Il Satyricon di Petronio

L’opera attribuita a Petronio, il Satyricon, è giunta a noi in forma frammentaria e incompleta. Probabilmente la struttura e l’estensione originale dovettero favorire una sua immediata circolazione in forma antologizzata, che poi diede origine alla diffusione di raccolte di excerpta.

Ciò che oggi possediamo si limita a 141 capitoli provenienti – stando alla tradizione dei codici – dai libri XIV-XVI (una parte sicuramente esigua rispetto all’originale, sufficiente comunque per annoverare il Satyricon tra i massimi capolavori della narrativa antica!).

Peraltro, anche rispetto alla sezione tramandata, molti punti restano oscuri: l’autore, la data di composizione, il titolo e il suo significato, l’estensione originaria e il genere. Sull’autore ormai la maggior parte dei critici concorda con l’identificazione con il Petronius Arbiter a cui Tacito, Plinio e Plutarco fanno riferimento: ciò comporta che l’opera risalga alla piena età neroniana.

Una donna che dipinge la statua di Priapo. Affresco pompeiano, dalla Casa del Chirurgo. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

A sostegno di tale tesi vi sono argomenti storici (allusioni a personaggi, avvenimenti, costumi sociali e fatti economici del tempo), linguistici (parallelismi con altre fonti dell’epoca, come le iscrizioni pompeiane o l’Apokolokyntosis di Seneca), letterari (l’opera petroniana sarebbe pressoché coeva alla Pharsalia di Lucano, rispetto alla quale possono essere individuati collegamenti tematici).

Il titolo, Satyricon, che nei manoscritti si presenta anche sotto forma di Satirica o Saturae, probabilmente rappresenta un genitivo plurale alla greca retto da libri e forse fa riferimento a un genere letterario preciso, quello della satira menippea, di cui però conserva soltanto la struttura mista di prosa e versi.

Il Satyricon presenta una complessità letteraria notevole: la prosa narrativa si alterna a passi in versi che in alcuni casi sono declamati da un personaggio, in altri si configurano come interventi del narratore in funzione di commento.

La struttura del testo è composita, la fabula si presta a numerose digressioni, i toni passano dall’aulico al grottesco. Pertanto, risulta difficile qualsiasi classificazione retorica che ne definisca l’appartenenza a un genere preciso.

Nei primi capitoli del libro XIV il protagonista e io narrante Encolpio è alle prese con un retore, Agamennone: i due dissertano sulle ragioni della decadenza dell’oratoria e sulla necessità che i maestri di eloquenza abbandonino quel rigore che la tradizione ha sempre imposto, in favore di un atteggiamento più morbido e compiacente nei confronti dei propri discepoli.

Pittore Epitteto. Scena di corteggiamento omoerotico. Pittura vascolare da una κύλιξ attica a figure rosse, 520 a.C. ca. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Durante la discussione, però, Encolpio si accorge della scomparsa di Ascilto, un giovane che viaggia con lui e che da subito si palesa come suo rivale in amore nei confronti di Gitone, un giovinetto affascinante: fra questi tre personaggi si è instaurato un triangolo amoroso, fatto di gelosie, tradimenti e liti furibonde.

Così, Encolpio parte alla ricerca di Ascilto, affrontando una serie di peripezie nel tentativo di sapere dove alloggi. Entra poi in scena Quartilla, una seducente matrona, sacerdotessa del dio Priapo, che accusa i tre giovani di aver violato i sacri misteri del dio e li coinvolge in una serie di riti espiatori che si rivelano come un’orgia estenuante. Sfuggiti alle insidie della donna, ai tre viene ricordato da un servo l’impegno di partecipare a un ricevimento serale a casa di un facoltoso liberto.

Nel libro XV ha inizio il lungo racconto della cena cui Encolpio, Ascilto e Gitone partecipano nella dimora del ricchissimo Trimalchione. Durante il banchetto, il padrone di casa esibisce in modo teatrale lo sfarzo e la ricchezza nei modi più sorprendenti e grotteschi in uno spettacolo di pessimo gusto: a ciò partecipano la moglie Fortunata, oculata amministratrice delle sue sostanze, e alcuni amici di Trimalchione, liberti arricchitisi dai cui discorsi emerge il rispetto servile e la deferenza nei confronti dell’ospite. Infine, giunge un personaggio sinistro, un marmista a cui Trimalchione affida l’incarico di edificare la propria tomba inscenando al momento una marcia funebre; il baccano provocato, però, fa intervenire i vigiles, convinti dello scoppio di un incendio. Questo fatto consente ai tre giovani di fuggire e di rientrare nel loro alloggio, dove scoppia nuovamente una rissa tra Encolpio e Ascilto per Gitone, il quale alla fine se ne va con Ascilto.

Tabula Iliaca. Marmo, I secolo a.C. – I secolo ca. (età augustea), da Boville. Musei Capitolini, Roma.

Nel libro XVI Encolpio, affranto per l’abbandono degli altri due, entrato in una pinacoteca incontra Eumolpo, un anziano poeta e uomo depravato, che, in un primo tempo, per consolarlo, gli racconta un episodio della propria vita, poi recita per lui un poemetto in versi, la Troiae Halosis, non particolarmente apprezzato dagli astanti.

I due divengono amici e affrontano una serie di peripezie grazie alle quali ritrovano Gitone, ma Encolpio si accorge pressoché immediatamente di avere in Eumolpo un nuovo rivale in amore: viene così a costituirsi un nuovo triangolo amoroso (dato che Ascilto è uscito ormai di scena).

Il nuovo terzetto si imbarca poi sulla nave di un armatore, Lica, che si rivelerà il peggior nemico di Encolpio, per giunta intenzionato a vendicarsi di lui (l’antefatto di questo episodio non ci è altrimenti noto). Durante la traversata, il poetastro Eumolpo, per tener calma la situazione, intrattiene equipaggio e passeggeri narrando la novella della Matrona di Efeso, un racconto a carattere licenzioso che dovrebbe rallegrare l’atmosfera.

Poco dopo sopraggiunge un fortunale che fa perire Lica e fa naufragare il mercantile su una spiaggia nelle vicinanze di Crotone, nota per i numerosi cacciatori di eredità che vi si aggirano. Sulla strada per la città, Eumolpo illustra ai due giovani compagni le caratteristiche della poesia elevata, dandone un saggio con la declamazione di un lungo passo epico (295 esametri!) sul Bellum civile, la guerra tra Cesare e Pompeo. Da questo momento il testo diviene lacunoso: Encolpio, intrapresa un’avventura con una nobildonna di nome Circe, è successivamente reso impotente dal dio Priapo adirato; per placarlo e per recuperare la propria virilità, il protagonista si sottopone a una serie di pratiche magiche.

Un uomo, forse sofferente d’impotenza, assistito da Cupido, offre in sacrificio un maiale a Priapo. Affresco pompeiano, dalla Villa dei Misteri.

Eumolpo nel frattempo redige il proprio testamento (non si sa se sia malato o in procinto di morire, oppure se sia un espediente per attirare i cacciatori di eredità), che contiene una clausola particolarmente inquietante per gli eredi: chi vorrà godere dei suoi lasciti dovrà essere pronto a cibarsi del suo stesso cadavere! L’avidità di alcuni pretendenti lascia supporre che essi siano disposti a tutto pur di entrare in possesso della sua presunta eredità. A questo punto il romanzo si interrompe bruscamente.

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Riferimenti bibliografici:

A. Aragosti (ed.), Petronio, Satyricon, Milano 2009.

Q. Orazio Flacco

di G.B. Conte, E. Pianezzola, Lezioni di letteratura latina. Corso integrato. 2. L’età augustea, Milano 2010, 174-195.

1. Il più grande lirico dell’età augustea

Orazio è il più grande poeta lirico dell’età augustea e, insieme a Catullo, di tutta la letteratura latina. Pur provenendo da una famiglia umile (il padre era un liberto), grazie al suo talento poetico egli riuscì a risalire la scala sociale fino a entrare a corte, dove fu in stretti rapporti con Augusto e divenne il cantore “ufficiale” della romanità.

Orazio fu anche poeta di grande versatilità. Partito dall’esperienza giovanile della lirica aggressiva degli Epodi, in seguito raggiunse risultati straordinari sia nella composizione esametrica di carattere personale e discorsivo delle Satire e delle Epistole sia nella lirica sublime delle Odi, caratterizzate da una compattezza tematica, stilistica e metrica che fanno di lui il poeta “classico” per eccellenza. Inoltre, Orazio non si limitò a comporre poesia, ma anche a rifletter sul fatto poetico: la sua lettera-saggio in versi, l’Ars poetica, in cui espone ideali poetici di armonia e misura perfettamente in linea con il suo carattere, diventerà il progetto del classicismo di ogni epoca. Grazie a Orazio, la lirica latina raggiunse una maturità straordinaria, nutrendosi di modelli consolidati (Callimaco e Saffo, come era accaduto già per Catullo) e nuovi (Alceo, Anacreonte e Pindaro) e ottenendo risultati di grande originalità.

Giacomo Di Chirico, Ritratto di Q. Orazio Flacco. Olio su tela, 1871.

2. Il figlio del liberto alla corte del princeps

Quinto Orazio Flacco nacque l’8 dicembre del 65 a. C. a Venusia (od. Venosa), una colonia militare romana, al confine fra Apulia e Lucania. La sua famiglia era modesta: il padre era un libertus (forse un ex servo pubblico), che aveva fatto fortuna, entrando in possesso di una piccola proprietà: più tardi, trasferitosi a Roma, vi esercitò il mestiere di esattore nelle vendite all’asta. Nonostante la modesta condizione sociale, al giovane Orazio fu assicurata la migliore educazione: compiuti i primi studi nella scuola venusina, il padre lo portò con sé nell’Urbe, dove Orazio poté frequentare le lezioni del grammatico Orbilio, ammiratore dei poeti arcaici, che usava le nerbate per convincere i suoi alunni a studiare l’Odusia di Livio Andronico (per questo Orazio escogiterà per lui l’epiteto plagosus).

Attorno ai vent’anni, come facevano i giovani di buona condizione, Orazio si recò in Achaia a perfezionare gli studi. Ad Atene approfondì le sue conoscenze filosofiche, ascoltando le lezioni di maestri come il peripatetico Cratippo di Pergamo e dell’accademico Teomnesto. Ma la sua carriera di studente fu traumaticamente interrotta. La Grecia era allora teatro di storici avvenimenti: gli uccisori di Cesare ne avevano fatto la loro principale base di operazione e fu naturale che il giovane Orazio, fresco di studi filosofici, fosse attratto dagli ideali della libertas (nonché lusingato da brillanti prospettive di carriera!). Così egli si arruolò nell’armata di Marco Giunio Bruto, ricevendo il comando di una legione con il grado di tribunus militum, il che non era poco per il figlio di un liberto!

La rotta di Filippi (ottobre 42 a.C.), però, interruppe la sua carriera militare: con amara autoironia Orazio dirà poi di avervi abbandonato lo scudo per fuggire (relicta non bene parvula, Odi II 7, 10 – un motivo già presente nella lirica greca arcaica!).

Orazio poté rientrare in patria già l’anno successivo, nel 41 a.C., grazie a un’amnistia, ma siccome il fondo paterno a Venosa era stato confiscato dai triumviri, egli dovette impiegarsi come scriba quaestorius per guadagnarsi da vivere. A questo periodo risale probabilmente anche l’inizio della sua attività poetica. Si presume che attorno alla metà del 38 a.C. Virgilio e Vario l’abbiano presentato a Gaio Clinio Mecenate, collaboratore di Cesare Ottaviano, lui stesso uomo di lettere e protettore di artisti: fu così che nove mesi più tardi Mecenate lo ammise nella cerchia dei suoi amici.

Probabilmente nel 33 a.C. Mecenate gli donò un podere nella campagna sabina, fonte per Orazio di tranquillità economica e apprezzato rifugio dagli affanni e dalle scomodità della vita urbana.

Da quel momento, la sua vita scorse senza eventi significativi, scandita soltanto dalla pubblicazione delle sue opere sotto il patronato di Mecenate e più tardi del principe stesso. Con Augusto Orazio fu in relazione abbastanza stretta, fatta di devota cordialità, ma senza servilismi: quando il princeps gli chiese di diventare suo segretario personale, Orazio declinò l’offerta con garbo e fermezza. Nel settembre dell’8 a.C. Mecenate morì, raccomandando affettuosamente il poeta alla benevolenza di Augusto. Ma Orazio doveva seguirlo nella tomba solo due mesi più tardi, il 27 novembre.

La produzione poetica oraziana comprende un libro di Epodi, in metro giambico, due libri di Satire, in esametri, quattro libri di Odi (in latino Carmina), in metri lirici, e due libri di Epistole esametriche.

Anton von Werner, Ritratto immaginario di Quinto Orazio Flacco.

3. Gli Epodi

Il nome della prima raccolta di Orazio, Epodi, rimanda alla forma metrica: l’epodo è propriamente il verso più corto che segue a un verso più lungo, formando con esso un distico. Orazio li chiamava iambi («giambi»), facendo riferimento al ritmo che prevale nella raccolta e, insieme, alludendo al recupero di quel tono aggressivo che fin dalle origini era tradizionalmente associato alla poesia giambica greca.

Gli Epodi sono dunque caratterizzati da due aspetti: l’aggressività e la polimetria. Mentre la prima caratteristica, dovuta in parte alla difficile situazione personale del periodo in cui furono composti (il ritorno di Orazio dalla Grecia dopo la sconfitta a Filippi) e in parte al genere letterario che fungeva da modello (la poesia giambica greca), non ricorre nelle opere successive di Orazio, la seconda si ritroverà nelle Odi, contraddistinte da una grande varietà ritmica.

Gli Epodi sono diciassette componimenti, scritti in un arco di tempo fra il 41 e il 30 a.C. e pubblicati insieme al II libro delle Satire. La raccolta è ordinata secondo il criterio editoriale metrico invalso a partire dall’età alessandrina ed è caratterizzata da una varietà di argomenti.

Come Orazio stesso avrebbe dichiarato in seguito, gli Epodi sono legati alla fase “giovanile” della sua attività letteraria e alle difficili condizioni di vita successive all’esperienza di Filippi: «Ero a terra, le ali tarpate, privato della casa e del fondo di mio padre: sfacciata, la povertà mi spinse a fare versi» (decisis humilem pennis inopemque paterni / et laris et fundi, paupertas impulit audax / ut versus facerem, Epistole II 2, 50-51).

A questa situazione di disagio è quasi naturale collegare asprezze polemiche, toni carichi, linguaggio poetico violento. Ciò, per molti aspetti, fa degli Epodi un caso isolato nella produzione poetica oraziana e offre un’immagine del poeta molto diversa da quello stereotipo (carico di buon gusto, affabilità, umanità cordiale, distacco dalle passioni, senso della misura) cui è stata sempre collegata la fortuna di Orazio nella cultura successiva.

Parecchi interpreti oraziani esitano però giustamente a mettere in collegamento troppo immediato gli Epodi e l’esperienza autobiografica dell’autore: occorre anzitutto saper valutare quanto questo tono aggressivo e violento sia in un certo senso obbligato, ovvero affettato e simulato, perché dovuto alle regole del genere giambico e alla imitazione dei modelli greci (Archiloco e Ipponatte, in primis). Infatti, di questa posa letteraria Orazio appare certo consapevole e, in seguito, avrebbe affermato esplicitamente (Epistole I 19, 23-25):

… Parios ego primus iambos

ostendi Latio, numeros animosque secutus

Archilochi, non res et agentia verba Lycamben.

«… Io per primo trapiantai nel Lazio i giambi

del poeta di Paro, seguendo i ritmi e gli spiriti di Archiloco,

non gli argomenti e le parole che incalzavano Licambe».

È bene osservare come l’orgogliosa dichiarazione di aver trasferito in poesia latina i ritmi e gli spiriti di Archiloco», rivendichi certamente l’abilità versificatoria (in effetti, la maggior parte degli schemi epodici oraziani ha riscontro con quanto è testimoniato nei frammenti del poeta pario), ma anche i diritti dell’originalità: il poeta afferma, infatti, di aver mutuato da Archiloco l’ispirazione aggressiva (animi), ma non i contenuti (res).

Orazio, probabilmente, vuol dire non soltanto che negli Epodi ha attinto a una realtà romana e personale, ma anche che la sua ispirazione archilochea è del tutto particolare. Se la sua situazione giovanile, disagiata e amara, poteva fargli sentire delle affinità con la passionalità accesa e il feroce spirito polemico archilocheo, non dovevano sfuggire neanche a lui le differenze. Archiloco dava voce agli odi e ai rancori, alle passioni civili e alle tristezze di un aristocratico greco del VII secolo a.C., mentre Orazio scriveva nella Roma dominata dai triumviri e sarebbe entrato presto nell’entourage di Ottaviano, dopo essere appena uscito da una rischiosa esperienza politica.

Di conseguenza, l’aggressività di Orazio non può rivolgersi che contro bersagli “minori”: personaggi scoloriti, anonimi, o addirittura fittizi (un usuraio, un arricchito, una fattucchiera, una signora invecchiata). Tutto ciò, in effetti, ha contribuito a dare un’impressione di artificiosità letteraria e si è detto anche che talvolta Orazio riesca a ricreare proprio le res di Archiloco, ma non gli animi, al contrario di quanto aveva affermato!

Un esempio famoso è l’Epodo X. In una specie di προπεμπτικόν («carme di buon viaggio») a rovescio, Orazio augura a Mevio di fare naufragio (vv. 1-14):

Mala soluta navis exit alite             

  ferens olentem Mevium.   

ut horridis utrumque verberes latus,        

  Auster, memento fluctibus;            

niger rudentis Eurus inverso mari

  fractosque remos differat;             

insurgat Aquilo, quantus altis montibus

  frangit trementis ilices;     

nec sidus atra nocte amicum adpareat, 

  qua tristis Orion cadit;

quietiore nec feratur aequore        

  quam Graia victorum manus,     

cum Pallas usto vertit iram ab Ilio             

  in inpiam Aiacis ratem.  

[…]

Sciolti gli ormeggi, salpa sotto sinistri auspici

la nave su cui viaggia il fetido Mevio.

Tu, Austro, ricordati di percuoterne

l’uno e l’altro fianco con spaventosi flutti;

il nero Euro, rovesciando il mare,

disperda le gomene e i remi infranti;

sorga Aquilone nello stesso modo in cui sugli alti

monti schianta i lecci che tremano;

non una stella amica gli appaia nella cupa notte,

 dove tramonta il triste Orione;

non navighi un mare più pacato

di quello che navigò l’esercito vittorioso dei Greci,

quando da Ilio in cenere Pallade la sua collera

dirottò sull’empia nave di Aiace.

[…]

Il modello è qui il cosiddetto Epodo di Strasburgo di Archiloco, di cui fortunatamente è giunto un significativo frammento. Ma dal modello Orazio risulta abbastanza lontano: il poeta latino non riesce a riprodurre la serietà e la ferocia dell’invettiva archilochea perché lascia in sordina proprio il carattere personale della rampogna; a differenza di Archiloco, il cui nemico è un ex amico che lo ha offeso e tradito, Orazio non dice chi sia Mevio né spiega perché ce l’abbia con lui. In questo, come in altri casi, la violenza delle minacce e delle maledizioni suona un po’ a vuoto e talvolta può sembrare addirittura giocosa (come è chiaramente nell’Epodo III, in cui Orazio critica affettuosamente Mecenate per avergli fatto mangiare dell’aglio!).

In ogni caso, lo spirito archilocheo doveva sembrare a Orazio opportuno per esprimere le ansie e le passioni, le paure e le indignazioni di tutta una generazione: si pensi per esempio all’Epodo IV, in cui si reagisce ai repentini rivolgimenti sociali connessi alla «rivoluzione romana» insultando un servo arricchito, o alle inquietudini espresse negli epodi relativi alle guerre civili (VII e XVI).

Anche per influsso dei Giambi di Callimaco Orazio, in ogni modo, doveva sentire connaturata a una raccolta giambica l’esigenza della varietas (ποικιλία). Lavorando contemporaneamente a Satire ed Epodi, egli sembra riservare a questi ultimi quella molteplicità di temi, di toni e di livelli stilistici che la tradizione romana assegnava piuttosto all’ambito della satira. Un gruppo ben individuato è costituito, per esempio, dagli epodi “erotici” (XI, XIV e XV), poesie d’amore che svolgono motivi e situazioni della lirica erotica ellenistica e ne riproducono anche il linguaggio e l’intonazione patetica. La tradizione dell’idillio rustico (insieme a motivi ideologici più specificamente romani) è invece presente dietro l’elogio della campagna e della vita semplice dell’Epodo II, tanto più ambiguo in quanto pronunciato da un sordido usuraio.

Anche dal punto di vista dell’espressione, nonostante resti caratteristico degli Epodi un linguaggio teso e carico, che indugia sugli aspetti più crudi e talvolta ripugnanti della realtà, la poesia giambica di Orazio può ospitare una dizione più sorvegliata: accanto al poeta degli eccessi, si intravede il poeta della misura (mediocritas).

4. Le Satire

Cimentandosi nel genere satirico, che a differenza di quello giambico aveva una tradizione interamente romana, Orazio diede vita a una poesia di tono discorsivo e di argomento morale. Tuttavia, in questa produzione egli non si erge a giudice severo o a maestro pedante, ma preferisce affrontare la tematica morale con un tono non aggressivo ma benevolmente ironico (e spesso autoironico). In questo modo, Orazio comincia a costruire quell’io lirico riflessivo, realistico e moderato che si ritroverà, con profondità ancora maggiore, nelle Odi e nelle Epistole.

Un primo libro di dieci satire (lunghe da un minimo di 35 esametri a un massimo di 143), dedicato a Mecenate, fu pubblicato forse nel 35, e comunque entro il 33. Nel 30, insieme agli Epodi, apparve il II libro (otto satire soltanto, ma la terza, considerevolmente più lunga del solito, conta ben 326 versi!). In totale le Satire (lat. Sermones)contano più di 2000 versi. Le tematiche affrontate sono varie.

Quintiliano (X 1, 93) avrebbe recisamente affermato che satura quidem tota nostra est, «la satira è certamente un genere tutto nostro», ovvero genuinamente romano: egli non riusciva cioè a indicare autori greci che fossero serviti come punto di riferimento ai poeti satirici latini, di cui indicava il capostipite in Lucilio. E anche Orazio stesso, nei componimenti programmatici che forniscono le coordinate della sua poesia satirica, indicò in Lucilio l’inventore del genere (mentre non fa cenno alla satira di Ennio, che pure praticò il genere). Agli occhi di Orazio Lucilio era colui che aveva fissato due tratti fondamentali della poesia satirica: la scelta dell’esametro come forma metrica e, soprattutto, l’uso della satira come strumento dell’aggressione personale, della critica mordace. L’aggressività pareva a Orazio un elemento tanto caratteristico che si sentiva di mettere Lucilio in collegamento (piuttosto che con Ennio) con i tre grandi poeti della commedia greca antica del V secolo a. C. (Sermones I 4, 1-6):

Eupolis atque Cratinus Aristophanesque poetae             

atque alii, quorum comoedia prisca virorum est,            

siquis erat dignus describi, quod malus ac fur,  

quod moechus foret aut sicarius aut alioqui       

famosus, multa cum libertate notabant.

hinc omnis pendet Lucilius…

Eupoli, Cratino e Aristofane, i tre poeti,

e altri, che furono gli autori della commedia antica,

se c’era uno che meritava d’essere messo in berlina,

perché furfante o ladro o adultero o sicario o altrimenti

famigerato, lo bollavano senza tanti riguardi.

Da qui Lucilio dipende tutto…

Questo, dunque, era il tono con cui Lucilio rappresentava la società contemporanea, soprattutto il ceto dirigente (del quale derideva e colpiva i vizi, piuttosto che le singole personalità; dunque, non praticava l’ὀνομαστὶ κωμῳδεῖν dei commediografi greci).

Lawrence Alma-Tadema, Il poeta preferito. Olio su tela, 1888.

Del resto, Lucilio aveva posto nella propria produzione una grande varietà di temi e di interessi: c’erano polemiche letterarie, discussioni filosofiche, questioni linguistiche o grammaticali o lettere, conversazioni. Più importante di tutti era l’elemento autobiografico. La satira luciliana ospitava fatti, personaggi e osservazioni connesse alla vita personale del poeta. Anche in questo Orazio fu consapevole di raccogliere l’eredità del maestro (Sermones II 1, 30-34):

Ille velut fidis arcana sodalibus olim

credebat libris neque, si male cesserat, usquam

decurrens alio neque, si bene; quo fit ut omnis   

votiva pateat veluti descripta tabella       

vita senis…

Come a fedeli compagni, ai libri egli soleva affidare

i suoi segreti, né altrove ricorreva se le cose gli andavano male,

né se gli andavano bene: perciò, avviene che tutta la vita

di questo vecchio ci sta davanti agli occhi, come fosse dipinta

su un quadretto votivo…

Nella coscienza letteraria di Orazio, dunque, la sua satira era “luciliana” perché da Lucilio ereditava i due segni distintivi dell’aggressività e dell’autobiografia. Ma Orazio stesso non sottovalutava le differenze che lo separavano dall’inventor del genere; sottolineava però principalmente quelle relative allo stile, criticando in Lucilio la sciatta e abbondante facilità soprattutto nelle satire I 4 e I 10.

Importanti differenze tra Orazio e Lucilio c’erano però anche dal punto di vista della forma dei contenuti. Lucilio dedicava attenzione ai temi della riflessione morale e perciò riallacciava alla diàtriba (διατριβή), quel genere di letteratura filosofica popolare in cui l’argomento morale era illustrato da dialoghi e aneddoti; ma non era chiaro il rapporto che intercorreva tra diàtriba e aggressività, che dalla diàtriba era assente.

Caratteristico della satira di Orazio è proprio un collegamento stabile e organico di queste due componenti: l’attacco personale è sempre collegato con l’intenzione di ricerca morale. Al piacere gratuito dell’aggressione, ancora vivace in Lucilio (in cui sembrava rivivere lo spirito della commedia aristofanea), Orazio sostituisce l’esigenza di analizzare e indagare i vizi mediante l’osservazione critica e la rappresentazione comica delle persone.

Questa ricerca morale empirica non si propone il proselitismo, non cerca di convertire gli altri a un modello prefabbricato di virtù né di riformare il mondo, ma soltanto di individuare una strada per pochi (per il poeta stesso e un gruppo illuminato di amici) attraverso le storture di una società in crisi.

In questo senso la satira oraziana è intimamente collegata (più ancora della lirica) al circolo di poeti, letterati e uomini politici che si raccoglievano intorno all’intelligente guida di Mecenate.

Lucilio attaccava con virulenza i cittadini eminenti, avversari di cui condivideva la condizione. Ciò non sarebbe stato possibile al figlio di un liberto: ma, quel che più conta, per trarre insegnamento dalla condotta dei propri simili criticandone gli errori non era necessario scegliere bersagli di elevato livello sociale. Orazio guardava piuttosto a un piccolo mondo di irregolari (cortigiane, parassiti, artisti, imbroglioni, filosofi di strada, affaristi, ecc.). Come gli aveva insegnato suo padre, imparava da chi gli stava vicino, da quelli che incontrava per strada (Sermones I 4, 105-106):

… insuevit pater optimus hoc me,

ut fugerem exemplis vitiorum quaeque notando.

«… quel galantuomo di mio padre me l’ha insegnato,

a fuggire i vizi, facendomeli conoscere uno a uno con gli esempi».

La morale oraziana, dunque, pur essendo costruita con materiali elaborati dalle filosofie ellenistiche filtrati dalla diatriba, è fortemente radicata nel buon senso tradizionale, di cui Orazio rivendica con orgoglio la componente italica e contadina.

Gli obiettivi fondamentali della sua ricerca sono l’αὐτάρκεια (l’«autosufficienza interiore») e la μετριότης (la «moderazione», il «giusto mezzo»). Questi concetti accomunavano diverse scuole filosofiche, impegnate a proteggere l’individuo dalla schiavitù dei beni esterni e dai contraccolpi della fortuna. L’importanza dell’αὐτάρκεια era stata sostenuta da molti sapienti ed era presente anche nell’Epicureismo, di cui Orazio si professava seguace, che limitava i diritti della voluptas alla soddisfazione di pochi bisogni naturali. Anche la μετριότης, presente già nella saggezza greca arcaica (che la sintetizzava nel motto μηδὲν ἄγαν, («nulla di troppo») e formulata nel modo più coerente da Aristotele, era un concetto condiviso da Epicuro, per il quale la ricerca del piacere non doveva essere confusa con una pratica degli eccessi.

Stefan Bakałowicz, L’atrio della casa di Mecenate. Olio su tela, 1890. Moskov, Galleria Tret’jakov.

Si insiste sull’Epicureismo perché è caso mai questa la scuola di pensiero più presente nella satira oraziana. Era invece inevitabile che l’empirismo e il realismo della sua morale, che conferiscono ai Sermones quella bonaria ragionevolezza apprezzata in ogni epoca, entrassero in conflitto con l’astrattezza e con il rigorismo degli stoici (con i quali il poeta latino polemizza in Sermones I 3).

Direttamente all’Epicureismo si collegano Sermones I 2 contro l’adulterio e le sue inutili follie (si raccomanda il soddisfacimento naturale del bisogno sessuale) e soprattutto il rilievo che nell’opera hanno i problemi dell’amicizia e la rappresentazione della cerchia di sodali. L’affinità intellettuale, l’indulgenza, la dedizione, la comunanza di vita, la compattezza nei confronti dell’esterno: tutto ciò risente delle teorie epicuree e richiama il valore che la φιλία aveva nel sistema di pensiero di Epicuro e dei suoi seguaci.

La ricerca morale non caratterizza soltanto le satire che si potrebbero chiamare “diatribiche”, quelle cioè in cui è sviluppata una discussione su uno specifico problema morale, vivacizzata da argomenti, obiezioni, esempi, aneddoti (come in Sermones I 1-3), ma anche quelle in cui il poeta – sul modello luciliano “autobiografico” – rappresenta una scena, racconta un episodio, descrive una situazione.

Scena di vita quotidiana nel foro. Affresco, ante 79 d.C. dalla Casa di Giulia Felice (Pompei). Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

In questi casi, la rappresentazione stessa è come la lente attraverso cui Orazio osserva i fatti e i personaggi; gli esempi più felici sono la satira del viaggio (Sermones I 5) e la satira del seccatore (I 9). E non manca qualche caso in cui diatriba e rappresentazione sono coniugate in un medesimo componimento: Sermones I 6, per esempio, passa dall’autobiografia (origine del poeta e presentazione a Mecenate) all’argomentazione sul valore della nascita e sull’ambizione, per tornare di nuovo alla rappresentazione autobiografica (rievocazione dell’infanzia e del padre, diario di una giornata romana).

Il meccanismo fondamentale del genere satirico nella prima raccolta oraziana consiste nel confronto fra un modello positivo (l’obiettivo della ricerca morale del poeta e dei suoi amici) e tanti modelli negativi (i tipi della società romana che sono bersaglio di aggressione comica).

Ora, questo assetto si rivela estremamente precario, tanto che già la seconda raccolta di Satire mostra dei mutamenti sostanziali. Si registra anzitutto un brusco regresso della componente rappresentativo-autobiografica, presente solamente nel proemio e in Sermones II 6.

Nelle satire argomentative risulta poi dominante la forma del dialogo (ben sei componimenti su otto) e per di più, nella distribuzione delle parti, il ruolo dominante non spetta al poeta, bensì all’interlocutore; anzi, in Sermones II 2 le riflessioni sulla temperanza e la semplicità della vita sono condotte interamente da un certo Ofello di Venosa, di cui Orazio si limita a riportare le parole senza intervenire.

La coincidenza fra il poeta e la “voce satirica” (quella che argomenta e confuta) aveva assicurato un punto di riferimento alla ricerca morale del I libro. Ora che il poeta si ritira in secondo piano non resta più la possibilità di estrarre un senso unitario dalle contraddizioni del mondo reale: tutti gli interlocutori sono depositari di una loro verità, anche se non tutte le verità sono equivalenti e parecchi discorsi si confutano da soli in una involontaria ironia. Ma il poeta non sembra ritenere più che la satira possa essere il luogo di una ricerca morale capace di individuare empiricamente un sistema di condotta soddisfacente.

L’equilibrio fra αὐτάρκεια e μετριότης, che assicurava un buon punto di osservazione del reale, sembra perduto: il poeta non rappresenta ormai la propria capacità di vivere fra la gente senza perdere la propria identità morale, ma permette piuttosto ai suoi interlocutori di denunciare (anche ingiustamente) le debolezze e le incoerenze delle sue scelte. L’unico rifugio è ormai la villa sabina (Sermones II 6), dove l’αὐτάρκεια si giova dell’isolamento e non deve continuamente fare i conti con le contraddizioni della vita cittadina.

Apollo Musagete. Statua, marmo, II sec. d.C. dalla Villa di Cassio (Tivoli). Città del Vaticano, Museo Pio-Clementino.

5. Le Odi

Con le Odi (Carmina) Orazio fornisce alla letteratura latina il capolavoro della poesia lirica, destinato a diventare un modello per ogni epoca di classicismo. La straordinaria maturità della lirica oraziana è dovuta sia ai temi trattati sia alla forma: l’espressione dell’io lirico oraziano – un poeta saggio e orgoglioso, ma anche malinconico e umano – non può essere disgiunta da uno stile calibratissimo ed elegante, che riprende e supera la lezione della brevitas neoterica, né dalla grande varietà di strutture metriche ereditate dalla tradizione lirica greca.

Una raccolta di tre libri (il primo di 38 carmi, il secondo di 20 e il terzo di 30) venne pubblicata nel 23 a.C. Orazio vi aveva lavorato per circa sette anni, conclusa l’esperienza delle Satire e degli Epodi, il più antico componimento databile è il Carmen I 37, un canto di gioia per la morte di Cleopatra, avvenuta nel 30 a.C.

Alla poesia lirica Orazio doveva tornare sei anni più tardi (17 a.C.), per comporre su incarico di Augusto l’inno che un coro di ventisette ragazze e altrettanti ragazzi avrebbe eseguito nelle celebrazioni dei ludi saeculares: è il cosiddetto Carmen saeculare, in metro saffico, un’invocazione agli dèi, soprattutto Apollo e Diana, perché assicurino prosperità a Roma e al principato augusteo.

Il poeta si dedicò poi ancora alla poesia lirica e aggiunse ai precedenti un quarto libro di Odi (15 componimenti): l’ultimo, il Carmen IV 5, fa riferimento al ritorno di Augusto dal Settentrione (luglio del 13 a.C.).

La lirica oraziana sperimenta metri differenti: dominanti sono la strofe alcaica (37 componimenti su 103), la strofe saffica minore (25 componimenti), la strofe asclepiadea nelle sue varie forme (34 componimenti). Gli altri metri sono per lo più rappresentati in esempi isolati. In totale, i quattro libri delle Odi contano 3.034 versi, cui i si aggiungono i 76 versi del Carmen saeculare. Ci sono carmina brevissimi (la famosa I 11 e I 38 hanno per esempio solo 8 versi), odi brevi (di 16, 20 o 24 versi); ci sono odi più lunghe, fino a un massimo di 80 versi (l’ode III 4).

Merita attenzione la disposizione dei componimenti all’interno della raccolta che, come nella tradizione alessandrina, obbedisce a intenti artistici e strutturali. Le odi di apertura e di chiusura sono indirizzate a personaggi di riguardo (I 1 e II 20 a Mecenate; II 1 a Pollione, IV 1 a Paolo Fabio Massimo e IV 15 ad Augusto) e spesso, secondo una tradizione consolidata, mostrano l’orgogliosa consapevolezza del poeta (i casi più noti sono I 1, II 20 e III 30).

Anche il secondo posto, il penultimo e quello centrale sono sedi privilegiate. Talvolta il poeta giustappone carmi di contenuto simile (per esempio Carmen IV 8 e IV 9 sul l’immortalità assicurata dalla poesia), e in un caso costituisce un vero e proprio ciclo (III 1-6), quello delle cosiddette «odi romane», segnalato da un proemio (III 1) e da un proemio mediano (III 4) e dedicato ai temi del mos maiorum ripresi da Augusto. Ma il criterio favorito di organizzazione del libro sembra essere quello della variatio: sia dal punto di vista metrico-formale (i primi nove componimenti del I libro sono in nove differenti metri e in un altro metro ancora è l’ode I 11: quasi un’esposizione in catalogo delle possibilità metriche oraziane!), sia da quello del tono e del contenuto (alternanza di temi politici e temi privati, stile alto e stile leggero).

A differenza della lirica moderna, le odi di Orazio raramente danno voce a libere meditazioni o introspezioni: quasi sempre hanno un’impostazione dialogica, sono rivolte a un “tu” che può essere un personaggio reale (è il caso più frequente), immaginario (sono considerati tali le figure femminili e i personaggi maschili di nome greco), una divinità o la Musa, una collettività, perfino un oggetto inanimato (la lira, strumento della poesia).

La lirica oraziana, così come gran parte della poesia latina, soprattutto augustea, non può essere intesa a prescindere dal rapporto organico con la tradizione greca. La coscienza della dipendenza dai Greci è talmente viva da essere esibita in esplicite dichiarazioni di poetica: se negli Epodi Orazio si dichiarava erede di Archiloco, per quel che riguarda la sua produzione lirica rivendica orgogliosamente il titolo di “Alceo romano” (Carmina I 1, 34; I 26, 11; I 32, 5).

Simili dichiarazioni non implicano però una dipendenza pedissequa e priva di originalità, ma un rapporto di imitatio che significa soprattutto obbedienza alla lex operis (le regole che organizzano il genere letterario in cui il poeta vuole operare), rispetto del decorum letterario e creazione di un coerente sistema di attese nel destinatario. La imitatio è insomma una componente del linguaggio poetico e non un ostacolo all’originalità della creazione.

Del resto, gli stessi poeti romani, e Orazio più degli altri, così come erano consapevoli della loro “genealogia letteraria”, erano altrettanto gelosi del loro originale contributo creativo e non mancavano di farsene vanto (Epistolae I 19, 21-22):

libera per vacuum posui vestigia princeps,

non aliena meo pressi pede.

«Io per primo posi i miei liberi passi per libero suolo,

non calcai col mio piede le orme altrui».

Orazio si dice fiero di aver divulgato per primo la poesia di Alceo, malgrado le difficoltà tecniche del trasferire da una lingua all’altra strutture metriche ed espressive; e da queste orgogliose rivendicazioni nacque un vero e proprio tópos della poesia augustea, quello del et primus ego («e io per primo»). Ma nei confronti del suo modello greco Orazio si comporta con molta liberta, unendo a temi e occasioni tradizionali un’ambientazione e una sensibilità tipicamente romane, nonché un linguaggio poetico personale.

Questa ricerca di originalità all’interno dell’imitazione è visibile soprattutto nella ripresa dello spunto iniziale di un componimento. Diverse odi di Orazio, infatti, partono con una ripresa evidente (a volte quasi una citazione che funziona da motto): poi, però, il poeta procede in maniera sua propria e il modello viene quasi dimenticato (i casi più noti sono Carmina I 9; 10; 14; 18; 37; II 12).

Lawrence Alma-Tadema, Saffo e Alceo. Olio su tela, 1881. Walters Art Museum.

La famosa ode a Taliarco (I 9) si apre, per esempio, con un paesaggio invernale che ricorda un frammento alcaico: a esso, come in Alceo, è connesso un invito a bere. Poi, però, il componimento si sviluppa in riflessioni gnomiche, per finire in un quadro di vita galante cittadina vicino al gusto del realismo alessandrino.

Alceo fu il modello prediletto di Orazio, anche perché in lui poteva trovare contemporaneamente l’attenzione per le vicende della comunità e un canto più legato alla sfera privata (l’amore, l’amicizia, il convito). Questo aspetto è chiaro soprattutto nell’invocazione alla cetra colica, simbolo della lirica del poeta lesbio, in Carmina I 32, 3-12:

… age dic Latinum,

  barbite, carmen,    

Lesbio primum modulate civi,

qui ferox bello tamen inter arma,

sive iactatam religarat udo             

  litore navim,            

Liberum et Musas Veneremque et illi        

semper haerentem puerum canebat         

et Lycum nigris oculis nigroque    

  crine decorum…

«… Intona, suvvia, un carme

latino, o lira

modulata per la prima volta dal cittadino di Lesbo,

che, valoroso guerriero, tuttavia tra una battaglia e l’altra,

o se aveva legato all’umida riva

la nave sbattuta,

cantava Libero e le Muse e Venere

e il fanciullo che sempre

le è accanto, e Lico bello di neri occhi

e neri capelli…».

Del resto, se importanti sono i tratti che accomunano Orazio e Alceo, certo non meno significative sono le differenze: il poeta lesbio era un aristocratico impegnato in prima persona nelle aspre lotte politiche della sua città; in Orazio invece l’interesse per la res publica è poco più che un’immagine letteraria, ovvero l’interesse di un intellettuale, che, dopo un effimero coinvolgimento nelle tempeste civili, vive al riparo dei potenti signori di Roma, alla ricerca della felicità interiore che era stata l’insegnamento principale delle filosofie ellenistiche. Inoltre, mentre Alceo componeva le sue odi per l’esecuzione cantata durante i simposi, la lirica oraziana è scritta per la lettura: di conseguenza, la sua evocazione del simposio è puramente immaginaria e stilizzata, e il suo stile può permettersi raffinatezze e sofisticazioni che Alceo evitava per rendere meglio eseguibili i suoi carmi.

L’altra grande rappresentante della lirica eolica, Saffo, ha lasciato una traccia minore nella poesia di Orazio. In un’ode famosa (II 13) egli immagina Saffo e Alceo che affascinano con il loro canto uno stupito mondo infernale, in cui le ombre sembrano preferire Alceo, cantore delle tempeste civili, agli appassionati lamenti amorosi di Saffo.

Orazio certamente condivideva questo giudizio, e la poetessa dell’amore e della passione gli suggerì spunti poetici solo episodicamente: la cosiddetta «ode della gelosia» (F 31 Voigt), già “tradotta” da Catullo (Carmina 51), si risente in I 13, mentre in IV 9, 10 ss. sono rievocate le «passioni» (calores) della poetessa (si vd. anche I 22, 23-24). Ben più profonda impronta Saffo lascerà nella poesia elegiaca latina.

Un ruolo notevole è svolto anche dalla lirica corale, rappresentata da Stesicoro, Simonide e in misura maggiore Bacchilide. Ma non c’è dubbio che il posto d’onore fra gli auctores di Orazio spetti a Pindaro. Nel riconoscerne la grandezza, Orazio avverte tutti i pericoli cui si espone l’aemulatio di un poeta tanto audace e difficile (Carmina IV 2, 1-4):

Pindarum quisquis studet aemulari,

Iulle, ceratis ope Daedalea              

nititur pinnis, vitreo daturus          

  nomina ponto.

Chi vuol emulare Pindaro,

o Iullo, si affida come Dedalo     

ad ali di cera, per donare il proprio nome       

  a un mare di cristallo.

Orazio tenta una lirica “pindarica” soprattutto nel IV libro, rispondendo anche a sollecitazioni culturali augustee, ma anche nei libri precedenti (si vd., per esempio, il motto di I 12 o III 4, la «IV ode romana») la sua ricerca del sublime si nutre di suggestioni “pindariche”: periodi ampi, solenne gravità delle sentenze, ammonimenti improvvisi, transizioni audaci. E dal poeta tebano vengono a Orazio idee importanti, come la coscienza dell’alta funzione della poesia, la capacità del poeta di conferire l’immortalità, l’apprezzamento della saggezza etico-politica.

Frederic Leighton, Dedalo e Icaro. Olio su tela, 1869.

Il richiamarsi di Orazio alla lirica greca arcaica era dovuto a una precisa scelta programmatica ed esprimeva la volontà di distinguersi dall’alessandrinismo dei neoteroi. Ciò, però, non significa che Orazio ignorasse l’esperienza della poesia ellenistica, da cui anzi derivava un vasto repertorio di temi, immagini, situazioni (relative soprattutto alla sfera dell’amore, della relazione galante, ma anche a quella di feste e cerimonie pubbliche, del convito, del paesaggio) nonché alcuni aspetti fondamentali della sua cultura e della sua poetica, primo tra tutti la cura formale, il labor limae.

È consolidata l’immagine di Orazio poeta dell’equilibrio sereno, del distacco dalle passioni, della moderazione: e l’immagine tradizionale è, in questo come in altri casi, abbastanza rispettosa della realtà. Essa fa intuire, prima di tutto, il ruolo centrale che nella lirica oraziana è svolto dalla meditazione e dalla cultura filosofica: una meditazione già presente nella lirica greca arcaica, ma che in Orazio è sostanzialmente diversa in quanto discendente dalle filosofie ellenistiche attraverso la mediazione della diatriba.

Diversamente dalle Satire, però, nelle Odi non si vede una ricerca morale fondata sull’osservarione critica degli altri, ma una raccolta meditazione su poche fondamentali conquiste della saggezza (soprattutto epicurea); perciò, in un certo senso, si può dire che le Odi cominciano dove le Satire finiscono. A queste nozioni elementari, che devono parecchio anche al buon senso comune, Orazio ha saputo dare una formulazione tanto nitida e incisiva da consegnarle all’eredità della cultura europea.

Il punto centrale è la coscienza della brevità della vita, che comporta la necessità di appropriarsi delle gioie del momento, senza perdersi nell’inutile gioco delle speranze, dei progetti o delle paure. Più famosa di tutte è l’esortazione a Leuconoe (Carmina I 11, 6-8):

… sapias, vina liques, et spatio brevi         

spem longam reseces. dum loquimur, fugerit invida      

aetas: carpe diem quam minimum credula postero.

«… sii saggia, mesci il vino, e in un breve spazio

taglia la tua lunga speranza. Mentre parliamo, già sarà fuggito, maligno,

il tempo che ci è concesso: strappagli il giorno e non fidarti troppo del domani».

Aveva detto Epicuro (Gnomologio Vaticano, 14): «Si nasce una volta sola, due volte non è concesso, in eterno non saremo più. Tu, pur non essendo padrone del tuo domani, rimandi la gioia: la vita così trascorre in questo indugiare e ciascuno di noi muore senza aver goduto della quiete». Il saggio affronterà gli eventi, quali che siano, e saprà accettarli: egli conta solo sul presente, che cerca di cogliere nella sua fugacità, e si comporta come se ogni giorno della sua vita fosse l’ultimo. Il carpe diem non va, quindi, frainteso come un banale invito al godimento: in Orazio (come era anche in Epicuro) l’invito al piacere non è separato dalla consapevolezza acuta che quel piacere stesso è caduco, come caduca è la vita dell’uomo. Non resta che fabbricarsi, di fronte all’incalzare della morte o della sventura, la solida protezione dei beni già goduti, della felicità già vissuta (Carmina III 29, 41-48):

ille potens sui    

laetusque deget, cui licet in diem         

  dixisse “vixi”. cras vel atra          

    nube polum pater occupato   

vel sole puro; non tamen inritum         

quodcumque retro est efficiet neque   

  diffinget infectumque reddet   

    quod fugiens semel hora vexit.

… avrà pieno dominio di sé        

e felice vivrà colui che tutti i giorni      

  potrà dire: “Ho vissuto”. Domani invada pure

    Giove padre con neri nembi il cielo  

o con la pura luce del Sole; non cancellerà certo       

ciò che ci sta dietro e non potrà mutare          

  o far sì che non esista ciò che l’ora      

    fuggente una volta per tutte ci ha portato.

Questa meditazione può talvolta tradursi in canto della propria serenità: la felicità dell’αὐτάρκεια, la condizione del poeta-saggio, libero dai tormenti della follia umana e benedetto dalla protezione degli dèi. Il favore divino si manifesta trasfigurando in miracolo circostanze dell’esistenza quotidiana (vari episodi di scampato pericolo, dall’infanzia all’attualità) ed è sempre intimamente connesso con la vocazione di poeta: gli dèi e le Muse hanno salvato Orazio per riservarlo a quel destino.

Pittore di Achille. Una Musa che suona la lira. Pittura vascolare da una λήκυθος attica a sfondo bianco, 440-430 a.C. ca.

Eppure, saggezza, serenità, equilibrio, padronanza di sé e l’aurea mediocritas («preziosa medietà») di chi sa fuggire tutti gli eccessi e adattarsi a tutte le fortune, niente di tutto ciò è un possesso sicuro, acquisito una volta per sempre. Il poeta non ignora la forza insidiosa delle passioni, conosce le debolezze dell’animo, e sa che ciò cui egli aspira e che consiglia agli amici va conquistato e difeso in ogni momento. La saggezza si scontra così con i dati immutabili della condizione dell’uomo nel mondo: la fugacità del tempo, la vecchiaia, la morte. Nessuna saggezza ha la capacità di eliminare tanto peso negativo: contro le angosce e contro il dolore della vita si può soltanto ingaggiare una lotta virile che richiede energia e conosce qualche eroismo, per trasformare l’inquietudine e l’amarezza in accettazione del destino (Carmina IV 7, 7-16 passim):

inmortalia ne speres, monet annus et almum    

  quae rapit hora diem. […]

damna tamen celeres reparant caelestia lunae:              

  nos ubi decidimus 

quo pius Aeneas, quo dives Tullus et Ancus,

  pulvis et umbra sumus.

«A non nutrire speranze immortali ti ammonisce l’anno    

  e l’ora che trascina via il vivifico giorno. […]

Eppure, in cielo rapide lune ripristinano ciò che hanno perso:      

  quanto a noi, invece, una volta caduti

dove il pio Enea, dove il potente Tullo e Anco,

  siamo polvere e ombra».

Orazio non è però un asceta separato dal mondo. Egli mostra di conoscere bene i sentimenti e le relazioni umane e non ignora la passione: ne conosce la crudeltà, la rievoca con malinconia, la sente inopinatamente risorgere. Ma la saggezza faticosamente conquistata e gelosamente conservata vanno di pari passo con una pratica di vita fatta di pochi amici sicuri, pochi luoghi protetti e sentimenti da guardare con il necessario distacco.

Si tratta di un sistema coerente e unitario di ideali, sentimenti e luoghi che si adattano perfettamente tra di loro.

Quasi un quarto delle Odi possono essere classificate come «erotiche». La poesia amorosa di Orazio, a differenza di quella di Catullo e degli elegiaci, sembra nutrirsi del distacco ironico dalla passione. A parte qualche eccezione, l’amore viene analizzato come un rituale il cui canovaccio è piuttosto scontato: serenate, incontri, giuramenti, schermaglie, vita galante, banchetti. Spesso il poeta osserva con un sorriso la credulità del giovane amante, la serietà con cui ciascuno interpreta la sua parte, giura l’esclusività e l’eternità del proprio sentimento.

Anche l’amicizia, nelle Odi, come, del resto, in tutte le opere del poeta, ha un ruolo fondamentale e fornisce ai singoli componimento un ampio ventaglio di destinatari, ciascuno con la sua specificità di amico; e a ciascuno viene dedicata un’attenzione affettuosa.

La campagna è il luogo di elezione dell’equilibrio oraziano. Di solito è stilizzata secondo il modulo del locus amoenus, un gradevole paesaggio italico che ospita il convito, il riposo, la semplice vita rustica; ma Orazio conosce anche il fascino del paesaggio “dionisiaco”: una natura montana, selvaggia e aspra, fatta di rupi, boschi e fonti, non ancora domata dall’uomo.

Ma i luoghi più propriamente oraziani sono quelli individuati dallo spazio limitato e racchiuso del piccolo podere personale – spazio caro perché noto e sicuro, inattaccabile perché appartato e volutamente modesto (Carmina I 17, 17 hic in reducta valle); ma per ritrovarsi al poeta basta qualche volta un qualunque pezzo di quieta campagna o una solitaria spiaggia sul mare.

Questo spazio privilegiato funziona nel testo come una figura simbolica sia dell’esistenza dell’autore (è la forma dei suoi affetti, pochi ma sicuri) sia della sua esperienza poetica (ne è la forma estetica, in quanto spazio che vuole rappresentare un ordine e un senso).

Orazio chiama questo luogo-simbolo angulus (Ille terrarum mihi praeter omnis / angulus ridet, «Quell’angolo di mondo più d’ogni altro mi sorride», Carmina II 6, 13), il luogo deputato al canto, al vino e alla saggezza. E per quanto il tema possa apparire convenzionale, è pur vero che esso trova in Orazio nuove funzioni in quanto si associa a due altri grandi temi: quello della morte (il cui pensiero, in questo spazio privilegiato, si fa meno amaro e si attenua in malinconia) e soprattutto quello dell’amicizia.

L’altro polo della lirica oraziana, la poesia impegnata sui temi civili, con la celebrazione di personaggi, avvenimenti e miti del regime di Augusto, risulta per molti versi lontano dagli argomenti privati; pur se in Orazio, con una differenza importante rispetto alla lirica neoterica, tutta la sfera privata aspira sempre a una validità generale, a esprimere la condizione complessiva dell’uomo. La lirica civile, molto discussa nei suoi risultati, non manca certo di originalità. La poesia celebrativa legata ai monarchi ellenistici non fornisce più che qualche tratto esteriore: su questo tronco (e naturalmente su quello della lirica greca arcaica) Orazio ha saputo innestare spunti nazionali, suggestioni provenienti dall’epica e dalla storiografia. L’operazione era ambiziosa e rispondeva anche a profonde esigenze personali, ben radicate in una generazione, che, dopo le lacerazioni delle guerre civili, guardava con speranza, entusiasmo, e qualche angoscia mal sopita, al princeps vincitore e garante della pace. Non bisogna perciò pensare soltanto alle pressioni energiche della politica culturale augustea.

L’immagine di Orazio cantore della grandezza di Roma e dei valori eterni dell’impero, esaltata e poi caduta in sospetto durante il XX secolo per la retorica della romanità, può essere oggi finalmente valutata in modo più equilibrato.

La lirica civile di Orazio conosce la celebrazione, l’encomio, l’ufficialità, ma non può essere liquidata come propaganda in versi. Anzitutto perché, anche dove riflette con fedeltà i temi e le successive fasi dell’ideologia del principato, sa evitare chiusure dogmatiche ed esaltare il sublime della magnanimità: per esempio, la lealtà verso la causa tradizionalista e i suoi eroi sventurati (Carmina II 7; I 12; II 1) o l’ammirazione per la virtus anche nel più odioso dei nemici (celebre il quadro di Cleopatra che affronta impavidamente la morte in I 37). E poi perché Orazio sa spesso farsi interprete di incertezze e timori, di scoraggiamenti e poi di improvvise gioie liberatrici – insomma, dei sentimenti e delle aspirazioni profonde della comunità. Anche la lode del principe in genere sfugge alle movenze cortigiane dell’encomio ellenistico, per dar voce alla sincera ansiosa gratitudine nei confronti del pacificatore dell’Impero.

Giovanni Battista Tiepolo, Mecenate presenta ad Augusto le Arti Liberali. Olio su tela, 1743.

Dell’ideologia augustea, la lirica civile oraziana condivide l’impostazione moralistica: la crisi era derivata dalla decadenza degli antiqui mores, dall’abbandono di quel coerente sistema di valori etico-politici e religiosi che aveva fatto la grandezza di Roma.

Questa poesia moralistica può incontrare a tratti la ricerca oraziana e convivere con essa, perché la critica del lusso e delle stravaganze, l’ammirazione per l’autosufficienza della virtus e l’apprezzamento della razionalità contro le forze del caos erano temi comuni alle filosofie ellenistiche. La pubblica ricorrenza può essere anche occasione di gioia privata: il poeta festeggia con un convito, con un incontro galante. Orazio inaugura così una maniera che sarà importante per altri poeti dell’età di Augusto (per Properzio e, soprattutto, per Ovidio).

Nelle odi di argomento civile risalta più che altrove il motivo della vocazione poetica, che d’altra parte è una presenza ricorrente in tutti i carmi. Il vates si sente in rapporto con le Muse le altre divinità ispiratrici (Mercurio, Bacco, Apollo): attraverso la topica ellenistica Orazio esprime entusiasmo per la sua missione fin dalla prima ode (I 1), dedicata a Mecenate, dove la scelta della poesia è rivendicata con orgoglio. E se l’ode conclusiva del primo libro (I 38) privilegia ancora la dimensione intimistica del simposio, quelle del II e del III libro professano apertamente l’orgoglio della missione letteraria. Per esempio, in II 20 il poeta immagina addirittura di trasformarsi in un cigno, animale sacro ad Apollo, e afferma che l’immortalità conferitagli dall’arte rende inutili i pianti al suo funerale (riprendendo l’epigramma funebre di Ennio); analogamente in III 30 Orazio afferma con sicurezza: «Non morirò del tutto» (non omnis moriar, v. 6), perché con la sua opera ha innalzato «un monumento più duraturo del bronzo» (v. 1).

La polarità tra dimensione intima e dimensione pubblica è naturalmente una semplificazione, che finisce per oscurare la varietà e la vitalità tematica della poesia lirica di Orazio. Questa varietà è spesso dovuta alle diverse categorie in cui si articolava l’antica lirica greca (il suo modello di partenza) a seconda delle “occasioni” cui era destinata.

Ben rappresentati sono i carmi conviviali, che rimandano ai συμποτικά («canti da simposio») alcaici per quel che riguarda la descrizione del paesaggio e l’invito a bere per vincere la malinconia dell’esistenza, ma devono molto anche all’epigramma ellenistico negli inviti e nelle descrizioni dei preparativi, con il tradizionale apparato del simposio ellenistico-romano (vino, fiori, musica).

Ben rappresentato nella lirica oraziana è anche l’inno. Qui naturalmente le differenze con la lirica arcaica sono cospicue, anche perché la lirica religiosa oraziana è priva del legame con un’occasione e un’esecuzione rituale (a parte il Carmen saeculare). Dell’inno Orazio conserva spesso il formulario e l’andamento (l’invocazione in seconda persona, gli epiteti cultuali del dio, l’illustrazione di prerogative e sedi del culto, gli inviti alla presenza, le richieste), ma poi lo intesse di riferimenti e sviluppi di carattere letterario.

Non sempre però è facile collocare un’ode oraziana in un tipo ben definito, anche perché il poeta ama spesso contaminare in un medesimo componimento categorie liriche diverse (secondo il procedimento alessandrino dell’incrocio fra i generi»). Per esempio, in III 37 Orazio contamina il προπεμπτικόν («carme di buon viaggio») e il carme mitologico; in III 11 un inno e un carme mitologico; in III 14 l’encomio per Augusto e il carme simposiale; in I 4 un epigramma sulla primavera e una poesia conviviale.

Charles Jalabert, Orazio, Virgilio e Vario nella casa di Mecenate. Olio su tela, 1777. Nimes, Musée des Beaux-Arts.

6. Le Epistole

Dopo la grande stagione della poesia lirica, Orazio ritorna, con le Epistolae, all’esametro della “conversazione”: appunto sermones è il nome che Orazio dà anche alle sue “lettere in versi”, lo stesso usato per le Satire, che come quelle trattano di argomenti morali.

Il I libro delle Epistole fu pubblicato nel 20 a.C.: Orazio vi lavorò tre anni, dopo la pubblicazione dei primi tre libri delle Odi. La raccolta comprende 20 componimenti in esametri: si va dai 16 versi della IV epistola ai 112 di I 18. I versi sono in totale poco più di mille.

II II libro, forse pubblicato postumo, fu composto negli anni fra il 19 e il 13 a.C. Contiene due lunghe epistole di argomento letterario: la prima, dedicata ad Augusto, critica l’ammirazione per i poeti arcaici ed esamina lo sviluppo della letteratura romana; la seconda, indirizzata a Giulio Floro, più personale, è una specie di congedo dalla poesia, con un quadro memorabile della vita quotidiana del letterato romano e un’ampia riflessione sulla ricerca della saggezza filosofica.

Sebbene la tradizione manoscritta non la includa nella raccolta delle Epistole, fin dal XVI secolo l’epistola ai Pisoni, detta Ars poetica, è stampata dopo le due epistole del libro II, a cui la accomunano la forma epistolare e l’argomento letterario. La datazione è molto discussa: probabilmente è posteriore al 13, data dell’epistola ad Augusto, ma alcuni la collocano tra il I libro delle Epistole (20 a.C.) e il Carmen saeculare (17 a.C.). L’Ars poetica è un trattato di 476 esametri, che espone teorie peripatetiche sulla poesia, soprattutto drammatica. Con una certa difficoltà è stata rintracciata una struttura interna dell’opera: i vv. 1-294 parlano dell’ars, i vv. 295-476 dell’artifex; a sua volta, la prima sezione sembra bipartita tra la trattazione della poesia (il contenuto dell’opera, vv. 1-41) e la trattazione del poema (lo stile, vv. 42-294).

La sensibilità oraziana per il trascorrere inesorabile del tempo, acuita dall’impressione di una precoce vecchiaia, fa sentire la conquista della saggezza come urgente, improcrastinabile. Ma, al tempo stesso, Orazio non sembra più in grado di costruire (né per gli altri né per sé) un modello di vita soddisfacente.

La rinuncia alla vita sociale e all’ottimismo etico è simboleggiata dalla fuga da Roma verso il raccoglimento della campagna sabina: un ritiro inquieto, ma per lo meno lontano da impegni, sollecitazioni, passioni, nei confronti delle quali il poeta si sente adesso indifeso.

L’esigenza dell’αὐτάρκεια è ora più vivace che mai, ma neanche questa sembra garantire al poeta un atteggiamento coerente e costante. Orazio sembra oscillare, senza individuare mai davvero un punto di plausibile equilibrio, tra un rigore morale che lo attrae ma lo spaventa e un edonismo di cui avverte insieme concretezza e fragilità. Nella epistola che fa da proemio, il poeta si dichiara indipendente da ogni ortodossia filosofica (Epistolae I 1, 13-19):

ac ne forte roges, quo me duce, quo lare tuter:   

nullius addictus iurare in verba magistri,            

quo me cumque rapit tempestas, deferor hospes.

nunc agilis fio et mersor civilibus undis  

virtutis verae custos rigidusque satelles, 

nunc in Aristippi furtim praecepta relabor          

et mihi res, non me rebus subiungere conor.

Non mi domandare chi mi conduca, sotto quale tetto mi sia rifugiato:

non mi impegnai a giurare per le parole d’un maestro,

ovunque il tempo mi porti, mi ritrovo essere ospite.

A volte mi pare di destarmi, mi immergo tra i marosi della vita civile,

mi sento soldato della virtù verace, suo difensore inflessibile;

poi, senza sapere come, scivolo nelle dottrine d’Aristippo,

riprovo a dominare la realtà, invece di esserne dominato.

Non si tratta qui tanto di rivendicare un’originale mediazione fra concetti e posizioni attinte a tradizioni filosofiche diverse o alla predicazione diatribica, che tendeva all’eclettismo. Orazio parla, programmaticamente, delle oscillazioni che caratterizzano la morale delle Epistole, che contempla, per esempio, la possibilità di accostare l’epistola 16, di impronta più chiaramente stoica, centrata sul tema della libertà interiore e sul vero ideale del vir bonus, alla coppia costituita dalle epistole 17 e 18, che presentano didascalicamente una serie di consigli e di riflessioni sulla maniera di vivere accanto ai potenti e di assicurarsene il favore.

Alle aporie della ricerca morale oraziana sembra da collegare lo spazio notevole ora accordato al tema diatribico (già mirabilmente svolto da Lucrezio e affiorato nel II libro delle Satire) dell’insoddisfazione di sé, dell’incostanza, della noia angosciosa e impaziente. L’inquietudine è presentata come una specie di male del secolo (Epistole I 11, 27-30):

caelum non animum mutant qui trans mare currunt.

strenua nos exerces inertia: navibus atque

quadrigis petimus bene vivere. quod petis, hic est,

est Ulubris, animus si te non deficit aequus.

«Cambia cielo, non animo, chi corre di là dal mare.

Un torpore smanioso ci logora: noi che cerchiamo con navi

e quadrighe la vita felice. Ciò che cerchi è qui,

è ad Ulubre, se non ti manca l’equilibrio dell’animo».

Ma il poeta non si sente affatto al riparo, né i propositi di saggezza sembrano capaci di assicurargli la guarigione dall’insidiosa e tenace malattia (Epistole, I 8, 3-12):

si quaeret quid agam, dic multa et pulcra minantem   

vivere nec recte nec suaviter, haud quia grando

contuderit vitis oleamve momorderit aestus,      

nec quia longinquis armentum aegrotet in agris;           

sed quia mente minus validus quam corpore toto          

nil audire velim, nil discere, quod levet aegrum,              

fidis offendar medicis, irascar amicis,      

cur me funesto properent arcere veterno,             

quae nocuere sequar, fugiam quae profore credam,      

Romae Tibur amem, ventosus Tibure Romam.

«Se ti chiederà cosa faccio, digli così: io, che molte e belle cose minacciavo,

non vivo né secondo virtù né piacere; non perché la grandine

m’ha ammaccato le viti o la calura ha morso le olive,

né perché il bestiame s’è ammalato in pascoli lontani;

ma perché, infermo nell’animo più che nel corpo tutto,

non voglio ascoltare né sapere ciò che potrebbe guarirmi,

m’arrabbio con medici fidati, m’adiro con gli amici,

perché s’affannano a liberarmi dal mortale torpore;

inseguo ciò che mi fa male, fuggo ciò da cui m’aspetto giovamento;

come il vento, a Roma mi piace Tivoli, a Tivoli mi piace Roma».

All’esibita debolezza della propria posizione etico-filosofica fa riscontro – quasi paradossalmente – un’accresciuta impostazione didascalica del discorso oraziano. La forma epistolare stessa, infatti, corrisponde in qualche modo alla posizione di un intellettuale eminente e rispettato, che è interlocutore e anche punto di riferimento dell’élite sociale del suo tempo.

Nel rapporto a due che è proprio di una lettera c’è spazio per confessare, ma anche per ammonire e insegnare, soprattutto se la persona di un destinatario inesperto (molte delle epistole sono indirizzate a giovani amici) sembra in qualche maniera richiederlo (Epistole I 17, 3-5):

disce, docendus adhuc quae censet amiculus, ut si

caecus iter monstrare velit, tamen adspice, siquid

et nos quod cures proprium fecisse, loquamur.

«Impara quello che sentenzia il tuo amichetto, che avrebbe bisogno lui,

ancora, di insegnamenti; è come se un cieco volesse mostrare la via:

bada, però, se anch’io non dico qualcosa che potresti avere interesse a far tuo».

L’aspetto didascalico si accentua nelle epistole del II libro e soprattutto nell’Ars poetica. La società augustea è anche una società di letterati e di amanti delle arti: i problemi di critica letteraria, di poetica e di politica culturale sono fra quelli di più viva attualità. Orazio interviene nel dibattito con l’autorità che gli è garantita da un sicuro prestigio e anche dal suo personale rapporto con il princeps. Anzi, è proprio Augusto l’interlocutore primario di questi discorsi sull’arte e la letteratura.

Per assicurare una più ampia base ideologica e culturale al difficile compromesso sociale del principato, Augusto vedeva con favore una produzione letteraria romana e popolare, ma l’Eneide aveva dato una risposta solo parziale alla richiesta da parte di Ottaviano di un poema epico-storico che interpretasse l’austera ideologia dei maiores e cantasse il destino imperiale di Roma.

Restava aperta (e urgente agli occhi del principe) la questione del teatro latino: la generosa ricompensa concessa al Tieste di Vario dimostra quanta importanza venisse annessa a una forma d’arte cui si accreditavano le più larghe possibilità di penetrazione ideologica, in quanto più capace di rappresentare valori e modelli culturali.

La questione del teatro è centrale nelle epistole letterarie di Orazio: nell’epistola ad Augusto (II 1) il poeta polemizza contro il favore indiscriminato nei confronti dei poeti del teatro arcaico. In una specie di disputa «degli antichi e dei moderni», Orazio si schiera decisamente dalla parte di questi ultimi, in nome del principio callimacheo dell’arte colta e raffinata. Egli resiste, su questo punto importante, alle preferenze di Augusto stesso e raccomanda soprattutto al princeps un’attenzione benevola per la poesia destinata alla lettura, l’unica che possa raggiungere, secondo lui, i livelli di eccellenza formale che la cultura e il prestigio stesso della Roma augustea richiedono necessariamente.

Orazio non mostra di nutrire fiducia in una vera rinascita del teatro, anche perché un pubblico meno selezionato e raffinato di quello cui si rivolge la letteratura scritta non sembra disposto ad apprezare una produzione drammatica di qualità e predilige invece il fasto spettacolare o le dozzinali buffonerie di mimi e acrobati.

L’Ars poetica (II 3) sembra tuttavia orientare la sua analisi dell’arte e della poesia sui problemi della letteratura drammatica (non solo la tragedia e la commedia, ma addirittura il dramma satiresco, della cui vitalità a Roma non è rimasta traccia). Questo dovrà essere messo in rapporto con il posto privilegiato che il dramma aveva nelle trattazioni di ascendenza peripatetica (a partire proprio dalla Poetica di Aristotele), a cui Orazio si riconnette direttamente, sebbene in modo personale. Non bisogna però pensare alla ricezione passiva di una fonte greca: dopo le perplessità e le resistenze espresse nell’epistola ad Augusto, Orazio accetta di offrire con l’Ars poetica il proprio contributo di teorico, se non di poeta militante, alla questione del teatro.

Egli comunque resta fedele nell’Ars ai suoi principi, predicando un’arte raffinata (v. 291: si raccomanda di perfezionare con il labor limae il proprio prodotto), paziente (vv. 388-389: è meglio tenere i propri scritti nel cassetto per nove anni, prima di renderli pubblici – un precetto già neoterico!), colta (v. 268: bisogna leggere e rileggere i grandi modelli greci), attenta (i principi fondamentali sono quelli della coerenza e della convenienza o decorum).

Nel quadro di queste riflessioni Orazio ha occasione tra l’altro di disegnare preziosi tracciati di storia della cultura e della letteratura sia greca sia romana, nonché di aprire interessanti squarci sulla “vita quotidiana” del letterato romano e dei circoli letterari dell’Urbe (II 2).

Malgrado le somiglianze tra Epistole e Satire, già i commentatori antichi sentirono l’esigenza di distinguere la nuova raccolta da quella satirica: sembrano diverse solo in questo, che ora Orazio parla ad assenti, mentre là, nelle Satire, è come se parlasse sempre a gente che sta davanti a lui. La specifica identità delle Epistole è anzitutto assicurata proprio dalla forma epistolare: tutti i componimenti hanno un destinatario e della lettera vengono spesso esibiti i segnali caratteristici (le formule di saluto e di commiato).

Oltre al rapporto con le Satire, si discute anche del carattere “reale” di queste lettere: nessuno crede naturalmente a una vera e propria funzione privata, ma non si può neppure escludere che singole lettere, pur pensate come opera di letteratura e destinate al pubblico dei lettori, siano state di volta in volta inviate, come omaggio letterario, ai rispettivi destinatari.

A ogni modo, la componente epistolare assicura al sermo oraziano una intonazione più personale, nonché la varietà di modi e atteggiamenti che è richiesta dall’attenzione nei confronti del destinatario.

Dal punto di vista formale, le Epistole erano quasi certamente una novità: in quello che è rimasto (o di cui si ha notizia precisa) della letteratura greca e latina, non c’è niente di davvero simile. Si sa di epistole in versi (ce n’erano, per esempio, nelle satire di Lucilio e sono dichiaratamente lettere alcune poesie di Catullo, come il Carmen 68), ma non trattavano temi filosofici; viceversa, erano ben note trattazioni filosofiche sotto forma epistoalre (basti pensare alle lettere di Platone e più ancora a quelle di Epicuro ai suoi discepoli), ma in prosa.

Una raccolta sistematica di lettere in versi come quella di Orazio è probabilmente sperimentazione originale, tanto più che in questo caso il poeta non si richiama ad alcun primus inventor del genere, come invece fa altre volte.

Ma le novità delle Epistole e la loro differenza rispetto alle Satire sono ben visibili soprattutto a livello di contenuti: manca, per esempio, alle Epistole quell’aggressività comica che, ancora per Orazio, era la marca evidente del genere satirico. La riflessione morale non procede ora attraverso una osservazione critica della società contemporanea: sembra prendere coscienza sempre più netta delle proprie debolezze e contraddizioni; l’equilibrio fra αὐτάρκεια e μετριότης, su cui si reggeva la possibilità stessa della satira, appare ormai irrecuperabile, e non si intravede nessun equilibrio diverso.

La lingua dei Greci

La nostra conoscenza delle letterature antiche si basa prevalentemente su testi scritti, che hanno conservato, sopravvivendo attraverso i secoli, i documenti – letterari e non – delle loro civiltà.

È andato invece quasi completamente perduto il patrimonio orale, costituito non soltanto dalle manifestazioni letterarie anteriori all’introduzione della scrittura, ma anche da quei testi che, successivamente a tale innovazione, continuarono a essere concepiti e prodotti non per essere trascritti, ma per essere eseguiti in determinate circostanze (riti, feste, conviti, cerimonie pubbliche, rappresentazioni teatrali, ecc.) secondo modelli, schemi e formule tramandati oralmente.

Iscrizione con il fr. col. 11 delle Leggi di Gortyna (IC IV 72). Calcare, V sec. a.C. ca. da Creta. Paris, Musée du Louvre.

Tra i testi prodotti in funzione della comunicazione orale sono sopravvissuti solamente quelli che furono messi per iscritto: le orazioni, affidate alla trascrizione in modo non sistematico e spesso rielaborate rispetto al discorso effettivamente pronunciato, e i testi teatrali, composti per essere recitati, alla cui redazione scritta provvedeva generalmente l’autore stesso.

Le più remote attestazioni scritte delle lingue greca e latina sono costituite da iscrizioni o epigrafi (il termine latino inscriptio e il greco ἐπιγραφή, dal verbo ἐπιγράφειν, “scrivo su [qualcosa]”, sono equivalenti), ossia da testi redatti con strumenti di vario tipo su qualsiasi oggetto per assolvere a diverse necessità comunicativi, in contesto sia pubblico sia privato.

Legge sacra (IG IV 506 = SEG XI 302). Tavoletta, bronzo, c. 575-550 a.C. dall’Heraion di Argo.

Secondo la teoria più accreditata, l’alfabeto greco fu l’adattamento alle esigenze della lingua greca di un sistema scrittorio precedente, noto come “alfabeto matrice”, elaborato da gruppi etnici “fenici” nella seconda metà del II millennio a.C. e riconducibile alla più vasta famiglia delle scritture ugaritiche, sviluppatesi all’interno dell’area d’influenza della città di Ugarit (od. Ras Shamra, Siria).

Su luogo e tempo dell’importazione del sistema alfabetico è possibile soltanto fare delle ipotesi: accettando la premessa di un’origine “fenicia”, gli esperti collocano l’evento tra il IX e la prima metà dell’VIII secolo a.C., in una qualche zona di contatto tra la cultura ellenica e quella fenicia.

Dall’alfabeto fenicio all’alfabeto greco (Guarducci 1967, 74).jpg

A proposito della derivazione “fenicia” dell’alfabeto greco, Erodoto di Alicarnasso conserva questo mito nelle sue Storie:

Οἱ δὲ Φοίνικες οὗτοι οἱ σὺν Κάδμῳ ἀπικόμενοι, τῶν ἦσαν οἱ Γεϕυραῖοι, ἄλλα τε πολλὰ οἰκήσαντες ταύτην τὴν χώρην ἐσήγαγον διδασκάλια ἐς τοὺς ῞Ελληνας καὶ δὴ καὶ γράμματα, οὐκ ἐόντα πρὶν ῞Ελλησι ὡς ἐμοὶ δοκέειν, πρῶτα μὲν τοῖσι καὶ ἅπαντες χρέωνται Φοίνικες· μετὰ δὲ χρόνου προβαίνοντος ἅμα τῇ ϕωνῇ μετέβαλον καὶ τὸν ῥυθμὸν τῶν γραμμάτων. Περιοίκεον δέ σϕεας τὰ πολλὰ τῶν χώρων τοῦτον τὸν χρόνον ‘Ελλήνων ῎Ιωνες· οἳ παραλαβόντες διδαχῇ παρὰ τῶν Φοινίκων τὰ γράμματα, μεταρρυθμίσαντές σϕεων ὀλίγα ἐχρέωντο, χρεώμενοι δὲ ἐϕάτισαν, ὥσπερ καὶ τὸ δίκαιον ἔϕερε ἐσαγαγόντων Φοινίκων ἐς τὴν ‘Ελλάδα, ϕοινικήια κεκλῆσθαι.

Perciò, questi Fenici che erano giunti con Cadmo, ai quali appartenevano i Gefirei, avendo abitato questa regione [= la Beozia] introdussero fra i Greci molti e svariati insegnamenti, e fra questi le lettere dell’alfabeto, che, come mi sembra, non esistevano prima presso gli Elleni; e dapprima usarono quelle lettere di cui si servono tutti i Fenici; poi, con il passare del tempo, insieme al suono, cambiarono anche la sequenza delle lettere. All’epoca, la maggior parte delle terre intorno erano abitate, tra i Greci, dagli Ioni: costoro, avendo appreso grazie all’insegnamento dei Fenici le lettere, dopo averne modificato leggermente la sequenza, se ne servirono e usandole le chiamarono – com’era giusto che fosse – dato che in Grecia le avevano introdotte i Fenici, “lettere fenicie”.

(Hᴅᴛ. V 58, 1-2)

Pittore anonimo, Cadmo e il dragone. Pittura vascolare su cratere a campana a figure rosse, c. 350-340 a.C. da Sant’Agata dei Goti. Paris, Musée du Louvre.

La principale innovazione apportata dai Greci al sistema originario – quale che fosse – fu l’introduzione delle vocali; nelle scritture proposte come modello dell’alfabeto greco i suoni vocalici, utili per lo più per individuare la sola flessione di un vocabolo, erano omessi. Tale modifica si realizzò con l’uso di segni consonantici presenti nell’alfabeto originario, ma superflui per la lingua greca, per indicare fonemi vocalici. Essa rispondeva a un’esigenza specifica dei parlanti, poiché la varietà dei suoni vocalici in greco avrebbe reso una scrittura solo consonantica incomprensibile; nel contempo, essa fece del sistema scrittorio greco la grafia più ‘fonologica’ del Mediterraneo.

Le testimonianze più antiche mostrano, infatti, varianti epicoriche (cioè geograficamente determinate) dell’alfabeto. Tra le prime attestazioni significative di questa scrittura sono rappresentate dall’oinochoe del Dipylon (CEG 432, 740-725 a.C.) e dalla Coppa di Nestore (CEG 454, 735-720 a.C.).

La prima è una brocca rinvenuta nel 1871 in una tomba della necropoli del Dipylon (la “doppia porta”), un luogo in Atene che immetteva nel quartiere dei vasai. Il manufatto reca la seguente iscrizione: hὸς νῦν ὀρχεστõν πάντōν ἀταλοτατα παίζει, τõ τόδ̣ε … («Chi ora fra i danzatori tutti con più brio danzi, …»), da completare forse con «questo vaso sia il premio», a conferma del carattere dedicatorio e simposiale dell’iscrizione.

Oinochoe del Dipylon. Decorazione geometrica e iscrizione (CEG 432), c. 740-720 a.C. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

L’altro reperto fu rinvenuto nel 1955 in una necropoli dell’antica Pithecussa (od. Ischia), importato probabilmente da Rodi, e reca inciso su un lato (con scrittura che va da destra verso sinistra, cioè sinistrorsa, secondo la consuetudine fenicia) un epigramma di tre versi (un trimetro giambico e due esametri dattilici), scritto in un alfabeto greco particolare, detto euboico dal nome della regione – l’Eubea – in cui era diffuso:

Νέστορός ε[μ]ι εὔποτ[ον] ποτεριον

hὸς δ᾿ ἂν τõδε πίεσι ποτερί[ō] αὐτίκα κενον

hίμερος hαιρεσει καλλιστε[φά]νō Ἀφροδίτες.

«Di Nestore io sono la coppa, da cui si beve bene,

e chi beva da questa coppa, subito lui

prenderà il desiderio di Afrodite dalla bella corona».

‘Coppa di Nestore’. Kotyle LG II rodia, orientalizzante, dalla necropoli di San Montano a Lacco Ameno (Ischia), 720-710 a.C. ca. Ischia, Museo Archeologico.

La moltitudine di alfabeti locali che caratterizzava la cultura scrittoria greca (e che rifletteva la presenza di varianti dialettali della lingua) si semplificò progressivamente, convergendo verso il tipo alfabetico dimostratosi il più adatto alle esigenze della lingua: l’alfabeto ionico.

Con il tempo, questo soppiantò tutti gli altri, compreso quello ateniese. La progressiva conversione a questo sistema di scrittura fu il risultato della versatilità che offriva, nonché la preminenza dell’elemento ionico nella cultura greca arcaica. Le tappe di questa innovazione furono diverse a seconda delle singole città, ma essa si compì quasi per tutte le comunità locali entro il IV secolo a.C.

Una menzione particolare si deve riservare ad Atene, città nella quale la conversione nei documenti ufficiali avvenne, per decisione pubblica, subito dopo il restauro della democrazia seguito alla parentesi dei ‘Trenta’: fu dell’anno 403/2, sotto l’arcontato di Euclide, il decreto di Archino, che impose la variazione nella scrittura pubblica, subito rispecchiata nelle epigrafi conservatesi fino a noi.

Ciononostante, che l’alfabeto ionico fosse ampiamente diffuso in ambito privato, ben prima che una legge pubblica lo rendesse ufficiale, è provato dai numerosi ὄστρακα precedenti. Dal 403, insomma, il sistema ionico divenne l’alfabeto greco per antonomasia:

Α Β Γ Δ Ε Ζ Η Θ Ι Κ Λ Μ Ν Ξ Ο Π Ρ Σ Τ Υ Φ Χ Ψ Ω

Alfabeto greco nei testi scolastici e nelle edizioni moderne (Campanini, Scaglietti 2017, 8).

***

Riferimenti bibliografici:

A. Aloni (ed.), La lingua dei Greci. Corso propedeutico, Roma 2012.

G. Annibaldis, O. Vox, La più antica iscrizione greca, Glotta 54 (1976), 223-228.

C. Brillante, Cadmo fenicio e la Grecia micenea, QUCC 46 (1984), 167-174.

C. Campanini, P. Scaglietti, Il Greco di Campanini. Lingua, lessico, civiltà – Grammatica, Milano 2017.

M. Cardin, Oinochoe del Dipylon, Axon 1 (2017), 19-30.

R. Carpenter, The Antiquity of the Greek Alphabet, AJA 37 (1933), 8-29.

P. Chantraine, À propos du nom des Phéniciens et des noms de la pourpre, StudClass 14 (1972), 7-15.

M. Guarducci, Epigrafia greca, I, Roma 1967.

L. Jeffery, The Local Scripts of Archaic Greece, Oxford 1961.

L. Massa Positano, Appunti di paleografia greca: storia della scrittura, Napoli 1972.

O. Montevecchi, La papirologia, Firenze 1973.

M. Negri (ed.), Alfabeti. Preistoria e storia del linguaggio scritto, Colognola ai Colli 2000.

M. Rocchi, Kadmos e i phoinikeia grammata, in Atti del II congresso

internazionale di studi fenici e punici, Roma, 9-14 novembre 1987, Roma 1991, 2, 529-533.

E.G. Turner, Greek Papyri: An Introduction, Oxford 1980.

E.G. Turner, Greek Manuscripts of the Ancient World, Oxford 1987.

F. Valerio, Coppa di Nestore, Axon 1 (2017), 11-18.

Risorse online:

Mnamon: antiche scritture del Mediterraneo – Greco alfabetico (VIII sec. a.C. – Età contemporanea) [].

L’ἀγωγή: l’educazione spartana

di N. Fields, Crescere a Sparta? Una vita da duri, «Il Piccolo», 22 mag. 2015.

Nel mondo greco la guerra era per definizione un mestiere da uomini, tanto che nel loro vocabolario il coraggio, l’audacia o la combattività necessari per resistere nelle falangi di opliti erano riassunti nella parola ἀνδρεία («virilità»).

Quindi, a rigor di termini per una donna greca era impossibile essere coraggiosa in senso militare, ossia ardimentosa sul campo di battaglia. Dopotutto, l’intero bagaglio guerresco maschile era sintetizzato nella spiegazione della parola πόλεμος («guerra») di genere maschile, del visionario Eraclito di Efeso: 22 B 53 [44]. Hippol. Refut. IX 9 Πόλεμος πάντων μὲν πατήρ ἐστι, πάντων δὲ βασιλεύς, καὶ τοὺς μὲν θεοὺς ἔδειξε τοὺς δὲ ἀνθρώπους, τοὺς μὲν δούλους ἐποίησε τοὺς δὲ ἐλευθέρους («Polemos è padre di tutte le cose, e di tutti è il monarca, e gli uni mostrò come dèi e gli altri come uomini, gli uni fece servi e gli altri uomini liberi».

Pittore Cleimaco. Combattimento di opliti sotto le mura di Tebe (dettaglio). Pittura vascolare da una hydria attica a figure nere, 560-550 a.C. c. Paris, Musée du Louvre.

Le due principali fonti letterarie riguardanti la società spartana sono Senofonte, il quale ne scrive un elogio acritico, e Plutarco, che si basa in gran parte sui racconti di Senofonte, in cui inserisce una pletora di aneddoti antichi, alcuni in buona fede, altri del tutto inventati.

Da queste opere letterarie si viene a sapere che il cittadino spartano a pieno titolo, lo spartiata, era completamente al servizio dello Stato. Perché questi fosse in grado di superare le resistenze psicologiche causate dal naturale timore della morte, doveva essere addestrato a pensare a sé come a un uomo non padrone della propria vita; quindi, doveva sempre essere preparato a una fine improvvisa e violenta, e sin dall’infanzia veniva condizionato a questo tipo di atteggiamento, che oggi si potrebbe definire “fanatismo”.

Fin dalla nascita di un bimbo, gli anziani di Sparta decidevano in base alla sua salute se doveva essergli concesso di crescere; la triste alternativa era abbandonarlo in un luogo chiamato Ἀποθέτης («dove si lascia qualcosa»), un burrone presso il monte Taigeto. Era la terribile legge spartana: nessun maschietto deforme – che, quindi, non avrebbe potuto diventare un guerriero – aveva il diritto di vivere!

Jean-Baptiste Camille Corot, Ragazza di Sparta. Olio su tela, 1868-70.

Quanti superavano l’esame venivano intenzionalmente induriti dalle madri fin dalla più tenera età, facendo loro il bagno nel vino, – che si riteneva provocasse convulsioni nei bambini deboli, mentre temprava e rafforzava quelli sani –, nutrendoli con cibi semplici e abituandoli a condizioni di vita disagevoli. Poi, dall’età di sette anni (secondo Plutarco) o quattordici (secondo Senofonte), cominciava l’educazione organizzata dallo Stato, l’ἀγωγή («allevamento», come per il bestiame), che mirava a prepararli per il futuro ruolo di guerrieri. I ragazzi venivano inquadrati in ἀγέλαι («mandrie») e guidati da un παιδονόμος («mandriano di ragazzi»), ai cui ordini dovevano ubbidire, e che a loro volta venivano strettamente controllati da magistrati (ἔφοροι).

Il παιδονόμος era nominato tra i cittadini più influenti e autorevoli, affinché si occupasse dell’educazione dei ragazzi; egli doveva ispirare con l’esempio e incutere rispetto, esercitando la sua autorità sui giovani in maniera non dissimile da ciò che faceva un generale con l’esercito. Nel far rispettare la disciplina, il maestro era assistito da un certo numero di cittadini chiamati μαστιγοφόροι («portatori di frusta»), e si può presumere che questo titolo non fosse soltanto formale!

Edgar Degas, Giovani Spartani. London National Gallery.

I ragazzi venivano brutalmente iniziati alla vita in comune: per esempio, dovevano provvedere da sé a un giaciglio con cannicci strappati con le loro mani dalle rive dell’Eurota, il fiume basso e sabbioso che attraversa Sparta. Erano anche vietati agi quotidiani come le calzature, era permesso soltanto un unico mantello da portare in ogni stagione dell’anno, e sopravvivevano con una dieta deliberatamente inadeguata. Quest’ultima imposizione favoriva il furto di cibo, inteso come un compito avventuroso mirato a sviluppare l’astuzia in guerra, ma se colti sul fatto, si veniva castigati con dure punizioni fisiche. Il dolore doveva essere sopportato senza tradire la minima emozione. L’educazione scolastica era ridotta al minimo: tuttavia, includeva musica, esercizi ginnici e giochi violenti che avrebbero suscitato tutti i princìpi fondamentali della guerra. Secondo Plutarco, ai ragazzi veniva insegnato a parlare con uno stile secco, ma anche elegante e adatto a esporre in modo conciso un buon numero di opinioni; stando ad Aristotele, già nel IV secolo a.C. questo modo di esprimersi stringato era definito “laconico”.

Gli studiosi, passati e presenti, hanno definito l’educazione in molti modi, che per comodità possono essere ridotti a due criteri principali. Il primo è attivo, e comprende tutte le definizioni che si riferiscono all’educazione come a una ricerca intellettuale in campi di conoscenza nuovi o da ampliare. Il secondo è passivo, e comprende tutte le definizioni che considerano l’educazione un addestramento alla padronanza di varie capacità.

Christoffer Wilhelm Eckersberg, Tre ragazzi spartani praticano il tiro con l’arco. Olio su tela, c. 1812. Copenaghen, Den Hirschsprungske Samling.

Il primo tipo di educazione (quindi, di conoscenza) abbraccia l’intera gamma o quanti più aspetti possibili della realtà umana, diventando così una ricerca indipendente nel dilemma senza risposta da essa proposto quasi a ogni traguardo. Il secondo si concentra soprattutto su pochi aspetti dell’esistenza ritenuti conosciuti e stabiliti, che esso ripete e riconferma. Uno si spinge nell’ignoto e in ogni direzione possibile, mentre l’altro ruota attorno a quanto è familiare, e quindi si muove in un’unica direzione.

In tale contesto si comprenderà come l’ἀγωγή – per la sua stessa natura e l’accento posto sulla formazione di guerrieri, i quali basavano la propria esistenza sulla regolarità e la rigida disciplina della vita militare – si concentrasse sul secondo tipo di educazione, definita prudentemente come la ripetizione di schemi ordinati e prevedibili di pensiero e comportamento, secondo una precisa sequenza che lasciava poco o nessuno spazio all’improvvisazione. L’educazione spartana era il sistema più meticoloso del mondo greco, ma mirava a produrre ingranaggi per una macchina.

Quindi, per i successivi quattordici anni di vita un ragazzo si faceva strada da solo in una pedagogia sempre più brutale e brutalizzante, un’educazione elementare interamente determinata dallo scopo di abituarlo a resistere ai disagi, addestrandolo a sopportare una disciplina rigida, e instillandogli nel cuore un sentimento di devozione a Sparta. Com’è naturale, fallire significava l’infamia più assoluta, perché spesso (alla tipica maniera di Sparta) comportava l’ostracismo sociale.

Guerrieri spartani, VI sec. a.C. Illustrazione di R. Hook.

Perfino ai suoi tempi, Tucidide poteva mettere a confronto la comodità della vita ateniese con i disagi che i Lacedemoni dovevano sopportare fin dalla culla; e – come quasi tutti i popoli nella maggior parte delle epoche – gli Ateniesi ritenevano che una cultura diversa dalla loro fosse ineluttabilmente inferiore.

A loro volta gli Spartani, militaristi, nutrivano gli stessi pregiudizi: orgogliosi della propria cultura e del proprio retaggio, non avevano dubbi che questi fossero superiori a quelli degli Ateniesi, democratici, decadenti e abituati alle mollezze. Erano fieri di appartenere a una casta militare, in cui l’individuo era rigidamente subordinato alle necessità dello Stato; erano soldati, ed educazione, matrimonio e dettagli della vita quotidiana erano strettamente regolati in funzione del mantenimento dell’efficienza militare professionale.

Per concludere, si può sottolineare il fatto che le adolescenti spartane erano sottoposte a un’educazione analoga a quella dei maschi. Per loro, com’è ovvio, il regime era meno brutale, ma concentrato sulla danza e sulla ginnastica; quest’ultima comprendeva la corsa, la lotta e il lancio del giavellotto e del disco. Frequentavano liberamente i maschi, e come loro – secondo Plutarco e com’è illustrato nell’arte primitiva di Sparta – eseguivano in pubblico questi esercizi del tutto o in parte nude.

Ragazza spartana in corsa. Statuetta (decorazione di un vaso), bronzo, 550-540 a.C. ca., dal Santuario di Dodona. Museo Archeologico Nazionale di Atene.

Non deve quindi sorprendere che un tale disprezzo delle normali inibizioni sessuali sconvolgesse gli osservatori esterni; l’offensivo epiteto φαινομηρίδες («mostra-cosce») venne coniato proprio per loro da alcuni viaggiatori, anche se, in ultima analisi, questo “esibizionismo” veniva sfruttato per attirare corteggiatori.

L’autore comico ateniese Aristofane suscitava risate fra i suoi spettatori con una battuta salace riguardo gli esercizi ginnici eseguiti dalle donne spartane, mentre il suo collega, il drammaturgo Euripide, sebbene più moderato, era pronto a condannarle perché correvano «discinte, con le cosce nude». Il potere sessuale delle donne poteva disturbare il mondo dei maschi, e quelli greci oltre i confini di Sparta ne erano chiaramente spaventati, per quanto forse non se ne rendessero conto del tutto.

Cornelia, la madre dei Gracchi

Cornelia, nata intorno al 190 a.C., era la minore delle due figlie di Publio Cornelio Scipione Africano Maggiore (coss. 205; 194) e di Emilia Terzia. Dopo la morte del padre nel 184, verso il 176/5 ella fu data in sposa a Tiberio Sempronio Gracco (cos. 177), parecchio più anziano di lei (Polyb. XXXI 27, 1; Plut. Ti. Gr. 4, 3; contra Liv. XXXVIII 57). Il padre, morendo, aveva lasciato a lei e alla sorella una dote di cinquanta talenti a testa (Polyb. ibid.; contra Sen. cons. ad Helv. 12, 6; nat. quaes. I 17, 8). Dall’unione con Gracco Cornelia ebbe dodici figli, maschi e femmine (Plin. NH VII 11, 13), dei quali solo tre sopravvissero oltre l’infanzia: Tiberio, Gaio (CIL VI 10043) e Sempronia, che andò sposa a Scipione Emiliano.

Iscrizione onorifica a Cornelia, madre dei Gracchi (CIL VI 10043: Opus Tisicratis // Cornelia Africani f(ilia) / Gracchorum). Base di statua (cm 80 x 112 x 135), marmo, c. 123-100 a.C., da Roma, via S. Angelo in Peschiera. Roma, Musei Capitolini.

Moglie fecunda e pudica, rimasta vedova intorno al 153, Cornelia rifiutò di passare a nuove nozze, sebbene fra i pretendenti ci fosse perfino il futuro re d’Egitto, Tolemeo VIII Evergete (Plut. Tib. 1, 7), e si dedicò completamente all’educazione dei figli superstiti, che fece istruire dai migliori maestri greci (Plut. Gai. 19, 1-3; Sen. cons. ad Helv. 16, 6; ad Marc. 16, 3). Cornelia era una donna raffinata e particolarmente colta, interessata all’arte e assai affabile (Cic. Brut. 211; Quint. I 1, 6; Plut. Gai. 13, 1; 19, 1-3).

È assai celebre l’aneddoto (Val. Max. IV 4) della matrona campana che mostrava i propri gioielli a Cornelia, la quale, traendo a lungo la conversazione, attese che i figli tornassero dal maestro ed esclamò: “Haec ornamenta sunt mea!”.

Elizabeth Jane Gardner Bouguereau, Cornelia e i suoi gioielli. Olio su tela, 1870.

Da certa tradizione storiografica sembra che Cornelia abbia assecondato e addirittura pubblicamente sostenuto i progetti e le azioni politiche dei figli tribuni, dei quali morti parlava con sereno orgoglio materno (Plut. Tib. 8, 4; Gai. 4, 1-3; 13, 2; Diod. Sic. XXXIV 25, 2). Altre fonti, invece, parlano di un’influenza moderatrice, addirittura di netto rifiuto verso alcune iniziative di Gaio (Plut. Gai. 13, 2). Questo atteggiamento sarebbe testimoniata da due frammenti di lettere, attribuite a Cornelia, riportati da Cornelio Nepote (F 1-2): nei messaggi la donna avrebbe tentato di dissuadere il figlio più giovane dal riprendere i propositi del fratello nei modi estremi che stava intraprendendo. Sulla genuinità dei frammenti, tuttavia, sono stati giustamente sollevati dei dubbi.

Dopo l’assassinio di Tiberio, la donna si ritirò a Misenum, dove visse con grande indipendenza rispetto alla società del tempo, circondata da amici e letterati, ossequiata persino da re. Non è noto quando sia scomparsa, ma in suo onore le sarebbe stata eretta una statua con iscrizione nella porticus Metelli.

Jules Cavelier, Cornelia, madre dei Gracchi. Gruppo scultoreo, marmo, 1855. Paris, Musée d’Orsay.

Le fonti antiche sono unanimi nel considerare Cornelia come matrona romana dallo stile di vita esemplare (Tac. Dial. 28, 1-3; Val. Max. IV 4). L’ideale della virtù muliebre incarnato dalla madre dei Gracchi ha attraversato i secoli e rappresenta significativamente un modello di comportamento da imitare persino in età tardoantica e nel Medioevo. Girolamo riutilizzò anacronisticamente l’esempio di Cornelia per il gruppo di donne dell’aristocrazia senatoria cui intendeva proporre il valore della verginità e della vedovanza perpetua (Hier. Iovin. I 49; ep. 54, 5; Soph. prol.).

Dante menzionerà ben due volte «Corniglia» nella Commedia: in If. IV 127-129, ella compare fra quattro figure emblematiche della virtù romana e tra gli «spiriti magni» che popolano il «nobile castello» del Limbo; in Pd. XV 127-129, l’anima di Cacciaguida sostiene che una donna dagli illibati costumi come «Corniglia» avrebbe destato un certo stupore nella Firenze contemporanea a Dante, ormai moralmente corrotta e politicamente disonesta.

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