Legge umana e legge divina

di I. Biondi, Storia e antologia della letteratura greca, vol. 2.A – Il teatro, Firenze 2004, pp. 215-219; testo greco di Sophocles, Antigone, in F. Storr (ed.), Sophocles. Vol.1: Oedipus the King. Oedipus at Colonus. Antigone, London-New York 1912.

La legge di Creonte (Antigone, vv. 162-210)

Dopo la sconfitta dell’esercito argivo e la morte di entrambi i discendenti maschi di Edipo, lo scettro passa nelle mani di Creonte, fratello di Giocasta. Proclamato signore della città, egli espone immediatamente ai sudditi il suo programma di governo: il suo primo provvedimento si fonderà sul principio che impone di onorare i caduti in difesa della patria, coprendo di infamia coloro che l’hanno tradita. Per questo motivo, Eteocle e Polinice non avranno lo stesso trattamento: il primo otterrà tutti gli onori degni del suo rango e del valore dimostrato nelle difesa di Tebe; il secondo, assalitore della propria città, sarà lasciato insepolto.

Volto femminile (forse di sfinge). Testa, terracotta policroma, VI secolo a.C. dal Tempio di Apollo Ismenio di Tebe. Paris, Musée du Louvre.

ἄνδρες, τὰ μὲν δὴ πόλεος ἀσφαλῶς θεοὶ

πολλῷ σάλῳ σείσαντες ὤρθωσαν πάλιν.

ὑμᾶς δ᾽ ἐγὼ πομποῖσιν ἐκ πάντων δίχα

165 ἔστειλ᾽ ἱκέσθαι τοῦτο μὲν τὰ Λαΐου

σέβοντας εἰδὼς εὖ θρόνων ἀεὶ κράτη,

τοῦτ᾽ αὖθις, ἡνίκ᾽ Οἰδίπους ὤρθου πόλιν,

κἀπεὶ διώλετ᾽, ἀμφὶ τοὺς κείνων ἔτι

παῖδας μένοντας ἐμπέδοις φρονήμασιν.

170 ὅτ᾽ οὖν ἐκεῖνοι πρὸς διπλῆς μοίρας μίαν

καθ᾽ ἡμέραν ὤλοντο παίσαντές τε καὶ

πληγέντες αὐτόχειρι σὺν μιάσματι,

ἐγὼ κράτη δὴ πάντα καὶ θρόνους ἔχω

γένους κατ᾽ ἀγχιστεῖα τῶν ὀλωλότων.

175 ἀμήχανον δὲ παντὸς ἀνδρὸς ἐκμαθεῖν

ψυχήν τε καὶ φρόνημα καὶ γνώμην, πρὶν ἂν

ἀρχαῖς τε καὶ νόμοισιν ἐντριβὴς φανῇ.

ἐμοὶ γὰρ ὅστις πᾶσαν εὐθύνων πόλιν

μὴ τῶν ἀρίστων ἅπτεται βουλευμάτων

180 ἀλλ᾽ ἐκ φόβου του γλῶσσαν ἐγκλῄσας ἔχει

κάκιστος εἶναι νῦν τε καὶ πάλαι δοκεῖ·

καὶ μεῖζον ὅστις ἀντὶ τῆς αὑτοῦ πάτρας

φίλον νομίζει, τοῦτον οὐδαμοῦ λέγω.

ἐγὼ γάρ, ἴστω Ζεὺς ὁ πάνθ᾽ ὁρῶν ἀεί,

185 οὔτ᾽ ἂν σιωπήσαιμι τὴν ἄτην ὁρῶν

στείχουσαν ἀστοῖς ἀντὶ τῆς σωτηρίας,

οὔτ᾽ ἂν φίλον ποτ᾽ ἄνδρα δυσμενῆ χθονὸς

θείμην ἐμαυτῷ, τοῦτο γιγνώσκων ὅτι

ἥδ᾽ ἐστὶν ἡ σῴζουσα καὶ ταύτης ἔπι

190 πλέοντες ὀρθῆς τοὺς φίλους ποιούμεθα.

τοιοῖσδ᾽ ἐγὼ νόμοισι τήνδ᾽ αὔξω πόλιν,

καὶ νῦν ἀδελφὰ τῶνδε κηρύξας ἔχω

ἀστοῖσι παίδων τῶν ἀπ᾽ Οἰδίπου πέρι·

Ἐτεοκλέα μέν, ὃς πόλεως ὑπερμαχῶν

195 ὄλωλε τῆσδε, πάντ᾽ ἀριστεύσας δόρει,

τάφῳ τε κρύψαι καὶ τὰ πάντ᾽ ἀφαγνίσαι

ἃ τοῖς ἀρίστοις ἔρχεται κάτω νεκροῖς.

τὸν δ᾽ αὖ ξύναιμον τοῦδε, Πολυνείκη λέγω,

ὃς γῆν πατρῴαν καὶ θεοὺς τοὺς ἐγγενεῖς

200 φυγὰς κατελθὼν ἠθέλησε μὲν πυρὶ

πρῆσαι κατ᾽ ἄκρας, ἠθέλησε δ᾽ αἵματος

κοινοῦ πάσασθαι, τοὺς δὲ δουλώσας ἄγειν,

τοῦτον πόλει τῇδ᾽ ἐκκεκήρυκται τάφῳ

μήτε κτερίζειν μήτε κωκῦσαί τινα,

205 ἐᾶν δ᾽ ἄθαπτον καὶ πρὸς οἰωνῶν δέμας

καὶ πρὸς κυνῶν ἐδεστὸν αἰκισθέν τ᾽ ἰδεῖν.

τοιόνδ᾽ ἐμὸν φρόνημα, κοὔποτ᾽ ἔκ γ᾽ ἐμοῦ

τιμὴν προέξουσ᾽ οἱ κακοὶ τῶν ἐνδίκων·

ἀλλ᾽ ὅστις εὔνους τῇδε τῇ πόλει, θανὼν

210 καὶ ζῶν ὁμοίως ἐξ ἐμοῦ τιμήσεται.

Gli dèi, o Tebani, hanno risollevato la città, dopo averla scossa con violente mareggiate. Ho inviato messaggeri per convocarvi qui, voi soli fra tutti, in primo luogo perché so come avete costantemente onorato l’autorità regale di Laio, e in seguito di Edipo, quando prese il governo della città, e poi, dopo la sua morte, siete rimasti saldamente leali ai loro figli. Ed ora che essi per duplice destino nello stesso giorno sono caduti, uccisori e uccisi con empio fratricidio, sono io che per la stretta parentela con i morti detengo il trono e il potere assoluto. È impossibile penetrare a fondo anima, intelligenza, carattere di un uomo, se costui non ha rivelato se stesso nell’esercizio del potere e delle leggi. Per me chi governa lo Stato senza attenersi alle decisioni più giuste, ma tiene la bocca chiusa per qualche paura, non da ora io lo stimo un essere spregevole; e parimenti non ho nessuna considerazione per chi tiene un amico in maggior conto della propria patria. No, io non potrei tacere – mi sia testimone Zeus che tutto vede – se mi accorgessi che la rovina, e non già la salvezza, attende i cittadini, né potrei considerare amico mio un nemico della patria, perché so bene che proprio ad essa dobbiamo la nostra salvezza e che solo navigando su uno Stato prospero possiamo assicurarci dei veri amici. Sono questi i principi in base ai quali farò grande questa città. In pieno accordo con essi è l’editto che ora ho proclamato per tutti i cittadini riguardo ai figli di Edipo. Eteocle, che è morto combattendo per la nostra città, dopo aver dimostrato con le armi tutto il suo valore, sia calato in un sepolcro e riceva tutti i riti che accompagnano sotto terra gli eroi; quanto a suo fratello, a Polinice, che ritornò dall’esilio per mettere a ferro e fuoco la terra paterna e gli altari degli dèi indigeni, e bramò dissetarsi del sangue fraterno riducendo noi altri in schiavitù, si fa divieto a questa città che alcuno gli tributi esequie o lamenti, ma sia lasciato insepolto e sfigurato, pasto di uccelli e di cani. Questo è il mio pensiero. Mai da me i malvagi riceveranno più onore degli uomini giusti; ma io onorerò chi è devoto a questa città, da vivo e da morto.

(trad. it. di F. Ferrari)

Jean-Joseph Benjamin-Constant, Antigone presso il corpo di Polinice. Olio su tela, 1868. Photothèque Musée des Augustins.

L’appello di Creonte ai cittadini ricorda, nell’esordio, il tono con cui gli oratori politici si rivolgevano al loro pubblico, anche se il contenuto del discorso si discosta poi dall’ideologia democratica dell’Atene del tempo di Sofocle. Nella prima parte, egli enuncia una serie di principi in cui si sottolinea come l’εὐνομία, il «buon governo», punto di riferimento di qualunque sovrano o uomo di Stato, può essere raggiunto solamente a patto di far sempre prevalere l’interesse pubblico su quello privato. Tuttavia, dopo aver enunciato il proposito di voler «rendere grande la città», sulla base di queste norme, la sua prima affermazione di potere si concretizza in un atto moralmente inquietante: il decreto con il quale si vieta la sepoltura di Polinice, motivato come una punizione per il comportamento dell’eroe, equiparato ad un manifesto tradimento. Da un certo punto di vista, la decisione di Creonte è consona alle parole con le quali egli si è appena presentato al popolo, affermando che non potrebbe mai considerare amico un uomo che si fosse dimostrato ostile a Tebe; ma è altrettanto vero che il suo accanirsi contro un morto rimane un comportamento inaccettabile sul piano religioso oltre che su quello umano. Il disagio morale implicito nell’ordine di Creonte è accresciuto dal fatto che nelle sue parole non compare neppure un accenno alla legge che impone l’obbligo di rendere onore ai defunti, mentre si sottolinea che la discriminazione di trattamento fra Eteocle e Polinice è imposta da un suo «bando» (κήρυγμα). Ciò significa che Creonte non si fa scrupolo di anteporre la propria volontà ad una «legge» (νόμος) di origine divina, pretendendo di sostituire un potere individuale a quelli universali dello Stato e della religione, senza tener conto del fatto che egli, che si atteggia a difensore della città, la espone con colpevole pertinacia ad una «contaminazione» (μίασμα) che non mancherà di attirare sui cittadini innocenti la maledizione divina, nella quale anch’egli sarà fatalmente coinvolto.

La legge di Zeus (Antigone, vv. 441-460)

Dopo aver emanato un bando in cui si vietano gli onori funebri al corpo di Polinice, per essere sicuro che nessuno osi violarlo, Creonte dispone alcune sentinelle a guardia del cadavere, con l’ordine di arrestare chiunque si avvicini e di condurlo da lui. Una così severa sorveglianza non tarda a dare i suoi frutti; durante un violento temporale, che appare ai soldati come un segno dell’ira divina, essi sorprendono una fanciulla, che, levando acuti lamenti, si è avvicinata ai miseri resti di Polinice, cospargendoli con un pugno di terra e offrendo una triplice libagione in onore del defunto. La ragazza è Antigone, sua sorella, che viene subito arrestata e condotta alla presenza di Creonte, che la interroga, congedando la guardia che l’ha accompagnata.

Κρ. – σὲ δή, σὲ τὴν νεύουσαν εἰς πέδον κάρα,

φὴς ἢ καταρνεῖ μὴ δεδρακέναι τάδε;

Ἀν. – καὶ φημὶ δρᾶσαι κοὐκ ἀπαρνοῦμαι τὸ μή.

Κρ. – σὺ μὲν κομίζοις ἂν σεαυτὸν ᾖ θέλεις

445   ἔξω βαρείας αἰτίας ἐλεύθερον·

σὺ δ᾽ εἰπέ μοι μὴ μῆκος, ἀλλὰ συντόμως,

ᾔδησθα κηρυχθέντα μὴ πράσσειν τάδε;

Ἀν. – ᾔδη· τί δ᾽ οὐκ ἔμελλον; ἐμφανῆ γὰρ ἦν.

Κρ. – καὶ δῆτ᾽ ἐτόλμας τούσδ᾽ ὑπερβαίνειν νόμους;

Ἀν. – οὐ γάρ τί μοι Ζεὺς ἦν ὁ κηρύξας τάδε,

οὐδ᾽ ἡ ξύνοικος τῶν κάτω θεῶν Δίκη

τοιούσδ᾽ ἐν ἀνθρώποισιν ὥρισεν νόμους.

οὐδὲ σθένειν τοσοῦτον ᾠόμην τὰ σὰ

κηρύγμαθ᾽, ὥστ᾽ ἄγραπτα κἀσφαλῆ θεῶν

455   νόμιμα δύνασθαι θνητὸν ὄνθ᾽ ὑπερδραμεῖν.

οὐ γάρ τι νῦν γε κἀχθές, ἀλλ᾽ ἀεί ποτε

ζῇ ταῦτα, κοὐδεὶς οἶδεν ἐξ ὅτου ‘φάνη.

τούτων ἐγὼ οὐκ ἔμελλον, ἀνδρὸς οὐδενὸς

φρόνημα δείσασ᾽, ἐν θεοῖσι τὴν δίκην

460   δώσειν· θανουμένη γὰρ ἐξῄδη, τί δ᾽ οὔ;

Cr. – (Ad Antigone.) Dico a te! Sì, dico a te che volgi il capo a terra:

neghi o ammetti di aver compiuto il fatto?

An. – Sì, sono stata io, non lo nego.

Cr. – (Alla guardia.) Vattene, tu, dove ti pare: ormai sei libero;

sei prosciolto da quella grave imputazione…

(Ad Antigone.) Quanto a te, parlami chiaramente, senza giri di parole:

conoscevi l’editto, che vietava proprio ciò che hai fatto?

An. – Sì, lo conoscevo; e come potevo ignorarlo? Era pubblico!

Cr. – Eppure hai osato trasgredire questa norma?

An. – Sì, perché questo editto non Zeus proclamò per me,

né Dike, che abita con gli dèi sotterranei; essi

non hanno sancito per gli uomini queste leggi.

E non avrei attribuito ai tuoi proclami tanta forza

che un mortale potesse violare le leggi non scritte,

incrollabili, degli dèi, che non da oggi né da ieri,

ma da sempre sono in vita,

né alcuno sa quando vennero alla luce.

Io non potevo, per paura di un uomo arrogante,

attirarmi il castigo degli dèi: sapevo bene

che la morte mi attende – cosa credi?

(tr. it. di F. Ferrari)

Il punto di forza del discorso di Antigone è rappresentato dalla frase iniziale della sua risposta:

Sì, perché questo editto non Zeus proclamò per me,

né Dike, che abita con gli dèi sotterranei…

Zeus. Statua, bronzo, V sec. a.C. Taranto, Museo Archeologico Nazionale.

In essa si riepilogano i principi fondamentali della morale religiosa ateniese, poiché la connessione fra Zeus e Dike, la Giustizia, considerata una figlia, è già presente nell’etica arcaica, a partire da Esiodo, per giungere fino a Solone e ad Eschilo, i cui concetti rimangono validi anche per Sofocle. Inoltre, nelle parole di Antigone, Dike è presentata come «coabitante» (ξύνοικος) delle divinità infere; questa convinzione la pone in stretto contatto con le Erinni, le divinità punitrici figlie della Notte, che abitano il mondo sotterraneo (cfr. Eschilo, Eumenidi, v. 511). Queste antichissime dee, appartenenti al mondo religioso primordiale, hanno avuto in sorte il compito di perseguitare non solo quelli che si macchiano di delitti contro gli appartenenti alla stessa stirpe, ma anche chi viola l’αἰδώς, il «rispetto» dovuto a determinate categorie di persone, fra le quali anche i defunti, poiché non hanno più la possibilità di difendersi. Antigone dimostra quindi la sua venerazione per le leggi che esistono «non da oggi né da ieri, ma da sempre», di fronte alle quali l’importanza dei decreti di Creonte appare notevolmente sminuita, tanto che essi sembrano ridursi a una puntigliosa ripicca da parte di chi, insicuro del proprio potere, si ostina a salvaguardarlo con sospettosa gelosia. Né, certo, il timore della morte può intaccare la ferma volontà della fanciulla, che dichiara con tranquilla e consapevole serenità la sua decisione di non violare un principio universale e divino, e di non venir meno agli obblighi religiosi nei confronti del fratello morto, attirandosi la collera degli dèi per timore delle minacce di un tiranno sospettoso e meschino.

L’eroismo di Antigone

di I. Biondi, Storia e antologia della letteratura greca, vol. 2.A – Il teatro, Firenze 2004, pp. 193 sg.; testo greco di Sophocles, Antigone, in F. Storr (ed.), Sophocles. Vol.1: Oedipus the King. Oedipus at Colonus. Antigone, London-New York 1912.

Antigone, che ha violato il bando di Creonte rendendo simbolici onori funebri al cadavere del fratello Polinice, viene arrestata e condannata a morte. Emone, figlio di Creonte e promesso sposo di Antigone, tenta di dissuadere il padre dal crudele proposito: ma quest’ultimo, timoroso di vedere indebolita la sua autorità agli occhi dei cittadini, fa condurre Antigone a una tomba scavata nella roccia, nella quale dovrà essere sepolta viva. Di fronte all’imminenza della morte, pur convinta di aver agito secondo le norme di una giustizia ben più alta di quella umana, Antigone leva un lamento su se stessa, compiangendo di essere destinata a morire nel fiore degli anni, senza aver conosciuto nessuna gioia dell’esistenza, prima fra tutte quella delle nozze e della maternità.

 

Una donna alla tomba. Lḗkythos attica a sfondo bianco (opera attribuita al Pittore di Achille), 440-430 a.C. ca., dal Pireo. Musée du Louvre.
Una donna alla tomba. Lḗkythos attica a sfondo bianco (opera attribuita al Pittore di Achille), 440-430 a.C. ca., dal Pireo. Musée du Louvre.

 

ὦ τύμβος, ὦ νυμφεῖον, ὦ κατασκαφὴς

οἴκησις ἀείφρουρος, οἷ πορεύομαι

πρὸς τοὺς ἐμαυτῆς, ὧν ἀριθμὸν ἐν νεκροῖς

πλεῖστον δέδεκται Φερσέφασσ᾽ ὀλωλότων·

895   ὧν λοισθία ‘γὼ καὶ κάκιστα δὴ μακρῷ

κάτειμι, πρίν μοι μοῖραν ἐξήκειν βίου.

ἐλθοῦσα μέντοι κάρτ᾽ ἐν ἐλπίσιν τρέφω

φίλη μὲν ἥξειν πατρί, προσφιλὴς δὲ σοί,

μῆτερ, φίλη δὲ σοί, κασίγνητον κάρα·

900   ἐπεὶ θανόντας αὐτόχειρ ὑμᾶς ἐγὼ

ἔλουσα κἀκόσμησα κἀπιτυμβίους

χοὰς ἔδωκα. νῦν δέ Πολύνεικες, τὸ σὸν

δέμας περιστέλλουσα τοιάδ᾽ ἄρνυμαι.

καίτοι σ᾽ ἐγὼ ‘τίμησα τοῖς φρονοῦσιν εὖ.

905   οὐ γάρ ποτ᾽ οὔτ᾽ ἄν, εἰ τέκνων μήτηρ ἔφυν,

οὔτ᾽ εἰ πόσις μοι κατθανὼν ἐτήκετο,

βίᾳ πολιτῶν τόνδ᾽ ἂν ᾐρόμην πόνον.

τίνος νόμου δὴ ταῦτα πρὸς χάριν λέγω;

πόσις μὲν ἄν μοι κατθανόντος ἄλλος ἦν,

910    καὶ παῖς ἀπ᾽ ἄλλου φωτός, εἰ τοῦδ᾽ ἤμπλακον,

μητρὸς δ᾽ ἐν Ἅιδου καὶ πατρὸς κεκευθότοιν

οὐκ ἔστ᾽ ἀδελφὸς ὅστις ἂν βλάστοι ποτέ.

τοιῷδε μέντοι σ᾽ ἐκπροτιμήσασ᾽ ἐγὼ

νόμῳ Κρέοντι ταῦτ᾽ ἔδοξ᾽ ἁμαρτάνειν

915   καὶ δεινὰ τολμᾶν, ὦ κασίγνητον κάρα.

καὶ νῦν ἄγει με διὰ χερῶν οὕτω λαβὼν

ἄλεκτρον, ἀνυμέναιον, οὔτε του γάμου

μέρος λαχοῦσαν οὔτε παιδείου τροφῆς,

ἀλλ᾽ ὧδ᾽ ἔρημος πρὸς φίλων ἡ δύσμορος

920   ζῶσ᾽ εἰς θανόντων ἔρχομαι κατασκαφάς.

ποίαν παρεξελθοῦσα δαιμόνων δίκην;

τί χρή με τὴν δύστηνον ἐς θεοὺς ἔτι

βλέπειν; τίν᾽ αὐδᾶν ξυμμάχων; ἐπεί γε δὴ

τὴν δυσσέβειαν εὐσεβοῦσ᾽, ἐκτησάμην.

925   ἀλλ᾽ εἰ μὲν οὖν τάδ᾽ ἐστὶν ἐν θεοῖς καλά,

παθόντες ἂν ξυγγνοῖμεν ἡμαρτηκότες·

εἰ δ᾽ οἵδ᾽ ἁμαρτάνουσι, μὴ πλείω κακὰ

πάθοιεν ἢ καὶ δρῶσιν ἐκδίκως ἐμέ.

 (Antigone, vv. 891-928)

 

Frederic Leighton, Antigone. Olio su tela, 1882..jpg
Frederic Leighton, Antigone. Olio su tela, 1882.

 

 

“O tomba, camera nuziale, cella sotterranea, mia perpetua prigione, dove mi avvio per incontrare i miei cari, di cui il più gran numero già fra i defunti Persefone accoglie; e ultima, e di tutti la più infelice, discenderò laggiù, prima di aver raggiunto il termine della mia vita. Questa sola speranza posso ancora nutrire, che il mio arrivo sarà caro a mio padre, e sarà caro a te, madre, e a te, amato fratello: perché, quando moriste, con le mie mani vi lavai e vi adornai, e sulla vostra tomba versai libami. E ora, Polinice, ecco il premio per aver sepolto il tuo cadavere. E tuttavia fu giusto l’onore che ti resi, almeno agli occhi di chi ha mente retta. Certamente non avrei intrapreso questa audacia sfidando il volere della città né per i figli, né se avessi visto putrefarsi il corpo del mio sposo. E dunque in ossequio a quali principi ragiono così? Se avessi perduto il marito, avrei potuto trovarne un altro e avere da lui un altro figlio, se mi fosse morto un figlio; ma ora che mia madre e mio padre giacciono sotto la terra, non potrò più avere un altro fratello. In nome di questo principio ti ho reso onore al di sopra di tutto, fratello carissimo, e per questo a Creonte sono apparsa colpevole di un crimine inaudito. E mi ha afferrata per le mani e ora mi trascina così, senza nozze, senza imenei, senza aver avuto la gioia di un marito, e di nutrire dei figli; e invece così, abbandonata da tutti i miei cari, ancora viva discendo, misera, alle caverne dei morti. Ho forse violato la giustizia divina? Ma perché un’infelice come me dovrebbe rivolgersi ancora agli dèi? E a chi domanderò aiuto, se per la mia pietà mi sono guadagnata il nome di empia? Ebbene, se così par giusto agli dèi, dopo aver sofferto riconoscerò il mio errore; ma sei i colpevoli sono loro, non abbiano a soffrire pene maggiori di quelle che ingiustamente mi infliggono”.

(tr.it. F. Ferrari)

Il brano preso in esame offre vari spunti di riflessione. In primo luogo, l’atteggiamento di Antigone ormai prossima a morte sembrò in contraddizione rispetto al suo comportamento così deciso al momento dell’arresto; anzi, il cambiamento evidenziato in questi versi parve così brusco e poco accettabile da farli considerare addirittura interpolati (fra i sostenitori di questa teoria ci fu anche un personaggio insigne come Johann Wolfgang Goethe). Tale tesi, tuttavia, appare da respingere, perché Aristotele (Retorica, 1417-1432) cita questo brano con tale precisione da non lasciare adito a dubbi sulla posizione, il numero e il contenuto dei versi; dovremmo quindi pensare a un’interpolazione molto precoce, cosa assai improbabile. In realtà, la pretesa contraddizione di Antigone non fa che accrescere lo spessore poetico del personaggio, rendendolo più ricco di sfumature e conferendo al suo eroismo un volto più umano. Nel primo colloquio con Creonte, al momento dell’arresto, quando il sovrano aveva affermato che un nemico non può mai divenire un amico, neppure dopo la morte, giustificando così la decisione di lasciare insepolto Polinice, Antigone aveva replicato di essere nata per amare, non per odiare (Antigone, vv. 522 sg.), mettendo in luce un lato del suo carattere, forse troppo spesso trascurato. Antigone è forte, decisa, convinta della validità delle sue azioni al punto da rinunciare per esse alla vita; ma questo non significa che non ami la vita e che doverla abbandonare senza averla gustata non susciti in lei un doloroso senso di frustrazione e di rimpianto; anzi, mai come in questi versi si scorge quanto sia duro e quale spirito di sacrificio richieda impostare la propria esistenza sul rispetto di valori assoluti.

 

Nikiphoros Lytras, Antigone di fronte al cadavere di Polinice. Olio su tela, 1865. Galleria Nazionale di Atene
Nikiphoros Lytras, Antigone di fronte al cadavere di Polinice. Olio su tela, 1865. Galleria Nazionale di Atene.

 

Inoltre, nella parte centrale del brano, la ragazza, nel confermare la validità dei principi in base ai quali ha agito, sembra costruire un preciso schema giustificativo per il suo comportamento. Ella, che non avrebbe compiuto le stesse azioni per un figlio o per uno sposo, ha percepito come dovere irrinunciabile la necessità di compierle per il fratello, in nome di un legame di sangue unico, più forte di qualunque altro.

Il tema non è nuovo. In Erodoto (Historiae, III 119) si legge la storia della moglie di Intaferne, che presenta un analogo schema di ragionamento. Intaferne, un dignitario persiano sospettato di tramare contro Dario, fu arrestato con tutti i suoi figli e parenti. Poiché la moglie, recandosi di continuo alla reggia, manifestava il suo dolore con pianti e con grida, Dario ne ebbe pietà e le concesse di liberare uno solo dei suoi cari imprigionati, pensando che la donna avrebbe sicuramente scelto il marito. Invece, fra lo stupore di tutti, ella chiese che venisse rilasciato il fratello, adducendo come giustificazione che, morti il marito e i figli, ella avrebbe potuto risposarsi e divenire di nuovo madre; ma, defunto il fratello, non avrebbe mai potuto sostituirlo, essendo ormai scomparsi i loro genitori. Il motivo ha probabilmente origine dalla novellistica popolare, come dimostrerebbero situazioni analoghe descritte in racconti indiani e persiani; fra gli autori greci posteriori a Sofocle potremmo ricordare Apollodoro (Biblioteca, II 6, 4) e Luciano (Toxaris, 61; De dea Syria, 18). Quanto all’Antigone, può darsi che vi possiamo cogliere un’eco di Erodoto, amico e contemporaneo di Sofocle, o, più semplicemente, la citazione di un tema ben noto al pubblico e di consolidata tradizione, per giustificare una scelta altrimenti poco comprensibile.

Il dolore di Creonte

di I. Biondi, Storia e antologia della letteratura greca, vol. 2.A – Il teatro, Firenze 2004, pp. 193 sg.; testo greco di Sophocles, Antigone, in F. Storr (ed.), Sophocles. Vol.1: Oedipus the King. Oedipus at Colonus. Antigone, London-New York 1912; traduzione it. di F. Ferrari, in G. Paduano (a cura di), Il teatro greco: tragedie, Milano 2006.

 

Antigone, sorpresa dalle guardie di Creonte mentre rende gli onori funebri al corpo di Polinice, viene condannata a essere sepolta viva in una tomba scavata nella roccia. Inutilmente Emone, figlio di Creonte e fidanzato di Antigone, supplica il padre di graziare la ragazza; il sovrano si mostra inflessibile e la sentenza viene eseguita. Tuttavia, poco dopo, si presenta a corte l’indovino Tiresia, predicendo a Creonte le più terribili sventure per il duplice sacrilegio di cui si è macchiato, impedendo che un morto avesse sepoltura e seppellendo invece una creatura viva. Dapprima il sovrano reagisce con durezza, ostinandosi nella sua decisione; in seguito, però, le parole di Tiresia fanno breccia nel suo animo ed egli ordina ai servi di liberare immediatamente Antigone. Ma è ormai troppo tardi: la fanciulla, chiusa nel sepolcro, si è tolta la vita, impiccandosi con la cintura della veste. Emone, visto il cadavere della promessa sposa, non ha resistito al dolore e si è suicidato anch’egli, sotto gli occhi del padre giunto in tempo per assistere all’orribile scena di cui è il diretto responsabile. Ben presto, un altro lutto si abbatte su Creonte: sua moglie Euridice, informata della morte del figlio, si chiude in casa e si uccide. All’infelice sovrano non resta che meditare amaramente sulla sua brama di potere, fonte di tante sventure.

 

Giuseppe Diotti, Testa di Creonte. Olio su rame, 1839. Brescia, Musei civici di Arte e Storia.

 

Κρ. = Κρέων; Χο. =  Χορός

 

 

Κρ. – ἰὼ φρενῶν δυσφρόνων ἁμαρτήματα

στερεὰ θανατόεντ᾽,

ὦ κτανόντας τε καὶ

θανόντας βλέποντες ἐμφυλίους.

ὤμοι ἐμῶν ἄνολβα βουλευμάτων.         1265

ἰὼ παῖ, νέος νέῳ ξὺν μόρῳ

αἰαῖ αἰαῖ,

ἔθανες, ἀπελύθης

ἐμαῖς οὐδὲ σαῖς δυσβουλίαις.

 

Χο. – οἴμ᾽ ὡς ἔοικας ὀψὲ τὴν δίκην ἰδεῖν.       1270

 

Κρ. – οἴμοι,

ἔχω μαθὼν δείλαιος· ἐν δ᾽ ἐμῷ κάρᾳ

θεὸς τότ᾽ ἄρα τότε μέγα βάρος μ᾽ ἔχων

ἔπαισεν, ἐν δ᾽ ἔσεισεν ἀγρίαις ὁδοῖς,

οἴμοι, λακπάτητον ἀντρέπων χαράν.      1275

φεῦ φεῦ, ὦ πόνοι βροτῶν δύσπονοι.

 

Cr. – Ah, errori ostinati, errori fatali

della mia mente dissennata!

Guardate! Uccisori

e uccisi dallo stesso sangue.

Ahimè, infausta decisione!

Ah, figlio mio, di morte immatura sei morto:

ahimè, ahimè!

Te ne sei andato, per la mia,

non per la tua, follia.

 

Co. – Ahimè, quanto in ritardo riconosci il giusto!

 

Cr. – Ahimè infelice,

finalmente ho capito: un dio, sì un dio

allora mi percosse sul capo col suo peso enorme,

e su atroci sentieri mi traviò,

ahimè, e col piede calpestò la mia felicità!

Ah, patimenti intollerabili degli uomini!

 

Nel descrivere la disperazione di Creonte, Sofocle affrontò un tema tragico che gli era particolarmente caro: la reazione di un personaggio di fronte alla catastrofe di cui è il solo responsabile. Come accade nell’Aiace, in cui il messaggio di Calcante arriva troppo tardi per salvare l’eroe, così anche qui il ripensamento di Creonte è troppo tardivo per poter incidere significativamente sullo svolgimento dei fatti, mutandone il corso; perciò quando egli è costretto ad affrontare l’irrimediabile, la progressiva acquisizione della consapevolezza di ciò che ha causato, diviene per lui fonte di una disperata autocoscienza.

Degna di nota, in questo passo, l’insistenza del poeta sul tema della follia (δυσβουλία), la colpa di una «mente dissennata» (φρήν δύσφρων). Nel primo dialogo fra Creonte e Antigone, quando la ragazza, sorpresa a rendere onore al corpo del fratello, era stata presa dalle guardie e condotta dinanzi al sovrano, lei non aveva esitato a definire stolto il comportamento del re (vv. 469 sg.):

 

σοὶ δ᾽ εἰ δοκῶ νῦν μῶρα δρῶσα τυγχάνειν,

σχεδόν τι μώρῳ μωρίαν ὀφλισκάνω.

 

E se ti sembra che mi comporto come una pazza,

forse è pazzo chi di pazzia mi accusa.

 

Ma Creonte si era affrettato a ritorcere la stessa accusa contro di lei e la sorella Ismene (vv. 561 sg.):

 

τὼ παῖδε φημὶ τώδε τὴν μὲν ἀρτίως

ἄνουν πεφάνθαι, τὴν δ᾽ ἀφ᾽ οὗ τὰ πρῶτ᾽ ἔφυ.

 

Di queste due ragazze dico che una ha manifestato

ora la sua follia, mentre l’altra è pazza dalla nascita.

 

Anche durante il colloquio con Tiresia, Creonte, irritato dalle sue parole di rimprovero, accusa il vate di follia, ricevendone in cambio una significativa risposta (v. 1052):

 

ταύτης σὺ μέντοι τῆς νόσου πλήρης ἔφυς.

 

Proprio questa è il male di cui sei pieno.

 

Il ravvedimento di Creonte ha inizio proprio per opera di Tiresia, il cieco veggente che riesce a far breccia nell’ottusa cecità del cuore del sovrano con un lugubre vaticinio (vv. 1078-1086):

 

φανεῖ γὰρ οὐ μακροῦ χρόνου τριβὴ

ἀνδρῶν γυναικῶν σοῖς δόμοις κωκύματα.

ἐχθραὶ δὲ πᾶσαι συνταράσσονται πόλεις,      1080

ὅσων σπαράγματ᾽ ἢ κύνες καθήγνισαν

ἢ θῆρες ἤ τις πτηνὸς οἰωνός, φέρων

ἀνόσιον ὀσμὴν ἑστιοῦχον ἐς πόλιν.

τοιαῦτά σου, λυπεῖς γάρ, ὥστε τοξότης

ἀφῆκα θυμῷ, καρδίας τοξεύματα                   1085

βέβαια, τῶν σὺ θάλπος οὐχ ὑπεκδραμεῖ.

 

Non passerà molto tempo e nella tua casa

echeggeranno lamenti di uomini, di donne.

e già un turbine d’odio si leva contro di te da tutte le città,

ora che i resti dei loro uomini sono seppelliti dai cani

e dalle fiere o dagli sparvieri, che trasportano

immondo fetore sino ai focolari delle città.

Poiché sei tu che mi provochi, con tutto il mio odio

scaglio contro di te, come fossi un arciere, questi strali

infallibili, di cui non potrai sfuggire il bruciore!

 

Nella frettolosa concitazione con la quale il signore tenta di annullare i suoi ordini, nell’illusoria speranza di prevenire il male che scaturirà comunque da essi, possiamo scorgere il primo manifestarsi di quella coscienza della propria responsabilità, che si rivela con tutto il suo peso nell’esplosione di angoscia di Creonte, costretto a riconoscere ad un tempo la propria follia, la potenza della divinità e, attraverso le sue personali sventure, l’universale miseria del genere umano.

Il dramma di Antigone

dI. Biondi, Storia e antologia della letteratura greca, vol. 2.A – Il teatro, Firenze 2004, pp. 22 sg.; testo greco di Sophocles, Antigone, in F. Storr (ed.), Sophocles. Vol.1: Oedipus the King. Oedipus at Colonus. Antigone, London-New York 1912; traduzione it. di F. Ferrari, in G. Paduano (a cura di), Il teatro greco: tragedie, Milano 2006, p. 323.

Nei drammi più antichi di Sofocle, tra i quali l’Antigone, la struttura  e la funzione del prologo non presentano grandi diversità rispetto a Eschilo – nel cui caso, il prologo ha carattere informativo e espositivo – se non per il fatto che il prologo sia maggiormente legato alla parodo, il cui contenuto rappresenta il naturale approfondimento di ciò che è stato appena accennato. Già a partire dal prologo lo spettatore può cogliere i tratti essenziali del carattere dei personaggi che calcano la scena, poiché il poeta li fa interagire sin da subito attraverso una struttura dialogica, con la quale vengono messe a nudo le loro problematiche e le loro scelte. Per questo motivo, si parla di funzione “ethopoietica” del prologo sofocleo.

Il prologo dell’Antigone (vv. 1-38) si apre con il dialogo fra la protagonista e sua sorella Ismene. La spedizione organizzata da Adrasto, re di Argo, non è riuscita a restituire il trono all’esule Polinice e si è conclusa con la morte dei sette campioni dell’esercito argivo; al termine del conflitto, Eteocle e Polinice si sono uccisi reciprocamente in un feroce duello. In mancanza di eredi maschi, il trono di Tebe è stato occupato da Creonte, zio e cognato di Edipo: il suo primo atto di potere è stato il divieto di seppellire il corpo di Polinice, colpevole di aver assalito in  armi la propria patria. quando la notizia del bando giunge alle orecchie di Antigone, ultima discendente della stirpe dei Labdacidi insieme con Ismene, la fanciulla, decisa a non permettere un tale sacrilegio, informa del proprio piano la sorella e ne sollecita l’aiuto.

Pittore di Berlino. Guerriero siceliota con una phiálē in atto di libare. Da una lḗkythos attica a figure rosse, 480-460 a.C. ca. Museo Archeologico Regionale di Palermo.

Ἀντιγόνη – ὦ κοινὸν αὐτάδελφον Ἰσμήνης κάρα,

ἆρ᾽ οἶσθ᾽ ὅ τι Ζεὺς τῶν ἀπ᾽ Οἰδίπου κακῶν

ὁποῖον οὐχὶ νῷν ἔτι ζώσαιν τελεῖ;

οὐδὲν γὰρ οὔτ᾽ ἀλγεινὸν οὔτ᾽ ἄτης ἄτερ

οὔτ᾽ αἰσχρὸν οὔτ᾽ ἄτιμόν ἐσθ᾽, ὁποῖον οὐ

τῶν σῶν τε κἀμῶν οὐκ ὄπωπ᾽ ἐγὼ κακῶν.

καὶ νῦν τί τοῦτ᾽ αὖ φασι πανδήμῳ πόλει

κήρυγμα θεῖναι τὸν στρατηγὸν ἀρτίως;

ἔχεις τι κεἰσήκουσας; ἤ σε λανθάνει

πρὸς τοὺς φίλους στείχοντα τῶν ἐχθρῶν κακά;

Ἰσμήνη – ἐμοὶ μὲν οὐδεὶς μῦθος, Ἀντιγόνη φίλων

οὔθ᾽ ἡδὺς οὔτ᾽ ἀλγεινὸς ἵκετ᾽ ἐξ ὅτου

δυοῖν ἀδελφοῖν ἐστερήθημεν δύο,

μιᾷ θανόντοιν ἡμέρᾳ διπλῇ χερί·

ἐπεὶ δὲ φροῦδός ἐστιν Ἀργείων στρατὸς

ἐν νυκτὶ τῇ νῦν, οὐδὲν οἶδ᾽ ὑπέρτερον,

οὔτ᾽ εὐτυχοῦσα μᾶλλον οὔτ᾽ ἀτωμένη.

Ἀντιγόνη – ᾔδη καλῶς, καί σ᾽ ἐκτὸς αὐλείων πυλῶν

τοῦδ᾽ οὕνεκ᾽ ἐξέπεμπον, ὡς μόνη κλύοις.

Ἰσμήνη – τί δ᾽ ἔστι; δηλοῖς γάρ τι καλχαίνουσ᾽ ἔπος.

Ἀντιγόνη – οὐ γὰρ τάφου νῷν τὼ κασιγνήτω Κρέων

τὸν μὲν προτίσας, τὸν δ᾽ ἀτιμάσας ἔχει;

Ἐτεοκλέα μέν, ὡς λέγουσι, σὺν δίκης

χρήσει δικαίᾳ καὶ νόμου κατὰ χθονὸς

ἔκρυψε τοῖς ἔνερθεν ἔντιμον νεκροῖς·

τὸν δ᾽ ἀθλίως θανόντα Πολυνείκους νέκυν

ἀστοῖσί φασιν ἐκκεκηρῦχθαι τὸ μὴ

τάφῳ καλύψαι μηδὲ κωκῦσαί τινα,

ἐᾶν δ᾽ ἄκλαυτον, ἄταφον, οἰωνοῖς γλυκὺν

θησαυρὸν εἰσορῶσι πρὸς χάριν βορᾶς.

τοιαῦτά φασι τὸν ἀγαθὸν Κρέοντα σοὶ

κἀμοί, λέγω γὰρ κἀμέ, κηρύξαντ᾽ ἔχειν,

καὶ δεῦρο νεῖσθαι ταῦτα τοῖσι μὴ εἰδόσιν

σαφῆ προκηρύξοντα, καὶ τὸ πρᾶγμ᾽ ἄγειν

οὐχ ὡς παρ᾽ οὐδέν, ἀλλ᾽ ὃς ἂν τούτων τι δρᾷ,

φόνον προκεῖσθαι δημόλευστον ἐν πόλει.

οὕτως ἔχει σοι ταῦτα, καὶ δείξεις τάχα

εἴτ᾽εὐγενὴς πέφυκας εἴτ᾽ ἐσθλῶν κακή.

Pittore di Achille. Una donna in corsa. Particolare da un’anfora attica a figure rosse, 450 a.C. ca, da Nola. Walters Art Museum.

Antigone – Sorella, consanguinea, Ismene carissima,

conosci sventura, fra quante hanno origine da Edipo,

che a noi due sopravvissute Zeus risparmierà?

No, non c’è dolore o rovina,

non c’è vergogna o disonore che io non

abbia riconosciuto nei miei, nei tuoi mali.

E ora cos’è mai questo editto, che il generale,

a quanto dicono, ha proclamato or ora per tutta la città?

Ne sei al corrente? Hai udito qualcosa?

O ignori le insidie che i nostri nemici tramano contro chi ci è caro?

Ismene – Nessuna notizia mi è giunta, Antigone, dei nostri cari,

né lieta né triste, da quando noi due

abbiamo perduto i nostri due fratelli,

caduti nello stesso giorno l’uno per mano dell’altro.

Nient’altro so, che mi rallegri o mi rattristi,

dopo che l’armata argiva, nel corso di questa notte, è fuggita.

Antigone – Lo prevedevo; e perciò ti ho fatto chiamare fuori dal palazzo,

perché tu sola mi udissi.

Ismene – Di che si tratta? Un pensiero, evidentemente, ti turba.

Antigone – Sì, è così. Dei nostri due fratelli, Creonte non ha forse deciso di concedere

all’uno onorata sepoltura e di lasciare l’altro indegnamente insepolto?

Eteocle, dicono, ritenendo giusto

di trattarlo secondo le norme rituali, lo ha fatto seppellire,

perché avesse onore fra i morti sotterranei;

ma il cadavere del misero Polinice ha ordinato,

si dice, che nessun cittadino lo seppellisca

e lo pianga, bensì che sia lasciato illacrimato,

insepolto, tesoro agognato per soddisfare

la fame degli uccelli all’erta nel cielo.

Tale, dicono, è l’editto che il buon Creonte ha proclamato per te

e per me – per me, dico! E sta per venire egli stesso ad annunciare

apertamente il suo divieto a chi ancora lo ignora.

Non prende la cosa alla leggera: a danno dei trasgressori

è prevista la morte per pubblica lapidazione.

Questi sono i fatti: e ora mostrerai

se sei nata nobile o non sei altro che la figlia

degenere di nobili genitori.

Il prologo rivela l’intento di Sofocle di mettere in luce l’eroismo di Antigone attraverso il confronto con la sorella Ismene, che incarna una femminilità più fragile, debole, sottomessa, conforme alla tradizione. Sofocle delinea l’inflessibile personalità di Antigone evidenziandone in ogni modo la superiorità: mentre Ismene ignora o vuole ignorare il bando di Creonte, perché non ha in sé la forza per opporsi, la reazione di Antigone rivela un’immediata e irremovibile volontà di trasgressione, che annulla ogni pensiero, tranne quello della sacrilega ingiustizia di cui è oggetto Polinice. La certezza che Ismene non troverà mai il coraggio per aiutarla, induce Antigone, fin dall’inizio del dramma, a staccarsi sdegnosamente dalla sorella, considerandola una traditrice; anche nel «buon Creonte», suo futuro suocero (Antigone è promessa sposa di Emone, figlio del sovrano), ella scorge soltanto un empio tiranno, capace di negare a un morto il più sacro degli onori. In contrasto con l’obbediente sottomissione della sorella e dei concittadini, la solitaria diversità di Antigone si delinea agli occhi del pubblico con prepotente risalto, unica nel considerare l’editto un’inaccettabile manifestazione di empietà, mentre l’atto di pietà verso il defunto le appare un dovere irrinunciabile anche a costo della vita. Ismene dovrebbe avvertire lo stesso obbligo, ma vi si sottrae per paura della morte; l’intera città di Tebe dovrebbe sapere che le esequie negate attireranno la collera divina e che tutta la comunità sarà contaminata dal sacrilegio, ma il senso del dovere individuale e collettivo è annullato completamente dalla paura, che cancella la pietà, la giustizia, la nobiltà in tutti tranne che in Antigone. Nel momento stesso in cui la fanciulla espone le parole del bando di Creonte, è già chiaro che il naturale attaccamento alla vita è meno forte in lei della volontà di non permettere che il fratello sia vittima di un’empia vendetta postuma.

L’amicizia come condizione concomitante della felicità

di Aristotele. Etica Nicomachea (a cura di M. Zanatta), Introduzione, cap. III, Milano 201211, pp. 57-67.

 

Pittore di Castelgiorgio. Dialogo fra due giovani. Pittura vascolare dal tondo di una kylix attica a figure rosse, 500-480 a.C. ca. Palermo, Museo Archeologico Regionale.

 

Abbiamo visto a suo tempo che alla scansione della felicità concorrono, in funzione strumentale, anche i beni esteriori. Ma – è opportuno ribadirlo – essi vi concorrono in quanto semplici mezzi per la pratica di quell’attività virtuosa in cui la felicità risiede (la ricchezza, ad esempio, è condizione strumentale indispensabile per l’esercizio della magnificenza). Ma per Aristotele vi sono altre due determinazioni le quali, senz’entrare, neppure esse, nella sfera della definizione della felicità, vi si connettono però secondo un legame strettissimo, inerente alla natura stessa dell’uomo come soggetto della felicità. Si tratta dell’amicizia e del piacere, i quali appartengono all’uomo come dimensioni costitutivamente radicate nel suo essere: la prima in quanto egli, a mezzo com’è tra il bruto e ilDio, né partecipa della chiusura di quello ad ogni comunanza spirituale, né dell’assoluta autosufficienza di questo, ma è per natura un animale socievole; il secondo in quanto, conformemente all’espressione aristotelica, «tutti ritengono che è quanto mai proprio al genere umano»[1].

Pertanto la trattazione di quello che è il supremo bene «dell’uomo» non può prescindere dall’esame di queste condizioni propriamente umane*. E, sotto questo riguardo, esse definiscono delle condizioni della felicità in senso ancor più stretto e più marcato di quanto non le definiscano i beni esteriori, attesta appunto la loro costitutiva inerenza alla natura umana.

Raffaello Sanzio, La Scuola di Atene. Affresco, 1509-1511 ca. Stanza della Signatura, Musei Vaticani.

Una tale inerenza, nel caso dell’amicizia, è a chiare lettere asserita dal filosofo in relazione sia alla sua utilità, sia alla sua convivenza morale, sicché – precisa Aristotele – «l’amicizia non è una cosa soltanto necessaria, ma anche bella». È necessaria ed utile perché nei momenti di bisogno è agli amici che ci si rivolge per avere soccorso, ed è moralmente bella perché tale è il voler bene agli amici. È questa un’istanza che pervade interamente il senso della classicità e che Aristotele riprende ed avvalora nei termini più marcati. Ovviamente l’amicizia è intesa dallo Stagirita nell’accezione più vasta, comprendente sia l’affetto vero e proprio degli amici che ogn’altra forma di bene gli uomini possono provare verso i loro simili: il bene coniugale, quello del padre per i figli e viceversa, quello dei fratelli, quello che intercorre tra i cittadini di una medesima pólis.

La trattazione ruota fondamentalmente intorno a due istanze: l’individuazione delle specie di amicizia e la determinazione delle condizioni in cui l’amicizia si realizza: se abbia luogo tra i simili, come ha sostenuto Empedocle, o tra gli opposti, secondo alcune massime di Euripide e di Eraclito.

Per la soluzione della prima questione Aristotele avvia le mosse dall’analisi di che cos’è amabile. Tale si rivelano il bene, il piacere e l’utile (ancorché quest’ultimo, propriamente, sia soltanto un mezzo in vista degli altri due) [2]. Ma queste determinazioni dell’amabile non danno luogo ad amicizia quanto l’oggetto dell’amabile stesso sia una cosa inanimata, o non vi sia contraccambio d’affetto: caso, questo, in cui si dovrebbe più propriamente parlare di benevolenza[3].

Ma quando vi sia contraccambio, allora, in relazione alle tre anzidette determinazioni dell’amabile, si specificano anche tre forme d’amicizia. Una fondata sul bene e sulla virtù, propria degli uomini che si amano in ragione della loro bontà[4]. È l’amicizia migliore e più duratura in quanto in essa gli amici si amano per se stessi: giacché per chi è buono il bene non cessa di essere amabile e di fatto viene sempre amato, e gli amici di questa specie sono di per se stessi buoni. Di conseguenza, a meno che non venga a mancare la bontà, non può venire a mancare neppure l’affetto reciproco. Ma la durevolezza di questa forma d’amicizia si giustifica anche col motivo che, amando l’amico, si ama in un certo modo se stessi, giacché l’amico è una sorta di alter ego ed è un bene per chi lo ama. E dal momento che ognuno ama quello che per lui è bene, e soltanto nell’amore che i buoni hanno per ciò che è autenticamente ed  in se stesso buono risiedono vera parità ed uguale contraccambio, soltanto nell’amicizia di costoro si verifica la condizione di durevolezza.

Inoltre ad una tale amicizia competono anche utilità e piacevolezza in quanto il bene è utile e per chi lo compie e per gli altri, e d’altro chi ama la virtù prova piacere delle azioni virtuose che compie così come di quelle che compiono gli altri. Si danno allora, in questa strutturale implicazione nell’amicizia tra i buoni di tutte le determinazioni dell’amabile, tutte le condizioni di un’amicizia sicura.

Certo, avverte lo Stagirita, queste relazioni ottimali sono rare, giacché sono rare le persone elevate in cui esse s’incontrano. Ed inoltre per stabilirsi esse hanno bisogno di tempo e di lunga convivenza, sì che gli amici possano conoscersi reciprocamente e possa nascere in loro la dovuta, vicendevole fiducia.

Le altre due forme d’amicizia sono quelle fondate sul piacere e l’utile, nelle quali gli amici si amano perché rispettivamente si procurano piacere o si scambiano vantaggi[5]. Ma proprio per questo esse non hanno nessuna garanzia di saldezza, giacché, quando il motivo del legame vien meno, vien meno anche l’amicizia, non avendo i soggetti altra ragione per continuare il rapporto. Una tale fragilità è più radicata nell’amicizia fondata sull’utile, in quanto l’utile è cosa assai mutevole, più mutevole anche del piacere; ma anche l’amicizia fondata su quest’ultimo non ha stabilità, com’è esemplarmente illustrato dal filosofo con il caso degli amanti: essi, quando da una parte la bellezza sia svanita e dall’altra sia conseguentemente venuto meno il piacere dell’elogio, si lasciano.

Queste specie d’amicizia sono tali soltanto per somiglianza con quella fondata sul bene e, a differenza di quest’ultima, esse possono aver luogo anche tra uomini indegni, o tra buoni e malvagi. Per se stessi, invece, sono amici soltanto i buoni, almeno nel senso dell’amicizia perfetta[6].

 

Pittore di Atene 12778. Un’etera e il suo cliente. Pittura vascolare da un lekythos attico a figure rosse, 460-450 a.C. ca., da Eretria. Museo Archeologico Nazionale di Atene.

Per ciò che riguarda la seconda questione va rilevato che per Aristotele l’amicizia tra uguali è migliore di quella tra disuguali, e così quella tra simili lo è rispetto a quella tra contrari. Istanze queste che lo Stagirita comprova mediante l’analisi di una minuta serie di casi dove l’amicizia è in gioco in situazioni particolari diverse.

Tra i temi dell’esame aristotelico ne spiccano due, che è qui opportuno mettere in chiaro. Innanzitutto il rapporto che lo Stagirita istituisce tra amicizia e giustizia nel contesto della società politica. Giustizia ed amicizia hanno infatti – precisa il filosofo – lo stesso oggetto: ché la prima si esplica in seno a delle comunità, e dove vi è comunità di uomini si delinea anche qualche forma d’amicizia[7]. Si danno quindi diversi gradi d’amicizia e per ciascuno di essi le determinazioni del giusto rivestono un’importanza maggiore o minore, a seconda che l’amicizia sia più o meno intensa. Resta comunque che tutte le forme di comunità sono parti della comunità politica e si risolvono in ultima istanza in questa[8]; la quale ha per fine l’utile comune, mentre quelle perseguano forme di utilità particolari, ciascuna diversa dalle altre. È dunque nella comunità politica che per il nostro filosofo devono esser ricercate le condizioni più generali dell’amicizia. O – più esattamente – per ciascun tipo di configurazione assunto da quella si hanno forme diverse d’amicizia, ancorate a tre modelli diversi.

Secondo uno schema ancora platonico[9] Aristotele distingue tre forme di costituzioni rette: la monarchia, l’aristocrazia e la timocrazia; e tre forme di costituzioni degeneri: la tirannide, l’oligarchia e la democrazia[10]. Ed individua nei rapporti d’amicizia che hanno luogo in seno alla famiglia altrettanti modelli dell’amicizia politica che si realizza in queste costituzioni.

Statua di Ercole con suo figlio Telefo. Copia romana in marmo del I-II secolo da originale greco di IV secolo a.C. Paris, Musée du Louvre.

Quella che si verifica nel regno assomiglia all’amicizia tra il padre e i figli[11]. Si tratta di un’amicizia tra disuguali, tali essendo rispettivamente il padre ed il re rispetto ai figli e ai sudditi. È opportuno rilevare come nel primo caso la diversità riguardi sia la ragione e, per così dire, il radicamento dell’amore dei genitori verso i figli rispetto alla ragione e al radicamento dell’amore che questi hanno verso quelli, sia la durata dello stesso. «I genitori» spiega Aristotele «amano i figli come essenti qualcosa di loro stessi, ed i figli amano i genitori come vengono da loro più di quanto coloro che sono stati generati sanno che derivano da quelli, ed il principio da cui procede un essere è unito come a cosa propria all’essere che è stato generato più di quanto l’essere che è derivato è unito all’essere che l’ha fatto. Ché, l’essere che deriva da un principio appartiene come cosa propria al principio dal quale deriva (ad esempio un dente, un capello o qualunque altra cosa appartiene come cosa propria a colui che la possiede), invece il principio dal quale un essere deriva non appartiene per nulla come cosa propria all’essere che ne è derivato, o vi appartiene di meno. Ma anche per la quantità di tempo <i genitori amano di più i figli>. I genitori li amano infatti non appena nati, i figli invece li amano dopo che è passato del tempo, quando hanno acquisito intelligenza o per lo meno percezione»[12].

Ora, come l’amore del padre verso i figli è superiore a quello che questi hanno per lui, ed ugualmente sono maggiori anche i benefici che il primo arreca ai secondi, a partire dal bene della vita, che è il più grande di tutti, così anche il monarca verso i sudditi si trova in una condizione di superiorità in ragione dei maggiori benefici che rende loro e della cura che se ne prende, al pari – precisa Aristotele – di un pastore nei confronti del gregge[13]. Il modello pastorale, ricorrente in Platone per denotare la prerogativa del potere monarchico[14], esprime molto eloquentemente l’ancestralità del tipo di governo che qui è in questione. Un’ancestralità, del resto, che è testualmente trasparente dal richiamo di Aristotele dell’appellativo di «pastore di popoli» con cui Omero qualificava i re ed in particolare Agamennone[15].

Nella comunità retta ad aristocrazia l’amicizia assomiglia a quella tra il marito e la moglie, essendo quegli «migliore» di questa. In quanto tale, anche questa è un’amicizia tra disuguali, nella quale vi è «proporzionalità al merito e chi è superiore (scil. il marito) ha una parte più larga di bene, e ciascuno quello che gli è appropriato»[16]. Essa ha il suo radicamento nella natura, anzi, è ancor più naturale ed originaria dello stesso rapporto sociale «giacché per natura l’uomo è un essere più portato a vivere in coppia che un essere politico, quanto la famiglia è cosa anteriore e più necessaria della città e la procreazione dei figli è cosa più comune ai viventi»[17]. Ma – precisa il filosofo – la generazione dei figli, vale a dire la dimensione più propriamente carnale dell’amicizia coniugale, è ben lungi dall’esaurire quest’amicizia stessa, la quale ha invece il suo fondamento nella complementarietà che i coniugi, nel mettere in comune le prerogative «naturali» proprie di ciascuno, si arrecano vicendevolmente in vista sia del far fronte alle necessità della vita, sia, in senso ancor più marcato, dalla costituzione di un rapporto essenzialmente spirituale nel quale l’uno e l’altro, esercitando rispettivamente la «propria» virtù, si migliorano e trovano piacevolezza oltre ad utilità[18]. In questo senso l’amicizia coniugale si palesa come dimensione umana e solamente umana. E, tra i beni che i coniugi mettono in comune, quello maggiore è costituito dai figli (ecco la valenza «non carnale», vale a dire «spirituale» del matrimonio, rilevante anche là dove è necessariamente implicato un atto che attiene l’animalità dell’uomo: i figli non costituiscono soltanto – o, più esattamente, costituiscono solo minimamente – l’effetto di una unione fisica dell’uomo con la donna, ma definiscono essenzialmente il «bene» che essi hanno in comune e realizzano insieme). Per questo, rileva il filosofo, «i coniugi che non hanno figli si dividono più rapidamente»[19]: perché appunto l’amicizia tra il marito e la moglie, che è un’amicizia di natura fondamentalmente spirituale, manca, con la mancanza di figli, del bene spirituale ed umano ad essi proprio, e quindi vien meno nella sua stessa ragione di bene «dell’uomo».

L’amicizia che si realizza nelle timocrazie è simile invece a quella che ha luogo tra i fratelli. Si tratta di un’amicizia tra uguali, come attesta la sua stessa somiglianza con quella tra compagni. Infatti tra i fratelli vigono parità di condizione e, in virtù dell’età pressoché uguale, gli stessi sentimenti e gli stessi interessi, oltreché gli stessi costumi[20]. Ora, nelle timocrazie «i cittadini vogliono essere uguali e virtuosi. Pertanto si comanda a turno ed in ugual misura»[21].

Gruppo scultoreo con amanti. Terracotta, II secolo a.C. ca. Museo Archeologico Regionale di Palermo.

In tutte le forme anzidette di costituzione politica, in ogni tipo di amicizia si realizza una forma specifica di giustizia. Il re, come del resto il padre, riceve maggiore onore, quanto maggiormente dà in benefici. Lo stesso avviene nelle aristocrazie: chi regge lo Stato riceve in cambio onore e possibilità di comando, offrendo egli le sue cure al bene dei cittadini. Questi invece nelle timocrazie hanno pari dignità, dando ciascuno alla comunità politica tanto bene quanto da essa riceve[22].

Nelle costituzioni degeneri, come non si ha giustizia, così non si ha neppure amicizia, se non a quel livello minimale che riguarda, propriamente, non già la dimensione del rapporto politico in quanto tale, ma quella del rapporto umano. È questo, esemplarmente, il tipo di rapporto che si verifica nella relazione tra padrone e schiavo: verso quest’ultimo, in quanto schiavo, non può esserci giustizia e quindi neppure amicizia, ancorché esse possano sussistere verso di lui in quanto uomo, giacché esiste un vincolo capace di toccare ogni essere umano. Ora, il rapporto tra il tiranno ed i sudditi è assimilabile a quello tra il padrone e gli schiavi, sicché «nella tirannide nulla o scarsa è l’amicizia»[23]. Infatti – precisa il filosofo – non può esserci rapporto umano, in termini sia di amicizia sia di giustizia, tra coloro tra i quali nessuna umanità è in comune, e tra il tiranno e i suoi sudditi, così come tra il padrone e lo schiavo, sussiste un rapporto puramente strumentale, come quello di un artigiano verso i suoi arnesi di lavoro, o quello dell’anima verso il corpo; e di questa stessa natura è anche l’amicizia.

L’altra questione emergente dalla trattazione aristotelica concerne l’amicizia verso se stessi[24]: un’amicizia che a tutta prima appare aporetica, in quanto, se per un verso si biasimano coloro che amano soprattutto e assolutamente se stessi e si riscontrano nel loro amore egoistico  i medesimi tratti del comportamento del malvagio, il quale sembra compiere i misfatti che compie soltanto per amore verso di sé; per altro verso però viene considerata amicizia per eccellenza quella nella quale l’amico ama l’amico «come se stesso», donde sembrerebbe che l’uomo debba amare innanzitutto se stesso.

Aristotele risolve l’aporia distinguendo tra l’«egoismo» del virtuoso e l’egoismo del malvagio, e rilevando come soltanto questo secondo in realtà sia biasimato. Si biasima infatti l’egoismo di coloro che vorrebbero soltanto per sé ogni ricchezza ed ogni piacere, anche causando inimicizie e cadendo nei vizi. Ma non si biasimano coloro che, attuando sempre la giustizia, si appropriano e vogliono per sé il bene e il bello, esercitandosi nella virtù.

L’«egoismo» del virtuoso è dunque lodevole, in quanto questi desidera per sé i beni migliori ed appaga la parte più eccellente della sua anima, vale a dire l’intelletto, nella quale egli è tangente al Dio e seguendo la quale l’uomo realizza appieno la sua natura di essere razionale e […] da mortale si fa immortale. Insomma, nell’apprezzamento aristotelico dell’amicizia verso di sé è sostanzialmente messo in risalto il motivo del dialogo interiore di sé con se stessi. Per questo – precisa Aristotele – il virtuoso ama vivere con se medesimo, perché prova piacere del ricordo delle belle azioni compiute e della speranza di operarne altre parimenti belle, come prova gioia dedicandosi alla meditazione teoretica[25]. Molto opportunamente ha scritto a questo riguardo il Berti che un tale apprezzamento «rinvia direttamente all’ideale di vita del sapiente col quale, sappiamo, Aristotele identifica la felicità»[26].

Del resto l’«egoismo» del virtuoso, ben lungi dal comportare una chiusura verso gli altri, si risolve invece anche in un agire a loro vantaggio. Ché – precisa lo Stagirita – amando se stesso il virtuoso realizza assieme il suo interesse e quello altrui, tanto che, se tutti fossero egoisti in questo modo, si assisterebbe ad un’altruistica gara di azioni moralmente belle e si avrebbe la maggior garanzia di bene privato e comune. Lo attesta il fatto che, agendo per amor di sé, vale a dire del bene morale che gli è proprio il virtuoso agisce a favore degli amici e della patria, e sa offrire loro, quando l’occasione lo richiede, anche la sua vita. E proprio per l’amore del bene, sul quale si radica l’amore di sé, egli non si occupa delle ricchezze e dell’onore, in genere di tutti i beni che costituiscono motivo di lotta tra gli uomini, e preferisce una vita breve ma dignitosa ad una lunga ma vile, ed offrirà onori e cariche ai suoi amici, ed anzi lascerà che siano costoro ad agire, se gli sembrerà opportuno che siano gli amici a compiere belle azioni[27].

Note

*Qui, in particolare, si tratterà appunto dell’amicizia.

[1] Eth. Nic. X 1, 1172 b 19.

[2] Eth. Nic. VIII 2, 1155 b 18-21.

[3] Ibid., 1155 b 27 sgg.

[4] L’analisi di questa specie d’amicizia è svolta in Eth. Nic. VIII 4.

[5] L’analisi di queste due specie di amicizia è svolta in Eth. Nic. VIII 3.

[6] Il confronto tra l’amicizia fondata sulla virtù e le altre due specie di amicizia è il tema di Eth. Nic. VIII 5.

[7] Eth. Nic. VIII 11, 1159 b sgg.

[8] Ibid., 1160 a 8-9.

[9] Cfr. Politico, 297 C – 303 B.

[10] Eth. Nic. VIII 12, 1160 a 31 sgg.

[11] Ibid., 1160 b 23 sgg.

[12] Eth. Nic. VIII 14, 1161 b 18 sgg.

[13] Eth. Nic. VIII 13, 1161 a 10 sgg.

[14] Cfr. a riguardo K. Popper, La società aperta e i suoi nemici, tr. it., vol. I, Roma 1973, pp. 36 sgg.

[15] Cfr. Eth. Nic. VIII 13, 1161 a 14.

[16] Ibid., 1161 a 22 sgg.

[17] Eth. Nic. VIII 14, 1162 a 17 sgg.

[18] Ibid., 1162 a 20 sgg.

[19] Ibid., 1162 a 27-28.

[20] Eth. Nic. VIII 13, 1161 a 22 sgg.

[21] Ibid.

[22] Su questi rapporti cfr. Eth. Nic. VIII 13.

[23] Eth. Nic. VIII 13, 1161 a 31.

[24] Eth. Nic. IX 4; 8.

[25] Eth. Nic. IX 4, 1166 a 23 sgg.

[26] E. Berti, Profilo di Aristotele, Roma 1979, p. 274.

[27] Eth. Nic. IX 8, 1169 a 11 sgg.