Gli aspetti scenografici del teatro greco

di F. Ferrari, R. Rossi, L. Lanzi, Bibliothéke. Storia della letteratura, antologia e autori della lingua greca. 2. Atene e l’età classica, Bologna 2012, 10-15.

L’edificio teatrale greco è costituito da cavea, orchestra e scena. Una tarda tradizione riconnette i più antichi spettacoli teatrali in Atene all’agorà, con panche di legno e tavolati provvisori, ma in età classica le rappresentazioni si svolgevano nel teatro di Dioniso, situato ai piedi della scarpata meridionale dell’Acropoli e dominante l’area cultuale dedicata a Dioniso.

La cavea (il θέατρον vero e proprio come «luogo donde si guarda») era costituita dalle gradinate appoggiate a un pendio a conca e tagliate in senso verticale da scalinate (κλίμακες) che la dividevano in settori e in senso orizzontale da corridoi (διαζώματα) che consentivano un rapido affollamento e svuotamento del teatro.

Gli spettatori si distribuivano secondo gerarchie giuridiche e sociali: i seggi più vicini all’orchestra erano riservati agli alti funzionari della πόλις e agli orfani dei caduti in guerra, mentre il settore inferiore ai cittadini di pieno diritto.

Ricostruzione planimetrica del Teatro di Dioniso, Atene [Campanini, Scaglietti 2004, 70].

Al centro della prima fila, su una poltrona di pietra, sedeva il sacerdote di Dioniso, al quale il dio stesso si rivolge burlescamente in Aristofane, Rane 297: ἱερεῦ, διαφύλαξόν μ΄, ἵν’ ὦ σοι ξυμπότης («Ehi, sacerdote, salvami se vuoi che io continui a bere con te!»).

L’orchestra (ὀρχήστρα, cioè lo «spazio della danza»), al centro della quale sorgeva la θυμέλη («l’altare di Dioniso»), aveva un diametro di circa 20 metri o poco più e forma dapprima circolare, poi semicircolare, ma il coro (χορός) della tragedia si muoveva in formazione rettangolare (su cinque file quando il coro, con Sofocle, passo da 12 a 15 elementi) dopo aver fatto il suo ingresso preceduto da un suonatore di flauto doppio (αὐλητής).

Più liberi e variati erano i movimenti del coro comico, costituito da 24 elementi, che potevano raffigurare, oltre che uomini, esseri della più varia natura, molto spesso animali, ma anche nuvole o città (rispettivamente nelle Nuvole di Aristofane e nelle Città di Eupoli). Mentre i cori del ditirambo (διθύραμβος) eseguivano la τυρβασία circolare, la danza composta e stilizzata caratteristica della tragedia era chiamata ἐμμέλεια; le danze proprie del dramma satiresco e della commedia erano invece rispettivamente la vivace «sicinnide» (σίκιννις) e il lascivo «cordace» (κόρδας).

Pittore dell’Altalena (attribuito), Gruppo di coreuti che incede su sostegni di legno e trampoli (forse Titani). Pittura vascolare da un’anfora attica a figure nere, c. 550-525 a.C. Christchurch, University of Canterbury.

Fra la scena (ἐμμέλεια) e le due proiezioni dell’emiciclo della cavea si aprivano due corridoi laterali (εἴσοδοι o πάροδοι) che consentivano l’accesso degli spettatori alla cavea e l’ingresso, oltre che del coro, degli attori che non uscissero dall’edificio scenico. È dubbia la regola secondo cui da destra sarebbero entrati i personaggi provenienti dalla città, da sinistra quelli provenienti dalla campagna.

I drammi più antichi di Eschilo non sembrano presupporre un edificio scenico (σκηνή) quale invece compare sicuramente nell’Orestea del 458: si trattò inizialmente su una linea tangente all’orchestra di una costruzione in legno con tendaggi, con la trasformazione in requisito dell’area teatrale di un locale originariamente adibito a deposito per maschere, costumi e attrezzatura scenica e a camerino per i cambiamenti di costume degli attori. La scena fungeva da sfondo all’azione identificandosi volta a volta con un palazzo, un tempio, una tenda militare, una grotta.

Fra il 338 e il 330 a.C. il teatro di Dioniso, su iniziativa dell’oratore Licurgo, fu ricostruito in pietra (σκηνή compresa). Poi la scena fu proiettata in avanti per mezzo di un alto proscenio sostenuto da un colonnato.

Furono altresì create quinte girevoli su pali (περίακτοι), con decorazioni di paesaggi, che permettevano rapidi mutamenti di luogo. In relazione alla nuova struttura dovette essere introdotto anche un tipo a suola fortemente rialzata di quegli stivaletti in pelle con incurvatura delle punte che rappresentavano la consueta calzatura degli attori (i κόθορνοι, «coturni»).

Secondo una dubbia testimonianza dell’enciclopedia bizantina (X sec.) denominata Suda (φ 609) la decorazione della scena sarebbe stata introdotta per la prima volta, fra VI e V secolo a.C., da Formo di Siracusa, che avrebbe usato una tenda fatta di pelli conciate e dipinte di rosso (ἐχρήσατο […] σκηνῇ δερμάτων φοινικῶν), ma Aristotele fa della scenografia un invenzione di Sofocle (Poetica 1449a 18- 19), mentre Vitruvio (VII 1, 11) informa che Eschilo adottò la σκηνογραφία giovandosi dell’aiuto del pittore Agatarco di Samo. I pannelli decorati dovevano mostrare uno o più edifici o sfondi paesistici.

Scena tragica davanti a un palazzo. Pittura vascolare a figure rosse da un cratere tarentino, c. 350 a.C. Würzburg, Martin von Wagner Museum.

Un problema che è stato largamente discusso è quello dell’area antistante l’edificio scenico e retrostante l’orchestra, ovvero del cosiddetto proscenio (προσκήνιον): si dibatte se nel teatro del V secolo a.C. lo spazio in questione fosse costituito da una pedana soprelevata rispetto al livello dell’orchestra. Certo è che, se pure questa pedana esisteva, essa era tale da non impedire la comunicazione verbale e il transito dei personaggi e dei coreuti fra proscenio e orchestra (perciò, non avrebbe comunque potuto superare il dislivello corrispondente a due o tre scalini).

Dibattuta è anche la questione del numero di porte che si aprivano sulla facciata dell’edificio scenico: due sembrano richieste nelle Coefore di Eschilo (oltre a quella centrale, la porta degli alloggi delle donne, verso cui si precipita un servo) e tre nella Pace di Aristofane (abitazione di Trigeo, dimora di Zeus, caverna dello scarabeo). Anche il tetto della σκηνή poteva essere eventualmente utilizzato come spazio occupato dagli attori: da esso, per esempio, balza al suolo il servo frigio nell’Oreste di Euripide. Inoltre, ugualmente a un livello soprelevato, poteva essere utilizzata una piattaforma (θεολογεῖον) invisibile agli spettatori su cui gli attori salivano dal retro della scena.

Un altro problema che ha diviso gli studiosi riguarda l’esistenza e, in caso positivo, la frequenza di utilizzo, già nel corso del V secolo, di una sorta di basso carrello su ruote (ἐκκύκλημα), una piattaforma che, sospinta in avanti ed eseguendo un movimento circolare, serviva a rendere visibile al pubblico quanto avveniva nella parte più interna della scena: di esso trattano, con descrizioni sensibilmente divergenti, fonti tarde, fra cui gli scoli, cioè i commenti ai testi drammatici.

Un probabile uso di questa macchina si trova nell’Antigone di Sofocle (vv. 1294 ss., rappresentata nel 442 a.C.): Creonte, ormai conscio della catena di morti atroci che hanno decimato la famiglia a causa della sua ostinazione, vede da ultimo anche il corpo della moglie Euridice avvinto all’altare di Zeus Ercheo (Ἕρκειος, «Protettore del focolare domestico»), posto nel cortile interno del palazzo. Uscita di scena, la donna aveva annunciato che sarebbe andata a pregare per il figlio Emone e per la casata tutta. Grazie all’ἐκκύκλημα, gli spettatori potevano vedere l’altare domestico sul quale Euridice, dopo essere andata a piangere il figlio Megareo e ora anche Emone, si è tolta la vita.

Va rammentato, di passaggio, che le scene violente non potevano essere proposte sulla scena ed era, quindi, sempre un narratore – spesso un servo o un messaggero – a riferire al coro e al pubblico l’accaduto. Solo grida si potevano udire “dietro le quinte” e immaginare quanto si stava perpetrando o, come in questo caso, scorgere il cadavere. Oltre a questo, un altro celebre finale in cui si sarebbe fatto ricorso alla macchina è quello dell’Ippolito (430) di Euripide, mentre, per restare alla produzione sofoclea, si pensi all’Elena (v. 1458) e, probabilmente, all’Aiace (v. 344).

Ricostruzione schematica delle principali macchine teatrali in uso sulla σκηνή (link).

In ogni caso, a un tale congegno alludono due passi parodici di Aristofane. Negli Acarnesi (vv. 406-409) Diceopoli supplica Euripide di uscire di casa per prestargli qualche straccio dei suoi eroi cenciosi:

D                        Ti chiama Diceopoli di Collide: io!

E                         Ma non ho tempo!

D                      E dai: fatti trasportare fuori sul carrello!

E                         Ma non è possibile!

                       Su, avanti!

E                         Ecco, mi farò metter fuori sul carrello: non ho tempo di scendere!

Nelle Tesmoforiazuse è lo stesso Euripide a cercare l’aiuto di Agatone, il quale sta uscendo dalla σκηνή (νν. 95-96):

E                        Silenzio!

P                        Che c’è?

E                        Agatone sta uscendo!

P                        E quale sarebbe?

E                        Lui, quello che si fa metter sul carrello!

Pacificamente accertato è invece, per alcuni drammi, il ricorso a una macchina del volo, detta γέρανος («gru»), che – grazie a un sistema di cavi, carrucole e ganci – serviva per tenere sollevato in aria un personaggio o fargli percorrere un certo tragitto aereo.

Nella Pace di Aristofane, con parodia del perduto Bellerofonte di Euripide (dove il protagonista volava in groppa a Pegaso), Trigeo impartisce istruzioni dapprima allo scarabeo che intende cavalcare per recarsi a colloquio con Zeus (vv. 82-87):

T Oh, buono, buono: rallenta, asinello mio!
Non slanciarti con troppo impeto,
fin da principio fidando nella tua forza,
prima di aver ammorbidito
i muscoli col battito veloce delle ali!
E non soffiarmi addosso questo puzzo, per pietà!

Poi si rivolge al macchinista addetto alla manovra, il μηχανοποιός (vv. 174-176):

T Macchinista, pensa a me!
Già mi sento turbinare un vento sotto l’ombelico:
se non stai attento, ingrasserò lo scarabeo!

Con la macchina del volo arriva Oceano nel Prometeo di Eschilo (vv. 284 ss.), fugge per l’etere Medea alla fine dell’omonimo dramma euripideo, appaiono talora gli dèi di cui si dice che giungono per l’aria, come, nelle chiuse di alcuni drammi euripidei, Tetide (Andromaca), Atena (Ione), i Dioscuri (Elettra).

Pittore anonimo. Il volo di Medea. Pittura vascolare da un κρατήρ-κάλυξ lucano a figure rosse, c. 400 a.C. Cleveland, Museum of Art.

Talvolta i personaggi potevano comparire in scena anche su un carro da parata, come nell’Agamennone eschileo il sovrano argivo e la sua prigioniera Cassandra o, nell’Elettra di Euripide, Clitennestra, che si reca in campagna a far visita alla figlia.

Nell’area scenica potevano comparire anche tombe e altari, come, in Eschilo, nelle Supplici, dove uno rialzo sacro adorno di statue e altari degli dèi (una κοινοβωμία) diventa l’asilo delle Danaidi, o nelle Coefore, dove il tumulo di Agamennone è il luogo presso il quale Elettra scorge le orme del fratello e poi intona insieme con lui e con le coreute il commo di invocazione (κομμός) al padre defunto. E in Euripide si rifugiano ai piedi di un altare, fra gli altri, Andromaca perseguitata da Ermione e la sposa e i figli di Eracle perseguitati dal tiranno Lico (Eracle).

Occasionalmente anche un letto poteva essere portato alla vista degli spettatori. come, in Euripide, nel caso di Fedra delirante nell’Ippolito e di Oreste malato nell’Oreste o in Aristofane, per Strepsiade che, tormentato dal pensiero dei debiti, si agita su un pagliericcio al principio delle Nuvole.

«Panem et circenses»: la passione per le corse dei carri

I Romani nutrivano una forte passione per gli spettacoli in generale (ludi publici): sebbene grande popolarità riscuotevano le rappresentazioni teatrali (ludi scaenici), le manifestazioni più amate erano senz’altro quelle marcatamente sportive, come i combattimenti gladiatori (munera), le cacce con animali esotici (venationes) e le corse dei carri (ludi circenses). Fin dall’età repubblicana questi eventi erano celebrati con regolarità in corrispondenza delle festività religiose previste dal calendario romano (ludi stati), come i ludi Apollinares in onore di Apollo, che, istituiti nel 212 a.C., si tenevano ogni anno in un periodo di otto giorni, dal 5 al 13 luglio (Liv. XXVI 23, 3; XXVII 6, 18; Per. 25, 3), e come i ludi Romani (o Magni) in onore di Giove, Giunone e Minerva, che, fondati da re Tarquinio Prisco (Liv. I 35; Eutrop. I 6), in origine si tenevano dal 12 al 14 settembre (Dion. Hal. 6, 95) e poi, dopo la morte di Cesare, si celebravano dal 4 al 19 settembre (Cic. Phil. II 4, 3; cfr. in Verr. II 52, 130). Nel corso del tempo, poi, molteplici divennero le occasioni per organizzare nuovi spettacoli, quali le esequie di un personaggio particolarmente importante, la candidatura o l’assunzione di una magistratura, l’inaugurazione di un nuovo edificio sacro, la celebrazione della vittoria o di un trionfo.

Uomo togato. Statua, marmo, c. 20-30 d.C. München, Glyptothek.

Bisogna tenere presente che nella mentalità romana, questi spettacoli non erano un semplice strumento d’intrattenimento e svago, ma costituivano un momento irrinunciabile della vita sociale e politica di ciascun cittadino, che, prendendovi parte, percepiva la propria appartenenza al corpo civico. In età repubblicana, in particolare, la partecipazione in prima persona dei magistrati nell’allestimento dei ludi publici si affermò in relazione all’importanza assunta dall’evergetismo della nobilitas: l’organizzazione delle manifestazioni non era affidata a una singola personalità, ma all’intero collegio magistratuale, il quale riceveva una determinata quota dall’aerarium stanziata appositamente per il finanziamento dei ludi. In genere, la cura degli spettacoli era a carico degli aediles, a eccezione dei ludi Apollinares, che erano di competenza del praetor urbanus (Liv. XXVI 23, 3). Ciononostante, soprattutto in occasione delle elezioni politiche, un magistrato era libero di intervenire personalmente nell’organizzazione degli eventi, investendo cospicue somme impensa sua per accrescere la propria popolarità e attirarsi il favore dell’elettorato. In questo modo, la rappresentazione più costosa e gli apparati più complessi garantivano all’editor ludorum l’opportunità di mostrare ai concittadini la propria generosità e l’idoneità ad ambire a cariche pubbliche superiori. A tal proposito, in età tardo repubblicana, questo valore attribuito agli spettacoli trovò largo favore presso i populares, tra i quali spiccava Gaio Giulio Cesare (Suet. Iul. 10).

Scena di frumentatio («distribuzione di pane») da parte di un candidato a una magistratura. Affresco (particolare), ante 79, da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Tra le manifestazioni che esercitavano una notevole attrattiva sulle masse molto apprezzati erano i ludi circenses, le gare dei carri trainati da una o due coppie di cavalli (bigae o quadrigae). Il luogo più grande e famoso di Roma in cui si tenevano le corse era il Circo Massimo, posto un in avvallamento tra il Palatino e l’Aventino (Liv. I 35, 8; Eutrop. I 6). In origine, come per spettacoli di altro tipo, non era un edificio in muratura: le competizioni avevano luogo in un circuito (circus) ellissoidale appositamente allestito in una zona pianeggiante della città e gli spettatori prendevano posto su tribune lignee (furcae). La monumentalizzazione della struttura fu inaugurata da Cesare (Plin. NH XXXVI 102; Suet. Iul. 39, 2) e terminata sotto Augusto (Dion. Hal. III 68, 1-4; Aug. RGDA 19; DCass. XLIX 43, 2; L 10, 3; Vitruv. Arch. I 3, 2; Cassiod. Var. III 51). L’edificio era costruito attorno a una pista (arena) lunga e relativamente stretta (c. 450 × 80 m), divisa al centro nel senso della lunghezza da una barriera (spina). Alle estremità del basamento c’erano due colonnette semicilindriche (metae), sulle quali poggiavano tre coni: ciascuno di essi presentava sulla sommità un uovo di marmo, che richiamava i Dioscuri (Castore e Polluce), protettori dei giochi, e l’uovo orfico, metafora del cosmo diviso tra luce e oscurità; la piattaforma, sulla quale erano solitamente eretti piccoli monumenti (sacelli, altari, obelischi), ospitava, infatti, sette figure a forma di uovo (ova) e altrettante figure a forma di delfino (delphini) – chiara allusione a Nettuno Equestre: queste figure venivano tolte da un apposito addetto per indicare il numero di giri compiuti dai concorrenti (cfr. Liv. XLI 27, 6): sette erano le figure, sette erano i giri che i carri dovevano compiere attorno alla spina, come sette erano i pianeti allora conosciuti (cfr. Anth. Pal. I 197; Cassiod. Var. III 51; Isid. Etym. 18, 27-41; Coripp. Iust. I 314-344; Lyd. Mens. 1, 12; 4, 30 Wuench). Sui due lati lunghi paralleli e sul lato stretto semicircolare, l’arena era circondata da file di sedili (loca) per il pubblico (cavea) – con una capienza stimata di 150.000 posti – , sorrette da sostruzioni, gallerie e arcate; l’altro lato stretto era occupato dai cancelli di partenza (carceres), dai quali uscivano i cocchi, che, a destra della spina, dovevano compiere i sette giri in senso antiorario (cfr. Liv. VIII 20, 2). Al di sopra dei carceres c’erano i palchi riservati ai magistrati organizzatori degli eventi.

Rappresentazione del Circo Massimo agli inizi del IV secolo. Illustrazione di J.-C. Golvin.

I ludi circenses erano e sono ancora oggi sinonimo di intrattenimento di massa: stando al poeta Giovenale (Sat. X 77-81), nella Roma del II secolo d.C., iam pridem, ex quo suffragia nulli / vendimus, effudit curas; nam qui dabat olim / imperium, fasces, legiones, omnia, nunc se / continet atque duas tantum res anxius optat, / panem et circenses («Ormai, da quando non si vendono più voti, [il popolino] ha perso ogni interesse; un tempo esso dava tutto, il potere, le insegne, le legioni; adesso lascia fare e due sole cose spasmodicamente desidera, la distribuzione di pane e i giochi del circo»). Quasi le stesse parole in Frontone (Princ. 5, 11): populum Romanum duabus praecipue rebus, annona et spectaculis, teneri («Il popolo romano è dominato da due passioni fondamentali, ovvero le distribuzioni di grano e gli spettacoli»). Il fanatismo per le corse dei carri raggiunse in età imperiale caratteri del tutto simili a quelli dell’attuale tifo calcistico, compresi gli scontri violenti tra supporter delle opposte squadre, l’enorme popolarità dei campioni, i loro guadagni astronomici, ecc. Sul mondo poteva governare un Nerone o un Marco Aurelio, l’Impero poteva essere tranquillamente sconvolto da rivolte e guerre civili, essere minacciato dalle externae gentes, che a Roma, per umili e potenti, liberi o servi, uomini e donne, l’interrogativo più importante era se avrebbe vinto la propria squadra del cuore!

Le tifoserie del circo. Illustrazione di E. Marini.

Questi spettacoli, insomma, erano in epoca imperiale la principale attrazione per la plebe: disprezzati dagli intellettuali (Plin. Ep. IX 6), oltraggiati dai Padri della Chiesa (Tert. Spect. 7-8), furono comunque lo strumento principale attraverso il quale i principes si facevano amare da milioni di persone: per esempio, è noto che Claudio allestì corse dei carri sul colle Vaticano, adornò il Circo Massimo con parapetti di marmo e mete dorate e vi assegnò dei posti riservati ai membri del Senato (Suet. Claud. 21, 2); anche Nerone, tra gli spectaculorum plurima et varia genera che offriva al popolo, non poté esimersi dall’organizzare ludi circenses (Suet. Nero 11, 1). Vitellio, durante il suo brevissimo principato, intensificò la centralità dello spettacolo come sua prassi politica, al punto tale da governare l’Impero secondo il consiglio e il capriccio dei più spregevoli istrioni e aurighi (Suet. Vit. 12, 1).

Auriga. Busto frammentario, avorio, inizi III secolo. London, British Museum.

La documentazione epigrafica sull’effettivo allestimento degli spettacoli è piuttosto scarsa e distribuita in modo disomogeneo e dal punto di vista geografico e dal punto di vista giuridico. Da quanto emerge dalle iscrizioni, sembra che i ludi organizzati dai magistrati municipali non fossero tanto espressione di liberalità e munificenza, quanto piuttosto veri e propri investimenti dovuti per il mantenimento della carica. D’altra parte, il titolo di curator ludorum è attestato in maniera incerta al di fuori di Roma: la preparazione delle manifestazioni era un’impresa tanto grande che persino gli stessi imperatori, talvolta, ne affidavano il disbrigo a funzionari deputati (cfr. Tac. Ann. XIII 22). Nella maggior parte delle città, soprattutto nelle comunità più piccole, pochissimi erano gli uomini abbastanza facoltosi da potersi permettere l’allestimento di ludi circenses o munera gladiatoria. In altri casi, invece, l’importanza dell’organizzazione degli spettacoli, che costituivano senz’altro uno dei momenti più importanti della vita degli editores, è splendidamente illustrata dalle testimonianze archeologiche, ovvero dai mosaici pavimentali delle villae e delle domus dei cittadini più abbienti dell’Impero. Del resto, questo tipo di raffigurazione erano solitamente collocate nelle sale di ricevimento (atrium e triclinium), in modo tale che il dominus potesse mostrare ai propri ospiti gli spettacoli che aveva allestito; e spesso incaricavano i mosaicisti di corredare le immagini di uomini e animali con i loro nomi propri. A ogni modo, dunque, il sistema adottato per l’approntamento degli spettacoli differiva da contesto a contesto ed era condizionato dalle usanze locali e dalle capacità economiche dell‘élite.

Corse coi carri nel circo. Mosaico, II-III sec. da Lugdunum. Fourvière, Musée gallo-romain.

Per esempio, nelle province galliche le architetture deputate alle corse dei carri sono sicuramente attestate a Narbo, Arelate, Vienna, Lugdunum e Mediolanum Santonum, tutte metropoli epigraficamente ricche. Il fatto che solo tre iscrizioni – da Narbo (EAOR 5, 1), Arelate (CIL XII 670) e Lugdunum (CIL XIII 1921) – menzionino eventi circensi, tutti privatamente sovvenzionati, testimonia forse che l’allestimento dei giochi fosse una pratica istituzionalizzata, una regolare mansione dei magistrati superiori. Le province iberiche, invece, forniscono testimonianze più numerose: le competizioni dei cocchi sono documentate in circa venti centri urbani, molti dei quali erano cittadine, dove però non sono state rivenute vestigia di stadi e ippodromi: per esempio, a Tucci in Baetica, dove nel corso del II secolo il flamen coloniarum immunium Lucio Lucrezio Fulviano (CIL II 1663) e il duovir Marco Valerio Marcello (CIL II 1685) impensa sua diedero giochi del circo. Queste testimonianze rivelano che in località simili, sebbene non vi fossero edifici monumentali appositi, gli sponsores facevano allestire gli eventi in spazi aperti; inoltre, la portata ridotta e i costi contenuti degli spettacoli, tenuti di solito per l’inaugurazione di un monumento o per altre speciali occasioni, possono spiegare la poca frequenza con cui venivano organizzati. Quasi paradossalmente, invece, le grandi capitali provinciali, come Tarraco, pur disponendo di imponenti edifici circensi, non hanno restituito alcun documento ufficiale che registri un solo evento sportivo.

Corsa dei carri nel circo. Bassorilievo, marmo, III sec. d.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

In origine, a disputare le gare erano i giovani patrizi; con il tempo, però, la dignitas della nobiltà impedì ai rampolli delle gentes di esibirsi in pubblico, partecipando attivamente ai ludi. Così, per questo genere di manifestazioni, venivano assunti aurighi professionisti di bassa estrazione sociale, addestrati e specializzati, in grado di soddisfare le esigenze dei ludi circenses. L’aumento delle gare dei carri innalzò gli standard, favorì la competizione e incrementò la qualità nell’allenamento di cavalli e conducenti.

Auriga con quadriga. Rilievo, marmo, fine III secolo da un sarcofago. Roma, Villa Albani.

Agli inizi del Principato, degli uomini d’affari di classe equestre, detti domini factionum, noleggiavano le bestie e il personale di servizio a coloro che organizzavano gli spettacoli (editores ludorum): con il tempo, i domini delle squadre si resero conto del proprio potere e che senza il loro lavoro, gli sponsores non potevano offrire i giochi (cfr. Plin. NH X 34; DCass. LV 10; Suet. Nero 22; HA Comm. 16, 9).

Durante le competizioni gli aurighi guidavano i cavalli stando ritti sui cocchi, vestiti dei colori delle squadre (factiones) in lizza, la cui comparsa è stimata entro la fine del II secolo a.C.; le fazioni, organizzate in vere e proprie società sportive, erano quattro: la bianca (albata), la rossa (russata), la verde (prasina) e l’azzurra (veneta). I colori rispondevano a un preciso significato: il bianco richiamava all’inverno ed era consacrato agli Zeffiri; il rosso era il simbolo dell’estate ed era posto sotto la protezione di Marte; il verde era dedicato alla primavera e alla Madre Tellus; l’azzurro, rappresentante l’autunno, era consacrato a Nettuno (Cassiod. Var. III 51, 5). Era ben nota la preferenza di alcuni imperatori verso un particolare club: Vitellio e Caracalla furono tifosi degli Azzurri (cfr. Suet. Vit. 7, 1; DCass. LXXVIII 1, 2; 9, 7; 10, 1; 17, 4), Caligola , Nerone e Elagabalo dei Verdi (Suet. Cal. 55, 2; Nero 22, 1; SHA Elag. 19, 2) – i preferiti anche del poeta Marziale. Come accade in certe città italiane di oggi, che dispongono di due squadre calcistiche, dove il tifo per l’una o per l’altra ha anche una connotazione di “distinzione” o di “volgarità”, nella Roma imperiale la preferenza verso la prasina factio era per i “popolari”, mentre quella per la veneta era da aristocratici: per esempio, Trimalcione, dopo essersi arricchito, parteggia per gli Azzurri e sfotte gli amici più umili che tengono per i Verdi (Petr. Sat. LXX 10, 13). Vitellio fece condannare a morte dei plebei che avevano gridato: «Abbasso gli Azzurri!» (Suet. Vit. 14). Giovenale (XI 197 ss.) scrive che, se i Verdi perdevano, l’Urbe intera piombava in una disperazione tale da superare quella anticamente provata per la disfatta di Canne!

Gli aurighi delle quattro factiones (veneta, russata, albata e prasina). Pannelli di mosaico, c. III secolo. Roma, Museo di P.zzo Massimo alle Terme.

Come accade nelle moderne società atletiche, non era insolito che gli aurighi cambiassero squadra, come testimonia l’iscrizione di Sesto Vistilio Eleno (AE 2001, 268), vissuto nel I secolo: il documento offre l’istantanea di un aspirante campione, un florens puer, la cui carriera fu tragicamente spezzata da una morte prematura: il ragazzo si era appena trasferito dalla factio prasina, dov’era allenato da Orfeo, a quella veneta, dove sarebbe stato preparato da Datileo, quando morì improvvisamente all’età di 13 anni.

Come sembra suggerire l’epigrafe, le factiones dovevano disporre di “manager” o “talent-scout” (doctores), che garantivano questi trasferimenti; inoltre, lascia pensare che molti cocchieri iniziassero la loro carriera sportiva in età precocissima – come testimonia anche il titulus funerario di Crescente, un agitator factionis venetae di origine mauritana (CIL VI 10050).

Auriga africano. Statuetta, bronzo, c. II secolo, da Altrier. Luxembourg, Musée national d’histoire et d’art.

Indubbiamente le factiones investivano ingenti capitali per assumere gli atleti più capaci, tanto quanto ne spendevano per acquistare i cavalli migliori alla corsa – solitamente comprati in Sicilia, in Italia meridionale, in Nord Africa e nella Penisola iberica. Per la cura delle bestie e la preparazione delle corse ogni “scuderia” poteva contare su una squadra di specialisti (cfr. CIL VI 10074-10076: aurigae, conditoresi, succonditores, sellarii, sutores, sarcinatores, medici, magistri, doctores, viatores, vilici, tentores, sparsores, hortatores). Prima delle gare, gli agitatores e i loro assistenti annusavano lo sterco dei cavalli per controllare se avessero digerito bene e se le biade fossero state opportunamente bilanciate.

La scomparsa prematura degli aurighi Eleno e Crescente testimonia la natura rischiosa di questo sport, nonché la considerazione in cui erano tenuti dal popolino come dispensatori di buona sorte o, addirittura, fattucchieri. Gli agitatores, come mostrano le fasces nelle rappresentazioni scultoree e musive, erano soliti legarsi le redini in vita: ciò aumentava non solo la manovrabilità del cocchio ma anche il rischio di essere trascinati a terra, con gravi lesioni, persino mortali, in caso d’incidente. Sebbene le cause del decesso degli aurighi non siano solitamente riportate sui tituli (a eccezione, p. es., di CIL VI 10049), i pericoli della pista sono chiaramente evidenziati dalle fonti letterarie (p. es., Cic. resp. II 68) e dalla descrizione dei rimedi medici per le ferite riportate (Plin. NH XXVIII 237). La fortuna (e non solo l’abilità) che avevano nel guidare i loro cocchi a tutta velocità, soprattutto nei punti più difficili dell’arena, suscitava un certo fascino nelle tifoserie.

Scena di trionfo dell’auriga della factio veneta. Mosaico, c. III secolo. Madrid, Museo Arqueológico Nacional.

I conducenti dei carri, e più ancora i loro cavalli, erano oggetto di chiacchiera ed erano gli idoli della folla, che, durante le corse, viveva momenti di puro delirio. Alcuni celebri aurighi, oltre a essere elogiati per le loro imprese, erano spesso invidiati: Scorpo, il più famoso cocchiere di età flavia (clamorosi gloria circi), morì all’età di 27 anni, dopo aver totalizzato ben 2.048 vittorie ed essersi classificato nella categoria dei miliarii (Mart. X 53); inoltre, Scorpo guadagnava 15 sacci d’oro all’ora (Mart. X 74). Quand’era ancora in vita, l’auriga Publio Elio Gutta Calpurniano aveva fatto innalzare per sé, verso la metà del II secolo, un monumento sormontato dalle statue dei suoi cavalli preferiti, corredate con i loro nomi. In una dettagliata iscrizione (CIL VI 10047) egli fece elencate le vittorie 1.127 conseguite per le quattro factiones. Per esempio, con Victor («il Vincitore»), un sauro, Calpurniano vinse 429 volte per la squadra verde (prasina): il nome benaugurale del cavallo indica probabilmente che si trattava quello di testa (equus funalis), cioè posto alla sinistra del carro; dalla sua abilità nella curva circum metas dipendeva il successo di ogni virata. Il clou della gara, infatti, era proprio il giro attorno alle metae: l’auriga, per fare la curva più stretta possibile e guadagnare tempo sui rivali, nel girare doveva cercare di rasentare le colonnie, evitando però di far ribaltare il cocchio (cfr. Varr. l. L. V 153, 3). Nell’elencare i suoi trionfi Calpurniano ha voluto distinguerli in base alla tipologia: per esempio, a pompa, cioè direttamente dopo il corteo inaugurale; o equorum anagonum, ossia con cavalli che non avevano mai corso prima. Alcuni anni dopo Calpurniano, Gaio Appuleio Diocle, agitator factionis russatae di origini lusitane, divenne la star del circo e uno tra gli atleti più pagati dell’antichità (ottenne una fortuna di circa 36.000.000 di sesterzi!): i suoi amici gli dedicarono una statua per commemorarne le vittorie. Stando all’iscrizione (CIL VI 10048; cfr. XIV 2884), l’auriga iniziò la sua carriera a 18 anni e si ritirò dalle corse a 42: in questo lasso di tempo, egli prese parte a 4.257 competizioni e ne vinse ben 1.462. L’elevato numero di gare disputate a Roma, in particolare, dimostra che i conduttori dei carri più abili partecipavano a più di una corsa al giorno.

Scena della corsa dei carri nel Circo Massimo (dettaglio). Mosaico, IV secolo, dalla palestra. Piazza Armerina, Villa del Casale.

Un’iscrizione del 275 (CIL VI 10060) rivela che a quel tempo un auriga poteva arricchirsi a tal punto da diventare egli stesso dominus factionis: è il caso di Claudio Aurelio Polifemo, dominus et agitator factionis russatae di Roma. Simile posizione fu raggiunta da un contemporaneo, un certo Marco Aurelio Libero, originario dell’Africa sahariana, divenuto dominus et agitator factionis prasinae (CIL VI 10058). L’agiatezza materiale e lo status sociale di alcuni atleti potevano aumentare anche grazie alle simpatie che alcuni principes nutrivano nei loro riguardi o ai donativa con cui i sovrani li gratificavano (Suet. Cal. 55, 2-3); si ha notizia di agitatores elevati a importanti uffici pubblici (SHA Elag. 6, 12).

Il maggior numero di tabellae defixionum relative alle attività sportive concerne le corse dei carri: circa un’ottantina di laminette plumbee proviene dai grandi ippodromi di Roma, Cartagine, Hadrumetum, Leptis Magna, Antiochia, Damasco, Apamea, Tiro, a cui va aggiunta un’ampia silloge da Caesarea. Siccome si trattava di manifestazioni che attiravano migliaia di persone, il cui malcontento poteva minacciare la stabilità di un princeps, non sorprende che i ludi circenses fossero un argomento privilegiato di maledizione. I conducenti dei carri, difatti, erano tra gli artisti e gli atleti più pagati e adorati (o odiati!) del mondo antico: ciò, unitamente all’aleatorietà e ai pericoli che insidiavano le competizioni, insieme all’ansia di vittoria degli editores e dei tifosi, fece sì che non fosse infrequente ricorrere alla magia nera per danneggiare gli avversari, scoraggiare incidenti e contrastare le imprecazioni dei rivali. Un autore cristiano del IV secolo, Anfilochio di Iconio, nei suoi Iambi ad Seleucum descrive i ludi circenses come γοητείας ἅμιλλαν, οὐχ ἵππων τάχος (v. 179, «una gara di maghi, non una corsa di cavalli»). I testi magici di maledizione relativi alle competizioni dei carri differiscono dalle defixiones per altri sport, in quanto coinvolgevano non solo le abilità e le capacità degli atleti, ma anche quelle dei loro animali. Una tavoletta (Tremel, no. 53) di II-III secolo, rinvenuta nella tomba di un funzionario imperiale in una necropoli di Cartagine, evoca lo spettro del morto affinché paralizzi i cavalli delle squadre avversarie:

Ἐξορκίζω σε ὅστις ποτ’ οὖν εἶ, νεκυδαίμων ἄωρε, κατὰ τ . .

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . καὶ τὰ . . . . . τα [ὀνό]ματα α . . πων

βρουραβρουρα μαρμαρει μαρμαρει αμαρταμερει απε-

ωρνομ φεκομφθω βαιεψων σαθσαθιεαω . . . . ββαιφρι

ἵνα καταδήσης τοὺς ἵππους τοῦ οὐενέτου καὶ τοῦ συνζύγου

αὐτοῦ πρασίνου . . . . . . . . ]εους σοι [ σεσημειοωμ]ένα ἐν τοῖς θα[λ]α[σσίοις]

ὀστράκοις παρακατατέθηκα ἐν τούτω τῶ σκεύει, Οὐιττᾶτον

Δηρεισῶρε Οὐικτῶρε Ἀρμένιον Νίμβον Τύριον Ἀμορε Πραικλ-

ᾶρον τὸν καὶ Τετραπλὰ Οὐρεῖλε Παρᾶτον Οὐικτῶρε

Ἰμβου]τρί[ουμ] Φονεῖκε Λίκον καὶ τοῦ συνζύγου αὐτοῦ πρα-

σίνου Δάρειον Ἄγιλε Κουπείδινε Πουγιῶνε Πρ-

ετιῶσον Προυνικὸν Δάρδανον Εἴναχον Φλόριδον Πάρδον

Σερουᾶτον Φούλγιδον Οὐικτῶρε Προφίκιον˙ κατά-

<δησον αὐτοῖς δρόμον πόδας νείκην ὁρμὴν ψυχὴν ταχύτη-

τα, ἐκκόψον ἐκνεύρωσον ἐξάρθρωσον αὐτοὺς ἵνα>

δησον αὐτοῖς τὸν δρόμον τὴν δύναμιν τὴν ψυχὴν τὴν ὁρμὴν τ-

ὴν ταχύτητα, ἄφελε αὐτῶν τὴν νείκην, ἐμπόδισον αὐ-

τοῖς τοὺς πόδας, ἐκκόψον ἐκνεύρωσον ἐξάρθρωσον αὐτοὺς ἵνα

μὴ δυνασθῶσιν τῆ αὔριον ἡμέρα ἐλθόντες ἐν

τῶ ἱπποδρόμω μήτε τρέχειν μήτε περιπατεῖν μήτε ν-

εικησαι μηδὲ ἐξελθεῖν τοὺς πυλῶνας τῶν ἱππαφ-

ίων μήτε προβαίνειν τὴν ἀρίαν μήτε τὸν σπάτιον μηδὲ

κυκλεῦσαι τοὺς καμπτῆρας, ἀλλὰ πεσέτωσαν

σὺν τοῖς ἰδίος ἡνιόχοις, Διονυσίω τοῦ οὐενέτου καὶ Λα-

μυρῶ καὶ Ῥεστουτιάνω καὶ τοῦ συνζύγου αὐτοῦ

πρασίνου Πρώτω καὶ Φηλεῖκε καὶ Ναρκίσσω […]

«Io ti supplico, chiunque tu ora sia, spirito di un morto deceduto anzitempo, per (il potere?) […] e […] i nomi […]». [Le ll. 4-5 contengono voces magicae]. «Affinché tu blocchi i cavalli degli Azzurri e quelli dei loro alleati Verdi […], ti affido i loro nomi su cocci marini in questo vaso: Vittatus, Derisor, Victor, Armenios, Nimbus, Tyrios, Amor, Praeclarus Tetraplas, Virilis, Paratus, Victor, Imboutrious, Phoenix, Likos e i cavalli dei loro alleati conducenti dei Verdi: Darius, Agilis, Cupido, Pugio, Pretiosus, Prounicus, Dardanos, Inachos, Floridus, Pardos, Servatus, Fulgidus, Victor, Prophikios; blocca loro la corsa, le zampe, la vittoria, la forza, l’audacia, la velocità, distruggili, falli impazzire, slogali, affinché blocchi loro la corsa, la forza, l’animo, l’audacia, la velocità, togligli la vittoria, ostacola loro le zampe, distruggili, falli impazzire, slogali affinché domani una volta giunti nell’ippodromo non possano correre né muoversi né vincere né lasciare le linee di partenza, non percorrano né l’area né lo spazio né facciano il giro delle mete, ma cadano coi propri cocchieri, Dioniso, Lamuro e Restuziano degli Azzurri e i loro alleati conducenti dei Verdi, Proto, Felice e Narcisso […]».

Scena di incidente tra aurighi (dettaglio). Mosaico, IV secolo, dalla palestra. Piazza Armerina, Villa del Casale. Mosaico.

Talvolta capita che gli atleti non fossero nemmeno menzionati, mentre i nomi dei cavalli venivano elencati in modo meticoloso: in una lunga tabella rinvenuta ad Antiochia (Tremel, no. 11) sono colpiti da imprecazione ben trentasei cavalli della factio veneta – probabilmente l’intera scuderia! In altri casi i nomi degli animali e dei loro conduttori sono intenzionalmente sovrapposti, così da augurare il peggio sia agli uni sia agli altri (cfr. Tremel, no. 18; 26). Ora, tutte le testimonianze suggeriscono che, almeno fino al VII secolo, la magia fosse uno strumento caratteristico delle competizioni equestri, nonostante le disposizioni di legge che minacciavano coloro che praticassero la defixio, e che vi si facesse ricorso non tanto come un disperato, ultimo tentativo di sbarazzarsi degli avversari più tosti, quando piuttosto era de facto (se non de iure) riconosciuto come un sistema efficace per ottimizzare le prestazioni dei concorrenti.

Scena di corsa dei carri. Rilievo funerario, marmo, II secolo. Roma, Museo Laterano.

Già alla fine del III secolo, le riforme politiche e amministrative promosse da Diocleziano, cioè la trasformazione della carica imperiale da unica a collegiale (tetrarchia), la conseguente suddivisione dell’Impero in partes e la moltiplicazione dei palatia con i loro apparati di corte, comportarono un’apparizione (adventus) sempre più rara e sporadica dei sovrani all’interno di Roma, che ormai aveva perso il suo ruolo di capitale e di sede imperiale. In questo contesto, il praefectus Urbi assunse a Roma il ruolo di principale responsabile di ogni aspetto relativo all’organizzazione dei ludi publici, fossero promossi dall’imperatore stesso o allestiti e finanziati direttamente dai magistrati cittadini. Rispetto al passato, comunque, l’ormai consolidata pratica di indire grandiosi eventi pubblici in occasione dell’entrata in carica non si configurava più come un atto spontaneo di evergetismo, ma come un vero e proprio obbligo sancito dalla legge a partire dall’epoca di Costantino (CTh. VI 4, 1-2). Quei magistrati che, essendo dotati di una limitata disponibilità economica, non erano in grado di competere con gli sponsores più facoltosi né di sobbarcarsi investimenti maggiori per la cura dei ludi, erano colpiti da pesanti sanzioni: essi dovevano corrispondere il pagamento alla città di un’ammenda pari a 50.000 modii di grano (CTh. IV 7; 11; VI 4) e rimborsare ai funzionari (censuales) le spese di cui si erano fatti carico per garantire comunque lo svolgimento degli eventi in programma (CTh. VI 4, 6). Nonostante l’onere finanziario, grandiosi spettacoli continuarono a essere celebrati dagli esponenti più abbienti dell’aristocrazia senatoria, che facevano letteralmente a gara nel proporre allestimenti sempre più costosi: nell’ottica delle famiglie più in vista di Roma, l’investimento di ingenti quantità di denaro per i ludi era uno strumento privilegiato non solo per ostentare la propria capacità patrimoniale, ma anche per ottenere visibilità e prestigio, ribadendo la propria posizione politica e sociale (Symm. Ep. IV 58, 2).

Scene di corse con i carri. Dittico dei Lampadii (Flavio Lampadio), avorio, VI secolo. Brescia, Museo di S. Giulia.

Contemporaneamente, la fondazione di più sedi imperiali ebbe l’effetto di moltiplicare le factiones circensi, che cominciarono ad assumere via via un peso socialmente e politicamente maggiore fino a divenire veri e propri gruppi di pressione: nel corso del IV secolo, in particolare, il circus si configurò come luogo privilegiato di interazione tra gli stessi sovrani e i loro sudditi. L’importanza assunta dai giochi equestri e dall’edificio nel quale essi avevano luogo è chiaramente testimoniata da Ammiano Marcellino (XXVIII 4, 29): hi omne, quod vivunt, vino et tesseris inpendunt et lustris et voluptatibus et spectaculis: eisque templum et habitaculum et contio et cupitorum spes omnis Circus est maximus: et videre licet per fora et compita et plateas et conventicula circulos multos collectos in se controversis iurgiis ferri, aliis aliud, ut fit, defendentibus («Costoro [= gli abitanti dell’Urbe] consacrano tutta la vita al vino, ai dadi, ai bordelli, ai piaceri e agli spettacoli; per loro il Circo Massimo è il tempio, la casa, l’assemblea e la meta dei loro desideri. È possibile vedere nei fori, nei trivi, nelle piazze e nei luoghi di riunione molti gruppi in preda a contrasti, poiché, chi sostiene, com’è naturale, una tesi, chi un’altra»). Non di rado, tale trasformazione fu spesso causa di drammatici eventi.

Scena di preparazione degli aurighi ai carceres del Circo Massimo. Mosaico, IV secolo, dalla palestra. Piazza Armerina, Villa del Casale.

Nel 390 a Tessalonica il magister militum per Illyricum Buterico, in ottemperanza alle severe disposizioni in materia di fornicazione contro natura (CTh. IX 7, 6), ordinò l’arresto di un celebre cocchiere, colpevole di aver violentato un giovane coppiere. Il rifiuto opposto dal comandante alla richiesta di scarcerazione dell’atleta, particolarmente amato dal popolo, fece scoppiare una violenta sommossa che costò la vita allo stesso Buterico e ad altri ufficiali; probabilmente la rivolta fu promossa dal partito anti-gotico, che si opponeva alla politica imperiale dell’hospitalitas (Soz. HE VII 25, 3; Ruf. HE II 18; Theod. HE V 17; Zon. XIII 8). Com’è noto, l’incidente suscitò la collera di Teodosio, che, intenzionato a punire duramente l’affronto, non avviò alcuna inchiesta contro i colpevoli, ma pianificò accuratamente la propria vendetta: con la scusa di dare giochi nel circo, l’imperatore fece affluire la cittadinanza all’ippodromo per poi far intervenire l’esercito e massacrare la folla (Theod. HE V 18, 10). Forse per l’intercessione di Ambrogio, vescovo di Mediolanum, Teodosio sarebbe tornato sui suoi passi e avrebbe accarezzato l’idea di una revoca dell’ordine brutale (Ambros. Ep. 51, 3); tuttavia, quando la revoca fu inviata, l’eccidio era già stato compiuto, lasciando nell’arena 7.000 corpi esanimi e suscitando uno scandalo in tutto l’Impero (Ambros. Ep. 51, 6; ob Theod. 34; Paul. v. Ambros. 24; August. civ. Dei V 26; Theod. HE V 17, 3). Un altro episodio notevole dell’età tardoantica è quello che ebbe per protagonista Porfirio Calliopa, celebre auriga della squadra verde di Antiochia: nel 507, al tempo dell’imperatore Anastasio, durante la celebrazione dell’ennesima vittoria nella località di Dafne, l’atleta incitò i tifosi del circo alla violenza contro la comunità ebraica; la folla assaltò la sinagoga, ne massacrò i fedeli raccolti in preghiera, ne depredò i paramenti sacri e la diede alle fiamme; l’edificio fu poi convertito in una chiesetta per commemorare il martirio di San Leonzio (JoMal. Chron. XVI 5, 396).

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Il 𝐶ℎ𝑟𝑜𝑛𝑖𝑐𝑜𝑛 di Marcellino Comes

Nel 519 a Costantinopoli, alla morte dell’imperatore Anastasio, un certo Marcellino completò la prima redazione della sua cronaca. L’opera si prefiggeva di continuare la narrazione dei fatti storici, riprendendo dal punto in cui si erano interrotti gli analoghi lavori di Eusebio di Cesarea e di Girolamo; il suo racconto, però, in questa prima versione, era condotto attraverso un’ottica pro-illirica, schierata a favore dell’ortodossia e fortemente polemica verso l’imperatore appena scomparso. Ma chi era Marcellino, noto come Marcellinus Comes o Μαρκελλίνος ό Κόμης? Ora, ben pochi sono stati gli studiosi a esercitarsi sulla figura e sull’opera di questo autore vissuto a cavallo tra V e VI secolo e altrettanto scarse sono le informazioni sulla sua biografia: i dati disponibili sono ricavabili dai riferimenti sparsi nel suo Chronicon (soprattutto nella prefazione) e dalla testimonianza delle Institutiones di Cassiodoro. Lo si dice Illyricianus: si è supposto che Marcellino fosse originario della regione compresa tra la Dacia ripensis e la Moesia superior, un’area corrispondente all’od. Macedonia. È probabile che abbia iniziato la sua carriera come militare verso la fine del V secolo, magari nelle campagne di Anastasio contro Unni e Bulgari. E, benché la sua scrittura tradisca l’influsso delle contemporanee scuole di retorica, non è chiaro se abbia ricevuto un’educazione classica e teologica. A ogni modo, dopo il 519 egli sarebbe entrato al servizio del patricius Giustiniano in qualità di segretario personale (cancellarius) fino al 527, quando quello divenne imperatore. A tal proposito, nel suo capitolo dedicato agli storici cristiani, Cassiodoro (Inst. I 17, 2) spiega: Chronica vero, quae sunt imagines historiarum brevissimaeque temporum commemorationes, scripsit Graece Eusebius, quem transtulit Hieronymus in Latinum, et usque ad tempora sua deduxit eximie. hunc subsecutus est suprascriptus Marcellinus Illyricianus, qui adhuc patricii Iustiniani fertur egisse cancellos, sed meliore conditione devotus a tempore Theodosii principis usque ad fores imperii triumphalis Augusti Iustiniani opus suum Domino iuvante perduxit, ut qui ante fuit in obsequio suscepto gratus, postea ipsius imperio copiose amantissimus appareret («Eusebio ha scritto in greco cronache che sono immagini di storia e brevissime memorie dei tempi; le ha tradotte in latino Girolamo, il quale le ha continuate fino ai suoi giorni in maniera eccellente. L’ha seguito il suddetto Marcellino l’Illirico, che si dice essere stato in precedenza segretario del patrizio Giustiniano: con l’aiuto del Signore, dopo il miglioramento civile del suo padrone, egli ha proseguito l’opera dal tempo dell’imperatore Teodosio fino all’inizio del governo dell’Augusto Giustiniano, affinché colui che era stato prima gradito nel servizio del suo padrone si mostrasse poi fervidissimo durante l’impero di questi»; tr. it. Donnini 2001). La cronografia di Marcellino, dunque, vanta il primato di essere la prima continuazione delle narrazioni di Eusebio e di Girolamo, compilata a Costantinopoli e scritta dal punto di vista dell’Oriente romano, e di registrare avvenimenti fondamentali ben oltre il V secolo: ciò, oltre alla prestigiosa raccomandazione cassiodorea (ibid. 1), spiega il discreto successo dell’opera. È noto poi che se ne ebbe una seconda redazione entro il 534, nella quale l’esposizione dei fatti si colloca in un orizzonte politico del tutto nuovo: vi è posta al centro la figura di Giustiniano, di cui si lodano le imprese e gli atti di governo; l’atteggiamento dello scrittore è di gratitudine e celebrazione panegiristica; il testo è in gran parte assorbito dalla propaganda imperiale e culmina nel trionfo per la riconquista dell’Africa.

Oxford, Bodleian Library. Codex Oxoniensis Bodleianus Lat. auct. T II 26 (c. VII secolo), Marcellini v.c. comitis Chronicon, tab. I [Mommsen 1894, ].

Uno dei passi meglio noti della cronaca riguarda l’anno 476 (Chron. Marcell. 11, 91): Odoacer rex Gothorum Romam optinuit. Orestem Odoacer ilico trucidavit. Augustulum filium Orestis Odoacer in Lucullano Campaniae castello eum poena damnavit. Hesperium Romanae gentis imperium, quod septmgentesimo nono urbis conditae anno primus Augustorum Octavianus Augustus tenere coepit, Qum hoc Augustulo periit, anno decessorum regni imperatorum quingentesimo vigesimo secundo, Gothorum debiue regibus Romam tenentibus («Odoacre, re dei Goti, si impadronì di Roma ed assassinò subito Oreste. Il figlio di questi, Augustolo, fu esiliato nel Castel Lucullano in Campania. L’impero romano d’Occidente, che il primo Augusto, Ottaviano, aveva assunto nell’anno 709 della fondazione di Roma, perì con questo Augustolo cinquecentoventidue anni dopo che i suoi predecessori avevano iniziato a regnare, e da allora i re Goti furono padroni di Roma»; tr. it. Gasparri-Di Salvo-Simoni 1992 []). Marcellino è il primo autore conosciuto ad affermare che la deposizione di Romolo Augustolo da parte di Odoacre sancì la fine dell’Impero romano d’Occidente: come si vede, l’esposizione è asciutta e si limita alla nuda sequenza dei fatti senza aggiungere alcun commento.

Flavio Romolo Augusto. Solidus, Roma 31 ottobre 475-4 settembre 476. AV 4,41 g. Recto: D(ominus) N(oster) Romulus Augustus P(ius) F(elix) Aug(ustus). Busto affrontato, elmato, diademato di perle e corazzato dell’imperatore, con lancia e scudo.

Oltre all’aggiornamento del Chronicon, dopo il 527 non è chiaro che cosa Marcellino abbia fatto. Sono state avanzate delle ipotesi: è possibile che egli sia stato ammesso nel Senato di Costantinopoli, come confermerebbero i titoli di cui si fregia nella prefazione (ego vero vir clarissimus Marcellinus comes); oppure è probabile che, seguendo la parabole di molti funzionari del tempo, nei suoi ultimi anni egli abbia abbracciato la vita monastica. Della sua scomparsa non si hanno notizie precise, dato che se ne perdono le tracce dopo il 534.

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Il Laterculus Veronensis (o Registro di Verona)

Il manoscritto II (2), della Biblioteca Capitolare di Verona, databile alla prima metà del VII secolo, conserva ai ff. 225r, l. 14-226r, l. 19 una lista delle province romane risalente all’epoca di Diocleziano e Costantino. L’elenco contiene centouno province organizzate secondo il sistema delle dioeceseis (διοίκησεις) introdotto da Diocleziano alla fine del III secolo: il documento riporta sei diocesi orientali (Oriens, Pontica, Asiana, Thracia, Moesiae, Pannoniae) e sei diocesi occidentali (Britanniae, Galliae, Viennensis, Italiciana, Hispaniae, Africa). Nella parte conclusiva di questa lista, sono riportati i nomi delle gentes barbarae sottomesse all’Impero e quelli delle città sorte oltre il Reno.

Mappa dell’Impero romano durante la prima Tetrarchia di Diocleziano (284-305 d.C.).

Pubblicato per la prima volta da Scipione Maffei nel 1742 e, dopo un lungo periodo di silenzio, riscoperto da Theodor Mommsen nel 1862 ed edito con il titolo di Verzeichniss der römischen Provinzen aufgesetzt um 297, da allora il documento, convenzionalmente noto come Laterculus Veronensis (o Registro di Verona), fu oggetto di aspri dibattiti. A proposito della cronologia della compilazione, il Mommsen sosteneva che la lista fosse databile attorno al 297, ma le scoperte epigrafiche e papirologiche del XX secolo smentirono ben presto questa ipotesi. La vexata quaestio si appuntò quasi fin da subito intorno a due poli: da una parte, coloro che, con il Mommsen, ribadivano la tesi dell’omogeneità integrale del documento l’hanno variamente datato chi intorno al 305 (Costa 1912, 1834; Nesselhauf 1938, n. 2, 8-9; Stein 1959, 437), chi tra il 304 e il 314 (Keyes 1916, 196 ss.), chi ancora tra il 308 e il 315 (Bury 1923, 127 ss.), oppure tra il 312 e il 320 (Jones 1954, 21-29) o tra il 312 e il 314 (Kolbe 1962, 65 ss.) o ancora più precisamente verso il 314 (Jones 1964, 381-391); altri interpreti, invece, hanno compulsato del tutto questa tesi, attribuendo la caratteristica dell’omogeneità agli elenchi delle due partes imperii: secondo tale ricostruzione, la configurazione amministrativa delle province occidentali andrebbe datata agli anni 303-306, mentre quella delle province orientali agli anni 312-324 (Mispoulet 1906, 254 ss.; Schwartz 1937, 79 ss.; Chastagnol 1960, 3-4).

Verona, Biblioteca Capitolare. MS II (2), prima metà VII secolo, f. 225r-226r. Laterculus Veronensis – Lista delle province raggruppate in diocesi [ed. dipl. di BARNES 1982, 201-208].

In realtà, la congettura della presunta omogeneità del Registro è sempre stata molto fragile, anche perché costringerebbe a collocare il testimone in un arco di tempo davvero circoscritto. Da un lato, mentre ancora esistevano due Numidiae distinte nella primavera del 314 (Cirtensis e Militiana), quando Costantino convocò il Concilio di Arelate (od. Arles) per il 1° agosto (Optat. App. 3, 205, 33/34 Ziwsa), e le due province sarebbero state riunificate entro la fine di quell’estate (CIL VIII 18905), dall’altro i papiri contemporanei non menziona alcun governatore per l’Aegyptus Herculia (P. Cairo Isid. 73-74; cfr. Boak, Youtie 1960, 285-286; de Salvo 1964, 34 ss.), mentre il Laterculus di Verona raggruppa sotto la diocesi d’Oriente le due suddivisioni egizie della Iovia (che comprendeva il Basso Egitto e i dintorni di Alessandria) e dell’Herculea (cioè la regione a est del Delta del Nilo, con capitale Pelusium), entrambe create sotto Diocleziano. Secondo Timothy D. Barnes (1982, 204-205), sebbene il registro veronese possa apparire un documento omogeneo circa gli ultimi mesi del 314, prove più precise sulla riunificazione delle Numidiae e sulla divisione dell’Aegyptus potrebbero facilmente smentire questo assunto.

C. Aurelio Valerio Diocleziano. Follis, Nicomedia c. 294-295. Æ 9,62 g. Recto: Imp(erator) C(aesar) C(aius) Val(erius) Diocletianus P(ius) F(elix) Aug(ustus). Testa barbata e laureata dell’imperatore, voltata a destra.

Anche l’opinione che le due partes registrate siano omogenee, pur con cronologie differenti, per la quale ogni elenco delle diocesi dovrebbe presentare una certa coerenza interna, risulta decisamente smentita proprio dal caso della dioecesis Orientis: Barnes ha osservato che l’elenco veronese menziona due province chiamate Arabia (Arabia, item Arabia), seguite appunto dall’Aegyptus Iovia e dall’Aegyptus Herculea (in seguito chiamata Augustamnica). In particolare, la regione meridionale della provincia arabica di fondazione traianea era stata accorpata da quella di Palaestina già prima del 314 (Brümnow, von Domaszewski 1909): Eusebio di Cesarea nel suo De martyribus Palaestinae, infatti, riferisce che nel 307 il governatore locale aveva condannato dei cristiani ai lavori forzati nelle miniere di rame di Fenò in Palestina (Euseb. De mart. Pal. VII 2). Ora, se Fenò (od. Khirbet-Fenan) faceva parte della Palaestina nel 307 (o ancora nel 311, quando l’autore compose il suo libello), allora – secondo Barnes (1975, 277-278) – una delle due province arabiche menzionate dal Laterculus doveva essere stata soppressa ancor prima dell’istituzione dell’Aegyptus Herculea; da ciò consegue che il Registro di Verona non è assolutamente omogeneo né nella sua interezza né nelle sue singole parti.

Funzionari romani in Egitto, III secolo. Illustr. di G. Sumner.

In altre parole, lo storico britannico identifica l’Arabia Nova con l’Aegyptus Herculea, ma l’equazione proposta non trova conferma nei papiri coevi: l’argomentazione di Barnes, secondo cui all’interno della presunte provincia sarebbe esistito un νόμος Ἀραβικός (corrispondente al Delta orientale), non è convincente a causa della moltitudine di toponimi di questo genere in tutto l’Egitto. Lo studioso menziona un papiro, all’epoca ancora inedito, attestante la presenza tra il 314 e il 318 di una circoscrizione detta Νέα Ἀραβεία (Arabia Nova), e suppone che una città, Ἐλευθεροπόλις, si trovasse nei pressi dell’Herculea (inv. P. Oxy. 29 4B.48/G [6-7]a). John R. Rea (1983, 183-186), invece, ha respinto l’interpretazione di Barnes, pubblicando il papiro come P. Oxy. 50, 3574: egli, a ragione, ha osservato che esiste un’unica città chiamata Eleuteropoli (in Palaestina) e che ciò sarebbe confermato dal nome semitico del firmatario, Αὐρ(ήλιος) Μάλχος (Aurelio Malco), figlio di Gionata, che presentò la sua petizione al praeses Herculiae; conferme sulle relazioni tra questa città e Ossirinco si trovano anche altrove (P. Oxy. 14, 1722). Insomma, Rea sostiene che all’epoca in cui fu redatto il Laterculus Veronensis esistevano effettivamente due Arabiae: l’una (comprendente Eleuteropoli) era l’Arabia Nova, con capitale Petra, mentre l’altra, forse denominata Arabia Vetus, aveva come centro amministrativo la città di Bostra. Questa ricostruzione è abbastanza convincente, soprattutto perché non implica la costruzione congetturale di altre entità territoriali, come una presunta Eleuteropoli da qualche parte sul Delta del Nilo. In seguito, Barnes (1996) ha ritrattato la sua posizione, collocando la redazione del documento nel 314.

Seguendo un ordine geografico approssimativo, il Registro di Verona prosegue con un elenco delle varie gentes barbarae che si trovavano lungo i confini dell’Impero partendo da ovest, con gli Scoti (gli Irlandesi), e terminando a est sulle coste occidentali del mar Nero con i Persae. Le etnie note ai funzionari e ai militari romani dell’epoca costantiniana erano le seguenti:

Scoti. Picti. Caledonii. Rugii. Herulii. Saxones. Camari. Crinsiani. Ampsivarii. Angrivarii. Flevi. Bructer. Chatti. Burgundiones. Alamanni. Suebi. Franci. Chattuarii. Iuthungi. Armilausini. Marcomanni. Quadi. Taifali. Hermonduri. Vandali. Sarmatae. Sciri. Carpi. Scythae. Gothi. Indii. Armeni. Palmyreni. Mosoritae. Theui. Isauri. Phryges. Persae.

L’elenco continua menzionando le genti quae in Mauretania sunt e si conclude con gli abitati sorti trans Rhenum fluvium. Il registro di per sé fa capire i problemi incontrati dalle autorità imperiali, le quali dovevano cercare di raccogliere informazioni di carattere militare e civile su tutte queste popolazioni (peraltro molto variegate linguisticamente e culturalmente) e seguire la complessa politica interna ed estera di ognuna di esse così da essere pronte a fronteggiare qualunque minaccia imminente. Senza contare che queste erano soltanto le stirpi più vicine alle frontiere.

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Gli Unni di Attila

di E. JAMES, I barbari (trad. it. S. Guerrini), Bologna 2011,100-102.

Prima di Attila, il re degli Unni era stato Rua, il quale aveva inaugurato la politica del ricatto, costringendo gli imperatori romani a pagare ingenti somme di denaro dietro la minaccia d’invasione. Dal 435 circa, per una decina di anni, Attila governò insieme al fratello Bleda; poi, stando agli autori latini, nel 445 il fratricidio lo avrebbe reso unico detentore del potere. È difficile comprendere fino a che punto fosse ambizioso. Fu certamente molto abile nell’estorcere oro agli imperatori. Inizialmente gli imperatori d’Oriente avevano accettato di versare agli Unni 350 libbre d’oro all’anno che, dal 438, salirono a 700. Nel 447 Attila invase l’Impero arrivando a minacciare la stessa Costantinopoli e pretese tutti i territori entro una distanza di cinque giorni di viaggio a sud del Danubio, oltre a 2.100 libbre d’oro all’anno e 6.000 libbre di arretrati. È stato calcolato che, fino al momento in cui l’imperatore smise di pagare, agli Unni furono versate più di 9 tonnellate d’oro[1].

Mappa del mondo romano nel 450 [Schulteis 2019, 18].

Le quattro grandi invasioni di Attila riguardarono dapprima l’Oriente – dove avanzò su Costantinopoli nel 442 e nei Balcani nel 447 – e, successivamente, l’Occidente con l’invasione della Gallia nel 451 – fermata dalla coalizione di armate barbariche messa insieme da Ezio – e nel 452 dell’Italia, dove fu probabilmente arrestata dall’intervento di papa Leone I Magno anziché da un miracolo, come vorrebbe la leggenda[2]. Prisco di Panion racconta che quando Attila giunse a Mediolanum vide un dipinto che raffigurava gli imperatori romani assisi in trono con ai loro piedi i corpi di Goti uccisi; quindi, avrebbe ordinato a un pittore di ritrarre lui stesso assiso in trono con gli imperatori che rovesciavano sacchi ricolmi d’oro ai suoi piedi[3]. D’altra parte, è possibile che le sue ambizioni siano andate oltre la semplice estorsione di denaro, anche se è oltremodo problematico stabilire se dobbiamo considerare la richiesta d’aiuto rivoltagli da Onoria, sorella di Valentiniano III, come indizio del fatto che gli era stata promessa in sposa, o se egli abbia veramente preteso come dote di Onoria l’Impero d’Occidente. Se queste furono le sue ambizioni, non le realizzò. L’Impero romano, nonostante tutti i problemi, aveva ancora una considerevole capacità di resistenza tanto che nel 451, con una battaglia campale, fu in grado di arrestare la formidabile invasione della Gallia e, nel 452, di respingere l’invasione dell’Italia. Attila morì l’anno seguente. Sembra che abbia avuto un’epistassi mentre stava festeggiando con una sua concubina; alcuni, peraltro, sostennero che fu la concubina ad assassinarlo, mentre altri ancora dissero che Ezio avrebbe prezzolato una delle sue guardie del corpo per eliminarlo[4]. Resta il fatto che Attila morì e in un brevissimo volgere di tempo anche l’Impero che egli aveva costruito si dissolse.

Guerriero unno. Illustrazione di P. Glodek.

Per Attila possediamo uno dei testi più interessanti fra tutti quelli che riguardano Roma e i barbari: il resoconto di Prisco di Panion relativo a un’ambasceria fatta presso la corte di Attila nel 449. Se ne è conservato un lungo frammento che nel X secolo l’imperatore Costantino Porfirogenito riportò nel suo libro sulle ambascerie. Prisco fece parte della delegazione guidata dall’ambasciatore Massimino. Il resoconto evoca con grande efficacia la condizione mentale degli ambasciatori, costretti a dipendere da un interprete di cui diffidavano, disorientati dagli intrighi di corte, obbligati ad attendere per giorni prima di poter avere un incontro e costretti a ritornare continuamente sulle discussioni fatte per cercare di comprenderne il reale significato. Prisco descrive i palazzi di legno del regno di Attila, uno dei quali comprendeva un impianto termale in pietra costruito in stile romano da uno schiavo che aveva inutilmente sperato di ottenere in cambio la libertà. Gli stessi segretari di Attila erano Romani e lessero un documento di papiro su cui erano riportati i nomi di tutti i fuoriusciti unni che si trovavano presso i Romani e di cui Attila voleva la restituzione. Addirittura, Attila era talmente furibondo con l’ambasciatore perché i fuggiaschi non erano già stati riconsegnati da dichiarare che lo avrebbe impalato e lasciato in pasto agli uccelli se non fosse stato che, così facendo, avrebbe infranto i diritti degli ambasciatori[5].

Mór Than, La festa di Attila. Olio su tela, 1870. Budapest, Magyar Nemzeti Galéria.

Fu in occasione del suo secondo incontro con Attila che qualcuno si rivolse a Prisco porgendogli il saluto in greco. Prisco aveva già incontrato in precedenza tra gli Unni persone che parlavano il greco, ovvero prigionieri che si potevano facilmente riconoscere come tali dalle vesti cenciose e dai capelli luridi. Ma quest’uomo assomigliava a uno Scita ben vestito e dall’acconciatura curata. Disse di essere un mercante greco di una città sul Danubio; era stato fatto schiavo dagli Unni ma, avendo combattuto per loro, aveva riacquistato la propria libertà; adesso aveva una moglie barbara e dei figli e sosteneva di condurre una vita migliore rispetto a quella di prima. Poi, dato che Prisco ribatté a questo atteggiamento antipatriottico, il suo interlocutore pianse e dichiarò che le leggi romane erano giuste e gli ordinamenti buoni, ma i governanti li stavano corrompendo perché non se ne preoccupavano più così come avevano fatto gli antichi[6]. Dal testo si deduce che Prisco ebbe la meglio nella discussione, ma poco tempo dopo un’argomentazione analoga fu riproposta a Prisco da uno degli uomini di Attila, un Unno che gli ribadì, appunto, il concetto di fondo espresso dall’anonimo greco, sostenendo che essere schiavi di Attila fosse preferibile all’essere ricchi tra i Romani[7]. Prisco e Massimino fecero infine ritorno in patria, ma non senza essere stati prima testimoni di alcuni esempi pratici delle severe leggi di Attila: una spia impalata e alcuni schiavi arrestati per aver ammazzato in battaglia i loro padroni.

Nessun’altra fonte di quell’epoca ci offre altrettanti dettagli (e, con ogni probabilità, piuttosto attendibili) sui meccanismi delle ambascerie presso i barbari, sulla vita in mezzo a loro e sulla natura complessa e sfaccettata dei rapporti tra Romani e barbari.

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[1] Hardt 2003, 97.

[2] Vd. Gillett 2003, 114-115.

[3] Priscus, F 22, 3 = Suid. μ 405 = K 2123, Μεδιόλανον: πολυάνθρωπος πόλις, ἣν καταλαβὼν Ἀττήλας ἠνδραποδίσατο. ὡς δὲ εἶδεν ἐν γραφῇ τοὺς μὲν Ῥωμαίων βασιλεῖς ἐπὶ χρυσῶν θρόνων καθημένους, Σκύθας δὲ ἀνῃρημένους καὶ πρὸ τῶν σφῶν ποδῶν κειμένους, ζητήσας ζωγράφον ἐκέλευσεν αὑτὸν μὲν γράφειν ἐπὶ θάκου, τοὺς δὲ Ῥωμαίων βασιλεῖς κωρύκους φέρειν ἐπὶ τῶν ὤμων καὶ χρυσὸν πρὸ τῶν αὑτοῦ χέειν ποδῶν («Milano: città molto popolosa, che Attila conquistò e sottomise. Come vide che in un affresco erano rappresentati gli imperatori romani2 assisi su troni aurei e alcuni Sciti uccisi giacenti ai loro piedi, mandò a cercare il pittore e gli ordinò di rappresentare lui stesso sul seggio e invece gli imperatori romani che recavano sacchi sulle spalle e ne versavano oro ai suoi piedi»)

[4] Malala, Chron. 14, 10 (279 Thun). Vd. Babcock 2001.

[5] Priscus, F 8 = Exc. De leg. Rom. 47-71.

[6] Ibidem.

[7] Ibidem.