Clistene e la fondazione della democrazia

Un mutamento di regime verso forme che non somigliassero a quelle dell’aristocrazia vigente ad Atene prima di Pisistrato e dominante nel mondo ellenico, un cambiamento insomma verso regimi politici radicalmente nuovi, non fu certo gradito a Sparta. Ma gli Alcmeonidi, rientrati grazie all’aiuto lacedemone, posero presto mano a una radicale e grandiosa riforma delle istituzioni cittadine. Le notizie principali su Clistene, figlio di Megacle, rampollo dell’illustre γένος, e sulla sua opera provengono in massima parte da Erodoto e dalla Costituzione degli Ateniesi (Ἀθηναίων πολιτεία) di Aristotele. Dopo la cacciata del Pisistratide Ippia, in Atene presero a contrastarsi gruppi guidati da Clistene e Isagora, dei quali quest’ultimo fu designato arconte per l’anno 508/7. Clistene reagì all’elezione del rivale appoggiandosi al δῆμος, il «popolo», che la politica pisistratide aveva fortemente valorizzato come forza sociale: secondo Erodoto (V 66), l’Alcmeonide τὸν δῆμον προσεταιρίζεται («associò il popolo alla propria eteria»), cioè ne fece uno dei protagonisti del confronto politico, fino ad allora dominato dai membri delle casate aristocratiche, e poté così ottenere la base di consenso necessaria per dar corso ai propri progetti, che sarebbero stati all’origine della democrazia ateniese.

L’aspetto fondamentale dell’opera riformatrice di Clistene consistette in una nuova geografia e geometria dei rapporti politici, ripartendo la popolazione attica su base territoriale, secondo una rigorosa impostazione decimale. Al posto delle quattro tribù (φυλαί) genetiche ioniche, egli ne introdusse dieci con un forte legame sul territorio, che presero il nome da eroi locali – indicati, secondo la tradizione – nientemeno che dall’oracolo di Delfi: Acamantide, Eantide, Antiochide, Cecropide, Eretteide, Egeide, Ippotontide, Leontide, Eneide, Pandionide. L’appartenenza alla tribù non dipendeva più dal rapporto personale o gentilizio tra i suoi membri, ma dalla loro residenza. In Attica, infatti, era disperso un gran numero di centri diversi, detti δῆμοι, ovvero piccole comunità di villaggio (cfr. Strab. IX C. 396, che ne contò 174): una delle novità della riforma clistenica fu quella di aver trasformato queste realtà preesistenti in cellule vitali della struttura politica ateniese.

Anna Christoforidis, Clistene, statista greco e padre della democrazia. Busto, marmo, 2004. Columbus, Ohio Statehouse.

Della precedente ripartizione filetica tuttavia permase l’articolazione in tre sezioni: ogni tribù (φυλή) comprendeva tre trittìe (τριττύες). I processi di astrazione e di livellamento, espressi da questa operazione politica, cozzavano naturalmente contro le antiche strutture, basate su rapporti familiari e interessi di consorterie locali. Così, dei vecchi gruppi politici rimase una traccia, ma non più come basi di distinti gruppi di pressione con interessi economici definiti: la nuova ripartizione divenne, con lieve modifica, il quadro geografico per la costruzione del territorio di ciascuna tribù, su un totale di trenta circoscrizioni territoriali ancora tratte, rispettivamente, una dalla zona costiera (παραλία), una dall’entroterra (μεσόγαια) e una dalla città (ἄστυ). Al vecchio frazionamento politico-territoriale, dunque, si sostituì una rappresentazione del territorio secondo fasce che, in astratto, possono essere considerate concentriche, estendendosi dal centro urbano all’interno e alla costa. Ovviamente, com’era sempre nel mondo greco, la costruzione, pur sì carica di valori di astrazione, non era mai totalmente astratta, ma conosceva adattamenti alle reali condizioni del territorio e delle sue singole parti. Il principio era quello di immettere nella nuova base della struttura comunitaria, fondendole nella medesima tribù, frazioni che un tempo avevano fatto blocco con altre località confinanti, spesso in lotta per il potere, il che di fatto equivaleva alla contrapposizione fra consorterie locali capeggiate dalle grandi famiglie (γένη). Ora, invece, con Clistene, ogni tribù conteneva di tutto: la residenza in un determinato demo definiva il cittadino insieme alla sua paternità, al punto che l’onomastica ateniese prevedeva l’indicazione del nome personale, del patronimico e del demotico (i.e. «Temistocle, figlio di Neocle, del demo Frearrio»).

Il nuovo assetto costituzionale impresso da Clistene previde accanto al centro urbano, sempre più sviluppantesi, con funzioni politiche, sociali ed economiche nel corso del V secolo, un’altra componente essenziale: la campagna, il territorio con la sua autonomia locale; oltre ai demi (ciascuno guidato dal suo demarco), il legislatore mantenne le antiche fratrie (φρατρίαι), con funzioni di stato civile, e le vecchie naucrarie (ναυκραρίαι), con funzioni modificate e ridotte.

L’Attica e la Beozia [Funke 2001, 16].

Una delle parole d’ordine della riforma clistenica fu «mescolare», rendere impossibile o inutile la ricerca delle origini familiari, classificare ciascuno secondo il demo, che, attraverso lo strumento intermedio della tribù, costituiva il quadro organizzativo fondamentale della πόλις: perciò, gli organi di governo e le varie istituzioni dovevano rispettare proporzionalmente, e secondo una rotazione, tale organizzazione (Aristot. Athen. Pol. 20-21). Così, ogni tribù doveva fornire un congruo reggimento di opliti (τάξις), guidato dal tassiarco (ταξίαρχος), e uno stratego (στρατηγός); la data di introduzione del collegio dei dieci strateghi è incerta, ma è noto che essi erano in origine eletti uno per tribù e che solo in seguito furono designati tra tutti i cittadini, senza rispettare la divisione clistenica. Fu istituito un consiglio (βουλή) dei Cinquecento, i cui membri erano sorteggiati in numero di cinquanta per ciascuna tribù: questo organo consultivo, costituito da cittadini di età superiore ai trent’anni, sedeva in permanenza, diviso in gruppi di cinquanta, detti πρυτάνεις (antico titolo per «principe»), nelle dieci parti (πρυτανεῖαι, «turni») in cui era suddiviso l’anno amministrativo attico: questo, che andava dal 1° Ecatombeone al 30 Sciforione, cominciava con il primo novilunio dopo il solstizio d’estate; ogni πρυτανεῖα di ciascuna tribù durava 35 o 36 giorni nell’anno di dodici mesi, oppure 38 o 39 giorni nell’anno con un mese intercalare. Ogni giorno un membro diverso del gruppo dei cinquanta assumeva la presidenza del turno con la carica di ἐπιστάτης: tutti costoro, comunque, erano puntualmente sorteggiati per assicurare la necessaria rotazione e il rispetto istituzionale delle regole; perciò, non era possibile essere stati buleuti più di due volte nella vita. La funzione principale della βουλή era quella «probuleumatica», che consisteva nel preparare e introdurre i lavori, ovvero l’ordine del giorno (πρόγραμμα), dell’assemblea: quest’ultima, detta ἐκκλησία, era aperta a tutti i cittadini di età superiore ai vent’anni e, a quest’epoca, si svolgeva in via ordinaria una volta per pritania, tre in via straordinaria (Aristot. Athen. Pol. 43, 3-6).

Anche il collegio degli arconti fu riformato: da questo momento essi furono eletti uno per tribù, mentre la decima forniva il segretario (γραμματεύς) del collegio.

Pittore Brygos. Scena di votazione con ψῆφοι (gettoni) presieduta da Atena. Pittura vascolare su una κύλιξ attica a figure rosse, c. 490 a.C. Malibu, J. Paul Getty Museum.

Non furono abolite nella costituzione clistenica le distinzioni censitarie presenti nella precedente riforma di Solone e in parte anche prima. L’opera di unificazione, redistribuzione e astrazione compiuta da Clistene era diretta contro le spinte corporative di interessi locali, espressi o difesi dall’aristocrazia regionale, non contro il principio dell’efficacia politica della condizione economica e del censo, come parametri generali. Permase, dunque, la distinzione in pentacosiomedimmi, cavalieri, zeugiti e teti; e come le massime cariche, come l’arcontato, erano ancora eleggibili e non sorteggiabili (almeno fino al 487 a.C.), il peso del censo si fece sentire nelle scelte operate dai cittadini.

La riforma di Clistene rivela la preoccupazione di realizzare la piena integrazione della cittadinanza ateniese in un sistema nuovo rispetto a quello tradizionale, in grado di realizzare la «mescolanza» di vari elementi (Aristot. Athen. Pol. 21, 2), spezzando i vincoli clientelari che costituivano la base del potere delle grandi famiglie aristocratiche. Se si riflette sul passo aristotelico che ricorda la divisione dell’Attica, all’epoca dell’ascesa di Pisistrato, in aree geografiche abitate da una popolazione accomunata da interessi economici e strettamente legata a rapporti clientelari, si comprende bene come le nuove tribù clisteniche, create artificialmente, potessero contribuire a ridurre il peso politico dei grandi casati. Certo, gli aristocrati conservarono una serie di privilegi: un ruolo politico significativo fu assicurato loro dalla permanenza del consiglio dell’Areopago, dalla limitazione all’accesso alle magistrature per le prime due classi di censo e dal mantenimento del loro carattere elettivo, nonché l’accesso riservato ad alcuni sacerdozi. Alle più antiche strutture di tipo genetico, quali le fratrie, fu lasciato un ruolo di controllo della parentela legale e quindi sulla legittimità di nascita, presupposto della cittadinanza (πολιτεία), che spettava a quest’epoca a chi era figlio di padre cittadino. Si noti, comunque, che era il demo, non la fratria, a certificare la condizione di cittadinanza davanti alla comunità tutta (Aristot. Athen. Pol. 42).

Il defunto e la sua famiglia. Rilievo su stele funeraria, marmo bianco, c. 375-350 a.C. New York, Metropolitan Museum of Art.

La democrazia clistenica si iscriveva fondamentalmente in una nozione dicotomica del campo delle possibilità politiche, benché, per le strutture che proponeva, costituisse la strada verso sviluppi futuri: il nemico da debellare rimaneva la tirannide, ovvero l’emersione di un uomo forte dall’interno stesso dell’aristocrazia e della carriera oplitica, capace di instaurare forme di potere personale, centralizzato e autoritario. Combattendo la tirannide, la nuova costituzione arginava al tempo stesso le ambizioni e i tentativi di prevaricazione dei gruppi nobiliari. Secondo Aristotele (Athen. Pol. 22, 1), dunque, fu Clistene a escogitare e a istituire un sistema preventivo contro il pericolo della tirannide, l’ostracismo. Questa procedura, molto semplice e democratica, consisteva nel designare, con un voto espresso a maggioranza da almeno 6.000 persone, un individuo ritenuto pericoloso e sovversivo; il voto era espresso, se l’assemblea lo riteneva opportuno, una volta all’anno, durante l’ottava pritania, scrivendo il nome del sospettato su un coccio (ὄστρακον). Il personaggio indiziato, che riceveva il maggior numero di denunce, veniva allontanato dalla città per dieci anni, durante i quali subiva una diminuzione di diritti (ἀτιμία) di carattere parziale: perdeva cioè i diritti politici, mantenendo invece quelli civili (matrimonio, patria potestà, proprietà).

L’agorà di Atene ha restituito un gran numero di ὄστρακα, recanti i nomi di diversi personaggi accusati di ostracismo (una trentina circa), talora con le motivazioni del voto (l’accusa di essere amici dei tiranni o, in seguito, dei Persiani). L’istituzione di questa procedura intendeva, allontanando uomini politici che si rendevano sospetti al popolo, evitare l’instaurazione di una nuova tirannide e favorire l’allentamento delle tensioni politiche: applicata per la prima volta nel 487 circa contro Ipparco di Carmo, parente dei Pisistratidi, e poi per tutto il V secolo, fu molto imitata anche in altre realtà del mondo greco (ad Argo, Megara, Mileto e a Siracusa, dov’era detta “petalismo”). È probabile che l’utilizzo regolare dell’ostracismo abbia contribuito ad assicurare ad Atene una certa stabilità, evitandole fratture civili (στάσεις), che caratterizzarono invece altre città, anche democratiche. Tale stabilità, inoltre, va collegata anche con il fatto che in Atene la democrazia non nacque da una rivoluzione violenta e dalla sopraffazione di una parte sull’altra, ma da una riforma accettata da tutte le parti in causa.

Θεμιστοκλής Νεοκλέους (“Temistocle, figlio di Neocle”). Ostrakon, c. 482 a.C. Atene, Museo dell’Antica Agorà.

A partire da Erodoto (VI 131, 1), Clistene entrò nella tradizione storica come «colui che istituì la democrazia per gli Ateniesi» (τὴν δημοκρατίην Ἀθηναίοισι καταστήσας); così per Aristotele (Athen. Pol. 20, 1) egli fu «colui che consegnò la cittadinanza al popolo» (ἀποδιδοὺς τῷ πλήθει τὴν πολιτείαν). Questo giudizio trova sicuro riscontro nel fatto che, a livello formale, la riforma clistenica assicurò a tutti i cittadini ateniesi il godimento dell’ἰσονομία, l’uguaglianza dei diritti, e l’ἰσηγορία, l’uguaglianza di parola, garantendo a tutti, senza discriminazioni di nascita e di censo, la possibilità di prendere parte agli organi di carattere deliberativo (βουλή ed ἐκκλησία) e giudiziario (il tribunale popolare, ἡλιαία).

Alla luce di quanto si è detto, appare comprensibile che la nascita della democrazia trovasse subito degli oppositori, e che essa presenti una gestazione assai laboriosa, di cui non è facile definire tutti gli aspetti cronologici, soprattutto quando ci si allontani dalle fonti. Clistene doveva aver già elaborato gran parte della sua riforma costituzionale, quando gli si oppose la fazione aristocratica più conservatrice, guidata da Isagora, che trovava inaccettabile il progetto di inserimento del δῆμος nella vita politica. Gli oppositori del legislatore, spalleggiati da re Cleomene I di Sparta, cercarono di abbattere la neonata democrazia: il primo scontro fu vinto da Isagora grazie alla potenza delle armi lacedemoni, che nel 508/7 gli assicurarono l’arcontato; allora, settecento case di partigiani della democrazia furono bandite, compresa quella degli Alcmeonidi. Ma il tentativo di sciogliere d’autorità la βουλή dei Cinquecento nel 507/6 fu respinto dagli Ateniesi, che costrinsero Isagora e Cleomene, assediati insieme ai loro sull’Acropoli, a desistere e richiamarono Clistene e gli altri fuoriusciti. Fu allora che il legislatore, assunto l’arcontato, poté completare e rendere definitiva l’opera di rinnovamento (Hdt. V 66, 1; 70-76; Aristot. Athen. Pol. 20, 1; Marmor Parium, FGrHist 239 A 46; Schol. in Aristoph. Lysis. 273).

Iscrizione della «Legge contro la tirannide». Personificazione di Democrazia che incorona Demos (bassorilievo). Rilievo, marmo, c. 337-376 a.C. da Atene. Museo Archeologico Nazionale di Atene.

Dal 506 gravi minacce si addensarono sul capo della neonata democrazia ateniese. Un nuovo attacco di Cleomene, che intendeva insediare Isagora come tiranno, finì con una ritirata dovuta ai dissensi tra il Lacedemone e l’altro re, Demarato, e alla defezione dei Corinzi; la contemporanea offensiva di Beoti e Calcidesi con l’invasione dell’Attica fu respinta con successo, in seguito al quale Atene insediò sul territorio di Calcide una cleruchia (κληρουχία), una colonia militare di 4.000 cittadini, mantenuti con le rendite fondiarie degli aristocratici locali (i cosiddetti Ippoboti). Più tardi, nel 500, Cleomene tentò nuovamente, in accordo con i Tessali, di abbattere la democrazia ateniese, restaurando il regime di Ippia, ma il piano fallì nuovamente a causa dell’opposizione dei Corinzi. Erodoto (V 78) collegò la crescita della potenza ateniese, messa in evidenza da questi successi, con l’istituzione della democrazia: l’ἰσηγορία, affermava, è un bene prezioso, per difendere il quale l’uomo libero si mobilità con un entusiasmo inedito a chi si trova in stato di servitù (cfr. IG I² 394; Diod. X 24; Paus. I 28, 2; Anth. Pal. VI 343).

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Domizia Longina

Domizia Longina, nata fra il 50 e il 55 d.C. da Cn. Domizio Corbulone e Cassia Longina, sposò in prime nozze L. Elio Plauzio Lamia Eliano. Nel 70 fu costretta dal giovane Domiziano, secondo figlio di Vespasiano, a divorziare dal marito e a sposarsi con lui: dalla relazione ne nacque un figlio, T. Flavio, che però morirà prematuramente non prima dei dieci anni. Quando il cognato Tito venne a mancare, nell’81, Domiziano gli successe al principato e Domizia assurse al rango di Augusta.

Il nuovo principe era un uomo particolarmente geloso, e quando venne a sapere da alcune voci che la moglie lo stesse tradendo con un noto mimo, un certo Paride, fece arrestare e uccidere quest’ultimo e allontanò la sposa, mettendola sotto custodia. Secondo Cassio Dione (67, 3, 1), fu determinante l’intervento L. Giulio Urso, stretto collaboratore di Domiziano, nel sottrarre la donna all’esecuzione pretesa dal marito per il presunto adulterio. La vicenda si consumò fra l’82 e l’83, e in quel periodo l’imperatore pare che avesse intessuto una relazione amorosa con la giovane nipote, Giulia, figlia di Tito, dalla quale avrebbe avuto un figlio, se non l’avesse costretta ad abortire (cosa che la uccise).

Riappacificatosi in seguito con Domizia, la fece richiamare a corte, ripristinandone il rango e l’autorità. Negli anni successivi il principe divenne sempre più sospettoso e malfidente verso tutti, famigliari e collaboratori più intimi compresi, condannando a morte tutti coloro che credeva fossero sleali nei suoi confronti.

T. Flavio Domiziano. Busto, marmo, fine I secolo. Roma, Musei Capitolini.

Secondo Cassio Dione (67, 15, 4), Domizia trovò il proprio nome iscritto in una lista di sospetti; così portò il documento ai prefetti del pretorio T. Flavio Norbano e T. Petronio Secondo. Insieme architettarono una congiura e il 18 settembre 96 d.C. insieme al liberto Stefano, al segretario Partenio e alcuni altri, assassinarono l’imperatore. Domizia morì fra il 126 e il 130 d.C. Le venne dedicato un tempio a Gabii, come attesta un’iscrizione ivi rinvenuta nel 1792 (CIL 14, 2795 [p. 493] = ILS 272 = AE 2000, +251).

Fra i bronzi rinvenuti a Brescia nel 1826, nell’intercapedine tra il tempio capitolino e il colle Cidneo retrostante, in uno è ritratta una donna di età matura, con volto pieno, dalla caratteristica pettinatura tipica della moda di Roma nella seconda metà del I secolo d.C. La maggior parte degli studiosi è concorde nell’identificarvi il volto di Domizia Longina, moglie di Domiziano. Indubbiamente il ritratto deve essere coevo al suo principato (81-96 d.C.), durante il quale nelle acconciature femminili si usava applicare una sorta di toupet formato da riccioli a chiocciola sulla parte frontale del capo, mentre nella parte posteriore della nuca i capelli venivano raccolti in sottili trecce disposte a formare uno chignon.

Domizia Longina. Testa, bronzo, fine I sec. d.C. ca. dall’intercapedine del tempio capitolino. Brescia, Museo di S. Giulia.

La testa è alta 40 cm e doveva appartenere a una statua, come suggeriscono la presenza di un frammento di veste visibile sul collo e la frattura sul lato posteriore, dovuta al distacco violento dal resto del corpo. È realizzato con la tecnica della fusione a cera persa e dimostra una buona qualità di esecuzione: non si vedono, infatti, le tracce lasciate dal processo di fusione e i dettagli sono stati abilmente lavorati a freddo con strumenti diversi, come si evince dalle ciocche dei capelli e dalle trecce. Gli occhi sono stati realizzati in avorio e le iridi in pietra dura, mentre le ciglia sono state tracciate a freddo. Il reperto si trova oggi conservato a Brescia, presso il Museo di S. Giulia.

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Πρῶτοι εὑρεταί: dèi, eroi, uomini

trad. it. a cura di F. Cerato di L. Zhmud, The Origin of the History of Science in Classical Antiquity, Berlin-New York 2006, 23-29.

In linea teorica, uno studio sulle origini della Scienza nel mondo antico dovrebbe partire dal momento in cui Storia e Scienza si sono incontrate per la prima volta, ovvero da una rassegna delle scoperte scientifiche avvenute nel passato. Il punto, tuttavia, è che tali resoconti erano ignoti prima della seconda metà del IV secolo a.C., mentre gli sporadici accenni che gli storici (primo tra tutti Erodoto) fecero delle acquisizioni scientifiche non appartenevano tanto alla storiografia quanto all’eurematografia. Ma questo non è l’unico motivo per considerare l’eurematografia – genere assolutamente non scientifico e che ben poco ha da offrire alla ricerca storica – come uno dei prototipi della divulgazione scientifica. Ciononostante, essa ha sollevato la questione di come si originano e si trasmettono le conoscenze e le capacità pratiche molto prima della comparsa della storia della scienza, e le varie soluzioni risalgono ai suoi albori. Ecco perché le origini dell’interesse verso i πρῶτοι εὑρεταί, comune ad entrambi i generi, possono essere ricondotte a questo materiale “primitivo”.

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L’interesse per il passato è un elemento insito, in varia misura, in tutte le società umane, comprese quelle pre-letterate. Le sue manifestazioni nell’antichità sono state assai varie, ma nel complesso si sono inserite dagli interpreti nella tipologia, ormai da tempo elaborata, del folklore e dei primissimi generi letterari. Tra quelli folcloristici vanno citati innanzitutto i miti cosmogonici ed eziologici, e quindi l’epica eroica, che in molte culture, anche se non in tutte, divenne il primo genere letterario. Un altro filone, assai precoce e significativo, è quello della cronaca storica, caratteristico, per esempio, della civiltà cinese e, in misura minore, di quella giudaica. Naturalmente l’elenco dei generi non esaurirebbe la varietà di interrogativi che gli antichi si posero sul loro passato, ma semplicemente ridurrebbe la presente analisi a una serie di temi definiti che hanno suscitato un interesse costante e hanno portato alla formazione di generi specifici. Perciò, un mito cosmogonico rispondeva alla domanda sull’origine dell’universo, un mito eziologico spiegava l’origine di particolari aspetti di una civiltà, ovvero un mestiere o un prodotto importante in una determinata cultura, come la birra a Sumer o il vino in Grecia. L’epica eroica e, più tardi, la cronaca, raccontavano cose ancora più rilevanti: le imprese gloriose degli antenati.

Pittore Antifonte. Un artigiano decora un elmo (particolare). Pittura vascolare su cratere attico a figure rosse, c. 480 a.C.

L’antica Grecia, la cui storia letteraria e culturale inizia con l’epica omerica ed esiodea, manifesta le medesime tendenze. L’Iliade racconta le gesta eroiche degli Achei e dei Troiani, la Teogonia, con il suo peculiare approccio “genealogico”, descrive l’origine del mondo abitato dagli dèi e dagli uomini. Ma l’interesse verso il passato che caratterizza l’epica arcaica non è identico a quello storiografico strictu sensu: il primo si accontenta delle leggende sugli dèi e sugli eroi; il secondo, orientato principalmente agli uomini e alle loro imprese, cerca di spiegare il presente collegandolo al passato. Nonostante l’unicità delle epopee omeriche ed esiodee, esse hanno ben poco che faccia pensare che i loro autori avessero un interesse propriamente storico. È naturale, quindi, non trovare né in Omero né in Esiodo alcuna traccia di una tradizione sui πρῶτοι εὑρεταί e le relative invenzioni (Erren 1981; Schneider 1989).

La prima testimonianza superstite sui πρῶτοι εὑρεταί si trova in un frammento della Foronide, un poema epico del VII secolo dedicato alle gesta di Foroneo e ad altre leggende dell’Argolide arcaica (Schol. Apoll. Rhod. I, 1129-1131b). Tra l’altro, in esso si parla anche dei Dattili Idei (Δάκτυλοι Ἰδαῖοι), creature mitiche che prendevano il nome dalla catena montuosa dell’Ida in Troade (Hemberg 1952).

Pittore della fonderia. Un fabbro e il suo servo alla fornace. Pittura vascolare a una κύλιξ attica a figure rosse, c. 490-480 a.C. da Vulci. Berlin, Antikensammlung.

In origine, questi Dattili erano rappresentati come fabbri-nani, ma nella Foronide assunsero una forma del tutto diversa. Innanzitutto, l’aedo li considerava dei maghi frigi (γόητες Ἰδαῖοι, / Φρύγες ἄνδρες), i primi ad aver inventato il mestiere di fabbro (οἳ πρῶτοι τέχνηις πολυμήτιος Ἡφαίστοιο / εὗρον). Sebbene la questione del πρῶτος εὑρετής sia di per sé nuova ([Hes.] F 282 M-W, Rzach 1912, Schwartz 1960), essa viene applicata al materiale tradizionale, pur in qualche modo rimaneggiato: dagli antichissimi fabbri-nani, dunque, i Dattili dell’Ida si trasformarono stregoni, scopritori dell’arte patrocinata da Efesto. In seguito, tale funzione sarebbe stata attribuita al medesimo dio, considerato egli stesso il “primo inventore” (secondo uno schema abbastanza consolidato). Ma l’autore della Foronide, pur ritenendo che la metallurgia costituisse «l’arte dell’astuto Efesto», ne riferì la scoperta a degli “esperti stranieri” (frigi, appunto), dotati comunque di qualità soprannaturali. La tecnologia del metallo fu così trasferita dalla sfera divina all’ambito umano, per quanto curiosa e insolita fosse la comunità in questione, e assegnata a una civiltà limitrofa a quella greca (Hemberg 1950, Dasen 1993).

Interpretando questa testimonianza secondo il metodo della razionalizzazione evemeristica del mito, vi si potrebbe ravvisare una reminiscenza della storia reale, ossia di come la metallurgia del ferro, scoperta dagli Ittiti, si sia diffusa dall’Asia Minore alla Grecia. Sarebbe comunque infondato supporre che l’autore della Foronide, attivo ad Argo all’inizio del VII secolo, abbia sentito parlare di questa storia o si sia interessato ad essa. Le prime ricerche dei πρῶτοι εὑρεταί si concentravano, notoriamente, non tanto sulla loro identità e sul loro retroterra storico, quanto sui risultati tecnici e culturali in quanto tali (Thraede 1962; Thraede 1962a): «X scoprì Y» è una formula tipica dell’eurematografia, che riporta semplicemente il nome dell’inventore e, in rarissimi casi, la sua provenienza. Il momento della scoperta non è quasi mai registrato, né tanto meno le circostanze, mentre lo scopritore stesso risulta ben lungi dall’essere una figura concreta. Nella tradizione eurematografica, pervenuta attraverso i cataloghi delle scoperte di epoca imperiale, gli dèi-artefici (Atena, Apollo, Demetra, Efesto) e gli eroi culturali (Trittolemo, Palamede, Dedalo, ecc.) sono stati pressoché accostati agli altri due grandi categorie: i personaggi realmente esistiti (Fidone, Stesicoro, Talete, ecc.) e le città greche e le nazioni barbariche.

Pittore Antimene. Incontro fra Dioniso ed Efesto sulla strada per l’Olimpo. Pittura vascolare su anfora attica a figure nere, c. 520 a.C. Baltimore, Walters Art Museum.

Che il passaggio dell’eurematografia dalla mitografia alla narrazione di eventi reali sia avvenuto gradualmente, ma sia rimasto essenzialmente incompiuto, non sorprende. La storiografia greca, rappresentata da Ecateo di Mileto, Erodoto di Alicarnasso ed Ellanico di Lesbo, seguì lo stesso percorso. In assenza di testimonianze scritte e di metodi adeguati all’analisi delle fonti, l’eurematografia (così come la storiografia) avrebbe potuto diventare “storica” unicamente rivolgendosi agli avvenimenti recenti o contemporanei. Quando si cercava di “ricostruire” il passato remoto così come era stato registrato, all’occorrenza, dalla tradizione orale, si ricorreva alle combinazioni più fantasiose: «Quanto più arbitraria era la prima supposizione, tanto maggiori erano le possibilità che venisse accolta come vera» (Thraede 1962a).

Di conseguenza, il significato delle testimonianze sui Dattili Idei non sta nell’indicare i reali inventori della lavorazione dei metalli; anzi, oltre a marcare il terminus ante quem del periodo in cui si manifestò l’interesse per i πρῶτοι εὑρεταί, il racconto contiene in nuce due importanti tendenze che si sarebbero sviluppate in seguito: innanzitutto, la graduale e incompleta sostituzione degli dèi con figure semi-divine o eroiche e poi con persone; in secondo luogo, la propensione dei Greci ad attribuire le invenzioni, comprese le proprie, ai vicini orientali. Non si trattò di un fenomeno uniforme; talvolta le grandi innovazioni furono attribuite a personaggi alterni. A seconda della mentalità del pubblico, delle peculiarità di ogni singola opera, degli scopi e delle attitudini dell’autore e, non da ultimo, del carattere dell’invenzione stessa, di volta in volta figure diverse erano poste in primo piano (cfr. Hec. FGrHist 1 F 20, Andron. FGrHist 10 F 9, Scam. FGrHist 476 F 3). Un personaggio di una tradizione più antica, che era finito in secondo piano, poteva riapparire accanto agli inventori più recenti. Se l’eurematografia registra, nel complesso, poche scoperte “umane” rispetto a quelle associate a divinità ed eroi, ciò è dovuto alla naturale inclinazione a riferire gli inizi della civiltà all’aiuto divino e all’oscurità e all’anonimato dei veri inventori del passato. Bisogna anche tener conto della propensione, propria della letteratura epidittica, a onorare gli artefici divini, attribuendo loro il maggior numero possibile di acquisizioni; nei tardi cataloghi delle scoperte, tale tendenza portava ad attribuire la stessa invenzione a diversi dèi ed eroi, di solito senza mettere in atto alcun tentativo di far combaciare le versioni che si escludevano a vicenda (Thraede 1962, Cole 1966).

Diego Velázquez, La fucina di Vulcano. Olio su tela, 1630. Madrid, Museo del Prado.

Dalla fine del V secolo in poi, la letteratura tecnica che si occupava prima della storia della poesia e della musica e poi di quella della filosofia, della scienza e della medicina ridimensionò al minimo la componente divina ed eroica delle scoperte. Mentre la storia della musica, in particolare quella delle sue prime fasi, proponeva ancora i nomi di Orfeo, Museo o Marsia, le storie della filosofia, dell’astronomia e della geometria includevano solo personaggi storici realmente esistiti. Da questo punto di vista, in effetti, la storiografia peripatetica si rivela ancor più rigorosa di molte opere simili del XVII e persino del XVIII secolo, con resoconti sull’astronomia inizianti con Atlante, Urano e altre figure mitologiche. Certo, nell’antichità la storicità della trattazione dipendeva non tanto dal momento in cui una determinata opera era stata composta, quanto dal suo genere. L’autore di un encomio, di un inno, di una tragedia o di un trattato Sulle scoperte (Περὶ εὑρημάτων) raramente si sarebbe preoccupato dell’attendibilità delle informazioni riportate. In ambiti come la dossografia o la storia della scienza, di solito gli autori evitavano di riprodurre storie palesemente inventate, sebbene riprendessero trovate altrui.

C’è un’altra ragione per cui la sequenza “dei : eroi : uomini” non era rigorosamente lineare. In Omero ed Esiodo e, naturalmente, prima di loro, gli dèi greci erano rappresentati non come i primi scopritori, ma come «donatori di beni», patroni di mestieri che avevano insegnato agli uomini (cfr. Od. VI 232-234, ἀνὴρ / ἴδρις, ὃν Ἥφαιστος δέδαεν καὶ Παλλὰς Ἀθήνη / τέχνην παντοίην, «… un artefice esperto, che Pallade Atena ed Efesto iniziarono ai segreti dell’arte»; cfr. Od. XX 72): essi divennero πρῶτοι εὑρεταί solo dopo che la fama degli inventori umani si era ormai diffusa in tutto il mondo ellenico. La curiosità nei confronti dei primi scopritori in senso assoluto, cioè di coloro che avevano inventato la metallurgia, l’agricoltura, la scrittura o la musica, si risvegliò man mano, stimolata dalla crescente attenzione per le innovazioni in quanto tali e per la questione della priorità nella loro realizzazione. Sebbene il rapido sviluppo sociale e culturale della Grecia tra IX e VII secolo a.C. abbia portato a molte scoperte in tutte gli ambiti della vita, occorse un certo lasso di tempo perché l’interesse specifico nei loro confronti sorgesse e si affermasse. A giudicare dalle testimonianze pervenute, i veri creatori di innovazioni tecniche e culturali – inventori, poeti, musicisti, pittori, scultori – si imposero all’attenzione pubblica soltanto all’inizio del VII secolo.

Pittore Nicone. Un poeta con barbiton. Pittura vascolare da un λήκυθος attico a figure rosse, c. 460-450 a.C. New York, Metropolitan Museum of Art.

A tal proposito, è significativo un frammento di uno dei primi lirici, Alcmane, in cui egli professa la propria ammirazione per coloro che l’hanno preceduto, che «insegnarono agli uomini suoni meravigliosi, dolci e nuovi» (Alcm. F 4. I, 4-6 Page, σαυ]μαστὰ δ᾿ ἀνθ[ρώποισ(ι)]… / γαρύματα μαλσακὰ̣ … / νεόχμ᾿ ἔδειξαν). Il lessico di questo frammento, e in particolare l’espressione ἀνθ[ρώποισ(ι)]… / ἔδειξαν, è molto vicino a quello utilizzato nella tradizione sui πρῶτοι εὑρεταί (Davies 1986), benché il motivo del primo scopritore sia qui solo implicito. Sebbene i poeti antichi avessero proposto sonorità inedite, Alcmane doveva avere in mente la loro originalità relativa piuttosto che quella assoluta: i concetti di πρῶτοι e εὗρον, però, mancavano ancora. In un altro frammento, invece, compare l’espressione ϝέπη τάδε καὶ μέλος Ἀλκμὰν εὗρε (Alcm. F 39 Page), con la quale il poeta sembra rivendicare per sé lo status di “primo scopritore”. L’Inno omerico a Ermes (Hom. Hymn. IV 24-61) attribuisce al dio l’invenzione della lira a sette corde, sebbene, al tempo in cui fu composto, esistesse una leggenda che conferiva il merito della scoperta a Terpandro (Schmid, Stählin 1974, Janko 1982) e il dio non fosse comunemente associato alla musica (Pind. F 125 Snell).

La graduale trasformazione degli dèi in primi scopritori è confermata dall’Inno omerico ad Afrodite (Hom. Hymn. V 12-15): qui Atena è indicata come colei che per prima insegnò (πρώτη… ἐδίδαξε) agli artigiani l’arte di fabbricare carri e carrozze e alle ancelle quella dei lavori domestici (probabilmente la tessitura); benché πρώτη, il merito della dea non era tanto l’invenzione dei mestieri, quanto la loro divulgazione agli uomini (Hom. Hymn. XX 2-3, Solon. F 13, 49, Pind. Ol. VIII 50-51, Orph. H. F 178-179 Kern). Se, in seguito, le città greche rinomate per le loro attività artigianali furono accreditate dell’invenzione di cose precedentemente considerate sotto il patrocinio divino (DK 88 B 1, 10, 12, Pind. Ol. XIII 18, cfr. Hdt. I 23), ciò non significa affatto che in origine il πρῶτος εὑρετής fosse stato elaborato sul materiale mitologico e applicato solo agli dèi (Schol. in Oppian. halieutica I 78).

Noël Coypel, Apollo e Mercurio. Olio su tela, 1688. Château de Versailles.

Dal momento che la letteratura greca prima del VI secolo è costituita solo da generi poetici, naturalmente sono meglio note le vicende degli innovatori della musica e della poesia. Quando Glauco di Reggio (fine del V secolo) tentò nel suo Περὶ τῶν ἀρχαίων ποιητῶν τε καὶ μουσικῶν (Sugli antichi poeti e musicisti, cfr. [Plut.] De musica IV 1132e; VII 1133f) una delle prime sistemazioni dell’arte greca, raccontò soprattutto chi aveva inventato cosa, chi aveva preso in prestito cosa da chi, ecc. Eppure, la tradizione orale ed epigrafica conservatasi fino a tempi successivi dimostra che si registravano pure le invenzioni in altri settori. Per esempio, il tiranno argivo Fidone (prima metà del VII secolo), ritenuto l’inventore di un avanzato sistema di pesi e misure, i cosiddetti Φειδών[ε]ια μέτρα (Hdt. VI 127, Her. Pont. F 152, Aristot. Pol. 1310b, 19-20, Ephor. FGrHist 70 F 115, 176), superò in fama l’eroe Palamede (cfr. Senof. 21 B 4, Hdt. I 94); così Aminocle di Corinto, inventore della trireme, fu invitato a costruire navi a Samo intorno alla metà del VII secolo, o forse anche prima (cfr. Thuc. I 13, 3). Dagli inizi del VII secolo, vasai, ceramografi e scultori cominciarono a firmare le loro opere (Jeffery 1990, Philipp 1968, Walter-Karydi 1999), al punto da essere ritenuti i πρῶτοι εὑρεταί nella propria arte (Thraede 1962a). Per esempio, Butade di Sicione (VII secolo), il leggendario inventore della ceroplastica, le cui opere, firmate e dedicate al tempio, si conservarono a Corinto fino all’epoca ellenistica (Robert 1897, Fuchs, Floren 1987); Glauco di Chio (inizi VI secolo), un rinomato artigiano, che Erodoto identificò come l’inventore della saldatura del ferro (σιδήρου κόλλησις), realizzò e firmò un cratere d’argento, che più tardi il re lidio Aliatte dedicò a Delfi (Hdt. I 25, cfr. Paus. X 2-3); Mandrocle di Samo, l’architetto che progettò il ponte sul Bosforo per la spedizione di Dario contro gli Sciti (513 a.C.), ritornato in patria, investì parte della sua generosa ricompensa per commissionare un quadro del ponte, che dedicò al tempio di Hera e lo corredò con un epigramma menzionante il suo nome (Hdt. IV 87-89).

Queste testimonianze, seppur parziali, di età arcaica attestano che la ricerca dei πρῶτοι εὑρεταί rifletteva una controversia sulla loro precedenza temporale – questione tipica della cultura greca. Allo stesso modo, le vicende dei primi scopritori riflettono il problema della priorità di ogni genere di innovazione sociale, culturale e tecnica – un aspetto molto più ampio affrontato sia dall’eurematografia sia dalla storiografia scientifica.

Carpentiere all’opera (dettaglio). Affresco, ante 79, dalla casa dei Vettii, Pompei.

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Riferimenti bibliografici:

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Dasen 1993 = V. Dasen, Dwarfs in Ancient Egypt and Greece, Oxford 1993.

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Erren 1981 = M. Erren, Die Geschichte der Technik bei Hesiod, in. W. Marg, G. Kurz, D. Müller, W. Nicolai (eds.), Gnomosyne. Menschliches Denken und Handeln in der frühgriechischen Literatur. Festschrift für Walter Marg zum 70. Geburtstag, München 1981, 155-166.

Fuchs, Floren 1987 = W. Fuchs, J. Floren, Die griechische Plastik, 1. Die geometrische und archaische Plastik, München 1987.

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Jeffery 1990 = L.H. Jeffery, The Local Scripts of Archaic Greece: A Study of the Origin of the Greek Alphabet and Its Development from the Eighth to the Fifth Centuries B.C., Oxford 1990².

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Philipp 1968 = H. Philipp, Tektonon Daidala, Berlin 1968.

Robert 1897 = C. Robert, s.v. Butades, RE 3 (1897), 1079.

Rzach 1912 = A. Rzach, s.v. Hesiod, RE 8 (1912), 1167-1240.

Schmid, Stählin 1974 = W. Schmid, O. Stählin, Geschichte der griechischen Literatur, I, München 1974.

Schneider 1989 = H. Schneider, Das griechische Technikverständnis, Darmstadt 1989.

Schwartz 1960 = J. Schwartz, Pseudo-Hesiodea : Recherches sur la composition, la diffusion et la disparition ancienne d’œvres attribuées à Hésiode, Leiden 1960.

Thraede 1962 = K. Thraede, Das Lob des Erfinders. Bemerkungen zur Analyse der Heuremata – Kataloge, RhM 105 (1962), 158-186.

Thraede 1962a = K. Thraede, s.v. Erfinder II, RLAC 5 (1962), 1191-1278.

Walter-Karydi 1999 = E. Walter-Karydi, Die Entstehung des beschrifteten Bildwerks, Gymnasium 106 (1999), 289-317.

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Zhmud 2001 = L. Zhmud, Πρῶτοι εὑρεταί – Götter oder Menschen?, ANR 11 (2001), 9-21.

La battaglia di Teutoburgo – settembre 9 d.C. (Vell. II 117-119)

Nel 9 d.C., l’esperto generale romano Publio Quintilio Varo, governatore della Germania, seguendo le informazioni fornite da Arminio, fidato comandante cherusco e praefectus di un contingente di auxilia germanico, si pose alla guida di un’armata per reprimere una rivolta scoppiata all’estremità settentrionale dell’Impero in un territorio solo parzialmente sottomesso. Anziché incontrare gli attesi rinforzi promessi dai Cherusci, Varo cadde in un’imboscata, approntata nientemeno che dallo stesso Arminio, nella foresta di Teutoburgo. Circondato su tre lati da pendici boscose, paludi e terrapieni erbosi, l’esercito romano resse l’urto iniziale; durante la marcia in territorio “amico”, le truppe si erano però distanziate in modo talmente disordinato da rendere in definitiva impossibile un disimpegno. I continui attacchi “mordi e fuggi” degli assalitori germanici aumentarono la confusione e il panico nei ranghi di Varo e solo alcuni soldati superstiti riuscirono a riattraversare il Reno. Il sito della catastrofe (clades Variana) è stato localizzato dagli studiosi nei pressi dell’altura di Kalkriese, vicino a Osnabrück.

La distruzione di tre “invincibili” legioni romane a opera dei “barbari” germani scosse Roma fin nel profondo. La battaglia della foresta di Teutoburgo (saltus Teutoburgensis), passata alla storia come una delle più importanti in assoluto, cambiò effettivamente il corso della storia. Secondo Svetonio (Aug. 23, 2), come ricevette la notizia, il princeps avrebbe iniziato a battere violentemente la testa contro le pareti, gridando: Quinctili Vare, legiones redde! («Quintilio Varo, rendimi le legioni!»). Il numero delle unità coinvolte – XVII, XVIII e XIX – non furono mai più utilizzati, in parte per vergogna e in parte per superstizione.

The Varian disaster, 9 CE. Illustrazione di A. McBride.

Il biasimo, comunque, non è da attribuire ai soldati: secondo il contemporaneo Velleio Patercolo, la responsabilità ultima della disgregazione e della distruzione dell’esercito di Varo era dovuta alla mediocrità dello stesso comandante e alla codardia dimostrata dai suoi subalterni. Quella che segue è la versione dei fatti trasmessa dallo storico (Vell. II 117-119):

Tantum quod ultimam imposuerat Pannonico ac Delmatico bello Caesar manum cum intra quinque consummati tanti operis dies funestae ex Germania epistulae caesi Vari trucidatarumque legionum trium totidiemque alarum et sex cohortium ***, velut in hoc saltem tantummodo indulgente nobis Fortuna, ne occupato duce ‹tanta clades inferretur. Sed› et causa ‹et› persona mora exigit.

Varus Quintilius nobili magis quam inlustri ortus familia, vir ingenio mitis, moribus quietus, ut corpore ita animo immobilior, otio magis castrorum quam bellicae adsuetus militiae, pecuniae vero quam non contemptor Syria, cui praefuerat, declaravit, quam pauper divitem ingressus dives pauperem reliquit; is cum exercitui qui erat in Germania praeesset, concepit a se homines qui nihil praeter vocem membraque habent hominum, quique gladiis domari non poterant, posse iure mulceri. Quo proposito mediam ingressus Germaniam velut inter viros pacis gaudentes dulcedine iurisdictionibus agendoque pro tribunali ordine trahebat aestiva. At illi, quod nisi expertus vix credat, in summa feritate versutissimi natumque mendacio genus, simulantes fictas litium series et nunc provocantes alter alterum in iurgia, nunc agentes gratias quod ea Romana iustitia finiret feritasque sua novitate incognitae disciplinae mitesceret et solita armis decerni iure terminarentur, in summam socordiam perduxere Quinctilium, usque eo ut se praetorem urbanum in foro ius dicere, non in mediis Germaniae finibus exercitui praeesse crederet.

Tum iuvenis genere nobilis, manu fortis, sensu celer, ultra barbarum promptus ingenio, nomine Arminius, Segimeri principis gentis eius filius, ardorem animi vultu oculisque praeferens, adsiduus militiae nostrae prioris comes, ‹cum› iure etiam civitatis Rom‹an›ae ius equestris consecutus gradus, segnitia ducis in occasionem sceleris usus est, haud imprudenter suspicatus neminem celerius opprimi quam qui nihil timeret, et frequentissimum initium esse calamitatis securitatem. Primo igitur paucos, mox plures in societatem consilii recepit; opprimi posse Romanos et dicit et persuadet, decretis facta iungit, tempus insidiarum constituit. Id Varo per virum eius gentis fidelem clarique nominis, Segesten, indicatur. Postulabat etiam ‹vinciri socios. Sed praevalebant iam› fata consiliis omnemque animi eius aciem praestrinxerat; quippe ita se res habet ut plerumque cui fortunam mutaturus ‹est› deus consilia corrumpat, efficiatque, quod miserrimum est, ut quod accidit id etiam merito accidisse videatur et casus in culpam transeat. Negat itaque se credere spe‹cie›mque in se benevolentiae ex merito aestimare profitetur. Nec diutius post primum indicem secundo relictus locus.

Ordinem atrocissimae calamitatis, qua nulla post Crassi in Parthis damnum in externis gentibus gravior Romanis fuit, iustis voluminibus ut alii ita nos conabimur exponere: nunc summa deflenda est. Exercitus omnium fortissimus, disciplina, manu experientiaque bellorum inter Romanos milites principes, marcore ducis, perfidia hostis, iniquitate Fortunae circumventus, cum ne pugnandi quidem egrediendive occasio iis, in quantum voluerant, data esset immunis, castigatis etiam quibusdam gravi poena quia Romanis et armis et animis usi fuissent, inclusus silvis paludibus insidiis ab eo hoste ad internecionem more pecudum trucidatus est quem ita semper tractaverat ut vitam aut mortem eius nunc ira nunc venia temperaret. Duci plus ad moriendum quam ad pugnandum animi fuit; quippe paterni avitique exempli successor se ipse transfixit. At e praefectis castrorum duobus quam clarum exemplum L. Eggius, tam turpe Ceionius prodidit, qui, cum longe maximam partem absumpisset acies, auctor deditionis supplicio quam proelio mori maluit. At Vala Numonius, legatus Vari, cetera quietus ac probus, diri auctor exempli, spoliatum equite peditem relinquens fuga cum alis Rhenum petere ingressus est; quod factum eius Fortuna ulta est; non enim desertis superfuit sed desertor occidit. […] Vari corpus semiustum hostis laceraverat feritas; caput eius abscisum latumque ad Maroboduum et ab eo missum ad Caesarem gentilicii tamen tumuli sepultura honoratum est.

Cenotafio di Marco Celio, centurione della legio XVIII (CIL XIII 8648). Edicola con iscrizione, c. 9-14, da Colonia Ulpia Traiana (od. Xanten). Bonn, Rhein. Landesmus.

«Cesare aveva appena portato a termine la campagna dalmato-pannonica, quando, cinque giorni dopo che si era conclusa questa così grande impresa, delle lettere di malaugurio dalla Germania recarono la notizia che Varo era stato ucciso ed erano state massacrate tre legioni, altrettanti squadroni di cavalleria e sei coorti [ausiliarie]***, come se, almeno riguardo a ciò, soltanto la Sorte fosse stata benevola verso di noi, non ci sarebbe stato il pericolo che, impegnato il comandante, ci venisse inferta una simile disfatta. Ma i prodromi [di questa sciagura] e il personaggio richiedono che io mi soffermi un poco.

Quintilio Varo, nato da una famiglia più illustre che nobile, era un uomo di indole mansueta, tranquillo di carattere, alquanto lento sia nel corpo sia nella mente, avvezzo più all’inattività nell’accampamento che alle fatiche della guerra; ma che non disprezzasse il denaro, invero, lo provò la provincia di Siria, della quale era stato governatore, dove entrò povero e se ne uscì ricco, lasciando la regione povera da che era ricca; egli, allorché ebbe assunto il comando dell’armata di stanza in Germania, credette che fossero uomini quegli esseri che non avevano nulla di umano fuorché la voce e le membra e che quelli che non potevano essere domati con le armi, potessero essere ammansiti con il diritto. A questo scopo, penetrato nel cuore della Germania, come se [si trovasse] fra persone che godevano dei frutti della pace, conduceva la campagna estiva amministrando la giustizia civile e presiedendo i tribunali.

Eppure quelli [= i Cheruschi] – cosa che si stenta a credere, senza averne fatta personale esperienza – astutissimi pur nella massima rozzezza, razza nata per la menzogna, simulando una serie di finte querele, ora provocandosi a vicenda in contese e ora mostrandosi riconoscenti, perché quelle fossero ricomposte dalla giustizia romana, la loro indole selvaggia fosse addolcita dalla novità di una disciplina sconosciuta e fossero determinate col diritto quelle cose che si era soliti decidere con le armi, ridussero Quintilio ad un’eccessiva indolenza, al tal punto che egli credeva di esercitare il diritto nel foro come un pretore urbano anziché di avere il comando di un esercito nel bel mezzo della Germania.

Fu allora che un giovane di nobile stirpe, di nome Arminio – figlio di Sigimero, capo di questa tribù, vigoroso, acuto di mente, d’ingegno superiore a quello di un barbaro, che mostrava nello sguardo e nel volto l’ardore del suo animo, fedele compagno d’armi nella nostra precedente campagna, gratificato del diritto di cittadinanza romana, conseguendo anche i diritti dell’ordine equestre – approfittò dell’indolenza del generale per ordire il suo misfatto, poiché non senza saggezza aveva considerato che nessuno può essere eliminato più rapidamente di chi non ha nessun timore e che la troppa sicurezza molto spesso sia il principio di una disgrazia. Dapprima fece partecipi del suo piano pochi dei suoi, poi molti altri. Disse – e li convinse – che i Romani potevano essere schiacciati; fece seguire alla decisione l’azione, stabilì il momento opportuno per l’agguato. Ciò venne riferito a Varo da un uomo fidato, originario di quella gente dal nome illustre, Segeste. Chiedeva anche di ‹arrestare i cospiratori, ma ormai› il destino ‹prevaleva› sulle decisioni [poiché] aveva completamente offuscato il lume della ragione. Così, infatti, vanno le cose che per lo più la divinità, quando intende cambiare la Fortuna di qualcuno, gli sconvolge la mente e fa in modo che – e questa è la cosa più triste – quanto accade gli sembra essere accaduto anche giustamente e la sfortuna si tramuta in colpa. Varo si rifiuta di credergli e dichiara di sperare [da parte dei Germani] in una buona disposizione nei suoi riguardi, adeguata ai meriti. Non rimase ancora tempo, dopo il primo avvertimento, per riceverne un altro.

Anch’io, come altri [scrittori], cercherò di esporre in un’opera di maggior respiro le circostanze dettagliate di quest’orribile disgrazia che causò ai Romani la perdita più grave in terra straniera, dopo quella di Crasso presso i Parti: ora devo accontentarmi di deplorarla sommariamente. L’esercito più forte di tutti, primo tra le truppe romane per disciplina, coraggio ed esperienza in guerra, si trovò intrappolato, vittima dell’indolenza del suo comandante, della perfidia del nemico, dell’iniquità della Sorte e, senza che fosse stata data ai soldati nemmeno la possibilità di tentare una sortita e di combattere liberamente, com’essi avrebbero voluto, poiché alcuni furono anche puniti severamente per aver fatto ricorso alle armi e al coraggio, da veri Romani, chiuso da un’imboscata tra le selve e le paludi, fu ridotto allo sterminio da quel nemico che aveva sempre sgozzato come bestie al punto da regolare la sua vita e la sua morte ora con collera, ora con pietà. Il generale mostrò nella morte maggior coraggio di quanto ne avesse mostrato nel combattere: erede, infatti, dell’esempio del padre e del nonno si trafisse con la sua stessa spada. Ma dei due prefetti del campo, Lucio Eggio lasciò un esempio tanto illustre quanto fu vergognoso quello di Ceionio, il quale, quando la battaglia aveva già portato via la maggior parte dei suoi, propose di arrendersi e preferì morire tra le torture invece che in combattimento. Quanto a Vala Numonio, luogotenente di Varo, per il resto uomo tranquillo e onesto, fu autore di uno scelleratissimo esempio, abbandonando i cavalieri che erano stati privati del cavallo e ridotti a piedi, cercò di fuggire con gli altri verso il Reno. La fortuna, però, fece vendetta del suo gesto. Non sopravvisse, infatti, a quelli che aveva tradito, e morì da traditore. […] La furia selvaggia dei nemici bruciò a metà il corpo di Varo e lo fece a pezzi. La sua testa mozzata e mandata a Maroboduo, che poi la inviò a Cesare, ebbe tuttavia gli onori della sepoltura nella tomba di famiglia».

The Battle of Teutoburg Forest (Germany, AD 9). Illustrazione di A. McBride.

Una delle conseguenze del disastro di Teutoburgo fu il definitivo abbandono dei piani per un eventuale controllo della Germania Magna. Roma non effettuò ulteriori tentativi di annessione dei territori transrenani e per i successivi quattro secoli il fiume segnò il confine dell’Impero romano.

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Il “Commentariolum petitionis”: una guida per le elezioni consolari

Il Commentariolum petitionis, attribuito a Quinto Tullio Cicerone, costituisce un documento di eccezionale importanza, un vero e proprio manuale su come vincere le elezioni. L’autore fornisce al fratello Marco, candidatosi per il consolato del 63 a.C., una serie di consigli e raccomandazioni, descrivendo nei minimi dettagli ogni comportamento e gesto che avrebbe dovuto tenere nei confronti dell’elettorato. Per conseguire la magistratura suprema l’interessato doveva assicurarsi solide basi che sostenessero la sua causa e, in particolare, non poteva fare a meno dell’appoggio degli amici: allargare la propria cerchia di conoscenti voleva dire guadagnarsi nuovi alleati, persone con le quali solo in certi casi si creavano dei legami affettivi che trascendessero l’aspetto politico; era fondamentale, oltretutto, ottenere l’amicitia di uomini di ogni ceto sociale e soprattutto riscuotere il favore delle personalità più cospicue, le quali solo con il loro nome potevano accrescere il prestigio del candidato, e quello degli elettori più influenti nelle centuriae, capaci di spostare molti voti. Pochi anni prima, durante la sua praetura nel 66, Marco era intervenuto a favore della lex Manilia sul conferimento del comando mitridatico a Gneo Pompeo Magno e ciò gli aveva attirato le simpatie «di quell’uomo potentissimo» (Comm. Pet. 5, eum qui plurimum posset).

Per procurarsi il supporto necessario, inoltre, il candidato doveva fare leva sull’emotività delle persone attraverso i beneficia, la speranza riposta nelle promesse e la contiguità d’animo e d’intenti. Spesso anche un piccolo beneficio, un aiuto era sufficiente a guadagnarsi l’amicizia di qualcuno e Marco, che da più di un decennio esercitava abilmente l’avvocatura, poteva valersi di una lunga lista di debitori, che adesso potevano restituirgli il favore appoggiandolo nella campagna elettorale: Cicerone poteva sfruttare l’amicitia di quanti aveva difeso e scagionato negli anni precedenti, ovvero Gaio Fundario, Gaio Orchivio, Gaio Cornelio e Quinto Gallo – tutti processati de peculatu (Comm. Pet. 19-20).

Uomo togato. Statua, marmo, c. 125-250 d.C., da Roma.

In altri casi, era la speranza a muovere l’animo della gente, e solo il pensiero di poter conseguire un guadagno futuro era già una motivazione valida per stringere un accordo, anche se alla fine l’utile concreto non sarebbe mai venuto: le promesse dovevano essere fatte in modo generale e allusivo, in modo che ciascun interessato potesse interpretarle come meglio credesse e il candidato potesse giocare sulle molteplici interpretazioni, se, una volta eletto, non facesse seguire i fatti. L’aspirante, poi, doveva dimostrare un impegno costante nei confronti degli amici, a riprova che il beneficium era duraturo e che il legame con il futuro magistrato avrebbe potuto consolidarsi e trasformarsi in un rapporto più familiare e personale. A tal proposito, Quinto osservava: «… tra tutti gli altri fastidi la candidatura ha pure questo vantaggio: puoi onorevolmente – cosa che non riusciresti a fare in tutte le altre circostanze della vita – associare alla tua amicizia tutte le persone che vuoi, con le quali, se in altro frangente vieni a trattative, affinché abbiano rapporti con te, dai l’impressione di agire in modo stonato; invece, nel caso di una candidatura, se non svolgi questa trattativa sia con molte persone sia con cura scrupolosa, dai l’impressione di non essere affatto un candidato» (Comm. Pet. 25, … in ceteris molestiis habet hoc tamen petitio commodi: potes honeste, quod in cetera vita non queas, quoscumque velis adiungere ad amicitiam, quibuscum si alio tempore agas ut te utantur, absurde facere videare, in petitione autem nisi id agas et cum multis et diligenter, nullus petitor esse videare).

Scena di lettura del testamento davanti al magistrato. Bassorilievo, marmo, I sec. a.C. da un sarcofago.

Quinto assicurava al fratello che la candidatura gli avrebbe portato nuove conoscenze, valide a battere gli altri concorrenti: godere dell’appoggio degli uomini più influenti avrebbe allargato il consenso di Cicerone, perciò era necessario non lasciare nulla al caso e catturare il favore dei ceti emergenti. Così l’autore raccomandava: «Per questo motivo, mediante numerose e svariate amicizie, procura di avere dalla tua parte tutte le centurie. E prima di tutto, cosa che balza all’occhio, lega a te senatori e cavalieri romani, le persone premurose e influenti di tutti gli altri ceti. Molti uomini laboriosi che vivono in città, molti liberi influenti e attivi, frequentano il foro; quelli che per opera tua, quelli che per mezzo degli amici comuni potrai avvicinare, datti da fare con estrema cura, affinché siano tuoi appassionati simpatizzanti: brama questo incontro, fa’ le tue deleghe, mostra di sentirti colmato di un sommo beneficio. Poi tieni conto dell’intera città, della associazioni, dell’area dei colli, dei quartieri periferici, delle zone circonvicine; se renderai partecipi della tua amicizia gli uomini più in vista di quella compagine, con il loro intervento avrai facilmente in tuo potere le rimanenti persone. Successivamente fa’ in modo di tenere a mente e nella memoria l’intera Italia ripartita in tribù e abbracciata nel suo insieme, per non consentire che ci sia nessun municipio, nessuna colonia, nessuna prefettura – insomma, nessun luogo d’Italia – nel quale tu non abbia quanto possa bastare di valido appoggio…» (Comm. Pet. 29-30, Quam ob rem omnis centurias multis et variis amicitiis cura ut confirmatas habeas. Et primum, id quod ante oculos est, senatores equitesque Romanos, ceterorum ‹ordinum› omnium navos homines et gratiosos complectere. multi homines urbani industrii, multi libertini in foro gratiosi navique versantur; quos per te, quos per communis amicos poteris, summa cura ut cupidi tui sint elaborato, appetito, adlegato, summo beneficio te adfici ostendito. Deinde habeto rationem urbis totius, collegiorum, montium, pagorum, vicinitatum; ex his principes ad amicitiam tuam si adiunxeris, per eos reliquam multitudinem facile tenebris. postea totam Italiam fac ut in animo ac memoria tributim discriptam comprehensamque habeas, ne quod municipium, coloniam, praefecturam, locum denique Italiae ne quem esse patiare in quo non habeas firmamenti quod satis esse possit…).

Per quanto concerne l’aspetto propagandistico, nel periodo di campagna elettorale il candidato riuniva attorno a sé un seguito di individui che lo accompagnava ovunque andasse. Quinto classifica questi «simpatizzanti» in tre categorie: salutatores, deductores e adsecatores.

M. Tullio Cicerone (presunto ritratto). Statua (dettaglio del busto), marmo bianco, I sec. d.C. Oxford, Ashmolean Museum.

I salutatores erano coloro che si recavano di buon’ora a casa dei candidati per porgere omaggi: l’interessato, per scalzare la concorrenza e avere più salutatores possibili, doveva mostrarsi amichevole e rassicurante nei loro confronti; i deductores scortavano il proprio beniamino nel foro e lo annunciavano alla folla ovunque andasse; gli adsectatores erano gli accompagnatori assidui, che, volontari o prezzolati, seguivano il candidato in ogni apparizione pubblica: agli uni andava l’eterna gratitudine dell’aspirante, dagli altri si pretendeva un impegno e una partecipazione costanti, al punto che, in caso di indisponibilità, dovevano delegare un parente, affinché il beniamino potesse sempre sfoggiare una gran folla con forte impatto visivo (Fezzi 2007, 20-22).

D’altra parte, frequentare la gente poteva far incappare in un’insidia, cioè trovarsi in mezzo ad agguerriti nemici: quanti erano stati danneggiati da un’arringa giudiziaria e coloro che, supportando altri aspiranti in lizza, non erano legati da amicitia con il candidato. Nei confronti di queste persone occorreva adottare una linea morbida: con i primi bisognava scusarsi direttamente e assicurare che ci si sarebbe occupati anche dei loro affari in cambio dell’amicitia; con i secondi era opportuno infondere loro speranza di agire nel loro interesse, una volta eletti, e provare ad assumere un atteggiamento benevolo nei confronti dell’avversario stesso (Comm. Pet. 40).

Benché fosse usanza comune denigrare il competitore, stando pur sempre nei limiti del possibile, per far cadere su di lui sospetti di ogni tipo, Quinto consigliava a Marco di perseguire la strada del riappacificamento, trattando i concorrenti e i loro sostenitori con rispetto, rivolgendo anche a loro favori e promesse per appianare i contrasti.

Il cosiddetto «Arringatore». Statua, bronzo, fine II-inizi I sec. a.C., da Perugia. Firenze, Museo Archeologico Nazionale.

Da oltre un secolo e mezzo il Commentariolum è stato oggetto dell’analisi di molti studiosi e fin dalla sua scoperta all’interno dei codici contenenti le Epistulae ad Quintum fratrem. Contro l’attribuzione della paternità al fratello di Cicerone si pronunciò per primo Eussner (1892), che evidenziò forti analogie tra il manuale e l’orazione di Marco In toga candida, e si convinse che il Commentariolum fosse opera di un falsario. Gli fece eco Hendrickson (1892; 1904), che trovò delle incongruenze tra il linguaggio tipico di Quinto e quello usato nel testo, sostenendo che fosse riconducibile piuttosto allo stile di Marco. Così Henderson (1950) mise in dubbio la veridicità di alcune sezioni del manualetto, nel quale, per esempio, si sarebbe erroneamente attribuita la povertà del padre di Catilina scambiandolo con quello di Clodio, come allo stesso Clodio e non a Catilina sarebbe imputabile l’accusa di stupro a danno della sorella. A favore dell’attribuzione si schierarono, invece, già Tyrell e Purser (1904); in effetti, gli strali contro l’autenticità, lanciati da Nisbet (1961), non riuscirono a demolire la fiducia della maggioranza degli studiosi nella paternità dello scritto. Comunque, è stato Nardo (1970), in un contributo denso e perspicuo, a fornire una valutazione a favore dell’autenticità del Commentariolum e attribuirlo a Quinto, stabilendo che una certa somiglianza con In toga candida costituisca la prova di una collaborazione pragmatica e ideologica tra i fratelli Cicerone; d’altronde, dal momento che questi ultimi nutrivano un rapporto di stima e di amicizia con Attico, è verosimile che il Commentariolum fosse stato concepito da Marco, scritto da Quinto e pubblicato da Attico. Tra gli assertori di questa teoria, Alexander (2009) ha proposto un’interpretazione originale, definendo l’operina «un vero e proprio attacco satirico alle campagne elettorali romane e non un insieme di consigli sui comportamenti da tenere».

Fin dall’esordio del manuale Quinto sottolineava la novità più clamorosa del fratello: l’essere un homo novus. A tal proposito, lo esortava a ripetersi: «Io sono un homo novus, aspiro al consolato, la comunità è Roma» (Comm. Pet. 2, “Novus sum, consulatum peto, Roma est”). Per raggiungere lo scopo, inoltre, Marco doveva saper giocare e far leva sulla nominis novitas, elevandola con la dicendi gloria (l’eloquenza), l’arte fondamentale di tutti i successi forensi: grazie a questa Cicerone aveva difeso molti publicani e cavalieri, i quali adesso avevano l’occasione di dimostrargli la propria riconoscenza sostenendolo. Oltre a ciò, Quinto raccomandava al fratello di procurarsi il favore di nobiles e consulares, comportandosi in modo tale da apparire al loro cospetto degno della posizione cui aspirava. Infine, lo esortava ad attirare alla sua causa gli adulescentes nobiles, il cui supporto gli avrebbero conferito un prestigio ancor più grande (Comm. Pet. 4-6).

L. Cassio Longino. Denario, Roma 63 a.C. Ar. 3,70 gr. Rovescio: Longin(us) IIIV(ir). Cittadino in atto di votare, stante, verso sinistra, mentre ripone una tabella contrassegnata con U(ti rogas) in una cista.

Quanto ai concorrenti – Gaio Antonio Ibrida e Lucio Sergio Catilina –, per poterli battere sarebbe stato opportuno ricordare alla gente chi fossero: non solo parlare delle origini familiari e della carriera politica di costoro, ma anche e soprattutto puntare il dito contro i reati da quelli commessi per provocare scandalo e denigrarli (Comm. Pet. 8-12).

Durante la campagna elettorale, l’aspirante magistrato naturalmente doveva tenere in massima considerazione anche l’opinione pubblica e garantirsi il favore popolare. A tal proposito, Quinto spiegava che fosse necessario munirsi di un nomenclator (il servo incaricato di ricordare al dominus i nomi delle persone incontrate), dimostrare abilità nel lusingare, assiduità, benevolenza, disporre di voci di propaganda e fare bella apparenza in pubblico (Comm. Pet. 41). In altre parole, il candidato doveva mettere in luce la propria volontà di conoscere le persone (homines noscere), fingendo al punto da dare l’impressione di agire secondo talento naturale. In effetti, a Marco – riconosce il fratello – non mancava «quell’affabilità che è degna di un uomo onesto e dolce di carattere» (comitas… ea quae bono ac suavi homine digna est), ma nel corso della campagna elettorale gli sarebbe stata indispensabile la blanditia («l’arte della lusinga»): il candidato doveva modificare «sia la fronte, sia la linea del volto, sia la conversazione» (et frons et vultus et sermo), adattando al modo di pensare e al volere delle persone che avrebbe incontrato (Comm. Pet. 42).

Scena di vita quotidiana nel foro. Affresco, ante 79 d.C. dalla Casa di Giulia Felice (Pompei). Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Per rafforzare la propria adsiduitas e dimostrare benignitas nei confronti dell’elettorato, oltre a offrire banchetti sia agli amici sia a invitati passim et tributim («presi qua e là dalle tribù»), Marco doveva consentire agli altri un facile accesso, spalancando loro tanto le porte di casa quanto i recessi del proprio animo, dato che la gente non vuole che le si facciano soltanto promesse ordinarie, ma si sia disposti a largheggiare. Quindi, occorreva chiarezza su ciò che si sarebbe voluto fare, dichiarando di essere pronti a compierlo con zelo e volentieri, ma anche trasparenza su ciò che non si voleva o non si poteva fare, opponendo un garbato rifiuto o non dichiarando alcunché. Le persone, in genere, desiderano che alle parole seguano i fatti; perciò, per non attirarsi l’ira popolare è bene evitare di fare promesse o di accettare richieste che non sarebbe possibile attuare. Se l’elettore, per qualche ragione, si indisporrà, sarà opportuno che ciò accada dopo l’entrata in carica che prima; certamente sarà meno scontento colui che non vedrà realizzata una promessa, se lo si convincerà che la causa della mancata realizzazione è stata un grave imprevisto. In estrema sintesi, Quinto sostiene che «tutto sommato, il primo comportamento è proprio di un uomo onesto, l’altro di un buon candidato» (Comm. Pet. 45, quorum alterum est tamen boni viri, alterum boni petitoris).

L’autore conclude la propria esposizione facendo richiami all’eloquenza del fratello, augurandogli di condurre una campagna elettorale splendida e decorosa, raccomandandogli di mettere in luce gli atteggiamenti sospetti dei suoi competitori, senza dimenticare di sottolineare in pubblico il successo derivatogli dall’oratoria.

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