Gli aspetti scenografici del teatro greco

di F. Ferrari, R. Rossi, L. Lanzi, Bibliothéke. Storia della letteratura, antologia e autori della lingua greca. 2. Atene e l’età classica, Bologna 2012, 10-15.

L’edificio teatrale greco è costituito da cavea, orchestra e scena. Una tarda tradizione riconnette i più antichi spettacoli teatrali in Atene all’agorà, con panche di legno e tavolati provvisori, ma in età classica le rappresentazioni si svolgevano nel teatro di Dioniso, situato ai piedi della scarpata meridionale dell’Acropoli e dominante l’area cultuale dedicata a Dioniso.

La cavea (il θέατρον vero e proprio come «luogo donde si guarda») era costituita dalle gradinate appoggiate a un pendio a conca e tagliate in senso verticale da scalinate (κλίμακες) che la dividevano in settori e in senso orizzontale da corridoi (διαζώματα) che consentivano un rapido affollamento e svuotamento del teatro.

Gli spettatori si distribuivano secondo gerarchie giuridiche e sociali: i seggi più vicini all’orchestra erano riservati agli alti funzionari della πόλις e agli orfani dei caduti in guerra, mentre il settore inferiore ai cittadini di pieno diritto.

Ricostruzione planimetrica del Teatro di Dioniso, Atene [Campanini, Scaglietti 2004, 70].

Al centro della prima fila, su una poltrona di pietra, sedeva il sacerdote di Dioniso, al quale il dio stesso si rivolge burlescamente in Aristofane, Rane 297: ἱερεῦ, διαφύλαξόν μ΄, ἵν’ ὦ σοι ξυμπότης («Ehi, sacerdote, salvami se vuoi che io continui a bere con te!»).

L’orchestra (ὀρχήστρα, cioè lo «spazio della danza»), al centro della quale sorgeva la θυμέλη («l’altare di Dioniso»), aveva un diametro di circa 20 metri o poco più e forma dapprima circolare, poi semicircolare, ma il coro (χορός) della tragedia si muoveva in formazione rettangolare (su cinque file quando il coro, con Sofocle, passo da 12 a 15 elementi) dopo aver fatto il suo ingresso preceduto da un suonatore di flauto doppio (αὐλητής).

Più liberi e variati erano i movimenti del coro comico, costituito da 24 elementi, che potevano raffigurare, oltre che uomini, esseri della più varia natura, molto spesso animali, ma anche nuvole o città (rispettivamente nelle Nuvole di Aristofane e nelle Città di Eupoli). Mentre i cori del ditirambo (διθύραμβος) eseguivano la τυρβασία circolare, la danza composta e stilizzata caratteristica della tragedia era chiamata ἐμμέλεια; le danze proprie del dramma satiresco e della commedia erano invece rispettivamente la vivace «sicinnide» (σίκιννις) e il lascivo «cordace» (κόρδας).

Pittore dell’Altalena (attribuito), Gruppo di coreuti che incede su sostegni di legno e trampoli (forse Titani). Pittura vascolare da un’anfora attica a figure nere, c. 550-525 a.C. Christchurch, University of Canterbury.

Fra la scena (ἐμμέλεια) e le due proiezioni dell’emiciclo della cavea si aprivano due corridoi laterali (εἴσοδοι o πάροδοι) che consentivano l’accesso degli spettatori alla cavea e l’ingresso, oltre che del coro, degli attori che non uscissero dall’edificio scenico. È dubbia la regola secondo cui da destra sarebbero entrati i personaggi provenienti dalla città, da sinistra quelli provenienti dalla campagna.

I drammi più antichi di Eschilo non sembrano presupporre un edificio scenico (σκηνή) quale invece compare sicuramente nell’Orestea del 458: si trattò inizialmente su una linea tangente all’orchestra di una costruzione in legno con tendaggi, con la trasformazione in requisito dell’area teatrale di un locale originariamente adibito a deposito per maschere, costumi e attrezzatura scenica e a camerino per i cambiamenti di costume degli attori. La scena fungeva da sfondo all’azione identificandosi volta a volta con un palazzo, un tempio, una tenda militare, una grotta.

Fra il 338 e il 330 a.C. il teatro di Dioniso, su iniziativa dell’oratore Licurgo, fu ricostruito in pietra (σκηνή compresa). Poi la scena fu proiettata in avanti per mezzo di un alto proscenio sostenuto da un colonnato.

Furono altresì create quinte girevoli su pali (περίακτοι), con decorazioni di paesaggi, che permettevano rapidi mutamenti di luogo. In relazione alla nuova struttura dovette essere introdotto anche un tipo a suola fortemente rialzata di quegli stivaletti in pelle con incurvatura delle punte che rappresentavano la consueta calzatura degli attori (i κόθορνοι, «coturni»).

Secondo una dubbia testimonianza dell’enciclopedia bizantina (X sec.) denominata Suda (φ 609) la decorazione della scena sarebbe stata introdotta per la prima volta, fra VI e V secolo a.C., da Formo di Siracusa, che avrebbe usato una tenda fatta di pelli conciate e dipinte di rosso (ἐχρήσατο […] σκηνῇ δερμάτων φοινικῶν), ma Aristotele fa della scenografia un invenzione di Sofocle (Poetica 1449a 18- 19), mentre Vitruvio (VII 1, 11) informa che Eschilo adottò la σκηνογραφία giovandosi dell’aiuto del pittore Agatarco di Samo. I pannelli decorati dovevano mostrare uno o più edifici o sfondi paesistici.

Scena tragica davanti a un palazzo. Pittura vascolare a figure rosse da un cratere tarentino, c. 350 a.C. Würzburg, Martin von Wagner Museum.

Un problema che è stato largamente discusso è quello dell’area antistante l’edificio scenico e retrostante l’orchestra, ovvero del cosiddetto proscenio (προσκήνιον): si dibatte se nel teatro del V secolo a.C. lo spazio in questione fosse costituito da una pedana soprelevata rispetto al livello dell’orchestra. Certo è che, se pure questa pedana esisteva, essa era tale da non impedire la comunicazione verbale e il transito dei personaggi e dei coreuti fra proscenio e orchestra (perciò, non avrebbe comunque potuto superare il dislivello corrispondente a due o tre scalini).

Dibattuta è anche la questione del numero di porte che si aprivano sulla facciata dell’edificio scenico: due sembrano richieste nelle Coefore di Eschilo (oltre a quella centrale, la porta degli alloggi delle donne, verso cui si precipita un servo) e tre nella Pace di Aristofane (abitazione di Trigeo, dimora di Zeus, caverna dello scarabeo). Anche il tetto della σκηνή poteva essere eventualmente utilizzato come spazio occupato dagli attori: da esso, per esempio, balza al suolo il servo frigio nell’Oreste di Euripide. Inoltre, ugualmente a un livello soprelevato, poteva essere utilizzata una piattaforma (θεολογεῖον) invisibile agli spettatori su cui gli attori salivano dal retro della scena.

Un altro problema che ha diviso gli studiosi riguarda l’esistenza e, in caso positivo, la frequenza di utilizzo, già nel corso del V secolo, di una sorta di basso carrello su ruote (ἐκκύκλημα), una piattaforma che, sospinta in avanti ed eseguendo un movimento circolare, serviva a rendere visibile al pubblico quanto avveniva nella parte più interna della scena: di esso trattano, con descrizioni sensibilmente divergenti, fonti tarde, fra cui gli scoli, cioè i commenti ai testi drammatici.

Un probabile uso di questa macchina si trova nell’Antigone di Sofocle (vv. 1294 ss., rappresentata nel 442 a.C.): Creonte, ormai conscio della catena di morti atroci che hanno decimato la famiglia a causa della sua ostinazione, vede da ultimo anche il corpo della moglie Euridice avvinto all’altare di Zeus Ercheo (Ἕρκειος, «Protettore del focolare domestico»), posto nel cortile interno del palazzo. Uscita di scena, la donna aveva annunciato che sarebbe andata a pregare per il figlio Emone e per la casata tutta. Grazie all’ἐκκύκλημα, gli spettatori potevano vedere l’altare domestico sul quale Euridice, dopo essere andata a piangere il figlio Megareo e ora anche Emone, si è tolta la vita.

Va rammentato, di passaggio, che le scene violente non potevano essere proposte sulla scena ed era, quindi, sempre un narratore – spesso un servo o un messaggero – a riferire al coro e al pubblico l’accaduto. Solo grida si potevano udire “dietro le quinte” e immaginare quanto si stava perpetrando o, come in questo caso, scorgere il cadavere. Oltre a questo, un altro celebre finale in cui si sarebbe fatto ricorso alla macchina è quello dell’Ippolito (430) di Euripide, mentre, per restare alla produzione sofoclea, si pensi all’Elena (v. 1458) e, probabilmente, all’Aiace (v. 344).

Ricostruzione schematica delle principali macchine teatrali in uso sulla σκηνή (link).

In ogni caso, a un tale congegno alludono due passi parodici di Aristofane. Negli Acarnesi (vv. 406-409) Diceopoli supplica Euripide di uscire di casa per prestargli qualche straccio dei suoi eroi cenciosi:

D                        Ti chiama Diceopoli di Collide: io!

E                         Ma non ho tempo!

D                      E dai: fatti trasportare fuori sul carrello!

E                         Ma non è possibile!

                       Su, avanti!

E                         Ecco, mi farò metter fuori sul carrello: non ho tempo di scendere!

Nelle Tesmoforiazuse è lo stesso Euripide a cercare l’aiuto di Agatone, il quale sta uscendo dalla σκηνή (νν. 95-96):

E                        Silenzio!

P                        Che c’è?

E                        Agatone sta uscendo!

P                        E quale sarebbe?

E                        Lui, quello che si fa metter sul carrello!

Pacificamente accertato è invece, per alcuni drammi, il ricorso a una macchina del volo, detta γέρανος («gru»), che – grazie a un sistema di cavi, carrucole e ganci – serviva per tenere sollevato in aria un personaggio o fargli percorrere un certo tragitto aereo.

Nella Pace di Aristofane, con parodia del perduto Bellerofonte di Euripide (dove il protagonista volava in groppa a Pegaso), Trigeo impartisce istruzioni dapprima allo scarabeo che intende cavalcare per recarsi a colloquio con Zeus (vv. 82-87):

T Oh, buono, buono: rallenta, asinello mio!
Non slanciarti con troppo impeto,
fin da principio fidando nella tua forza,
prima di aver ammorbidito
i muscoli col battito veloce delle ali!
E non soffiarmi addosso questo puzzo, per pietà!

Poi si rivolge al macchinista addetto alla manovra, il μηχανοποιός (vv. 174-176):

T Macchinista, pensa a me!
Già mi sento turbinare un vento sotto l’ombelico:
se non stai attento, ingrasserò lo scarabeo!

Con la macchina del volo arriva Oceano nel Prometeo di Eschilo (vv. 284 ss.), fugge per l’etere Medea alla fine dell’omonimo dramma euripideo, appaiono talora gli dèi di cui si dice che giungono per l’aria, come, nelle chiuse di alcuni drammi euripidei, Tetide (Andromaca), Atena (Ione), i Dioscuri (Elettra).

Pittore anonimo. Il volo di Medea. Pittura vascolare da un κρατήρ-κάλυξ lucano a figure rosse, c. 400 a.C. Cleveland, Museum of Art.

Talvolta i personaggi potevano comparire in scena anche su un carro da parata, come nell’Agamennone eschileo il sovrano argivo e la sua prigioniera Cassandra o, nell’Elettra di Euripide, Clitennestra, che si reca in campagna a far visita alla figlia.

Nell’area scenica potevano comparire anche tombe e altari, come, in Eschilo, nelle Supplici, dove uno rialzo sacro adorno di statue e altari degli dèi (una κοινοβωμία) diventa l’asilo delle Danaidi, o nelle Coefore, dove il tumulo di Agamennone è il luogo presso il quale Elettra scorge le orme del fratello e poi intona insieme con lui e con le coreute il commo di invocazione (κομμός) al padre defunto. E in Euripide si rifugiano ai piedi di un altare, fra gli altri, Andromaca perseguitata da Ermione e la sposa e i figli di Eracle perseguitati dal tiranno Lico (Eracle).

Occasionalmente anche un letto poteva essere portato alla vista degli spettatori. come, in Euripide, nel caso di Fedra delirante nell’Ippolito e di Oreste malato nell’Oreste o in Aristofane, per Strepsiade che, tormentato dal pensiero dei debiti, si agita su un pagliericcio al principio delle Nuvole.

La battaglia di Maratona (490 a.C.)

Nel 490 a.C. prese l’avvio quella che si presentava a tutti gli effetti come una vera e propria spedizione punitiva contro Atene ed Eretria, colpevoli di aver aiutato gli Ioni ribelli (499-493), ma che aveva certamente anche l’obiettivo di estendere il controllo persiano nell’Egeo.

Pittore di Dario. Re Dario I riceve in udienza alcuni dignitari (dettaglio). Pittura vascolare su cratere a volute apulo a figure rosse (detto Vaso di Dario), c. 340-320 a.C. da Taranto. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

I generali Artaferne e Dati, con una flotta di 300 navi, puntarono sulle Cicladi, distrussero Nasso, sacrificarono ad Apollo sull’isola di Delo e sottomisero il resto dell’arcipelago; poi mossero contro l’Eubea, dove presero Caristo e distrussero Eretria, i cui abitanti, asserviti, furono deportati alla corte di Susa.

Dall’Eubea, quindi, i Persiani passarono agevolmente in Attica, sbarcando presso la piana di Maratona con almeno 20.000 uomini. Secondo Erodoto di Alicarnasso (VI 102), sarebbe stato l’esule Ippia a consigliare ai condottieri achemenidi il punto migliore dove poter manovrare un esercito di così grandi dimensioni: egli sperava di riottenere, grazie all’aiuto persiano, la tirannide ateniese.

Milziade, membro del nobile γένος dei Filaidi, eletto stratego nonostante gli avversari politici lo accusassero di aspirare alla tirannide, convinse i concittadini a uscire dalle mura e a farsi incontro agli invasori proprio a Maratona.

Combattimento fra Greci e Persiani. Bassorilievo, marmo, fine V secolo a.C. Dal fregio meridionale del Tempio di Atena Nike.

Intanto, l’araldo Filippide, inviato a chiedere soccorso ai Lacedemoni, si sentì rispondere che sarebbero intervenuti, ma che la spedizione, per motivi religiosi, non sarebbe partita prima del plenilunio (era il nono giorno del mese Carneo, corrispondente all’agosto-settembre); i rinforzi spartani (2000 uomini) giunsero soltanto a battaglia conclusa. A Maratona si unirono alle forze ateniesi, comprendenti circa 10.000 unità, solo 1000 Plateesi, come sempre fedeli alleati di Atene.

La sproporzione delle forze in campo fu motivo di esitazione tra i Greci: fu Milziade a convincere i colleghi del collegio degli strateghi, e soprattutto l’arconte polemarco Callimaco, della necessità di accettare battaglia per avere «una patria libera e una città che fosse la prima della Grecia» (Hdt. VI 109, 6, πατρίς τε ἐλευθέρη καὶ πόλις πρώτη τῶν ἐν τῇ Ἑλλάδι).

Nike di Callimaco, polemarco ateniese, per il successo di Maratona. Statua frammentaria, marmo pario, 480 a.C., dall’Acropoli di Atene. Atene, Museo dell’Acropoli.

Dopo diversi giorni, in attesa, da parte ateniese, dei rinforzi lacedemoni, da parte persiana, dello scoppio in Atene di sedizioni fomentate dai partigiani dei Pisistratidi, Milziade decise di attaccar battaglia: l’esercito greco, forte sulle ali e debole al centro, sfondò ai lati e cedette al centro, aggirando con una manovra a tenaglia l’armata del Grande Re (Hdt. VI 112-114).

[𝟏𝟏𝟐] Ὡς δέ σφι διετέτακτο καὶ τὰ σφάγια ἐγίνετο καλά, ἐνθαῦτα ὡς ἀπείθησαν οἱ Ἀθηναῖοι, δρόμῳ ἵεντο ἐς τοὺς βαρβάρους· ἦσαν δὲ στάδιοι οὐκ ἐλάσσονες τὸ μεταίχμιον αὐτῶν ἢ ὀκτώ. οἱ δὲ Πέρσαι ὁρῶντες δρόμῳ ἐπιόντας παρεσκευάζοντο ὡς δεξόμενοι, μανίην τε τοῖσι Ἀθηναίοισι ἐπέφερον καὶ πάγχυ ὀλεθρίην, ὁρῶντες αὐτοὺς ἐόντας ὀλίγους, καὶ τούτους δρόμῳ ἐπειγομένους οὔτε ἵππου ὑπαρχούσης σφι οὔτε τοξευμάτων. ταῦτα μέν νυν οἱ βάρβαροι κατείκαζον· Ἀθηναῖοι δὲ ἐπείτε ἀθρόοι προσέμειξαν τοῖσι βαρβάροισι, ἐμάχοντο ἀξίως λόγου. πρῶτοι μὲν γὰρ Ἑλλήνων πάντων τῶν ἡμεῖς ἴδμεν δρόμῳ ἐς πολεμίους ἐχρήσαντο, πρῶτοι δὲ ἀνέσχοντο ἐσθῆτά τε Μηδικὴν ὁρῶντες καὶ [τοὺς] ἄνδρας ταύτην ἐσθημένους· τέως δὲ ἦν τοῖσι Ἕλλησι καὶ τὸ οὔνομα τὸ Μήδων φόβος ἀκοῦσαι.

[𝟏𝟏𝟑] Μαχομένων δὲ ἐν τῷ Μαραθῶνι χρόνος ἐγίνετο πολλός. καὶ τὸ μὲν μέσον τοῦ στρατοπέδου ἐνίκων οἱ βάρβαροι, τῇ Πέρσαι τε αὐτοὶ καὶ Σάκαι ἐτετάχατο· κατὰ τοῦτο μὲν δὴ ἐνίκων οἱ βάρβαροι καὶ ῥήξαντες ἐδίωκον ἐς τὴν μεσόγαιαν, τὸ δὲ κέρας ἑκάτερον ἐνίκων Ἀθηναῖοί τε καὶ Πλαταιέες. νικῶντες δὲ τὸ μὲν τετραμμένον τῶν βαρβάρων φεύγειν ἔων, τοῖσι δὲ τὸ μέσον ῥήξασι αὐτῶν συναγαγόντες τὰ κέρεα ἀμφότερα ἐμάχοντο, καὶ ἐνίκων Ἀθηναῖοι. φεύγουσι δὲ τοῖσι Πέρσῃσι εἵποντο κόπτοντες, ἐς ὃ ἐπὶ τὴν θάλασσαν ἀπικόμενοι πῦρ τε αἴτεον καὶ ἐπελαμβάνοντο τῶν νεῶν. [𝟏𝟏𝟒] Καὶ τοῦτο μὲν ἐν τούτῳ τῷ πόνῳ ὁ πολέμαρχος Καλλίμαχος διαφθείρεται, ἀνὴρ γενόμενος ἀγαθός, ἀπὸ δ’ ἔθανε τῶν στρατηγῶν Στησίλεως ὁ Θρασύλεω· τοῦτο δὲ Κυνέγειρος ὁ Εὐφορίωνος ἐνθαῦτα ἐπιλαμβανόμενος τῶν ἀφλάστων νεός, τὴν χεῖρα ἀποκοπεὶς πελέκεϊ πίπτει, τοῦτο δὲ ἄλλοι Ἀθηναίων πολλοί τε καὶ ὀνομαστοί.

Pittore anonimo. Combattimento tra un oplita greco e tre arcieri persiani. Pittura vascolare su λήκυθος attica a figure nere, c. 490-480 a.C. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

[𝟏𝟏𝟐] Come si furono schierati e i sacrifici risultarono favorevoli, allora gli Ateniesi, appena ricevettero il segnale, si lanciarono di corsa contro i barbari: lo spazio tra di loro non era inferiore a otto stadi. I Persiani, vedendoli arrivare di corsa contro di loro, si prepararono ad accoglierli e tacciavano gli Ateniesi di una follia del tutto rovinosa vedendo che erano in inferiorità numerica e che per di più avanzavano di corsa privi di cavalleria e di arcieri. Proprio questo pensavano i barbari; ma gli Ateniesi, come si scontrarono con loro a ranghi serrati, combatterono in modo memorabile. Primi infatti tra tutti i Greci, quelli che conosciamo, andarono contro i nemici di corsa, per primi sostennero la vista dell’abbigliamento medo e degli uomini che lo indossavano, benché fino ad allora per i Greci fosse motivo di paura anche il solo sentire il nome dei Medi. [𝟏𝟏𝟑] Il combattimento a Maratona durò a lungo. Al centro dello schieramento prevalevano i barbari, là dove erano schierati i Persiani stessi e i Saci. In questo settore i barbari stavano vincendo e, rotte le fila, incalzavano verso l’interno; su entrambe le ali, invece, vincevano gli Ateniesi e i Plateesi. Vincendo lasciavano scappare la parte dei barbari che era stata volta in fuga, ma, riunendo le ali in un solo corpo, assalirono coloro che avevano sfondato il centro e gli Ateniesi furono vincitori. Inseguirono abbattendoli i Persiani in rotta, finché, giunti al mare, ricorsero al fuoco e si gettarono sulle navi. [𝟏𝟏𝟒] In questo scontro cadde il polemarco, che si era dimostrato uomo valoroso, e morì uno degli strateghi, Stesileo figlio di Trasileo; qui cadde anche Cinegiro, figlio di Euforione, colpito da un colpo d’ascia alla mano mentre si aggrappava agli aplustri di una nave; e persero la vita anche molti altri Ateniesi famosi.

Secondo la tradizione, le perdite ammontarono, per i Persiani, a 6400 uomini, mentre fra i Greci si contarono 192 caduti, seppelliti nel cosiddetto tumulo di Maratona.

Schema ricostruttivo e proiezione ortogonale del Tumulo dei Maratonomachi, con corredo [Δελτίον Ἀρχαιολογικόν, 1885-1892].

Dati imbarcò i superstiti sulla flotta e doppiò il Capo Sunio, con l’intento di sbarcare al Falero e di attaccare direttamente Atene, cogliendo la città sguarnita. L’ammiraglio persiano contava forse su appoggi interni, cui allude lo stesso Erodoto (VI 115; 124), parlando di un presunto segnale che gli sarebbe stato dato con uno scudo, secondo alcuni da parte degli Alcmeonidi.

La manovra fu però impedita dalla rapidità con cui Milziade rientrò con i suoi uomini da Maratona, lasciandovi il collega Aristide; evidentemente, la sconfitta sul campo era stata per i Persiani meno disastrosa di quanto la propaganda attica non lasci intendere.

Elmetto di tipo corinzio, con iscrizione (Μιλτιάδης ἀνέ[θ]ηκεν [τ]ῷ Δι[ΐ], «Milziade offre [questo] a Zeus»), c. V secolo a.C. Olimpia, Museo Archeologico.

La spedizione, in realtà, va considerata come un insuccesso parziale: Atene aveva certo resistito, ma Eretria era stata punita, Nasso e le Cicladi erano state sottomesse e conquistate, e il controllo achemenide sull’Egeo si era notevolmente esteso.

Scena di combattimento tra Ateniesi e Persiani. Illustrazione di P. Dennis.

Dal punto di vista greco, invece, la vittoria di Maratona fu sentita come un evento di eccezionale importanza, perché l’appassionata volontà di difendere la propria ἐλευθερία aveva potuto superare la sproporzione delle forze in campo; essa fu celebrata con dediche di grande rilievo, sia sull’Acropoli di Atene che a Delfi, in sede panellenica, e fu poi ricordata dalla tradizione come uno dei grandi meriti di Atene verso la Grecia, fondamento e giustificazione delle sue aspirazioni egemoniche.

La generazione dei “Maratonomachi”, i combattenti di Maratona, avrebbe costituito per le generazioni a venire un modello politico e un punto di riferimento etico, insistentemente rievocato nella poesia, nella storiografia e nell’oratoria.

Luc-Olivier Merson, Fidippide, o il soldato di Maratona. Olio su tela, 1869. Collezione privata.

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Focione di Atene

Militare e uomo politico ateniese, Focione (Φωκίων) nacque intorno al 397 a.C. da Foco, probabilmente originario del demo di Potamone.

Di lui sono ben note le doti di retore, come testimonia un passo dalla biografia che gli dedicò Plutarco (Phoc. 5, 3-5):

ὁμοίως δέ πως τοῦ Φωκίωνος καὶ ὁ λόγος ἦν ἐπὶ χρηστοῖς ἐνθυμήμασι καὶ διανοήμασι σωτήριος, προστακτικήν τινα καὶ αὐστηρὰν καὶ ἀνήδυντον ἔχων βραχυλογίαν. ὡς γὰρ ὁ Ζήνων ἔλεγεν, ὅτι δεῖ τὸν φιλόσοφον εἰς νοῦν ἀποβάπτοντα προφέρεσθαι τὴν λέξιν, οὕτως ὁ Φωκίωνος λόγος πλεῖστον ἐν ἐλαχίστῃ λέξει νοῦν εἶχε. καὶ πρὸς τοῦτ’ ἔοικεν ἀπιδὼν ὁ Σφήττιος Πολύευκτος εἰπεῖν, ὅτι ῥήτωρ μὲν ἄριστος εἴη Δημοσθένης, εἰπεῖν δὲ δεινότατος ὁ Φωκίων.

Altrettanto, erano salutari i discorsi di Focione, nutriti di utili pensieri e riflessioni, dalla brevità imperiosa, secca, sgradevole. Zenone diceva che il filosofo deve pronunciare parole dopo averle immerse nel pensiero: ebbene, il discorso di Focione conteneva il massimo di pensiero nel minimo di parole. E forse, tenendo conto di ciò, Polieutto di Sfetto osservò che Demostene era un ottimo oratore, ma il più abile a parlare era proprio Focione.

Focione. Statua, marmo, copia romana del I sec. da originale greco della seconda metà del V secolo a.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

Alunno di Platone all’Accademia (Plut. Phoc. 4, 2), rivestì la strategia (στρατηγία) per ben quarantacinque volte (ibid. 8, 1-2), molto di più non solo dei propri contemporanei ma anche di qualsiasi altro cittadino nella storia di Atene!

Nel 376/5 a.C. in qualità di trierarca, agli ordini dello στρατηγός Cabria (c. 415-357), Focione comandò l’ala sinistra della flotta ateniese nella vittoria navale sui Lacedemoni a Nasso; dopodiché, gli fu affidato l’onere di riscuotere i tributi (Plut. Phoc. 6, 2; 7, 1; Praecepta 805f).

La cronologia esatta del suo primo mandato da στρατηγός (forse nel 371/0) è incerta. È comunque sicuro che con questo ruolo nel 349/8 egli guidò un corpo di spedizione ateniese in Eubea: mentre, nello stesso periodo, Atene era impegnata a Olinto contro Filippo II di Macedonia, il contingente affidato a Focione era abbastanza circoscritto, poiché i suoi concittadini contavano che gli Eubei si sarebbero presto uniti nella lotta contro i Macedoni.

Invece, fin da subito, il comandante si trovò ad affrontare una serie di insidie tesegli tanto dai locali, quanto dai suoi stessi commilitoni che non lo sopportavano. In ogni caso, Focione ottenne una splendida vittoria nella piana di Tamine, scacciò il tiranno Plutarco di Eretria e conquistò la piazzaforte di Zaretre (Plut. Phoc. 12-13; Dem. Or. 21, 164; Aeschin. Leg. 169-170).

Probabilmente nel 344/3, ricevuta in segreto una richiesta d’aiuto dai Megaresi, Focione convinse i propri concittadini a intervenire in soccorso di Megara (Plut. Phoc. 15, 1).

Franc Kavčič, Focione con sua moglie e una signora di Ionia. Olio su tela, 1801. Ljubljana, Narodna galerija.

Eletto nuovamente stratego per l’anno 343/2, egli prese le difese di Eschine durante il noto processo della “Falsa ambasceria”, mossogli dal collega Demostene che lo accusava di corruzione: in quell’occasione, Focione dimostrò apertamente la propria posizione politica nei riguardi della monarchia macedonica (Aeschin. Leg. 170; 184).

Nella primavera dell’anno successivo lo στρατηγός, inviato nuovamente in Eubea, sconfisse in battaglia Clitarco, tiranno di Eretria, e vi stabilì un governo filo-ateniese (Diod. XVI 74, 1-2; schol. ad Aeschin. in Ctes. 103; Filocoro FGrHist. 328 F 160); poi, nel 340/39, al comando della flotta soccorse Bisanzio e la liberò dall’assedio di Filippo (Plut. Phoc. 14, 3; Apoph. 188b-c; decem orat. 851a; IG II/III² 1628c, 437; 1629d, 958).

Dopo la vittoria macedone a Cheronea (338 a.C.), Focione tornò ad Atene (Plut. Phoc. 16, 1), dove, su voto unanime, fu scelto come comandante supremo all’organizzazione della difesa della città (ibid. 16, 4); egli, tuttavia, consigliando un accordo con Filippo, fece cadere le proposte disperate con cui il predecessore, Iperide, aveva cercato di rafforzare Atene. La pace infatti poté essere raggiunta proprio grazie alla sua mediazione, inviato ambasciatore della città insieme a Eschine e a Demade, ma si dichiarò contrario all’ingresso di Atene nella Lega di Corinto, fondata dallo stesso Filippo (Plut. Phoc. 16, 5).

Nel 336 si oppose fermamente alla risoluzione di votare un sacrificio di ringraziamento per l’uccisione del re macedone e alla proposta di tributare onori all’autore materiale del delitto (ibid. 16, 8).

Gioacchino Assereto, Focione rifiuta i doni di Alessandro il Grande. Olio su tela, ante 1649. Nantes, Musée des Beaux-Arts.

Eletto nuovamente στρατηγός per l’anno successivo, ma scoppiata a Tebe una rivolta anti-macedone, Focione ammonì i propri concittadini dal prendervi parte: la sedizione, infatti, fu prontamente e duramente soffocata e Focione convinse gli Ateniesi a consegnare i capi democratici, come Demostene, Iperide e altri, ad Alessandro, che li richiedeva (Diod. XVII 15, 2; Plut. Phoc.  17, 2-4).

Alla notizia della morte di Alessandro nel 323, Focione cercò in tutti i modi di contenere gli animi degli Ateniesi dal fare una rivolta. Inoltre, si oppose strenuamente in assemblea ai discorsi di Iperide e di Leostene, che portarono alla guerra lamiaca (Plut. Phoc. 22, 5-23, 4). Eletto per l’ennesima volta στρατηγός (ibid. 24, 1), Focione condusse l’esercito ateniese contro Micione, che, sbarcato nel demo di Ramnunte, al comando di una forza macedone e truppe mercenarie, stava devastando la regione, e lo respinse (ibid. 25, 1-4).

Dopo la sconfitta dei Greci, Focione e Demade guidarono i negoziati per concludere la pace con il reggente Antipatro (Diod. XVIII 18, 2; Plut. Phoc. 26-28; Nep. 19, 2). Convinto che nessun governo ben regolato potesse sussistere senza la tutela macedonica e senza l’esclusione della democrazia, che con le sue spinte estremistiche aveva arrecato ad Atene quella sconfitta, Focione approvò le condizioni imposte da Antipatro: l’insediamento di una guarnigione macedonica al porto di Munichia e l’instaurazione di un governo oligarchico-timocratico, di cui lo stesso Focione sarebbe stato uno dei capi.

In seguito, i rapporti amichevoli e la familiarità dell’anziano στρατηγός con Nicanore di Stagira, il comandante del presidio macedonico, gli costarono la sfiducia dei suoi stessi concittadini. Nella tarda primavera del 318, Poliperconte, successo ad Antipatro nella reggenza in Macedonia, proclamò un cambio di rotta nella politica verso le πόλεις greche, favorendo il ritorno dei regimi democratici. Focione, che vedeva nella restaurazione popolare, la fine di ogni buon governo, vi si oppose, forse aiutando i Macedoni a occupare anche il Pireo. Abbandonato a al proprio destino da Poliperconte e dal figlio di questi, Alessandro, Focione fu arrestato dai democratici ateniesi e, accusato di alto tradimento, fu condannato a morte (Nep. 19, 3-4; Plut. Phoc. 38, 1).

Charles Brocas, La morte di Focione. Olio su tela, 1804. Milwaukee Art Museum.

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Bibliografia:

C. Bearzot, Focione tra storia e trasfigurazione ideale, Milano 1985.

H.-J. Gehrke, Phokion. Studien zur Erfassung seiner historischen Gestalt, München 1976.

G.A. Lehmann, Oligarchische Herrschaft im klassischen Athen. Zu den Krisen und Katastrophen der attischen Demokratie im 5. und 4. Jahrhundert v. Chr., Opladen 1997, 32-40.

L.A. Tritle, Phocion the Good, London 1988.

Il programma architettonico dell’Acropoli

di E. Lippolis, G. Rocco (eds.), Archeologia greca. Cultura, società, politica e produzione, Milano-Torino 20202, 231-235.

Il quadro storico della seconda metà del V secolo risente di alcuni avvenimenti occorsi nel decennio precedente: ad Atene le incomprensioni con Sparta e l’ostracismo di Cimone determinarono il rafforzamento della fazione democratica più radicale, consentendo a Pericle (c. 495-429), morto Efialte, di occupare la scena politica in modo continuativo sino all’anno 432/1. La pace con la Persia (altrimenti detta «pace di Callia») stipulata dopo la scomparsa di Cimone (post 450) e la «pace dei trent’anni» con i Lacedemoni, siglata nel 446, segnarono l’apogeo del ruolo internazionale della πόλις attica e la sua egemonia politica e culturale, ponendo le basi per una trasformazione radicale dell’aspetto della città e delle forme della sua vita urbana.

Il polo principale del rinnovamento edilizio fu l’Acropoli, che recava ancora le tracce dell’invasione persiana (480-479): di ciò che c’era prima nulla è rimasto a causa delle distruzioni e degli incendi. Sono pervenuti soltanto quelle statue, quegli arredi e quei frammenti di frontoni che i cittadini ateniesi, dopo la battaglia di Salamina, seppellirono con devozione negli avvallamenti rocciosi del pianoro dell’Acropoli e che, per essere stati in tal modo riempiti, vengono collettivamente denominati «colmata persiana». Fu appunto sotto il governo di Pericle che si procedette alla ricostruzione degli edifici sacri della spianata, procurando il maggior diletto e ornamento per gli Ateniesi.

Nel 447, all’interno del grandioso programma di riattamento promosso dallo statista, l’edificio più importante fu il Partenone, costruito sotto la sovrintendenza (ἐπισκοπία) di Fidia, affiancato dagli architetti Callicrate e Ictino. Interamente realizzato in marmo pentelico, il tempio, un periptero dorico di 8 x 17 colonne, mostra una soluzione planimetrica senza precedente, essendo gli ottastili in genere dipteri o pseudodipteri. La scelta non era dovuta soltanto alla decisione di realizzare un edificio più grande – le dimensioni sono infatti prossime a quelle del tempio di Zeus a Olimpia –, ma derivava dall’eccezionalità dell’immagine di culto, la colossale statua crisoelefantina di Atena Parthenos, per la quale il tempio era stato progettato: la planimetria prescelta permetteva dunque di ottenere una cella di ampiezza significativamente maggiore di quella di un periptero esastilo di pari dimensioni e l’organizzazione del colonnato interno, disposto a Π, contribuiva a dare ulteriore risalto alla statua della dea. Della realizzazione del simulacro è pervenuta l’iscrizione frammentaria del rendiconto relativo alle spese (IG I³ 458): «Chichesippo del demo di Mirrinunte è stato segretario dei sovrintendenti alla costruzione della statua. Ricevuta da parte dei tesorieri, di cui Demostrato, figlio di Csipete, è stato loro segretario: 100 talenti. Tesorieri: Ctesio, Strosia, Antifate, Menandro, Timocare, Smocordo, Fidelide. Si è acquistato dell’oro per un valore di 6 talenti, 1618 dracme e 1 obolo; il costo complessivo è stato di 87 talenti, 4652 dracme e 5 oboli. Si è acquistata una partita d’avorio per 2 talenti e 743 dracme». Seguendo lo schema del tempio di Apollo a Corinto o dello stesso tempio pisistratide di Atena Polias sull’Acropoli, sul retro l’opistodomo si articola come un vestibolo, dando accesso a una sala posteriore, la cui copertura è sorretta da quattro colonne, forse ioniche, che incrementano le commistioni tra linguaggi morfologici diversi, presenti in vario modo nell’edificio.

Ictino, Callicrate e Fidia, Partenone. Tempio octastilo, periptero di ordine dorico, 447-438 a.C. Fronte occidentale e lato settentrionale. Atene, Acropoli.

Il monumento, che si configurava come un tempio-tesoro, destinato ad accogliere le dediche più preziose del santuario di Atena, dovette la sua eccezionalità alle esigenze connesse alla realizzazione di un ambizioso programma iconografico, di cui la statua della dea era essenzialmente il fulcro. All’esterno, infatti, si avvaleva di vari cicli figurativi, in larga parte volti all’esaltazione della comunità ateniese e a rivendicare il ruolo di “campione” nella lotta contro i barbari, che Atene rivendicava presso gli altri Greci: un fregio ionico che rappresentava la processione delle Panatenee lungo il perimetro esterno della cella; metope scolpite nel fregio dorico della peristasi; frontoni con statue.

Nel 437, mentre nel Partenone si completano i frontoni, fu aperto il cantiere dei Propilei, destinati a dotare il complesso sacro dell’Acropoli di un accesso monumentale adeguato alle ambizioni della πόλις. L’incarico di dirigere i lavori fu affidato a Mnesicle, il quale propose la realizzazione di una struttura complessa, che avrebbe integrato in un unico edificio il propileo vero e proprio, una sala da banchetti a nord e un vestibolo al santuario di Atena Nike a sud. Il progetto affrontava per la prima volta, a livello monumentale, le difficoltà dell’integrazione in un unico organismo di più strutture a scala diversa, anticipando quello che sarebbe stato un tema centrale dell’architettura ellenistica. La planimetria del complesso combinava in uno schema a Π un corpo centrale, anfiprostilo esastilo dorico, e due ali di proporzioni minori con prospetto tristilo in antis. A causa dell’orografia del sito, l’edificio centrale presentava quote diverse a est e a ovest, raccordate da gradini posti a ridosso del muro trasversale; il dislivello comportò lo sfalsamento della parte anteriore rispetto a quella posteriore, entrambe coperte con tetto a due falde, determinando così un doppio frontone sul prospetto ovest, comunque non percepibile da chi accedeva all’Acropoli. Alla parte anteriore del corpo centrale, la cui copertura era peraltro sostenuta da due file di alte colonne ioniche, furono collegate l’ala nord, che ospita un ampio ἑστιατόριον («salone del focolare»), e l’ala sud, che, pur salvaguardando la simmetria del prospetto, adottava una planimetria irregolare determinata dai vincoli imposti dal τέμενος di Atena Nike, che faceva da vestibolo di ingresso.

Atene. Acropoli, ναΐσκος di Athena Nike, sezione (disegno di Giraud, in Brouskari, 1997).

Tuttavia, il progetto non fu portato a compimento: a nord-est e a sud-est erano stati previsti anche altri due ambienti, attestati da diverse evidenze; se l’imminenza della guerra del Peloponneso fu all’origine di questa interruzione, essa non impedì comunque di porre mano alla realizzazione del nuovo tempio nel santuario di Atena Nike, forse proprio per l’attualità dell’epiclesi della dea. Questa costruzione fu intrapresa intorno al 427 con l’edificazione di un anfiprostilo tetrastilo ionico: la tipologia templare affondava le sue radici in modelli cicladici medio e tardo-arcaici e si era diffusa largamente in Atene e in altre località dell’Attica, durante l’epoca proto-classica. Il tempio di Atena Nike era infatti espressione di un’architettura di stile ionico affermatasi in Attica con forme ormai autonome, indipendenti dai modelli più antichi; i tratti più caratteristici si possono rilevare sia nelle proporzioni dell’ordine, con colonne e trabeazione relativamente pesanti, sia negli elementi morfologici, che combinano particolari di ascendenza cicladica o asiatica (capitelli d’anta, architravi a fasce) con componenti rielaborate in forme originali (capitelli e basi attiche).

L’ultimo edificio realizzato sull’Acropoli fu l’Eretteo, la cui costruzione (421-405) iniziò durante la «pace di Nicia», in una fase di ripresa delle tradizioni religiose e dei culti poliadici più ancestrali. Le apparenti irregolarità del complesso rispondono, oltre che alla particolare orografia del sito, a vincoli determinati dalla peculiare concentrazione nell’area di attività e testimonianze sacre. Ai culti di Poseidone, Eretteo, Boote ed Efesto (forse anche Atena) furono aggiunti anche il Κεκρόπιον e il Προστομιαῖον, la sorgente di acqua salata fatta scaturire, secondo il mito, da Poseidone, mentre il Πανδρόσειον, nel cui τέμενος c’erano l’olivo sacro ad Atena e l’altare di Zeus Herkèios, fu annesso in un recinto subito a ovest.

Atene. Acropoli, Eretteo, prospetto orientale (elaborazione grafica da Paton, Stevens, 1927).

Anche l’Eretteo risultò, dunque, una costruzione complessa, in cui il corpo principale venne suddiviso in due ambienti separati tra loro e aperti su quote diverse; mentre a est, infatti, la cella, preceduta da una facciata esastila ionica, si raccorda con il piano dell’Acropoli e fronteggia l’antico altare, i vani a occidente si aprono 3 m più in basso, su una corte a nord e sul Πανδρόσειον. La terminazione ovest, necessariamente contratta, fu risolta con un alto podio sormontato da un prospetto tetrastilo in antis con semicolonne ioniche addossate a pilastri: l’accesso ai vani occidentali e al Πανδρόσειον fu reso possibile da nord, tramite un ampio portico prostilo tetrastilo ionico a tal fine parzialmente sfalsato rispetto all’edificio principale. Addossata al suo angolo sud-ovest, presso la tomba di Cecrope, si trova la cosiddetta «Loggia delle Cariatidi», con figure femminili stanti in luogo di colonne, che riveste la funzione di ἡρῷον del mitico primo re dell’Attica. Sostanzialmente in controtendenza appare l’architettura dell’edificio, che, se da un lato recupera forme recessive, eco di soluzioni proto-classiche, dall’altro introduce un estremo decorativismo, estraneo alla cultura architettonica cicladico-attica, evidente sia nella sovrabbondanza dell’intaglio decorativo, sia nella ricercata dicromia dei fregi, configurandosi come il corrispettivo in architettura dello “stile ricco” della scultura contemporanea.

Clistene e la fondazione della democrazia

Un mutamento di regime verso forme che non somigliassero a quelle dell’aristocrazia vigente ad Atene prima di Pisistrato e dominante nel mondo ellenico, un cambiamento insomma verso regimi politici radicalmente nuovi, non fu certo gradito a Sparta. Ma gli Alcmeonidi, rientrati grazie all’aiuto lacedemone, posero presto mano a una radicale e grandiosa riforma delle istituzioni cittadine. Le notizie principali su Clistene, figlio di Megacle, rampollo dell’illustre γένος, e sulla sua opera provengono in massima parte da Erodoto e dalla Costituzione degli Ateniesi (Ἀθηναίων πολιτεία) di Aristotele. Dopo la cacciata del Pisistratide Ippia, in Atene presero a contrastarsi gruppi guidati da Clistene e Isagora, dei quali quest’ultimo fu designato arconte per l’anno 508/7. Clistene reagì all’elezione del rivale appoggiandosi al δῆμος, il «popolo», che la politica pisistratide aveva fortemente valorizzato come forza sociale: secondo Erodoto (V 66), l’Alcmeonide τὸν δῆμον προσεταιρίζεται («associò il popolo alla propria eteria»), cioè ne fece uno dei protagonisti del confronto politico, fino ad allora dominato dai membri delle casate aristocratiche, e poté così ottenere la base di consenso necessaria per dar corso ai propri progetti, che sarebbero stati all’origine della democrazia ateniese.

L’aspetto fondamentale dell’opera riformatrice di Clistene consistette in una nuova geografia e geometria dei rapporti politici, ripartendo la popolazione attica su base territoriale, secondo una rigorosa impostazione decimale. Al posto delle quattro tribù (φυλαί) genetiche ioniche, egli ne introdusse dieci con un forte legame sul territorio, che presero il nome da eroi locali – indicati, secondo la tradizione – nientemeno che dall’oracolo di Delfi: Acamantide, Eantide, Antiochide, Cecropide, Eretteide, Egeide, Ippotontide, Leontide, Eneide, Pandionide. L’appartenenza alla tribù non dipendeva più dal rapporto personale o gentilizio tra i suoi membri, ma dalla loro residenza. In Attica, infatti, era disperso un gran numero di centri diversi, detti δῆμοι, ovvero piccole comunità di villaggio (cfr. Strab. IX C. 396, che ne contò 174): una delle novità della riforma clistenica fu quella di aver trasformato queste realtà preesistenti in cellule vitali della struttura politica ateniese.

Anna Christoforidis, Clistene, statista greco e padre della democrazia. Busto, marmo, 2004. Columbus, Ohio Statehouse.

Della precedente ripartizione filetica tuttavia permase l’articolazione in tre sezioni: ogni tribù (φυλή) comprendeva tre trittìe (τριττύες). I processi di astrazione e di livellamento, espressi da questa operazione politica, cozzavano naturalmente contro le antiche strutture, basate su rapporti familiari e interessi di consorterie locali. Così, dei vecchi gruppi politici rimase una traccia, ma non più come basi di distinti gruppi di pressione con interessi economici definiti: la nuova ripartizione divenne, con lieve modifica, il quadro geografico per la costruzione del territorio di ciascuna tribù, su un totale di trenta circoscrizioni territoriali ancora tratte, rispettivamente, una dalla zona costiera (παραλία), una dall’entroterra (μεσόγαια) e una dalla città (ἄστυ). Al vecchio frazionamento politico-territoriale, dunque, si sostituì una rappresentazione del territorio secondo fasce che, in astratto, possono essere considerate concentriche, estendendosi dal centro urbano all’interno e alla costa. Ovviamente, com’era sempre nel mondo greco, la costruzione, pur sì carica di valori di astrazione, non era mai totalmente astratta, ma conosceva adattamenti alle reali condizioni del territorio e delle sue singole parti. Il principio era quello di immettere nella nuova base della struttura comunitaria, fondendole nella medesima tribù, frazioni che un tempo avevano fatto blocco con altre località confinanti, spesso in lotta per il potere, il che di fatto equivaleva alla contrapposizione fra consorterie locali capeggiate dalle grandi famiglie (γένη). Ora, invece, con Clistene, ogni tribù conteneva di tutto: la residenza in un determinato demo definiva il cittadino insieme alla sua paternità, al punto che l’onomastica ateniese prevedeva l’indicazione del nome personale, del patronimico e del demotico (i.e. «Temistocle, figlio di Neocle, del demo Frearrio»).

Il nuovo assetto costituzionale impresso da Clistene previde accanto al centro urbano, sempre più sviluppantesi, con funzioni politiche, sociali ed economiche nel corso del V secolo, un’altra componente essenziale: la campagna, il territorio con la sua autonomia locale; oltre ai demi (ciascuno guidato dal suo demarco), il legislatore mantenne le antiche fratrie (φρατρίαι), con funzioni di stato civile, e le vecchie naucrarie (ναυκραρίαι), con funzioni modificate e ridotte.

L’Attica e la Beozia [Funke 2001, 16].

Una delle parole d’ordine della riforma clistenica fu «mescolare», rendere impossibile o inutile la ricerca delle origini familiari, classificare ciascuno secondo il demo, che, attraverso lo strumento intermedio della tribù, costituiva il quadro organizzativo fondamentale della πόλις: perciò, gli organi di governo e le varie istituzioni dovevano rispettare proporzionalmente, e secondo una rotazione, tale organizzazione (Aristot. Athen. Pol. 20-21). Così, ogni tribù doveva fornire un congruo reggimento di opliti (τάξις), guidato dal tassiarco (ταξίαρχος), e uno stratego (στρατηγός); la data di introduzione del collegio dei dieci strateghi è incerta, ma è noto che essi erano in origine eletti uno per tribù e che solo in seguito furono designati tra tutti i cittadini, senza rispettare la divisione clistenica. Fu istituito un consiglio (βουλή) dei Cinquecento, i cui membri erano sorteggiati in numero di cinquanta per ciascuna tribù: questo organo consultivo, costituito da cittadini di età superiore ai trent’anni, sedeva in permanenza, diviso in gruppi di cinquanta, detti πρυτάνεις (antico titolo per «principe»), nelle dieci parti (πρυτανεῖαι, «turni») in cui era suddiviso l’anno amministrativo attico: questo, che andava dal 1° Ecatombeone al 30 Sciforione, cominciava con il primo novilunio dopo il solstizio d’estate; ogni πρυτανεῖα di ciascuna tribù durava 35 o 36 giorni nell’anno di dodici mesi, oppure 38 o 39 giorni nell’anno con un mese intercalare. Ogni giorno un membro diverso del gruppo dei cinquanta assumeva la presidenza del turno con la carica di ἐπιστάτης: tutti costoro, comunque, erano puntualmente sorteggiati per assicurare la necessaria rotazione e il rispetto istituzionale delle regole; perciò, non era possibile essere stati buleuti più di due volte nella vita. La funzione principale della βουλή era quella «probuleumatica», che consisteva nel preparare e introdurre i lavori, ovvero l’ordine del giorno (πρόγραμμα), dell’assemblea: quest’ultima, detta ἐκκλησία, era aperta a tutti i cittadini di età superiore ai vent’anni e, a quest’epoca, si svolgeva in via ordinaria una volta per pritania, tre in via straordinaria (Aristot. Athen. Pol. 43, 3-6).

Anche il collegio degli arconti fu riformato: da questo momento essi furono eletti uno per tribù, mentre la decima forniva il segretario (γραμματεύς) del collegio.

Pittore Brygos. Scena di votazione con ψῆφοι (gettoni) presieduta da Atena. Pittura vascolare su una κύλιξ attica a figure rosse, c. 490 a.C. Malibu, J. Paul Getty Museum.

Non furono abolite nella costituzione clistenica le distinzioni censitarie presenti nella precedente riforma di Solone e in parte anche prima. L’opera di unificazione, redistribuzione e astrazione compiuta da Clistene era diretta contro le spinte corporative di interessi locali, espressi o difesi dall’aristocrazia regionale, non contro il principio dell’efficacia politica della condizione economica e del censo, come parametri generali. Permase, dunque, la distinzione in pentacosiomedimmi, cavalieri, zeugiti e teti; e come le massime cariche, come l’arcontato, erano ancora eleggibili e non sorteggiabili (almeno fino al 487 a.C.), il peso del censo si fece sentire nelle scelte operate dai cittadini.

La riforma di Clistene rivela la preoccupazione di realizzare la piena integrazione della cittadinanza ateniese in un sistema nuovo rispetto a quello tradizionale, in grado di realizzare la «mescolanza» di vari elementi (Aristot. Athen. Pol. 21, 2), spezzando i vincoli clientelari che costituivano la base del potere delle grandi famiglie aristocratiche. Se si riflette sul passo aristotelico che ricorda la divisione dell’Attica, all’epoca dell’ascesa di Pisistrato, in aree geografiche abitate da una popolazione accomunata da interessi economici e strettamente legata a rapporti clientelari, si comprende bene come le nuove tribù clisteniche, create artificialmente, potessero contribuire a ridurre il peso politico dei grandi casati. Certo, gli aristocrati conservarono una serie di privilegi: un ruolo politico significativo fu assicurato loro dalla permanenza del consiglio dell’Areopago, dalla limitazione all’accesso alle magistrature per le prime due classi di censo e dal mantenimento del loro carattere elettivo, nonché l’accesso riservato ad alcuni sacerdozi. Alle più antiche strutture di tipo genetico, quali le fratrie, fu lasciato un ruolo di controllo della parentela legale e quindi sulla legittimità di nascita, presupposto della cittadinanza (πολιτεία), che spettava a quest’epoca a chi era figlio di padre cittadino. Si noti, comunque, che era il demo, non la fratria, a certificare la condizione di cittadinanza davanti alla comunità tutta (Aristot. Athen. Pol. 42).

Il defunto e la sua famiglia. Rilievo su stele funeraria, marmo bianco, c. 375-350 a.C. New York, Metropolitan Museum of Art.

La democrazia clistenica si iscriveva fondamentalmente in una nozione dicotomica del campo delle possibilità politiche, benché, per le strutture che proponeva, costituisse la strada verso sviluppi futuri: il nemico da debellare rimaneva la tirannide, ovvero l’emersione di un uomo forte dall’interno stesso dell’aristocrazia e della carriera oplitica, capace di instaurare forme di potere personale, centralizzato e autoritario. Combattendo la tirannide, la nuova costituzione arginava al tempo stesso le ambizioni e i tentativi di prevaricazione dei gruppi nobiliari. Secondo Aristotele (Athen. Pol. 22, 1), dunque, fu Clistene a escogitare e a istituire un sistema preventivo contro il pericolo della tirannide, l’ostracismo. Questa procedura, molto semplice e democratica, consisteva nel designare, con un voto espresso a maggioranza da almeno 6.000 persone, un individuo ritenuto pericoloso e sovversivo; il voto era espresso, se l’assemblea lo riteneva opportuno, una volta all’anno, durante l’ottava pritania, scrivendo il nome del sospettato su un coccio (ὄστρακον). Il personaggio indiziato, che riceveva il maggior numero di denunce, veniva allontanato dalla città per dieci anni, durante i quali subiva una diminuzione di diritti (ἀτιμία) di carattere parziale: perdeva cioè i diritti politici, mantenendo invece quelli civili (matrimonio, patria potestà, proprietà).

L’agorà di Atene ha restituito un gran numero di ὄστρακα, recanti i nomi di diversi personaggi accusati di ostracismo (una trentina circa), talora con le motivazioni del voto (l’accusa di essere amici dei tiranni o, in seguito, dei Persiani). L’istituzione di questa procedura intendeva, allontanando uomini politici che si rendevano sospetti al popolo, evitare l’instaurazione di una nuova tirannide e favorire l’allentamento delle tensioni politiche: applicata per la prima volta nel 487 circa contro Ipparco di Carmo, parente dei Pisistratidi, e poi per tutto il V secolo, fu molto imitata anche in altre realtà del mondo greco (ad Argo, Megara, Mileto e a Siracusa, dov’era detta “petalismo”). È probabile che l’utilizzo regolare dell’ostracismo abbia contribuito ad assicurare ad Atene una certa stabilità, evitandole fratture civili (στάσεις), che caratterizzarono invece altre città, anche democratiche. Tale stabilità, inoltre, va collegata anche con il fatto che in Atene la democrazia non nacque da una rivoluzione violenta e dalla sopraffazione di una parte sull’altra, ma da una riforma accettata da tutte le parti in causa.

Θεμιστοκλής Νεοκλέους (“Temistocle, figlio di Neocle”). Ostrakon, c. 482 a.C. Atene, Museo dell’Antica Agorà.

A partire da Erodoto (VI 131, 1), Clistene entrò nella tradizione storica come «colui che istituì la democrazia per gli Ateniesi» (τὴν δημοκρατίην Ἀθηναίοισι καταστήσας); così per Aristotele (Athen. Pol. 20, 1) egli fu «colui che consegnò la cittadinanza al popolo» (ἀποδιδοὺς τῷ πλήθει τὴν πολιτείαν). Questo giudizio trova sicuro riscontro nel fatto che, a livello formale, la riforma clistenica assicurò a tutti i cittadini ateniesi il godimento dell’ἰσονομία, l’uguaglianza dei diritti, e l’ἰσηγορία, l’uguaglianza di parola, garantendo a tutti, senza discriminazioni di nascita e di censo, la possibilità di prendere parte agli organi di carattere deliberativo (βουλή ed ἐκκλησία) e giudiziario (il tribunale popolare, ἡλιαία).

Alla luce di quanto si è detto, appare comprensibile che la nascita della democrazia trovasse subito degli oppositori, e che essa presenti una gestazione assai laboriosa, di cui non è facile definire tutti gli aspetti cronologici, soprattutto quando ci si allontani dalle fonti. Clistene doveva aver già elaborato gran parte della sua riforma costituzionale, quando gli si oppose la fazione aristocratica più conservatrice, guidata da Isagora, che trovava inaccettabile il progetto di inserimento del δῆμος nella vita politica. Gli oppositori del legislatore, spalleggiati da re Cleomene I di Sparta, cercarono di abbattere la neonata democrazia: il primo scontro fu vinto da Isagora grazie alla potenza delle armi lacedemoni, che nel 508/7 gli assicurarono l’arcontato; allora, settecento case di partigiani della democrazia furono bandite, compresa quella degli Alcmeonidi. Ma il tentativo di sciogliere d’autorità la βουλή dei Cinquecento nel 507/6 fu respinto dagli Ateniesi, che costrinsero Isagora e Cleomene, assediati insieme ai loro sull’Acropoli, a desistere e richiamarono Clistene e gli altri fuoriusciti. Fu allora che il legislatore, assunto l’arcontato, poté completare e rendere definitiva l’opera di rinnovamento (Hdt. V 66, 1; 70-76; Aristot. Athen. Pol. 20, 1; Marmor Parium, FGrHist 239 A 46; Schol. in Aristoph. Lysis. 273).

Iscrizione della «Legge contro la tirannide». Personificazione di Democrazia che incorona Demos (bassorilievo). Rilievo, marmo, c. 337-376 a.C. da Atene. Museo Archeologico Nazionale di Atene.

Dal 506 gravi minacce si addensarono sul capo della neonata democrazia ateniese. Un nuovo attacco di Cleomene, che intendeva insediare Isagora come tiranno, finì con una ritirata dovuta ai dissensi tra il Lacedemone e l’altro re, Demarato, e alla defezione dei Corinzi; la contemporanea offensiva di Beoti e Calcidesi con l’invasione dell’Attica fu respinta con successo, in seguito al quale Atene insediò sul territorio di Calcide una cleruchia (κληρουχία), una colonia militare di 4.000 cittadini, mantenuti con le rendite fondiarie degli aristocratici locali (i cosiddetti Ippoboti). Più tardi, nel 500, Cleomene tentò nuovamente, in accordo con i Tessali, di abbattere la democrazia ateniese, restaurando il regime di Ippia, ma il piano fallì nuovamente a causa dell’opposizione dei Corinzi. Erodoto (V 78) collegò la crescita della potenza ateniese, messa in evidenza da questi successi, con l’istituzione della democrazia: l’ἰσηγορία, affermava, è un bene prezioso, per difendere il quale l’uomo libero si mobilità con un entusiasmo inedito a chi si trova in stato di servitù (cfr. IG I² 394; Diod. X 24; Paus. I 28, 2; Anth. Pal. VI 343).

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