie epicuree e richiama il valore che la φιλία aveva nel sistema di pensiero di Epicuro e dei suoi seguaci.
La ricerca morale non caratterizza soltanto le satire che si potrebbero chiamare “diatribiche”, quelle cioè in cui è sviluppata una discussione su uno specifico problema morale, vivacizzata da argomenti, obiezioni, esempi, aneddoti (come in Sermones I 1-3), ma anche quelle in cui il poeta – sul modello luciliano “autobiografico” – rappresenta una scena, racconta un episodio, descrive una situazione.
In questi casi, la rappresentazione stessa è come la lente attraverso cui Orazio osserva i fatti e i personaggi; gli esempi più felici sono la satira del viaggio (Sermones I 5) e la satira del seccatore (I 9). E non manca qualche caso in cui diatriba e rappresentazione sono coniugate in un medesimo componimento: Sermones I 6, per esempio, passa dall’autobiografia (origine del poeta e presentazione a Mecenate) all’argomentazione sul valore della nascita e sull’ambizione, per tornare di nuovo alla rappresentazione autobiografica (rievocazione dell’infanzia e del padre, diario di una giornata romana).
Il meccanismo fondamentale del genere satirico nella prima raccolta oraziana consiste nel confronto fra un modello positivo (l’obiettivo della ricerca morale del poeta e dei suoi amici) e tanti modelli negativi (i tipi della società romana che sono bersaglio di aggressione comica).
Ora, questo assetto si rivela estremamente precario, tanto che già la seconda raccolta di Satire mostra dei mutamenti sostanziali. Si registra anzitutto un brusco regresso della componente rappresentativo-autobiografica, presente solamente nel proemio e in Sermones II 6.
Nelle satire argomentative risulta poi dominante la forma del dialogo (ben sei componimenti su otto) e per di più, nella distribuzione delle parti, il ruolo dominante non spetta al poeta, bensì all’interlocutore; anzi, in Sermones II 2 le riflessioni sulla temperanza e la semplicità della vita sono condotte interamente da un certo Ofello di Venosa, di cui Orazio si limita a riportare le parole senza intervenire.
La coincidenza fra il poeta e la “voce satirica” (quella che argomenta e confuta) aveva assicurato un punto di riferimento alla ricerca morale del I libro. Ora che il poeta si ritira in secondo piano non resta più la possibilità di estrarre un senso unitario dalle contraddizioni del mondo reale: tutti gli interlocutori sono depositari di una loro verità, anche se non tutte le verità sono equivalenti e parecchi discorsi si confutano da soli in una involontaria ironia. Ma il poeta non sembra ritenere più che la satira possa essere il luogo di una ricerca morale capace di individuare empiricamente un sistema di condotta soddisfacente.
L’equilibrio fra αὐτάρκεια e μετριότης, che assicurava un buon punto di osservazione del reale, sembra perduto: il poeta non rappresenta ormai la propria capacità di vivere fra la gente senza perdere la propria identità morale, ma permette piuttosto ai suoi interlocutori di denunciare (anche ingiustamente) le debolezze e le incoerenze delle sue scelte. L’unico rifugio è ormai la villa sabina (Sermones II 6), dove l’αὐτάρκεια si giova dell’isolamento e non deve continuamente fare i conti con le contraddizioni della vita cittadina.
5. Le Odi
Con le Odi (Carmina) Orazio fornisce alla letteratura latina il capolavoro della poesia lirica, destinato a diventare un modello per ogni epoca di classicismo. La straordinaria maturità della lirica oraziana è dovuta sia ai temi trattati sia alla forma: l’espressione dell’io lirico oraziano – un poeta saggio e orgoglioso, ma anche malinconico e umano – non può essere disgiunta da uno stile calibratissimo ed elegante, che riprende e supera la lezione della brevitas neoterica, né dalla grande varietà di strutture metriche ereditate dalla tradizione lirica greca.
Una raccolta di tre libri (il primo di 38 carmi, il secondo di 20 e il terzo di 30) venne pubblicata nel 23 a.C. Orazio vi aveva lavorato per circa sette anni, conclusa l’esperienza delle Satire e degli Epodi, il più antico componimento databile è il Carmen I 37, un canto di gioia per la morte di Cleopatra, avvenuta nel 30 a.C.
Alla poesia lirica Orazio doveva tornare sei anni più tardi (17 a.C.), per comporre su incarico di Augusto l’inno che un coro di ventisette ragazze e altrettanti ragazzi avrebbe eseguito nelle celebrazioni dei ludi saeculares: è il cosiddetto Carmen saeculare, in metro saffico, un’invocazione agli dèi, soprattutto Apollo e Diana, perché assicurino prosperità a Roma e al principato augusteo.
Il poeta si dedicò poi ancora alla poesia lirica e aggiunse ai precedenti un quarto libro di Odi (15 componimenti): l’ultimo, il Carmen IV 5, fa riferimento al ritorno di Augusto dal Settentrione (luglio del 13 a.C.).
La lirica oraziana sperimenta metri differenti: dominanti sono la strofe alcaica (37 componimenti su 103), la strofe saffica minore (25 componimenti), la strofe asclepiadea nelle sue varie forme (34 componimenti). Gli altri metri sono per lo più rappresentati in esempi isolati. In totale, i quattro libri delle Odi contano 3.034 versi, cui i si aggiungono i 76 versi del Carmen saeculare. Ci sono carmina brevissimi (la famosa I 11 e I 38 hanno per esempio solo 8 versi), odi brevi (di 16, 20 o 24 versi); ci sono odi più lunghe, fino a un massimo di 80 versi (l’ode III 4).
Merita attenzione la disposizione dei componimenti all’interno della raccolta che, come nella tradizione alessandrina, obbedisce a intenti artistici e strutturali. Le odi di apertura e di chiusura sono indirizzate a personaggi di riguardo (I 1 e II 20 a Mecenate; II 1 a Pollione, IV 1 a Paolo Fabio Massimo e IV 15 ad Augusto) e spesso, secondo una tradizione consolidata, mostrano l’orgogliosa consapevolezza del poeta (i casi più noti sono I 1, II 20 e III 30).
Anche il secondo posto, il penultimo e quello centrale sono sedi privilegiate. Talvolta il poeta giustappone carmi di contenuto simile (per esempio Carmen IV 8 e IV 9 sul l’immortalità assicurata dalla poesia), e in un caso costituisce un vero e proprio ciclo (III 1-6), quello delle cosiddette «odi romane», segnalato da un proemio (III 1) e da un proemio mediano (III 4) e dedicato ai temi del mos maiorum ripresi da Augusto. Ma il criterio favorito di organizzazione del libro sembra essere quello della variatio: sia dal punto di vista metrico-formale (i primi nove componimenti del I libro sono in nove differenti metri e in un altro metro ancora è l’ode I 11: quasi un’esposizione in catalogo delle possibilità metriche oraziane!), sia da quello del tono e del contenuto (alternanza di temi politici e temi privati, stile alto e stile leggero).
A differenza della lirica moderna, le odi di Orazio raramente danno voce a libere meditazioni o introspezioni: quasi sempre hanno un’impostazione dialogica, sono rivolte a un “tu” che può essere un personaggio reale (è il caso più frequente), immaginario (sono considerati tali le figure femminili e i personaggi maschili di nome greco), una divinità o la Musa, una collettività, perfino un oggetto inanimato (la lira, strumento della poesia).
La lirica oraziana, così come gran parte della poesia latina, soprattutto augustea, non può essere intesa a prescindere dal rapporto organico con la tradizione greca. La coscienza della dipendenza dai Greci è talmente viva da essere esibita in esplicite dichiarazioni di poetica: se negli Epodi Orazio si dichiarava erede di Archiloco, per quel che riguarda la sua produzione lirica rivendica orgogliosamente il titolo di “Alceo romano” (Carmina I 1, 34; I 26, 11; I 32, 5).
Simili dichiarazioni non implicano però una dipendenza pedissequa e priva di originalità, ma un rapporto di imitatio che significa soprattutto obbedienza alla lex operis (le regole che organizzano il genere letterario in cui il poeta vuole operare), rispetto del decorum letterario e creazione di un coerente sistema di attese nel destinatario. La imitatio è insomma una componente del linguaggio poetico e non un ostacolo all’originalità della creazione.
Del resto, gli stessi poeti romani, e Orazio più degli altri, così come erano consapevoli della loro “genealogia letteraria”, erano altrettanto gelosi del loro originale contributo creativo e non mancavano di farsene vanto (Epistolae I 19, 21-22):
libera per vacuum posui vestigia princeps,
non aliena meo pressi pede.
«Io per primo posi i miei liberi passi per libero suolo,
non calcai col mio piede le orme altrui».
Orazio si dice fiero di aver divulgato per primo la poesia di Alceo, malgrado le difficoltà tecniche del trasferire da una lingua all’altra strutture metriche ed espressive; e da queste orgogliose rivendicazioni nacque un vero e proprio tópos della poesia augustea, quello del et primus ego («e io per primo»). Ma nei confronti del suo modello greco Orazio si comporta con molta liberta, unendo a temi e occasioni tradizionali un’ambientazione e una sensibilità tipicamente romane, nonché un linguaggio poetico personale.
Questa ricerca di originalità all’interno dell’imitazione è visibile soprattutto nella ripresa dello spunto iniziale di un componimento. Diverse odi di Orazio, infatti, partono con una ripresa evidente (a volte quasi una citazione che funziona da motto): poi, però, il poeta procede in maniera sua propria e il modello viene quasi dimenticato (i casi più noti sono Carmina I 9; 10; 14; 18; 37; II 12).
La famosa ode a Taliarco (I 9) si apre, per esempio, con un paesaggio invernale che ricorda un frammento alcaico: a esso, come in Alceo, è connesso un invito a bere. Poi, però, il componimento si sviluppa in riflessioni gnomiche, per finire in un quadro di vita galante cittadina vicino al gusto del realismo alessandrino.
Alceo fu il modello prediletto di Orazio, anche perché in lui poteva trovare contemporaneamente l’attenzione per le vicende della comunità e un canto più legato alla sfera privata (l’amore, l’amicizia, il convito). Questo aspetto è chiaro soprattutto nell’invocazione alla cetra colica, simbolo della lirica del poeta lesbio, in Carmina I 32, 3-12:
… age dic Latinum,
barbite, carmen,
Lesbio primum modulate civi,
qui ferox bello tamen inter arma,
sive iactatam religarat udo
litore navim,
Liberum et Musas Veneremque et illi
semper haerentem puerum canebat
et Lycum nigris oculis nigroque
crine decorum…
«… Intona, suvvia, un carme
latino, o lira
modulata per la prima volta dal cittadino di Lesbo,
che, valoroso guerriero, tuttavia tra una battaglia e l’altra,
o se aveva legato all’umida riva
la nave sbattuta,
cantava Libero e le Muse e Venere
e il fanciullo che sempre
le è accanto, e Lico bello di neri occhi
e neri capelli…».
Del resto, se importanti sono i tratti che accomunano Orazio e Alceo, certo non meno significative sono le differenze: il poeta lesbio era un aristocratico impegnato in prima persona nelle aspre lotte politiche della sua città; in Orazio invece l’interesse per la res publica è poco più che un’immagine letteraria, ovvero l’interesse di un intellettuale, che, dopo un effimero coinvolgimento nelle tempeste civili, vive al riparo dei potenti signori di Roma, alla ricerca della felicità interiore che era stata l’insegnamento principale delle filosofie ellenistiche. Inoltre, mentre Alceo componeva le sue odi per l’esecuzione cantata durante i simposi, la lirica oraziana è scritta per la lettura: di conseguenza, la sua evocazione del simposio è puramente immaginaria e stilizzata, e il suo stile può permettersi raffinatezze e sofisticazioni che Alceo evitava per rendere meglio eseguibili i suoi carmi.
L’altra grande rappresentante della lirica eolica, Saffo, ha lasciato una traccia minore nella poesia di Orazio. In un’ode famosa (II 13) egli immagina Saffo e Alceo che affascinano con il loro canto uno stupito mondo infernale, in cui le ombre sembrano preferire Alceo, cantore delle tempeste civili, agli appassionati lamenti amorosi di Saffo.
Orazio certamente condivideva questo giudizio, e la poetessa dell’amore e della passione gli suggerì spunti poetici solo episodicamente: la cosiddetta «ode della gelosia» (F 31 Voigt), già “tradotta” da Catullo (Carmina 51), si risente in I 13, mentre in IV 9, 10 ss. sono rievocate le «passioni» (calores) della poetessa (si vd. anche I 22, 23-24). Ben più profonda impronta Saffo lascerà nella poesia elegiaca latina.
Un ruolo notevole è svolto anche dalla lirica corale, rappresentata da Stesicoro, Simonide e in misura maggiore Bacchilide. Ma non c’è dubbio che il posto d’onore fra gli auctores di Orazio spetti a Pindaro. Nel riconoscerne la grandezza, Orazio avverte tutti i pericoli cui si espone l’aemulatio di un poeta tanto audace e difficile (Carmina IV 2, 1-4):
Pindarum quisquis studet aemulari,
Iulle, ceratis ope Daedalea
nititur pinnis, vitreo daturus
nomina ponto.
Chi vuol emulare Pindaro,
o Iullo, si affida come Dedalo
ad ali di cera, per donare il proprio nome
a un mare di cristallo.
Orazio tenta una lirica “pindarica” soprattutto nel IV libro, rispondendo anche a sollecitazioni culturali augustee, ma anche nei libri precedenti (si vd., per esempio, il motto di I 12 o III 4, la «IV ode romana») la sua ricerca del sublime si nutre di suggestioni “pindariche”: periodi ampi, solenne gravità delle sentenze, ammonimenti improvvisi, transizioni audaci. E dal poeta tebano vengono a Orazio idee importanti, come la coscienza dell’alta funzione della poesia, la capacità del poeta di conferire l’immortalità, l’apprezzamento della saggezza etico-politica.
Il richiamarsi di Orazio alla lirica greca arcaica era dovuto a una precisa scelta programmatica ed esprimeva la volontà di distinguersi dall’alessandrinismo dei neoteroi. Ciò, però, non significa che Orazio ignorasse l’esperienza della poesia ellenistica, da cui anzi derivava un vasto repertorio di temi, immagini, situazioni (relative soprattutto alla sfera dell’amore, della relazione galante, ma anche a quella di feste e cerimonie pubbliche, del convito, del paesaggio) nonché alcuni aspetti fondamentali della sua cultura e della sua poetica, primo tra tutti la cura formale, il labor limae.
È consolidata l’immagine di Orazio poeta dell’equilibrio sereno, del distacco dalle passioni, della moderazione: e l’immagine tradizionale è, in questo come in altri casi, abbastanza rispettosa della realtà. Essa fa intuire, prima di tutto, il ruolo centrale che nella lirica oraziana è svolto dalla meditazione e dalla cultura filosofica: una meditazione già presente nella lirica greca arcaica, ma che in Orazio è sostanzialmente diversa in quanto discendente dalle filosofie ellenistiche attraverso la mediazione della diatriba.
Diversamente dalle Satire, però, nelle Odi non si vede una ricerca morale fondata sull’osservarione critica degli altri, ma una raccolta meditazione su poche fondamentali conquiste della saggezza (soprattutto epicurea); perciò, in un certo senso, si può dire che le Odi cominciano dove le Satire finiscono. A queste nozioni elementari, che devono parecchio anche al buon senso comune, Orazio ha saputo dare una formulazione tanto nitida e incisiva da consegnarle all’eredità della cultura europea.
Il punto centrale è la coscienza della brevità della vita, che comporta la necessità di appropriarsi delle gioie del momento, senza perdersi nell’inutile gioco delle speranze, dei progetti o delle paure. Più famosa di tutte è l’esortazione a Leuconoe (Carmina I 11, 6-8):
… sapias, vina liques, et spatio brevi
spem longam reseces. dum loquimur, fugerit invida
aetas: carpe diem quam minimum credula postero.
«… sii saggia, mesci il vino, e in un breve spazio
taglia la tua lunga speranza. Mentre parliamo, già sarà fuggito, maligno,
il tempo che ci è concesso: strappagli il giorno e non fidarti troppo del domani».
Aveva detto Epicuro (Gnomologio Vaticano, 14): «Si nasce una volta sola, due volte non è concesso, in eterno non saremo più. Tu, pur non essendo padrone del tuo domani, rimandi la gioia: la vita così trascorre in questo indugiare e ciascuno di noi muore senza aver goduto della quiete». Il saggio affronterà gli eventi, quali che siano, e saprà accettarli: egli conta solo sul presente, che cerca di cogliere nella sua fugacità, e si comporta come se ogni giorno della sua vita fosse l’ultimo. Il carpe diem non va, quindi, frainteso come un banale invito al godimento: in Orazio (come era anche in Epicuro) l’invito al piacere non è separato dalla consapevolezza acuta che quel piacere stesso è caduco, come caduca è la vita dell’uomo. Non resta che fabbricarsi, di fronte all’incalzare della morte o della sventura, la solida protezione dei beni già goduti, della felicità già vissuta (Carmina III 29, 41-48):
… ille potens sui
laetusque deget, cui licet in diem
dixisse “vixi”. cras vel atra
nube polum pater occupato
vel sole puro; non tamen inritum
quodcumque retro est efficiet neque
diffinget infectumque reddet
quod fugiens semel hora vexit.
… avrà pieno dominio di sé
e felice vivrà colui che tutti i giorni
potrà dire: “Ho vissuto”. Domani invada pure
Giove padre con neri nembi il cielo
o con la pura luce del Sole; non cancellerà certo
ciò che ci sta dietro e non potrà mutare
o far sì che non esista ciò che l’ora
fuggente una volta per tutte ci ha portato.
Questa meditazione può talvolta tradursi in canto della propria serenità: la felicità dell’αὐτάρκεια, la condizione del poeta-saggio, libero dai tormenti della follia umana e benedetto dalla protezione degli dèi. Il favore divino si manifesta trasfigurando in miracolo circostanze dell’esistenza quotidiana (vari episodi di scampato pericolo, dall’infanzia all’attualità) ed è sempre intimamente connesso con la vocazione di poeta: gli dèi e le Muse hanno salvato Orazio per riservarlo a quel destino.
Eppure, saggezza, serenità, equilibrio, padronanza di sé e l’aurea mediocritas («preziosa medietà») di chi sa fuggire tutti gli eccessi e adattarsi a tutte le fortune, niente di tutto ciò è un possesso sicuro, acquisito una volta per sempre. Il poeta non ignora la forza insidiosa delle passioni, conosce le debolezze dell’animo, e sa che ciò cui egli aspira e che consiglia agli amici va conquistato e difeso in ogni momento. La saggezza si scontra così con i dati immutabili della condizione dell’uomo nel mondo: la fugacità del tempo, la vecchiaia, la morte. Nessuna saggezza ha la capacità di eliminare tanto peso negativo: contro le angosce e contro il dolore della vita si può soltanto ingaggiare una lotta virile che richiede energia e conosce qualche eroismo, per trasformare l’inquietudine e l’amarezza in accettazione del destino (Carmina IV 7, 7-16 passim):
inmortalia ne speres, monet annus et almum
quae rapit hora diem. […]
damna tamen celeres reparant caelestia lunae:
nos ubi decidimus
quo pius Aeneas, quo dives Tullus et Ancus,
pulvis et umbra sumus.
«A non nutrire speranze immortali ti ammonisce l’anno
e l’ora che trascina via il vivifico giorno. […]
Eppure, in cielo rapide lune ripristinano ciò che hanno perso:
quanto a noi, invece, una volta caduti
dove il pio Enea, dove il potente Tullo e Anco,
siamo polvere e ombra».
Orazio non è però un asceta separato dal mondo. Egli mostra di conoscere bene i sentimenti e le relazioni umane e non ignora la passione: ne conosce la crudeltà, la rievoca con malinconia, la sente inopinatamente risorgere. Ma la saggezza faticosamente conquistata e gelosamente conservata vanno di pari passo con una pratica di vita fatta di pochi amici sicuri, pochi luoghi protetti e sentimenti da guardare con il necessario distacco.
Si tratta di un sistema coerente e unitario di ideali, sentimenti e luoghi che si adattano perfettamente tra di loro.
Quasi un quarto delle Odi possono essere classificate come «erotiche». La poesia amorosa di Orazio, a differenza di quella di Catullo e degli elegiaci, sembra nutrirsi del distacco ironico dalla passione. A parte qualche eccezione, l’amore viene analizzato come un rituale il cui canovaccio è piuttosto scontato: serenate, incontri, giuramenti, schermaglie, vita galante, banchetti. Spesso il poeta osserva con un sorriso la credulità del giovane amante, la serietà con cui ciascuno interpreta la sua parte, giura l’esclusività e l’eternità del proprio sentimento.
Anche l’amicizia, nelle Odi, come, del resto, in tutte le opere del poeta, ha un ruolo fondamentale e fornisce ai singoli componimento un ampio ventaglio di destinatari, ciascuno con la sua specificità di amico; e a ciascuno viene dedicata un’attenzione affettuosa.
La campagna è il luogo di elezione dell’equilibrio oraziano. Di solito è stilizzata secondo il modulo del locus amoenus, un gradevole paesaggio italico che ospita il convito, il riposo, la semplice vita rustica; ma Orazio conosce anche il fascino del paesaggio “dionisiaco”: una natura montana, selvaggia e aspra, fatta di rupi, boschi e fonti, non ancora domata dall’uomo.
Ma i luoghi più propriamente oraziani sono quelli individuati dallo spazio limitato e racchiuso del piccolo podere personale – spazio caro perché noto e sicuro, inattaccabile perché appartato e volutamente modesto (Carmina I 17, 17 hic in reducta valle); ma per ritrovarsi al poeta basta qualche volta un qualunque pezzo di quieta campagna o una solitaria spiaggia sul mare.
Questo spazio privilegiato funziona nel testo come una figura simbolica sia dell’esistenza dell’autore (è la forma dei suoi affetti, pochi ma sicuri) sia della sua esperienza poetica (ne è la forma estetica, in quanto spazio che vuole rappresentare un ordine e un senso).
Orazio chiama questo luogo-simbolo angulus (Ille terrarum mihi praeter omnis / angulus ridet, «Quell’angolo di mondo più d’ogni altro mi sorride», Carmina II 6, 13), il luogo deputato al canto, al vino e alla saggezza. E per quanto il tema possa apparire convenzionale, è pur vero che esso trova in Orazio nuove funzioni in quanto si associa a due altri grandi temi: quello della morte (il cui pensiero, in questo spazio privilegiato, si fa meno amaro e si attenua in malinconia) e soprattutto quello dell’amicizia.
L’altro polo della lirica oraziana, la poesia impegnata sui temi civili, con la celebrazione di personaggi, avvenimenti e miti del regime di Augusto, risulta per molti versi lontano dagli argomenti privati; pur se in Orazio, con una differenza importante rispetto alla lirica neoterica, tutta la sfera privata aspira sempre a una validità generale, a esprimere la condizione complessiva dell’uomo. La lirica civile, molto discussa nei suoi risultati, non manca certo di originalità. La poesia celebrativa legata ai monarchi ellenistici non fornisce più che qualche tratto esteriore: su questo tronco (e naturalmente su quello della lirica greca arcaica) Orazio ha saputo innestare spunti nazionali, suggestioni provenienti dall’epica e dalla storiografia. L’operazione era ambiziosa e rispondeva anche a profonde esigenze personali, ben radicate in una generazione, che, dopo le lacerazioni delle guerre civili, guardava con speranza, entusiasmo, e qualche angoscia mal sopita, al princeps vincitore e garante della pace. Non bisogna perciò pensare soltanto alle pressioni energiche della politica culturale augustea.
L’immagine di Orazio cantore della grandezza di Roma e dei valori eterni dell’impero, esaltata e poi caduta in sospetto durante il XX secolo per la retorica della romanità, può essere oggi finalmente valutata in modo più equilibrato.
La lirica civile di Orazio conosce la celebrazione, l’encomio, l’ufficialità, ma non può essere liquidata come propaganda in versi. Anzitutto perché, anche dove riflette con fedeltà i temi e le successive fasi dell’ideologia del principato, sa evitare chiusure dogmatiche ed esaltare il sublime della magnanimità: per esempio, la lealtà verso la causa tradizionalista e i suoi eroi sventurati (Carmina II 7; I 12; II 1) o l’ammirazione per la virtus anche nel più odioso dei nemici (celebre il quadro di Cleopatra che affronta impavidamente la morte in I 37). E poi perché Orazio sa spesso farsi interprete di incertezze e timori, di scoraggiamenti e poi di improvvise gioie liberatrici – insomma, dei sentimenti e delle aspirazioni profonde della comunità. Anche la lode del principe in genere sfugge alle movenze cortigiane dell’encomio ellenistico, per dar voce alla sincera ansiosa gratitudine nei confronti del pacificatore dell’Impero.
Dell’ideologia augustea, la lirica civile oraziana condivide l’impostazione moralistica: la crisi era derivata dalla decadenza degli antiqui mores, dall’abbandono di quel coerente sistema di valori etico-politici e religiosi che aveva fatto la grandezza di Roma.
Questa poesia moralistica può incontrare a tratti la ricerca oraziana e convivere con essa, perché la critica del lusso e delle stravaganze, l’ammirazione per l’autosufficienza della virtus e l’apprezzamento della razionalità contro le forze del caos erano temi comuni alle filosofie ellenistiche. La pubblica ricorrenza può essere anche occasione di gioia privata: il poeta festeggia con un convito, con un incontro galante. Orazio inaugura così una maniera che sarà importante per altri poeti dell’età di Augusto (per Properzio e, soprattutto, per Ovidio).
Nelle odi di argomento civile risalta più che altrove il motivo della vocazione poetica, che d’altra parte è una presenza ricorrente in tutti i carmi. Il vates si sente in rapporto con le Muse le altre divinità ispiratrici (Mercurio, Bacco, Apollo): attraverso la topica ellenistica Orazio esprime entusiasmo per la sua missione fin dalla prima ode (I 1), dedicata a Mecenate, dove la scelta della poesia è rivendicata con orgoglio. E se l’ode conclusiva del primo libro (I 38) privilegia ancora la dimensione intimistica del simposio, quelle del II e del III libro professano apertamente l’orgoglio della missione letteraria. Per esempio, in II 20 il poeta immagina addirittura di trasformarsi in un cigno, animale sacro ad Apollo, e afferma che l’immortalità conferitagli dall’arte rende inutili i pianti al suo funerale (riprendendo l’epigramma funebre di Ennio); analogamente in III 30 Orazio afferma con sicurezza: «Non morirò del tutto» (non omnis moriar, v. 6), perché con la sua opera ha innalzato «un monumento più duraturo del bronzo» (v. 1).
La polarità tra dimensione intima e dimensione pubblica è naturalmente una semplificazione, che finisce per oscurare la varietà e la vitalità tematica della poesia lirica di Orazio. Questa varietà è spesso dovuta alle diverse categorie in cui si articolava l’antica lirica greca (il suo modello di partenza) a seconda delle “occasioni” cui era destinata.
Ben rappresentati sono i carmi conviviali, che rimandano ai συμποτικά («canti da simposio») alcaici per quel che riguarda la descrizione del paesaggio e l’invito a bere per vincere la malinconia dell’esistenza, ma devono molto anche all’epigramma ellenistico negli inviti e nelle descrizioni dei preparativi, con il tradizionale apparato del simposio ellenistico-romano (vino, fiori, musica).
Ben rappresentato nella lirica oraziana è anche l’inno. Qui naturalmente le differenze con la lirica arcaica sono cospicue, anche perché la lirica religiosa oraziana è priva del legame con un’occasione e un’esecuzione rituale (a parte il Carmen saeculare). Dell’inno Orazio conserva spesso il formulario e l’andamento (l’invocazione in seconda persona, gli epiteti cultuali del dio, l’illustrazione di prerogative e sedi del culto, gli inviti alla presenza, le richieste), ma poi lo intesse di riferimenti e sviluppi di carattere letterario.
Non sempre però è facile collocare un’ode oraziana in un tipo ben definito, anche perché il poeta ama spesso contaminare in un medesimo componimento categorie liriche diverse (secondo il procedimento alessandrino dell’incrocio fra i generi»). Per esempio, in III 37 Orazio contamina il προπεμπτικόν («carme di buon viaggio») e il carme mitologico; in III 11 un inno e un carme mitologico; in III 14 l’encomio per Augusto e il carme simposiale; in I 4 un epigramma sulla primavera e una poesia conviviale.
6. Le Epistole
Dopo la grande stagione della poesia lirica, Orazio ritorna, con le Epistolae, all’esametro della “conversazione”: appunto sermones è il nome che Orazio dà anche alle sue “lettere in versi”, lo stesso usato per le Satire, che come quelle trattano di argomenti morali.
Il I libro delle Epistole fu pubblicato nel 20 a.C.: Orazio vi lavorò tre anni, dopo la pubblicazione dei primi tre libri delle Odi. La raccolta comprende 20 componimenti in esametri: si va dai 16 versi della IV epistola ai 112 di I 18. I versi sono in totale poco più di mille.
II II libro, forse pubblicato postumo, fu composto negli anni fra il 19 e il 13 a.C. Contiene due lunghe epistole di argomento letterario: la prima, dedicata ad Augusto, critica l’ammirazione per i poeti arcaici ed esamina lo sviluppo della letteratura romana; la seconda, indirizzata a Giulio Floro, più personale, è una specie di congedo dalla poesia, con un quadro memorabile della vita quotidiana del letterato romano e un’ampia riflessione sulla ricerca della saggezza filosofica.
Sebbene la tradizione manoscritta non la includa nella raccolta delle Epistole, fin dal XVI secolo l’epistola ai Pisoni, detta Ars poetica, è stampata dopo le due epistole del libro II, a cui la accomunano la forma epistolare e l’argomento letterario. La datazione è molto discussa: probabilmente è posteriore al 13, data dell’epistola ad Augusto, ma alcuni la collocano tra il I libro delle Epistole (20 a.C.) e il Carmen saeculare (17 a.C.). L’Ars poetica è un trattato di 476 esametri, che espone teorie peripatetiche sulla poesia, soprattutto drammatica. Con una certa difficoltà è stata rintracciata una struttura interna dell’opera: i vv. 1-294 parlano dell’ars, i vv. 295-476 dell’artifex; a sua volta, la prima sezione sembra bipartita tra la trattazione della poesia (il contenuto dell’opera, vv. 1-41) e la trattazione del poema (lo stile, vv. 42-294).
La sensibilità oraziana per il trascorrere inesorabile del tempo, acuita dall’impressione di una precoce vecchiaia, fa sentire la conquista della saggezza come urgente, improcrastinabile. Ma, al tempo stesso, Orazio non sembra più in grado di costruire (né per gli altri né per sé) un modello di vita soddisfacente.
La rinuncia alla vita sociale e all’ottimismo etico è simboleggiata dalla fuga da Roma verso il raccoglimento della campagna sabina: un ritiro inquieto, ma per lo meno lontano da impegni, sollecitazioni, passioni, nei confronti delle quali il poeta si sente adesso indifeso.
L’esigenza dell’αὐτάρκεια è ora più vivace che mai, ma neanche questa sembra garantire al poeta un atteggiamento coerente e costante. Orazio sembra oscillare, senza individuare mai davvero un punto di plausibile equilibrio, tra un rigore morale che lo attrae ma lo spaventa e un edonismo di cui avverte insieme concretezza e fragilità. Nella epistola che fa da proemio, il poeta si dichiara indipendente da ogni ortodossia filosofica (Epistolae I 1, 13-19):
ac ne forte roges, quo me duce, quo lare tuter:
nullius addictus iurare in verba magistri,
quo me cumque rapit tempestas, deferor hospes.
nunc agilis fio et mersor civilibus undis
virtutis verae custos rigidusque satelles,
nunc in Aristippi furtim praecepta relabor
et mihi res, non me rebus subiungere conor.
Non mi domandare chi mi conduca, sotto quale tetto mi sia rifugiato:
non mi impegnai a giurare per le parole d’un maestro,
ovunque il tempo mi porti, mi ritrovo essere ospite.
A volte mi pare di destarmi, mi immergo tra i marosi della vita civile,
mi sento soldato della virtù verace, suo difensore inflessibile;
poi, senza sapere come, scivolo nelle dottrine d’Aristippo,
riprovo a dominare la realtà, invece di esserne dominato.
Non si tratta qui tanto di rivendicare un’originale mediazione fra concetti e posizioni attinte a tradizioni filosofiche diverse o alla predicazione diatribica, che tendeva all’eclettismo. Orazio parla, programmaticamente, delle oscillazioni che caratterizzano la morale delle Epistole, che contempla, per esempio, la possibilità di accostare l’epistola 16, di impronta più chiaramente stoica, centrata sul tema della libertà interiore e sul vero ideale del vir bonus, alla coppia costituita dalle epistole 17 e 18, che presentano didascalicamente una serie di consigli e di riflessioni sulla maniera di vivere accanto ai potenti e di assicurarsene il favore.
Alle aporie della ricerca morale oraziana sembra da collegare lo spazio notevole ora accordato al tema diatribico (già mirabilmente svolto da Lucrezio e affiorato nel II libro delle Satire) dell’insoddisfazione di sé, dell’incostanza, della noia angosciosa e impaziente. L’inquietudine è presentata come una specie di male del secolo (Epistole I 11, 27-30):
caelum non animum mutant qui trans mare currunt.
strenua nos exerces inertia: navibus atque
quadrigis petimus bene vivere. quod petis, hic est,
est Ulubris, animus si te non deficit aequus.
«Cambia cielo, non animo, chi corre di là dal mare.
Un torpore smanioso ci logora: noi che cerchiamo con navi
e quadrighe la vita felice. Ciò che cerchi è qui,
è ad Ulubre, se non ti manca l’equilibrio dell’animo».
Ma il poeta non si sente affatto al riparo, né i propositi di saggezza sembrano capaci di assicurargli la guarigione dall’insidiosa e tenace malattia (Epistole, I 8, 3-12):
si quaeret quid agam, dic multa et pulcra minantem
vivere nec recte nec suaviter, haud quia grando
contuderit vitis oleamve momorderit aestus,
nec quia longinquis armentum aegrotet in agris;
sed quia mente minus validus quam corpore toto
nil audire velim, nil discere, quod levet aegrum,
fidis offendar medicis, irascar amicis,
cur me funesto properent arcere veterno,
quae nocuere sequar, fugiam quae profore credam,
Romae Tibur amem, ventosus Tibure Romam.
«Se ti chiederà cosa faccio, digli così: io, che molte e belle cose minacciavo,
non vivo né secondo virtù né piacere; non perché la grandine
m’ha ammaccato le viti o la calura ha morso le olive,
né perché il bestiame s’è ammalato in pascoli lontani;
ma perché, infermo nell’animo più che nel corpo tutto,
non voglio ascoltare né sapere ciò che potrebbe guarirmi,
m’arrabbio con medici fidati, m’adiro con gli amici,
perché s’affannano a liberarmi dal mortale torpore;
inseguo ciò che mi fa male, fuggo ciò da cui m’aspetto giovamento;
come il vento, a Roma mi piace Tivoli, a Tivoli mi piace Roma».
All’esibita debolezza della propria posizione etico-filosofica fa riscontro – quasi paradossalmente – un’accresciuta impostazione didascalica del discorso oraziano. La forma epistolare stessa, infatti, corrisponde in qualche modo alla posizione di un intellettuale eminente e rispettato, che è interlocutore e anche punto di riferimento dell’élite sociale del suo tempo.
Nel rapporto a due che è proprio di una lettera c’è spazio per confessare, ma anche per ammonire e insegnare, soprattutto se la persona di un destinatario inesperto (molte delle epistole sono indirizzate a giovani amici) sembra in qualche maniera richiederlo (Epistole I 17, 3-5):
disce, docendus adhuc quae censet amiculus, ut si
caecus iter monstrare velit, tamen adspice, siquid
et nos quod cures proprium fecisse, loquamur.
«Impara quello che sentenzia il tuo amichetto, che avrebbe bisogno lui,
ancora, di insegnamenti; è come se un cieco volesse mostrare la via:
bada, però, se anch’io non dico qualcosa che potresti avere interesse a far tuo».
L’aspetto didascalico si accentua nelle epistole del II libro e soprattutto nell’Ars poetica. La società augustea è anche una società di letterati e di amanti delle arti: i problemi di critica letteraria, di poetica e di politica culturale sono fra quelli di più viva attualità. Orazio interviene nel dibattito con l’autorità che gli è garantita da un sicuro prestigio e anche dal suo personale rapporto con il princeps. Anzi, è proprio Augusto l’interlocutore primario di questi discorsi sull’arte e la letteratura.
Per assicurare una più ampia base ideologica e culturale al difficile compromesso sociale del principato, Augusto vedeva con favore una produzione letteraria romana e popolare, ma l’Eneide aveva dato una risposta solo parziale alla richiesta da parte di Ottaviano di un poema epico-storico che interpretasse l’austera ideologia dei maiores e cantasse il destino imperiale di Roma.
Restava aperta (e urgente agli occhi del principe) la questione del teatro latino: la generosa ricompensa concessa al Tieste di Vario dimostra quanta importanza venisse annessa a una forma d’arte cui si accreditavano le più larghe possibilità di penetrazione ideologica, in quanto più capace di rappresentare valori e modelli culturali.
La questione del teatro è centrale nelle epistole letterarie di Orazio: nell’epistola ad Augusto (II 1) il poeta polemizza contro il favore indiscriminato nei confronti dei poeti del teatro arcaico. In una specie di disputa «degli antichi e dei moderni», Orazio si schiera decisamente dalla parte di questi ultimi, in nome del principio callimacheo dell’arte colta e raffinata. Egli resiste, su questo punto importante, alle preferenze di Augusto stesso e raccomanda soprattutto al princeps un’attenzione benevola per la poesia destinata alla lettura, l’unica che possa raggiungere, secondo lui, i livelli di eccellenza formale che la cultura e il prestigio stesso della Roma augustea richiedono necessariamente.
Orazio non mostra di nutrire fiducia in una vera rinascita del teatro, anche perché un pubblico meno selezionato e raffinato di quello cui si rivolge la letteratura scritta non sembra disposto ad apprezare una produzione drammatica di qualità e predilige invece il fasto spettacolare o le dozzinali buffonerie di mimi e acrobati.
L’Ars poetica (II 3) sembra tuttavia orientare la sua analisi dell’arte e della poesia sui problemi della letteratura drammatica (non solo la tragedia e la commedia, ma addirittura il dramma satiresco, della cui vitalità a Roma non è rimasta traccia). Questo dovrà essere messo in rapporto con il posto privilegiato che il dramma aveva nelle trattazioni di ascendenza peripatetica (a partire proprio dalla Poetica di Aristotele), a cui Orazio si riconnette direttamente, sebbene in modo personale. Non bisogna però pensare alla ricezione passiva di una fonte greca: dopo le perplessità e le resistenze espresse nell’epistola ad Augusto, Orazio accetta di offrire con l’Ars poetica il proprio contributo di teorico, se non di poeta militante, alla questione del teatro.
Egli comunque resta fedele nell’Ars ai suoi principi, predicando un’arte raffinata (v. 291: si raccomanda di perfezionare con il labor limae il proprio prodotto), paziente (vv. 388-389: è meglio tenere i propri scritti nel cassetto per nove anni, prima di renderli pubblici – un precetto già neoterico!), colta (v. 268: bisogna leggere e rileggere i grandi modelli greci), attenta (i principi fondamentali sono quelli della coerenza e della convenienza o decorum).
Nel quadro di queste riflessioni Orazio ha occasione tra l’altro di disegnare preziosi tracciati di storia della cultura e della letteratura sia greca sia romana, nonché di aprire interessanti squarci sulla “vita quotidiana” del letterato romano e dei circoli letterari dell’Urbe (II 2).
Malgrado le somiglianze tra Epistole e Satire, già i commentatori antichi sentirono l’esigenza di distinguere la nuova raccolta da quella satirica: sembrano diverse solo in questo, che ora Orazio parla ad assenti, mentre là, nelle Satire, è come se parlasse sempre a gente che sta davanti a lui. La specifica identità delle Epistole è anzitutto assicurata proprio dalla forma epistolare: tutti i componimenti hanno un destinatario e della lettera vengono spesso esibiti i segnali caratteristici (le formule di saluto e di commiato).
Oltre al rapporto con le Satire, si discute anche del carattere “reale” di queste lettere: nessuno crede naturalmente a una vera e propria funzione privata, ma non si può neppure escludere che singole lettere, pur pensate come opera di letteratura e destinate al pubblico dei lettori, siano state di volta in volta inviate, come omaggio letterario, ai rispettivi destinatari.
A ogni modo, la componente epistolare assicura al sermo oraziano una intonazione più personale, nonché la varietà di modi e atteggiamenti che è richiesta dall’attenzione nei confronti del destinatario.
Dal punto di vista formale, le Epistole erano quasi certamente una novità: in quello che è rimasto (o di cui si ha notizia precisa) della letteratura greca e latina, non c’è niente di davvero simile. Si sa di epistole in versi (ce n’erano, per esempio, nelle satire di Lucilio e sono dichiaratamente lettere alcune poesie di Catullo, come il Carmen 68), ma non trattavano temi filosofici; viceversa, erano ben note trattazioni filosofiche sotto forma epistoalre (basti pensare alle lettere di Platone e più ancora a quelle di Epicuro ai suoi discepoli), ma in prosa.
Una raccolta sistematica di lettere in versi come quella di Orazio è probabilmente sperimentazione originale, tanto più che in questo caso il poeta non si richiama ad alcun primus inventor del genere, come invece fa altre volte.
Ma le novità delle Epistole e la loro differenza rispetto alle Satire sono ben visibili soprattutto a livello di contenuti: manca, per esempio, alle Epistole quell’aggressività comica che, ancora per Orazio, era la marca evidente del genere satirico. La riflessione morale non procede ora attraverso una osservazione critica della società contemporanea: sembra prendere coscienza sempre più netta delle proprie debolezze e contraddizioni; l’equilibrio fra αὐτάρκεια e μετριότης, su cui si reggeva la possibilità stessa della satira, appare ormai irrecuperabile, e non si intravede nessun equilibrio diverso.
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