La nuova retorica dello spazio nell’elegia erotica ovidiana

di P. Monella, La nuova retorica dello spazio nell’elegia erotica ovidiana, in Amicitiae templa serena. Studi in onore di Giuseppe Aricò, a cura di L. Castagna – C. Riboldi, vol. II, Milano 2008, pp. 1121-1153.

Ovidio e l’urbanitas: alcune premesse

Il presente contributo si propone di mettere in luce come la profonda ‘ristrutturazione’ del genere elegiaco operata da Ovidio – legata soprattutto allo ‘scioglimento’ delle tensioni e delle contraddizioni che avevano caratterizzato in precedenza lo sviluppo dell’elegia – influenzi a più ampio raggio la costruzione simbolica dello spazio in opere come gli Amores, l’Ars amatoria, i Remedia amoris.

Uno studio sullo spazio nelle opere giovanili di Ovidio non può non partire dalla centralità e dagli sviluppi dell’ideologia dell’urbanitas, sulla quale, come è noto, è fiorita una ricca bibliografia[1]. Partendo da tali premesse, si cercherà qui di proporre una riflessione più ampia sul rimaneggiamento da parte di Ovidio delle principali coordinate spaziali elegiache, dalla città, alla campagna, al viaggio, nella chiave di una dialettica di fondo tra spazi interni, coincidenti principalmente con Roma stessa, e spazi esterni.

Nella mia tesi di dottorato, cui si farà più volte riferimento in queste pagine[2], ho  cercato di mostrare come l’universo spaziale properziano si strutturasse in modo assai coerente intorno all’Urbe, e costituisse un riflesso simbolico dell’ideologia dell’eros come esperienza totalizzante. Nella poesia di Properzio la città di Roma aveva rappresentato l’emblema spaziale della scelta biografica e poetica elegiaca, in quanto sede esclusiva della domina e degli amori della coppia. La rappresentazione degli spazi esterni, inclusa ogni forma di allontanamento o di viaggio, ripeteva nel dualismo ‘interno vs. esterno’ la polarità di fondo dell’elegia latina, che vedeva contrapposte una scelta di vita esclusivamente interna all’ethos elegiaco, ed una irriducibilmente esterna ad esso.

Nel corso di queste pagine vedremo nel dettaglio come il venir meno nell’elegia ovidiana di tale tensione irrisolta produca l’effetto di scompaginare la compattezza, e in certo senso la schematicità, dell’uso simbolico dello spazio ‘esterno’.

Scena erotica. Mosaico, I sec. d.C. da Centocelle. Berlin, Kunsthistorisches Museum.

L’appropriazione della topografia urbana

Già sul piano della contrapposizione tra lo spazio ‘interno’ della domus e quello costituito dai luoghi urbani della vita galante, un confronto diretto tra due elegie vicine per temi e spunti, quali Prop. 2, 6 e Ov. Am. 3, 4, potrà offrire una prima conferma – ed  esemplificazione sui testi – delle premesse qui esposte.

Come osservavo nella mia te[3], la ricorrenza dei dettagli urbanistici di Roma nelle elegie properziane è molto spesso associata alla prospettiva del tradimento, o comunque ad una disgregazione ‘centrifuga’ della coppia. In questa sede sarà possibile solo ricordare come in un’elegia come Prop. 2, 6 sia ravvisabile la contrapposizione ‘minimale’ tra lo spazio interno al limen, rispettato – anzi, amato – da personaggi come Alcesti e Penelope (insomma dagli exempla della fedeltà femminile: vv. 23-24); e quello esterno, identificato con Roma corrotta, cui invece appartiene Cinzia. Al tema di fondo dell’elegia properziana, ovvero l’inutilità della custodia per le puellae che non siano fedeli di per sé, unita all’identificazione dei mores libertini con lo spazio della città[4], risponde direttamente Ov. Am. 3, 4, riprendendo tra l’altro anche l’exemplum canonico di Penelope, e, ancor più significativamente, il ‘delicato’ riferimento ai miti di fondazione di Roma stessa visti quali radice prima dell’adulterio in città[5]. Ma il punto d’osservazione, dall’elegia properziana a quella ovidiana, è radicalmente mutato: nella prima, era il poeta stesso a paventare il tradimento della donna, e ad esprimere la propria rabbia in tirate moralistiche contro la corruzione dell’Urbe; in Ovidio, al contrario, il poeta veste i panni dell’amante, esortando anzi il vir tradito a rinunciare alla custodia della donna. Possiamo dunque apprezzare al meglio il rovesciamento dell’atteggiamento ovidiano nei confronti della realtà della metropoli ellenizzata: in Prop. 2, 6 il carattere libertino della vita cittadina costituisce una minaccia al foedus elegiaco, al punto da provocare la reazione ‘catoniana’ del poeta. In Ov. Am. 3, 4, invece, esso appare il presupposto su cui si fonda la stessa liaison amorosa: la ‘chiusura’ dell’amata nello spazio domestico non può più diventare, per un amante elegiaco dimentico della frequente condizione di exclusus amator in cui è costretto a versare, garanzia paradossale di fides da parte della donna. La furtiva Venus del poeta non tentenna più nell’identificarsi senza ripensamenti passatisti con lo spazio urbano e la sua vita galante.

Scena conviviale. Affresco, I secolo a.C. dalla Casa degli Amanti (IX 12, 6-8), Pompei.

 

Il ‘trionfo’ di questa compiuta appropriazione della dimensione urbana da parte del mondo elegiaco si celebra, come è noto, nel primo libro dell’Ars amatoria, nella sezione dedicata all’inventio della ‘preda’ amorosa (Ars 1, 41-264). La lista dei  ‘luoghi di caccia’, ricca di dettagli topografici, offerta in Ars 1, 67-78 ad uso degli uomini, viene riproposta quasi negli stessi termini, nel terzo libro, al pubblico femminile[6].

Inutile soffermarsi sull’evidente consacrazione di Roma come luogo dell’amore libertino all’interno del poema erotico-didascalico: essa non potrebbe essere più esplicita là dove (Ars 1, 51-52) si raccomanda al giovane in cerca di avventure di non spingersi oltre le mura della città (le uniche eccezioni si rintracceranno, più avanti, a Baia e nel tempio suburbano di Diana)[7], visto che Roma offre già quanto di meglio si potrebbe desiderare (vv. 51-60) – inutile, dunque, intraprendere a tal fine una longa… via (v. 52)[8]. Non sfugga peraltro come la consacrazione forse più incisiva della compenetrazione tra Roma, amore elegiaco e vita galante, che ritorna nell’Ars pochi versi più avanti rispetto a quelli citati (v. 60: mater in Aeneae constitit urbe sui), si ritrovava già nell’elegia degli Amores che meglio di qualunque altra aveva aperto la via all’esperimento letterario dell’Ars, ossia Ov. Am. 1, 8, (vv. 39-42), l’elegia della lena:

 

Forsitan inmundae Tatio regnante Sabinae

noluerint habiles pluribus esse viris;

nunc Mars externis animos exercet in armis,

at Venus Aeneae regnat in urbe sui.

 

Il punto focale di tale immagine, quello su cui inevitabilmente si è appuntato l’interesse degli esegeti, è costituito dal nodo inestricabile con cui l’amore elegiaco è legato a Roma, anzi alla stessa romanità incarnata dalla figura di Enea – con i suoi ovvi ‘risvolti augustei’[9]. Nelle parole della lena si celebra lo scioglimento di un nodo irrisolto dell’elegia tibulliana, ma soprattutto properziana: le remore o, se si preferisce, la diffidenza nei confronti degli aspetti della modernità incarnati nella ‘vita galante’ della metropoli. Il polo verso il quale la poesia properziana manifestava insieme attrazione e paura – la vita galante cittadina con le sue tentazioni ‘centrifughe’ rispetto alla monogamia elegiaca – viene ora identificata da Ovidio con l’amore elegiaco stesso: la riconciliazione dell’elegia con lo spazio dell’Urbs non potrebbe essere più completa[10].

 

Amore fra un satiro e una ninfa. Affresco, ante 79 d.C., dalla Casa di Cecilio Giocondo, Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Gli Amores: verso una retorica ‘aperta’ dello spazio

Per compiere un passo in avanti nell’analisi delle strutture spaziali dell’elegia erotica ovidiana, sarà il caso di interrogarsi ora riguardo al trattamento subito dal tema del viaggio a partire dagli Amores, per passare poi all’Ars amatoria, non senza una postilla riguardante i Remedia amoris.

All’interno degli Amores, tra le numerose variazioni sul tema, la più ‘ortodossa’, da molti punti di vista, è costituita dal viaggio di Corinna (Ov. Am. 2, 11)[11]. In primo luogo, l’elegia risponde estensivamente alle forme della ‘generic composition’ individuate da Francis Cairns: si tratta di un προπεμπτικόν (carme di buon viaggio) che include, dal v. 43 in poi, un προπεμπτικόν (componimento per il ritorno di un viaggiatore). Tale inclusione, argomenta Cairns, se pure non normativa per il genre del προπεμπτικόν (non si rinviene, ad es., in Prop. 1, 8), doveva però occorrere abbastanza spesso: almeno un augurio o comunque un’allusione al ritorno doveva essere topica nei componimenti odeporici, e “può dunque essere che l’inclusione di un προπεμπτικόν all’interno di un προπεμπτικόν costituisca, nella formula di quest’ultimo, un’alternativa in sostituzione di una allusione topica al ritorno”[12].

In secondo luogo, ‘ortodosso’ rispetto alle convenzioni elegiache appare il tema del rifiuto del viaggio in quanto motivo di separazione tra gli amanti. Ma in verità a quest’ultimo motivo è ispirato, di fatto, soltanto lo σχετλιασμός iniziale[13], mentre lo sviluppo del componimento dimostra una semplice adesione allo sviluppo canonico del sotto-genere προπεμπτικόν, non esclusi gli auguri di buon viaggio e la prefigurazione della scena del ritorno[14].

Se in 2, 11 Ovidio aveva scelto di ripercorrere i modelli retorici o comunque topici del προπεμπτικόν, tenendosi sostanzialmente vicino ai più tradizionali atteggiamenti elegiaci nei confronti dello spazio ‘esterno’ della navigazione, nell’altra elegia del viaggio all’interno degli Amores, ovvero 2, 16, il gusto della variazione e dell’incrocio tra spunti topici differenti porta ad una rielaborazione delle coordinate spaziali in relazione alla vicenda amorosa a dir poco sorprendente.

La situazione iniziale di Am. 2, 16 ci presenta Ovidio nella città natia, Sulmona, le cui laudes occupano la prima parte del componimento (Ov. Am. 2, 16, 1-10). Il distico rappresentato dai vv. 11-12 introduce ex abrupto in questo luminoso quadro campestre sia l’elemento erotico, sia quello che sarà d’ora in poi il tema dominante dell’elegia – la lontananza tra gli amanti:

 

At meus ignis abest. verbo peccavimus uno!

quae movet ardores est procul; ardor adest.

 

In uno studio dedicato soprattutto alla struttura dell’elegia in suddetta, Lenz ha argomentato che da questo distico di sapore e struttura epigrammatica Am. 2, 16 si sviluppa in due direzioni: senza l’amata, al poeta sarebbe sgradito persino stare in cielo; con lei, sarebbe disposto ad andare dappertutto[15].

Al livello sintagmatico, per quanto riguarda la successione dei temi e la loro simmetrica rispondenza reciproca, l’elegia presenta senz’altro una struttura più complessa[16], tuttavia la lettura di Lenz individuava già con efficacia il nodo centrale intorno a cui essa si dipana: la ‘costruzione’ dello spazio in relazione all’etica amorosa.

A tal fine Ovidio fa confluire nel testo una quantità impressionante di suggestioni  intertestuali, provenienti non solo dall’elegia romana, ottenendo il risultato solo in apparenza paradossale di riscrivere dalle fondamenta, in modo ormai di fatto indipendente dai modi, o dovrei dire dalle ossessioni elegiache, le coordinate spaziali in cui la sua liaison amorosa si iscrive.

Innanzitutto, Sulmona. Qui si colloca l’io poetico mentre l’amata è lontana. Già i versi incipitari, influenzati dalla topica dell’ἐγκώμιον χώρας[17], presentano lo spazio della terra dei Peligni come tutt’altro che periferico o sgradevole: la città di Roma è del tutto assente. L’Abruzzo rappresenta il centro a partire dal quale cui la voce poetica misura, dai vv. 11-12 in poi, la distanza dell’amata, e in cui, nella perorazione finale, il poeta invita la donna a raggiungerlo (Ov. Am. 2, 16, 47-52). Con una prima, evidente, libertà rispetto alle rigide convenzioni elegiache, il centro gravitazionale della vicenda amorosa viene traslato dalla metropoli al luogo natale del poeta[18].

L’affrancarsi di Ovidio dai canoni topici del genere ha stimolato le più diverse interpretazioni biografistiche dell’elegia, secondo il presupposto per cui ciò che non è topico deve avere una peculiare origine nella vita del poeta. Brandt, cogliendo peraltro giustamente il rapporto tematico tra questa elegia e la già discussa Am. 2, 11, immagina che la lontananza di Corinna sia dovuta proprio al viaggio per mare di cui il poeta aveva già cantato in quella elegia, e fa di 2, 16 di fatto un’appendice di 2, 11: al προπεμπτικόν seguirebbe dunque un κλητικὸς ὕμνος, una ulteriore ed accorata richiesta di ritorno[19]. Per parte propria, Della Corte reagisce all’interpretazione di Pöschl, fondata principalmente sull’analisi dei topoi letterari confluiti nell’elegia in esame, proponendo che essa non si rivolga a Corinna, bensì alla prima moglie di Ovidio, la quale, per via della propria infertilità, avrebbe avuto uno screzio col marito mentre i due si trovavano presso i rura paterna del poeta, e per questo si sarebbe ritirata a Roma[20].

Sarà forse più fruttuoso tornare ai motivi letterari e alla loro variazione e combinazione, partendo dalla suddivisione dell’elegia nelle quattro sezioni individuate dal Pöschl:

  1. Assenza dell’amata. La florida Sulmona è una sede insopportabile, ma lo sarebbero anche le sedi degli dèi (vv. 1-16);
  2. Presenza dell’amata. Dummodo cum domina, persino i viaggi più spaventosi sarebbero graditi al poeta (vv. 17-32);
  3. Ancora assenza dell’amata. Senza di lei persino Sulmona somiglia ai luoghi più orridi;
  4. Presenza (prefigurata) dell’amata. Sulmona diverrebbe il luogo del loro amore.

 

La situazione iniziale (il poeta in campagna invita qualcuno a raggiungerlo) è già, come osserva giustamente Pöschl,  un tema oraziano, ma tanto in  Hor. Carm. 1, 7 quanto in 3, 29 l’invito è rivolto ad amici (rispettivamente Munazio Planco e Mecenate), dunque del tutto estraneo ad un contesto erotico. La ricchezza dei riferimenti tematici dell’elegia è scandagliata più compiutamente dal commento di McKeown[21], il quale richiama innanzitutto, giustamente, le ‘elegie della lontananza’ di Tibullo e Properzio (Tib. 1, 3 e Prop. 1, 17). In entrambi i casi, però, ci trovavamo dinanzi allo schema usuale della costruzione elegiaca dello spazio: la sede della domina, e sede degli amori della coppia, rimaneva a Roma, mentre il poeta-amante se ne era colpevolmente allontanato, pagandone il fio. In Ov. Am. 2, 16, invece, è il poeta a trovarsi fuori Roma, eppure in uno spazio perfettamente conciliabile con l’amore elegiaco, mentre è la donna a viaggiare. Né alla condizione di Ovidio si confanno motivi quali quello del rifugio nel rus visto come remedium amoris[22], o come luogo in cui l’amata può almeno stare al riparo dalla corruzione cittadina (vd., ad es., Prop. 2, 19). La memoria letteraria di Ovidio si colloca invece probabilmente all’incrocio fra diverse suggestioni provenienti dal Corpus Tibullianum – tra di loro discordanti –, e tuttavia sembra non identificarsi con nessuna di queste. In primo luogo, lo stesso McKeown richiama le elegie ‘rustiche’ di Tibullo, nelle quali il poeta desidera vivere con la donna in una campagna idillica (ma mai connotata topograficamente), tuttavia in esse la prospettiva dell’unione tra gli amanti nel mondo campestre rimane sempre nell’àmbito del sogno irrealizzato: nella poesia tibulliana l’io poetico non si presenta mai, come in Ov. Am. 2, 16, come effettivamente residente in campagna, e, tanto meno, da lì invita una domina in viaggio a raggiungerlo[23]. Un altro scenario tibulliano confrontabile potrebbe individuarsi in Tib. 2, 3, dove Nemesi risulta quasi reclusa in campagna, ‘strappata’ dalla città e dunque all’amore di Tibullo, o ancora nelle pseudo-tibulliane Ps.-Tib. 3, 14 e 3, 15, in cui l’io poetico di Sulpicia dapprima lamenta di essere costretta a passare il proprio compleanno ad Arezzo, lontana dal suo Cerinto, e poi annuncia di aver ottenuto di rimanere a Roma[24].

Eppure il termine di raffronto più interessante per la nostra elegia ci potrà venire da un altro testo: la decima ecloga di Virgilio, nella quale Gallo, poeta-amante elegiaco, si rifugia nello spazio non-urbano, addolorato per la lontananza dell’amata.  Proprio le profonde differenze che separano Ovidio da quel modello ‘fondante’ per la concezione elegiaca dello spazio ne mostreranno la distanza dall’intera tradizione elegiaca che da quel paradigma, per molti versi, discendeva.

Gallo è stato abbandonato da Licoride, il cui viaggio per terre lontane e inospitali implica la prospettiva del tradimento e del discidium. La ‘fuga’ del poeta nello spazio rarefatto delle selve, gravido di significati metaletterari[25], non costituisce che un tentativo di salvarsi dalla pena amorosa ‘elegiaca’ nel mondo bucolico, e insieme, come abbiamo suggerito in conclusione del capitolo 3, di sfuggire alla propria stessa vita dedita al ‘duro Marte’, alle campagne militari.

Volto femminile. Affresco, ante 79 d.C. dalla casa di Fabio Rufo, Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

 

Viceversa, in Ov. Am. 2, 16 non ricorre alcun elemento direttamente riconducibile ad un viaggio della donna. Il poeta esordisce presentando se stesso a Sulmona, e il me tenet del verso incipitario (ripreso al v. 34, quando la scena ritorna nei rura paterna dell’Abruzzo) indica, se non “un soggiorno forzato”[26], almeno la lontananza dalla dimora usuale – che le convenzioni elegiache, non si dimentichi, volevano collocata a Roma. Lo svolgimento argomentativo dell’elegia mostra una propria coerenza, seppure non particolarmente perspicua, se immaginiamo che l’unico ‘viaggiatore’ cui si faccia riferimento sia Ovidio stesso. Egli è trattenuto nella terra natale, lontano da Roma (v. 1: me tenet); se anche fosse trasportato (v. 13: ponar) tra gli dèi, senza la donna non lo vorrebbe; siano maledetti i costruttori delle longae… viae (che l’hanno portato a Sulmona, v. 17); o almeno fosse stato dato al poeta di percorrere tali strade insieme alla sua donna: in questo caso anche le destinazioni più disagevoli, e persino un naufragio, sarebbero sarebbero stati tollerabili (vv. 18-32; al v. 17 si auspica che le puellae siano iuvenum comites nei viaggi, e non viceversa); ma, avendo il poeta raggiunto Sulmona senza la fanciulla amata, persino il viaggio in un luogo così ameno si trasfigura in un esilio nelle terre più orride (vv. 33-40). Eloquente, in tal senso, lo spergiuro rimproverato alla donna ai vv. 41-46: ella aveva giurato al poeta di essergli sempre comes, termine che, dopo il citato v. 17, ritiene molto della propria connotazione come ‘compagno di viaggio’, e invece l’ha lasciato partire solo – da qui l’invito a raggiungerlo (vv. 47-52).

Se dunque la prima parte della nostra analisi era incentrata sullo statuto di Sulmona intesa come rus, appare adesso più produttiva una chiave di lettura incentrata sul tema del viaggio, della lontananza[27]. Su questo piano le ‘novità’ di Ov. Am. 2, 16 rispetto alla tradizione elegiaca risultano più profonde di quanto non apparisse in precedenza.

Inizieremo col dire che in 2, 16 il poeta-amante viaggia. Nulla di veramente insolito, in ambito elegiaco, se non che sino ad Ovidio l’innamorato che ha intrapreso un viaggio, allontanandosi da Roma e dalla puella, è cosciente di avere così abbandonato lo spazio dell’eros, pagandone lo scotto (vd. Tib. 1, 3 o Prop. 1, 17). Oppure ha deliberatamente abbandonato, con Roma, la propria scelta esistenziale (vd. Prop. 2, 31). Le cose non stanno così per il protagonista di 2, 16. In linea con le convenzioni del genere suona la topica invettiva pronunziata ai vv. 15-16 contro le longae viae (iunctura questa che abbiamo imparato a riconoscere come marca ricorrente di una precisa ossessione elegiaca) e i loro costruttori:

 

Solliciti iaceant terraque premantur iniqua,

in longas orbem qui secuere vias!

 

Molto meno lo è la ‘conciliazione’ con esse proposta ai versi seguenti (vv. 17-18):

 

Aut iuvenum comites iussissent ire puellas,

si fuit in longas terra secanda vias!

 

La prospettiva del viaggio, persino nei suoi aspetti più ‘orridi’, viene recuperata all’orizzonte elegiaco a patto che l’unione tra gli amanti si perpetui anche durante il suo svolgimento[28]. Il che implica la perdita, da parte dello spazio ‘interno’ di Roma, del proprio statuto di dimensione esclusiva dell’esperienza amorosa: a differenza di Tibullo in Feacia, o di Properzio in balia della tempesta in 1, 17, Ovidio non desidera il ritorno; a differenza del Properzio in rotta per Atene, egli non rinuncia all’eros. Semplicemente, pur dopo aver raffigurato il proprio spostamento nei termini di un vero e proprio viaggio – si veda la maledizione alle longae viae, oltre all’intera sezione dedicata a viaggi ben più disagevoli di quello da lui compiuto (vv. 19-32) –, conclude l’elegia prefigurando la ricreazione dell’armonia tra gli amanti in uno spazio diverso da quello canonico della metropoli[29].

Considerato che l’ipotesi più economica per la ‘localizzazione’ della puella in Am. 2, 16 rimane quella di immaginarla ancora a Roma – il testo non offre segnali che vadano in una direzione diversa –, il rimprovero rivolto dal poeta nella conclusione del componimento suona particolarmente paradossale[30]: in ultima analisi, ella è rimbrottata per non aver voluto allontanarsi da Roma. Questo ruolo di ‘accompagnatrice’ era già stato assunto sia da Licoride, sia da Nemesi e Cinzia[31], ma qualcosa di importante è avvenuto: nella tradizione dell’elegia latina l’amante accompagnato in viaggio per horrida castra, o nei rura, o nella gelida Illiria, era il dinamico rivale dell’amante elegiaco, il quale rimaneva invece prigioniero dalla propria desidia.

A venir messo in crisi, dunque, non è solo – e forse non è principalmente – il ruolo centrale della città di Roma nella strutturazione delle coordinate spaziali elegiache, bensì l’intero sistema di opposizioni sulla scala ‘interno vs. esterno’, staticità vs. dinamicità. Nella poesia ovidiana, come ha argomentato nel modo più convincente Labate parlando di ‘retorica della contiguità’ e di ‘riconciliazione’ dell’elegia con la società, si allenta la tensione di fondo del Lebenswahl, la tensione da cui scaturivano e si alimentavano, oltre alle mille contrapposizioni di cui si sostanzia l’‘ideologia elegiaca’, anche tali forme di polarizzazione simbolica dello spazio[32].

L’amante ovidiano, già negli Amores, e in modo ancor più evidente nell’Ars, se da una parte vive oramai la dimensione dell’urbanitas senza più contraddizioni, dall’altra, non più soggetto alla schiavitù della desidia ed alla dimensione totalizzante dell’eros, paradossalmente non avverte più il bisogno di ‘chiudere’ il proprio universo spaziale negli angusti confini dei moenia cittadini.

Donna seduta con kithara. Affresco, 50-40 a.C. ca. dalla Villa di P. Fannius Synistor, Boscoreale.

 

Viene così pienamente recuperato all’elegia erotica un tema sin qui dotato di un perimetro limitato e problematico: l’offerta da parte dell’amante di affrontare qualunque viaggio per raggiungere l’amata o per non lasciarla sola[33]. Le tracce di tale motivo si potrebbero al più ravvisare nel contesto didascalico dell’elegia tibulliana di Priapo (Tib. 1, 4, 41-46: in questo caso si tratta di un puer), nell’elegia properziana del viaggio (e del naufragio) degli amanti (Prop. 2, 26b), o ancora nelle elegie della rusticatio forzata come Tib. 2, 3 o Prop. 2, 19, in cui il poeta è costretto ad un trasferimento cui si mostra, almeno all’inizio, restio. Da qui muove probabilmente Prop. 3, 16, laddove sull’iter notturno per raggiungere Cinzia a Tivoli si addensano foschi presagi di morte. In continuità con tale filone possiamo collocare l’elegia ovidiana del fiume, Ov. Am. 3, 6, la cui singolare combinazione del motivo properziano della ‘convocazione fuori porta’ con quello del παρακλαυσίθυρον merita una particolare attenzione.

Il poeta sta raggiungendo la sua donna in un luogo imprecisato, ma evidentemente fuori dalle mura della città, dato che la sua via è impedita da un torrente in piena. L’occasione viene messa a frutto per rivolgere al rigagnolo una vera e propria supplica, del tipo di quella rivolta allo ianitor in Ov. Am. 1, 6[34]. La peroratio ovidiana si trasforma ben presto in un catalogo mitologico erudito, culminante nella storia di Ilia e del fiume Aniene[35]. È evidente come Ovidio, con l’enfatizzare la tensione ‘dinamica’ e le difficoltà del suo iter anche tramite il ricorso alla memoria mitica di Perseo e dell’infaticabile viaggiatore Trittolemo (Ov. Am. 3, 6, 9-16), ci offra con questa elegia un altro esempio della propria retorica dello spazio, ormai lontanissima dalla staticità elegiaca e dai suoi significati esistenziali. Forse qualche suggestione in più potremmo derivare dalla proprio lettura dell’elegia come estrema variazione del motivo dell’exclusus amator.

Va da sé che tale motivo mantiene la propria salda presenza nell’elegia ovidiana, soprattutto come rimando ad un topos divenuto una vera e propria marca di genere per l’elegia latina[36], mentre le pagine dedicate da Copley ad Am. 1, 6 ne denunciano la mancanza di pathos e la natura “imitativa ed arcaistica”, venata da esagerazioni parodiche[37]. Eppure, come abbiamo avuto occasione di dire, il ruolo-chiave del παρακλαυσίθυρον nella poesia elegiaca inteso come simbolo della condizione esistenziale dell’innamorato consisteva proprio nella sua capacità di simbolizzare lo ‘scacco’ esistenziale subito da quest’ultimo, i vincla che lo tengono legato ad uno spazio, quello dei limina dell’amata, che non è quello del possesso pieno ed appagante, ma da cui tuttavia non può allontanarsi: un simbolo di quell’immobilità proveniente dalla desidia. In un’elegia come Am. 3, 6, al contrario, la supplica dell’innamorato (elemento che rimanda direttamente alla topica della vigilatio ad clausas foras) è giocosamente rivolta ad una sorta di custos inanimato che impedisce il viaggio dell’amante fino alla donna. Ci troviamo di fronte ad una sorta di rovesciamento dei significati simbolici del παρακλαυσίθυρον: non più una tensione ‘centripeta’, destinata a rimanere insoddisfatta e dunque emblema della desidia dell’innamorato, bensì una spinta dinamica, ‘centrifuga’, arrestata solo per il momento da un impedimento fisico contingente[38].

L’elegia degli Amores in cui la rifondazione ovidiana delle categorie fondamentali dell’elegia latina si esprime forse nel modo più compiuto è Am. 1, 9, nella quale “il rovesciamento della tradizione elegiaca è naturalmente operato da Ovidio in piena, esibita consapevolezza: si trattava di contraddirla in un punto fondamentale, l’atteggiarsi a poeta maledetto, prigioniero compiaciuto della nequitia[39]. Non è difficile dimostrare come in un componimento così importante dal punto di vista ideologico la retorica dello spazio giochi un ruolo fondamentale: tutta la sezione centrale del lungo parallelo tra amante e soldato è occupata dall’assimilazione alla nuova etica erotica ovidiana delle categorie spaziali elegiache (Am. 1, 9, 7-20).

Il passaggio si apre e si chiude con due riferimenti al motivo dell’exclusus amator (vv. 7-8 e 19-20), ma resta sostanzialmente incentrato sul tema del viaggio, e più precisamente della longavia (v. 9): quest’ultima conserva i topici connotati negativi che la tradizione elegiaca aveva fissato per lei, ma proprio in virtù di questi si trasforma da simbolo del rifiuto elegiaco dello spazio esterno, e dunque della vita attiva del cittadino-soldato, in emblema di un ethos amoroso fondato sulla dinamicità, divenuto ormai paragonabile alla vita militare anche da questo punto di vista[40]. Come abbiamo notato, in Am. 2, 11 il viaggio di Corinna era dapprima avversato, quindi, senza particolare pathos, accettato in conformità alle regole della topica del προπεμπτικόν; in Am. 2, 16 il trasferimento di Ovidio a Sulmona veniva accettato come evento traumatico, ma ‘rimediabile’ tramite un analogo spostamento dell’amata; e nell’elegia del torrente, Am. 3, 16, l’iter campestre di Ovidio è giustificato dalla necessità di raggiungere l’amata. Quando in Am. 1, 9 il viaggio diviene addirittura marca identificatrice dell’amore elegiaco, siamo ormai solo ad un passo dai precetti di Ars 2,  223-250, in cui la disponibilità a muoversi viene prescritta a chiunque cerchi di realizzare il modello, di ormai lontana origine elegiaca, del perfetto amante[41].

 

Scena erotica. Lampada, terracotta, I sec. d.C. Lyon, Musée gallo-romain de Fourvière.

 

Ma, prima di giungere all’approdo didascalico della retorica ovidiana dello spazio, sarà opportuno completare il quadro relativo agli Amores, mostrando come già nella prima silloge poetica ovidiana lo sfaldarsi della compattezza dell’universo spaziale elegiaco – finora saldamente costruito su una raggiera di opposizioni polari aventi come centro la città di Roma in quanto sede dell’amata – riguardi a più livelli la costruzione dello spazio data dal Sulmonese. A partire dalla rimozione della diffidenza nei confronti delle ‘gite fuori porta’: quei viaggi nei sobborghi nelle vicinanze di Roma che in elegie come Prop. 2, 32 o 4, 8 la domina compieva da sola, aprendo con la propria fuga dallo spazio urbano dell’amore elegiaco prospettive (anche assai concrete) di infedeltà, quelle stesse escursioni ora Ovidio le compie con la propria donna, che però è ormai, in Am. 3, 13, la moglie[42].

Anche sul rapporto con l’Egitto ci si potrà soffermare brevemente, pur limitandoci alla poesia elegiaca degli Amores. Inutile ricordare come per la cultura romana del I sec. a.C. esso abbia rappresentato un referente insieme culturale e politico con cui confrontarsi inevitabilmente[43], ed è noto il ruolo che, specialmente dopo Azio, l’Egitto assume nella propaganda augustea. Per questi motivi le lodi di Tibullo al Nilo e al dio egiziano Osiride all’interno dell’elegia per il compleanno di Messalla (Tib. 1, 7, 23-54) hanno sviluppato un vivace dibattito critico, in cui la scelta di ‘lodare’ l’Egitto è stata ricollegata, volta per volta, all’influsso della poesia celebrativa di Callimaco[44]; ad una strategia encomiastica nei confronti di Messalla che passa attraverso un accostamento con il dio Osiride (quasi un’apoteosi poetica)[45]; ad una volontà di rendere omaggio alla politica egiziana di Augusto[46]; o piuttosto ad un atto di libertà del poeta legato al circolo di Messalla Corvino nell’ignorare il ‘tabù politico’ dell’Egitto[47]. Anche l’altra menzione tibulliana dell’oriente egiziano (quella dei riti isiaci in 1, 3, 23-32) ha attratto l’attenzione degli studiosi, in quanto l’invocazione alla dea per la propria salvezza segue immediatamente una dichiarazione di scetticismo sull’efficacia dei rituali di Iside praticati da Delia, ed essa appare in contrasto – forse ironico – con i riferimenti presenti nel testo alla religiosità romana[48], tanto da generare il sospetto che in Tib. 1, 3 si manifesti una vera e propria ostilità nei confronti dei culti orientali così à la page nella Roma contemporanea[49]. Sul versante properziano, chiara risulta l’adesione alla propaganda anti-egiziana augustea nella notissima elegia ‘aziaca’ (vd. Prop. 3, 11, 29-72), ma non si dimentichino le motivazioni tutte ‘personali’ del divertito risentimento del poeta contro il culto egiziano di Io (Prop. 2, 33, 1-22). Qui lo spunto tibulliano (vd. Tib. 1, 3, 25-26) della diffidenza verso culti che prescrivano periodi di castità rituale viene ampliato ed esplicitato, generando una diretta invettiva contro la stessa terra nilotica, che arrivano a toccare il nodo scoperto del contrasto Roma-Egitto (Prop. 2, 33, 20: cum Tiberi Nilo gratia nulla fuit).

Niente dell’ambiguità tibulliana né dell’ostilità properziana sopravvive nelle due menzioni dell’Egitto all’interno degli Amores. Le preghiere rivolte ad Iside in Am. 2, 13 da un Ovidio preoccupato per la salute di Corinna non sembrano velate dallo scetticismo o addirittura dalla celata polemica di Tib. 1, 3: il culto di una delle principali divinità egiziane è adottato senza alcun grado di problematicità, e ad esso non è accostata alcuna divinità quiritaria – come Lucina – bensì la greca Ilizia[50]. Il Nilo citato in Am. 3, 6, 39-42 come nume fluviale innamorato convive a pochi versi di distanza dal ‘romano’ Aniene assai meglio di come come Properzio gli avesse permesso di fare col Tevere in 2, 33, 20. Ed in Am. 2, 2, 25-26 nel tempio di Iside, come nei teatri, si celebrano i riti mondani degli incontri galanti di cui il poeta viveur si compiace, e verso cui invita il custos Bagoo ad essere tollerante. Il culto egiziano alla moda è ridotto a semplice pretesto per convegni furtivi: la poesia ovidiana è lontana abbastanza dal trauma delle guerre civili da poter obliterare tutte le tensioni simboliche ad esso collegate, ed assimilarlo alla propria retorica dell’urbanitas.

 

Cerimonia religiosa. Mosaico, I sec. a.C. ca. dal «Mosaico con scena nilotica». Palestrina, Museo Archeologico Nazionale.

 

Anche sul piano dell’uso simbolico della metafora della navigazione il confronto con Properzio mostra la relativizzazione delle simbologie spaziali elegiache. Su tale tema avevamo concluso il nostro capitolo properziano, indicando come il viaggio del poeta verso Atene in Prop. 3, 21 divenisse il suggello dell’allontanamento dallo spazio dell’amore, e dunque del discidium definitivo; e come, su un diverso piano di astrazione, in Prop. 2, 24, 15-18 l’immagine dell’approdo della nave al porto rappresentasse la conclusione simbolica del viaggio del poeta fuori dall’ethos elegiaco, e il suo votarsi alla Bona Mens. Appressandoci alla fine della raccolta ovidiana in tre libri degli Amores, leggendo quella che si presenta come l’elegia ovidiana del discidium, ovvero Am. 3, 11, il testo ci dà l’impressione (surrogata da un preciso rapporto intertestuale) di trovarci di fronte allo stesso ‘viaggio’ metaforico dell’ultima elegia del terzo libro di Properzio (Ov. Am. 3, 11, 29-30)[51]:

 

Iam mea votiva puppis redimita corona

lenta tumescentes aequoris audit aquas.

 

Se non che, già in porto e con la poppa inghirlandata per il festoso ormeggio alle sponde della guarigione dall’amore, la nave di Ovidio subisce solo tre versi dopo un inatteso ‘dirottamento’ (vv. 33-38). L’amante ha cambiato idea, la bellezza della donna lo richiama dalla sua fuga (v. 37: nequitiam fugio – fugientem forma reducit). La nave si diriga ora piuttosto, a vele spiegate, verso l’amore della donna (vv. 51-52):

 

Lintea dem potius ventisque ferentibus utar,

ut, quam, si nolim, cogar amare, velim.

 

Di fronte al repentino mutamento di tono tra le due sezioni dell’elegia, non è mancato chi abbia diviso la tràdita 3, 11 in due elegie distinte (a partire dal v. 33, appunto)[52]. Ma piuttosto che davanti all’errore di un copista ci troveremo più probabilmente davanti alla volontà ovidiana di variare, svuotandola di pathos, l’ultima espressione properziana di quella retorica ‘chiusa’ dello spazio che aveva caratterizzato il genere elegiaco[53].

Pesca degli amorini. Mosaico, III-IV sec. d.C. Piazza Armerina, Villa del Casale.

 

L’Ars amatoria: una grammatica dell’eros ‘dinamico’

Il naturale approdo della presente analisi è costituito dall’Ars amatoria, laddove, come già anticipato, è possibile vedere la nuova retorica ovidiana degli spazi ‘esterni’ farsi una grammatica, divenire prescrittiva.

Come ribadito più volte dalla letteratura critica, il discrimine di fondo tra l’innamorato elegiaco e il suo doppio didascalico consiste nel ribaltamento dell’atteggiamento passivo dell’amante elegiaco in quello attivo del doctus amator: il primo è preda della propria passione, è ostaggio della propria stessa desidia, irrimediabilmente (quanto orgogliosamente) non integrato con il modello di la vita attiva del cittadino romano; il secondo mira  a reggere le fila del gioco amoroso, ad acquisire i mezzi per poter gestire la storia d’amore[54].

Al giovane del bel mondo romano che intenda fare esperienza dell’amore ‘elegiaco’ si richiede in primo luogo di andarsi a cercare l’oggetto del proprio desiderio. L’intera sezione dell’inventio nel primo libro costituisce un invito all’attivismo, e si apre proprio sulla necessità della mobilità anche solo per individuare preliminarmente l’oggetto della ‘caccia’ amorosa (Ars 1, 45-48)[55].

In questo stadio, l’àmbito delle peregrinazioni del giovane in cerca di amori è esplicitamente limitato all’Urbs ed alle sue dirette dipendenze: non è necessario intraprendere una longa via per trovare quanto a Roma è presente in abbondanza  (Ars 1, 51-60). Ma ciò non toglie che la metafora della mobilità, anzi, propriamente, del viaggiare, impronti di sé ad un livello profondo e pervasivo l’intero poema, giacché questo è attraversato sin dal proprio incipit dall’immagine ricorrente e, direi, unificante dell’amore come viaggio, ovvero navigazione o corsa di un carro. Per i molti esempi ravvisabili, basti qui richiamare solo il notissimo incipit dell’opera (Ars 1, 1-8)[56].

Anzi, la stessa poesia del διδάσκαλος amoroso è continuamente messa in relazione al medesimo campo metaforico, con un effetto di evidente analogia nei confronti dell’oggetto della didassi stessa[57].

Nonostante il secondo libro dell’Ars riguardi le tecniche per mantenere l’amore della donna già conquistata, proprio in esso troviamo, all’interno della sezione dedicata all’obsequium, un passaggio che rappresenta, in rapporto diretto con Amores 1, 9, la più compiuta enunciazione della risemantizzazione ovidiana delle categorie spaziali elegiache[58] – si tratta di Ars 2, 223-250. Su di esso mi sono soffermato in un recente articolo, le cui conclusioni mi limiterò qui a riassumere brevemente[59].

Nei passaggio citato dell’Ars il διδάσκαλος raccomanda al proprio discepolo di mostrare la propria sollecitudine verso l’amata mostrandosi pronto ad affrontare qualunque tipo di viaggio o di spostamento per raggiungerla o per accompagnarla. Ma da un’analisi più dettagliata del passaggio emerge come gli itinera prescritti da Ovidio rimandino direttamente ed esclusivamente – attraverso precise dinamiche intertestuali – alle non molte forme di mobilità di cui l’amante desidiosus aveva fatto esperienza nella produzione elegiaca precedente.

Ciascuno degli elementi che costituiscono il brano didascalico, non esclusa la figura del miles amoris, affonda le proprie radici nella tradizione letteraria elegiaca, eppure la strategia testuale messa in atto mira, tramite un’accorta collezione dei τόποι che già in quella tradizione costituivano isolate aperture verso una concezione più dinamica dello spazio, a sovvertire – proprio per mezzo dell’alfabeto della topica elegiaca – il principio di ‘chiusura’ che aveva caratterizzato la costruzione simbolica elegiaca dello spazio prima degli Amores di Ovidio[60].

Lotta fra due amorini gladiatori. Mosaico, II-III sec. d.C. villa di Bignor, Pulborough.

 

Postilla: i Remedia amoris, ovvero l’ultimo rovesciamento

Soffermandoci sull’Ars amatoria, abbiamo individuato il compimento di un processo i cui prodromi avevamo individuato negli Amores: esaurita ormai la tensione ideale che scaturiva dalla retorica elegiaca dell’esclusione, il poeta-amante degli Amores si ritrova libero dai vincoli che lo tenevano imprigionato a categorie spaziali anch’esse ‘esclusive’, chiuse, statiche. Per il doctus amator dell’Ars, poi, divenuto pienamente protagonista della propria vita sentimentale, l’orizzonte spaziale ‘aperto’ del viaggio diviene non solo una possibilità, ma una prescrizione identitaria: l’amante, per essere tale, deve essere sempre disposto a muoversi. La conquista dello spazio esterno è il presupposto per garantire successo alla conquista della puella.

Se non che, nell’ulteriore ‘postilla’ che Ovidio ha voluto aggiungere alla propria produzione elegiaca in diretta continuità (ed opposizione) con l’Ars amatoria, ovvero nei Remedia amoris, quella che abbiamo definito la nuova retorica ovidiana dello spazio elegiaco viene completamente messa da parte; l’intero processo di rielaborazione delle categorie spaziali elegiache, le cui forme anche complesse abbiamo seguito nelle pagine precedenti, ignorato – in favore di un vero e proprio ritorno alle più ‘ortodosse’ simbologie spaziali elegiache.

Ai vv. 135 ss. dei Remedia, come è noto, si sviluppa la trattazione dell’otium desidiosum (Rem. 149-150):

 

Desidiam puer ille sequi solet, odit agentes:

da vacuae menti, quo teneatur, opus.

 

In scoperta contrapposizione alla γνώμη esposta nel passaggio sopra discusso dell’Ars amatoria sull’amante ‘dinamico’ (Ars 2, 229: Amor odit inertes), viene restaurata la polarità tra amore e desidia da una parte, bona mens ed attivismo dall’altra. La riattivazione, nella rappresentazione dell’amore elegiaco, della tensione antinomica di fondo propria della ‘retorica dell’esclusione’ ricostruisce l’intero sistema di opposizioni ideologiche ad essa collegato, e tramite questo la strutturazione polarizzata dello spazio. Il Foro, così ‘problematicamente’ recuperato all’ethos elegiaco nell’Ars amatoria torna luogo anti-elegiaco per eccellenza – ad esso spetta l’onore della prima menzione tra gli spazi che possono esorcizzare lo spettro dell’amore (Rem. 151-152), seguito dallo spazio esterno delle campagne militari (vv. 153-154): la trasformazione di Egisto in adulter è stata dovuta proprio all’impraticabilità di questi due spazi (vv. 163-168).

Anche i rura riguadagnano la loro valenza ‘anti-erotica’, tornando a rappresentare, mercé uno stretto contatto (intertestuale, oltre che ideologico) con il mondo georgico virgiliano, il contraltare delle deliciae cittadine (vv. 169-198), e con essi le silvae, il luogo della caccia (Rem. 199-208)[61]. Ma il culmine della sezione dei Remedia dedicata all’uso dello spazio è rappresentato, com’è ovvio, dalle longae… viae (vv. 213-248), dai viaggi nei quali non bisogna neanche voltarsi a guardare Roma, la sede perniciosa dell’amore elegiaco, dietro le proprie spalle (v. 223).

Il senso di tale ulteriore ribaltamento delle strutture simboliche dello spazio non può essere compreso se non leggendolo nel quadro più ampio dei rapporti tra i Remedia amoris e il suo precedente diretto, l’Ars amatoria[62]. Il poemetto sui rimedi all’amore, in diretta e dichiarata opposizione alla precedente didascalica erotica ovidiana, assume l’amore – l’amore elegiaco – come idolum negativo. La sua strategia retorica è dunque inversa rispetto a quella dell’Ars. Mentre quest’ultima proponeva, sulla scia degli Amores, una conciliazione, e addirittura una prospettiva di commensurabilità tra eros elegiaco e morale comune, i Remedia, al contrario, devono tornare ad una ‘retorica della separazione’ – se è vero che, anche al livello delle strategie retoriche, il primo passo per combattere un nemico è la sua ‘costruzione’ simbolica, e quest’ultima passa attraverso la definizione dell’identità reciproca attraverso un sistema di opposizioni. In questo quadro non desta stupore che vengano recuperate anche dal punto di vista delle simbologie spaziali le categorie elegiache che tra gli Amores e l’Ars amatoria erano state così abilmente svuotate di tensione e significato, e poi persino mutate di segno: nella poesia di Tibullo o di Properzio, e poi ancora nella peculiare strategia simbolica dei Remedia amoris, tali categorie si presentavano come proiezione spaziale perfettamente coerente di un universo poetico, come è quello elegiaco prima della profonda revisione ovidiana, che si sostanzia a livello ideologico di tensioni ed antinomie laceranti.

 

 

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Note:

[1]     L’intero saggio di Labate 1984 andrà tenuto costantemente presente, e in modo particolare i primi due capitoli (Poetica ovidiana dell’elegia: la retorica della città e Amore e società: la riconciliazione dell’elegia). Sul ‘gusto modernizzante’ ovidiano e sulla sua adesione finalmente piena al mondo dell’urbanitas, simboleggiata dall’ideale del cultus, imprescindibili rimangono le pagine di Zinn 1968, 3-16, di La Penna 1979, 181-205 e, per l’Ars amatoria, di Scivoletto 1976, 57-88. Griffin 1976, 87-105 offre una discussione stimolante e non banale sulla concretezza della “life of luxury” in età augustea e sulla sua rappresentazione letteraria, mentre Holzberg 1992, 69-79 ha scritto pagine lucide e centrate sulla ‘riscrittura’ dell’ethos dell’amore elegiaco in Ovidio. Sull’importanza della separazione tra i dominî dell’eros e del mos maiorum, si vedano ancora La Penna 1979, 202-205 e Pianezzola 1999 (c), 157-159. Quest’ultimo pone l’accento sulla “doppia morale” e sull’“autolimitazione” dello spazio di validità dell’etica erotica nell’Ars amatoria di Ovidio. Altrove, Pianezzola 1999 (a), 9-42, pur riconoscendo l’esistenza di “tendenze anticonformistiche” nell’Ars, conclude escludendo da parte di Ovidio una consapevole e coerente opposizione al regime augusteo (vd. in particolare a 26). Infine, lo studio di Viarre 1988, 89-105 risulta ricco di suggestioni ma focalizzato sulle Heroides, le Metamorfosi e le opere dell’esilio.

[2]     Longa via. Rappresentazioni delle simbologie spaziali nell’elegia augustea, Dottorato di ricerca in Filologia e Cultura Greco-latina, XVII ciclo, Università di Palermo. Vd. in particolare il capitolo 4, intitolato Properzio: Roma, l’amore, il viaggio.

[3]     Si veda in particolare il paragrafo 4.2.3, intitolato I luoghi della città come spazio ‘esterno’ all’ethos elegiaco.

[4]     Sui punti di contatto tra le due elegie, vd. il commento di Brandt 1911, 152-154.

[5]     Si confronti la menzione del ratto delle Sabine in Prop. 2, 6, 19-22 con quella del crimen (l’unione tra Marte e Rea Silvia) da cui è nata la stirpe dei Romani in Ov. Am. 3, 4, 39-40.

[6]     Vd. Ars 3, 385-396. Sulle connessioni con il regime augusteo di alcuni dei monumenti citati, vd. il commento di Hollis 1977 43-48 ad Ov. Ars 1, 67-262, oltre che Labate 1984, 81-85 (con particolare attenzione all’evergetismo dell’intera famiglia del principe) e Wildberger 1998, 39-42. Assai diversa dalla lettura di Labate appare poi quella di Klodt 2001, 33 n. 80, la quale parla, per le rassegne topografiche dell’Ars ovidiana, di una ‘degradazione’ dei centri monumentali augustei al rango di “punti di incontro tra i sessi”, riconducendo l’operazione ad un’estraneità del poeta agli “obiettivi politico-morali di Augusto”.

[7]     Vd. Ars 1, 255-262.

[8]     Il viaggio, fin qui, rimane escluso dall’ottica dell’eros, ma solo in virtù della αὐτάρκεια della città in fatto di bellezze femminili. Su questa peculiare declinazione del concetto di autosufficienza, e in generale sulle laudes Romae ovidiane, in relazione ai precedenti greci (le lodi dell’Attica) e romani, e in particolare in rapporto alle laudes Italiae di Prop. 3, 22, rimando alla dettagliata analisi di Labate 1984, 51-54, nonché al commento di Hollis 1977, 42. Negli Amores e nell’Ars anche l’insistenza sull’immagine della folla, evidenziata da Viarre 1976, 11-13, costituisce un aspetto della presenza della vita metropolitana nella poesia del Sulmonese, così come il fascino avvertito dal poeta dinanzi al fasto della Roma ‘aurea’ di Augusto (vd. Bonjour 1980, 221-230). Poco aggiungono in materia le pagine di Paratore 1967, 31-34.

[9]     Piuttosto che leggere dietro l’arguzia ovidiana un atteggiamento irriguardoso verso la propaganda ufficiale e il militarismo augusteo, come suggeriscono La Penna 1979, 189 (il quale parla di “elegante parodia”) e McKeown 1989, 222 ad Ov. Am. 1, 8, 41-42, oppure con Hollis 1977, 43 ad Ov. Ars 1, 60 la prospettiva di “accostamenti irriguardosi” tra il principe e Cupido (possibilità sfruttata, ad esempio in Ov. Am. 1, 2, 51), preferisco aderire all’impostazione di Labate 1984, 51-52, secondo la quale l’adesione entusiastica di Ovidio alla Roma augustea, seppure connotata da toni ‘frivoli’, mondani, convive, secondo la logica della ‘retorica della contiguità’, con i temi dell’ideologia augustea, costituendone anzi un originale, ma sostanzialmente non dissonante, controcanto: “La lode frivola di un poeta d’amore e la lode solenne di un poeta civile non devono contrapporsi, l’una non nega l’altra nella figura dell’ironia: sono invece due modi, letterariamente e culturalmente diversi, di tradurre lo stesso consenso, la stessa adesione ad presente”.

[10]   Sull’elegia della lena e sul ruolo di quest’ultima nell’ideologia elegiaca ‘riformata’ di Ovidio si vedano Labate 1977, 285 e Id. 1984, 89 e n. 53. Per una trattazione più ampia della figura della ruffiana in relazione soprattutto ai modelli greci e del teatro latino, si vedano Sabot 1976, 199-209 (più centrato su Ov. Am. 1, 8 e l’intratestualità ovidiana), Fedeli 1995, 307-317; Id. 1999, 32-40, oltre ai commenti di Brandt 1911, 60-61 e soprattutto di McKeown 1989, 198-201. Andrà ancora ricordato il finissimo saggio di Romano 1980, 269-292, incentrato sui rapporti tra Am. 1, 8 e l’‘elegia didattica’ dell’Ars amatoria.

[11]   Qui e nel prosieguo della trattazione la numerazione delle elegie del secondo libro degli Amores ovidiani dalla nona in poi sarà quella dei manoscritti (per cui l’elegia il cui incipit è Tu mihi, tu certe, memini, Graecine, negabas rappresenta la decima elegia del libro).

[12]   Cfr. Cairns 1972, 160. L’elegia è analizzata, per la topicità di molti suoi singoli aspetti, in più punti del saggio di Cairns sulla Generic composition: vd. Id. 1972, 53; 57; 121-122; 159-162. Ulteriore discussione sull’elegia nel quadro del genere del προπεμπτικόν nell’introduzione all’elegia di McKeown 1998, 222-224, con rimandi  bibliografici ed una rassegna di testi poetici e retorici di riferimento.

[13]   Beninteso, anche la rappresentazione a tinte fosche del viaggio per mare nella parte iniziale del componimento (vv. 1-32) svela ad un’analisi più ravvicinata la propria natura topica, a partire dall’incipit sull’impresa degli Argonauti, gravido di una memoria intertestuale che trova nel carme 64 di Catullo lo snodo verso memorie precedenti greche e latine (vd. McKeown 1998, 224-228).

[14]   Ciascuno di tali elementi, peraltro, ricorreva nella tradizione elegiaca più influenzata dal genre del προπεμπτικόν: gli auguri di buon viaggio successivi allo σχετλιασμός compaiono in Prop. 1, 8, 17-20 dopo le maledizioni del poeta dirette al viaggio dell’amata, mentre la fantasia del ritorno (ma a ruoli rovesciati, con l’innamorato colpevolmente in viaggio) occupa i versi finali (vv. 89-94) anche di Tib. 1, 3: si noti in particolare la consonanza tra Tib. 1, 3, 93-94 e Ov. Am. 2, 11, 55-56, non sfuggita ai commentatori (vd., e. g., Brandt 1911, 118 e McKeown 1998, 261-262).

[15]   Vd. Lenz 1959, 59-68. In séguito lo stesso studioso (in Id. 1962, 150-153) ha risposto all’analisi contraria di  Pöschl 1979, 257-267 (apparso originariamente nel 1959), aggiungendo precisazioni sulla simmetria aritmetica delle sezioni di versi individuabili nel componimento.

[16]   Cfr. la più articolata lettura di Pöschl 1979, 257-267.

[17]   Per cui McKeown 1998, 330 rinvia a Menandro Retore 3, 387, 10 ss.

[18]   Neanche la Sirmione o la Verona di Catullo avevano goduto di tale privilegio: in Cat. 68, 27-40 viene anzi marcata nel modo più amaro l’estraneità di Verona tanto alla vita della poesia quanto alla liaison con Lesbia.

[19]   Vd. Brandt 1911, 23-24. Sull’elegia come κλητικὸς ὕμνος, vd. anche McKeown 1998, 329.

[20]   Cfr. Della Corte 1985, 367-371 (e Pöschl 1979, 257-267).

[21]   Vd. McKeown 1998, 328-366. Una valutazione equilibrata dell’importanza delle singole fonti per questo componimento, e insieme dell’originalità ovidiana, offre Scivoletto 1976, 25-27.

[22]   Anche questo riferimento, come il precedente alle elegie del distacco in Tibullo e Properzio, è in McKeown 1998, 328. Per quanto riguarda il remedium amoris in campagna o nell’attività venatoria, il commentatore richiama naturalmente Verg. Buc. 10, 50 ss., oltre a Prop. 1, 18 e Ov. Rem. am. 169-212.

[23]   Per una più ampia discussione di tali affermazioni non posso che rimandare ancora alla mia tesi di dottorato, già citata (vd. supra, n. 2), e in particolare al paragrafo 3.2.1 La natura irreale del sogno georgico-bucolico.

[24]   Vd. ancora McKeown 1998, 328-329. Né va dimenticato come l’orgoglio della propria terra natale, in sé, costituisse un elemento non estraneo alla poesia properziana (vd. in particolare Prop. 1, 22, 12-13; 4, 1, 66-67 e 124-129).

[25]   Si veda l’interpretazione dell’ecloga in chiave metaletteraria proposta da Conte 1980, 11-43.

[26]   Così McKeown 1998, 331, citando una nota di Booth. Peraltro, lo stesso McKeown aggiunge che “tuttavia tale implicazione non diventerà evidente fino al v. 11”.

[27]   Giusta, in questo senso, l’osservazione di McKeown 1998, 223 e 329-330, secondo cui “quest’elegia (scil. Am. 2, 16) è da leggere in stretta relazione a 2, 11” (così a 329).

[28]   Un importante precedente elegiaco dell’idea di un viaggio congiunto degli amanti è rappresentato da Prop. 2, 26, 29-58, con cui l’elegia ovidiana condivide i toni cupi  nella rappresentazione del viaggio e del naufragio. Un punto di divergenza non secondario però è rappresentato dal fatto che nell’elegia properziana il poeta-amante seguiva una donna decisa a partire, come ultima risorsa per poterle rimanere accanto, mentre l’amante ovidiano, tanto in relazione al viaggio a Sulmona, quanto nelle fantasie di viaggi in compagnia dell’amata, prende egli stesso l’iniziativa, e richiede la compagnia della donna come semplice comes (sulla connotazione vagamente degradante della locuzione comes ire al v. 17 – ma si veda anche il ricorrere di comes al v. 43 – cfr. McKeown 1998, 342-343). L’immagine della donna ‘accompagnatrice’ di un uomo impegnato nella carriera militare era comparsa invece, in Properzio, nell’epistola poetica di Aretusa a Licota (Prop. 4,  3, 45-46).

[29]   Anche in elegie come Tib. 2, 3; Prop. 2, 19 o 3, 19, in cui l’innamorato si spostava in campagna per cercarvi l’unione con l’amata, egli era costretto a farlo in séguito alla ‘fuga’ della donna dalla città (Tib. 2, 3 e Prop. 2, 19) o ad un invito di lei (3, 19). Inoltre determinati aspetti di ciascuno di questi testi inducono a relativizzare la loro incidenza sul quadro complessivo delle categorie spaziali elegiache. Per quanto riguarda Tib. 2, 3, essa va comunque letta in considerazione del carattere umoristico e parodico che caratterizza l’improbabile figura dell’amante urbano improvvisatosi contadino; in Prop. 2, 19 non è prefigurata alcuna prospettiva di unione tra gli amanti nei rura o nei boschi; mentre in Prop. 3, 19 la ‘convocazione’ a Tivoli mostra un carattere episodico, e sembra più che altro finalizzata a dare la stura alle più cupe fantasie di pericoli notturni, oltre ad illustrare il tema della invulnerabilità degli amanti.

[30]   McKeown 1998, 342, riferendo un’opinione di Booth, ritiene che anche Corinna in 2, 11 sia partita al séguito di un dives amator, ma non credo che l’osservazione volesse essere estesa a 2, 16. Il commentatore, a 338, definisce l’elegia un προπεμπτικόν rivolto a Corinna, ma anche qui ritengo si riferisca al viaggio che il poeta la invita a compiere per raggiungerlo. Di opinione diversa, come sopra accennato, Brandt 1911, 23-24, il quale ritiene che la lontananza della donna in 2, 16 sia dovuta al prolungarsi dello stesso viaggio cui fa riferimento l’elegia precedente. Contro l’ipotesi di un viaggio di Corinna in terre lontane credo deponga il fatto che la sua lontananza è presentata in più punti come tale da poter essere ‘risolta’ velocemente, e per via terrestre: al v. 16 si parla di viae che solcano la terra, ma soprattutto nel finale dell’elegia (vv. 47-52) Ovidio invita la donna a raggiungerlo tramite un piccolo carro. Così McKeown 1998, 364-365: “L’essedum era un carro celtico a due ruote, con cui i Romani fecero la loro prima conoscenza in guerra, ma di cui presto si appropriarono ed adattarono come veicolo alla moda. […] Suggerendo questo mezzo di trasporto, Ovidio non solo lusinga la sua donna così attenta alla moda, ma implica anche che il viaggio sarà facile”. Vd. anche Brandt 1911, 129, che definisce il cocchio in questione “un grazioso veicolo di lusso, in particolare per viaggiatrici di sesso femminile”. Non deve infatti sfuggire che la domina è invitata a reggere ella stessa le redini del piccolo veicolo (v. 50).

[31]   Vd. McKeown 1998, 342 ad Ov. Am. 2, 16, 17-18: “Il desiderio di Ovidio è paradossale, in quanto ‘ciò che egli vuole era, in un certo senso, già una pratica comune; in quanto le puellae della poesia di fatto seguivano regolarmente gli iuvenes nei lunghi viaggi… il problema era che questi iuvenes non erano mai i loro devoti poetae (vd. Booth sui vv. 15-18, il quale cita Licoride in Verg. Ecl. 10, Cinzia in Prop. 1.8 e, per inferenza, la stessa Corinna in 2,11)”. Che la situazione di Corinna in Am. 2, 11 sia la stessa, non è dimostrabile se non, appunto, per inferenza, nondimeno alla lista di Booth credo si possa aggiungere la Nemesi di Tib. 2, 3, la quale ha seguito un ricco spasimante nella campagna tanto invisa al poeta-amante cittadino.

[32]   In Prop. 1, 8 leggiamo un distico che riassume quanto più efficacemente il nucleo centrale della visione elegiaca dello spazio: illi carus ego et per me carissima Roma / dicitur, et sine me dulcia regna negat. Si può dire che il concetto della presenza dell’amata come dos loci (vd. Ov. Her. 15, 146) sia stato sostanzialmente ereditato da Ovidio, il quale però, applicandolo in modo non pregiudiziale a qualunque luogo in cui i due amanti si trovino insieme, di fatto lo usa per argomentare contro uno dei capisaldi dell’organizzazione simbolica dello spazio nei testi degli altri elegiaci.

[33]   Il motivo rientra fra quelli che non sono passati dal liber catulliano al più selettivo universo tematico elegiaco (vd. Cat. 11, 1-14, dove però era riferito a Furio e Aurelio, amici del poeta). Per un più completo catalogo di ricorrenze, vd. McKeown 1998, 343-344. Il mito che diventa l’emblema di tale forma di dedizione è sin d’ora quello di Ero e Leandro (Ov. Am. 2, 16, 31-32): ritroveremo lo stesso riferimento mitologico anche in Ars 2, 252-253, oltre che, naturalmente, nelle Heroides.

[34]   La quale a sua volta costituiva, secondo Copley 1956, 125-127, una variazione un po’ stanca del motivo prettamente romano della supplica alla porta personificata. Sulla vicinanza della perorazione ovidiana in Ov. Am. 3, 6 a quella usuale dell’exclusus amator, vd. Donini 1969, 210 e Scivoletto 1976, 24.

[35]   Donini 1969, 210-222 offre una minuta analisi dell’elegia 3, 6 dal punto di vista stilistico e dei referenti intertestuali (per i quali vd. anche Brandt 1911, 156-161). Particolarmente centrata sull’‘epillio’ di Ilia è la trattazione di Sabot 1976, 482-491.

[36]   Per i soli Amores si potrebbero annoverare tra gli accenni diretti Ov. Am. 1, 4, 61-62; 1, 8, 77-78 (nell’elegia ‘normativa’ della lena; vd. poi i precetti dell’Ars amatoria); 1, 9 15-16; 19-20; 27-28 (all’interno della ‘ridefinizione’ dell’amore elegiaco nell’elegia della militia); 2, 1, 17-18 (in cui la chiusura della porta da parte dell’amata ha il potere di far tornare alla poesia elegiaca il poeta con velleità epiche); 2, 13, 3-4 (l’‘assedio’ alla porta, qui come in 1, 9, è paragonato al proprio corrispettivo militare); 3, 8, 23-24; 3, 11, 9-16. Sul tema della inutilità della custodia alla donna, e su quello opposto della sua indispensabilità per conferire allure alla conquista del poeta, Ovidio esperisce le proprie abilità argomentative rispettivamente in Am. 3, 4 e 2, 19, mentre la stessa Am. 2, 2 (la supplica al custos Bagoo, seguita dall’invettiva di 2, 3) costituisce un esempio dello sviluppo del motivo in senso retorico di cui si compiace Ovidio (per quanto il custos non coincida necessariamente con lo ianitor: cfr. Copley 1956, 168 n. 2). Forse più interessante ancora sarebbe vedere come la ‘piccola’ porta dell’amata divenga il simbolo spaziale della stessa elegia in opposizione alla grandiosa reggia della tragedia in Am. 3, 1, 39-40 e nei versi seguenti. Come era lecito aspettarsi, un così importante aspetto dell’amore elegiaco trova compiuta codifica nell’Ars amatoria (vd. 2, 523-528, dal punto di vista degli uomini; 3, 579-588 e 611-658 da quello delle donne), e ritorna nei Remedia amoris (vv. 31-32 e 35-36). Le occorrenze marginali del tema sono raccolte da Sabot 1976, 513-516 (la quale si occupa poi di Am. 1, 6 a 517-520), mentre Copley 1956, 125-131 rivolge la propria attenzione soltanto ad Am. 1, 6, e alla supplica di Ifi ad Anassarete in Met. 14, 698-758. Sul tema vd. ancora Scivoletto 1976, 23-25.

[37]   Cfr. Copley 1959, 125-134, in particolare a 125. Dello stesso parere Sabot 1976, 517: “Ovidio sfrutta qui il motivo per se stesso e non per illustrare altre idee. Egli lo spoglia di tutti i conflitti morali, psicologici e personali, e gioca con il tema cercando di renderlo divertente. In lui, né dolore né delusione. Nessuna disputa contro un codice morale. L’originalità non risiede nel contenuto, ma nell’impiego dei diversi elementi”.

[38]   La spinta dinamica, ‘centrifuga’ dell’attivismo erotico ovidiano trova una singolare affermazione simbolica in un’elegia di cui si è occupato in modo illuminante Labate 1984, 69-78: Ov. Am. 2, 9. Come ha mostrato lo studioso, qui (come anche in Am. 1, 12) il comportamento dello stesso dio Amore, e poi i rapporti tra il dio e l’amante suo suddito, sono descritti in relazione alle categorie mentali e tramite un vocabolario propri della sfera del pubblico a Roma, e anzi propriamente dell’imperialismo romano. Tale rapporto, sostiene ancora Labate, viene esplicitato in Am. 2, 9, 17-18 (Roma, nisi inmensum vires promosset in orbem, / stramineis esset nunc quoque tecta casis). A Cupido l’amante ha rimproverato di infierire su coloro che sono già sotto il suo potere, e adesso addita l’esempio di Roma, che ha sempre rivolto la propria energia conquistatrice verso l’esterno, senza accontentarsi dei territori già ottenuti.

[39]   Così Labate 1984, 94. La bibliografia fondamentale sulla militia amoris, in cui un posto fondamentale è sempre accordato all’elegia ovidiana in esame, comprende la dissertazione di Spies 1930; Thomas 1964, 151-165; Murgatroyd 1975, 59-79; Sabot 1976, 491-502; Labate 1984, 90-97; Conte 1991, 53-57; Lucifora 1996, 153-167 . Specificamente su Ov. Am. 1, 9 si vedano il commento all’elegia di Barsby 1973, 106-114 e Pianezzola 1999 (b), 135-142 (dedicato, quest’ultimo, esclusivamente ad Ov. Am. 1, 9).

[40]   Per il nostro discorso, il punto di riferimento bibliografico più importante resta l’acuta lettura dell’elegia di Labate 1984, 90-97 sulla perdita del carattere ‘antifrastico’ della metafora del miles amoris nel segno della ‘retorica congiuntiva’ ovidiana, mirante a rendere il mondo dell’elegia latina compatibile, e dunque commensurabile, con le categorie mentali romane. Sarebbe impossibile soffermarsi ulteriormente sulla pregnanza simbolica della stessa iunctura qui scelta da Ovidio (longa via), e soprattutto sui significati che essa veicola, aspetti entrambi per cui sono costretto a rinviare ancora alla mia tesi di dottorato (vd. supra, n. 2). Dal commento di McKeown è possibile trarre una dettagliata informazione sui luoghi paralleli riguardanti: l’idea di un innamorato ‘attivo’ (si tratta di passaggi tratti esclusivamente dall’ambito greco: vd. McKeown 1989, 257-258); i disagevoli viaggi militari e il tema del viaggio degli amanti (a 264); le avverse condizioni atmosferiche per soldati ed amanti (a 266).

[41]   Di fronte all’assimilazione del tema del viaggio all’universo elegiaco operata in componimenti così pregnanti all’interno della raccolta degli Amores, la tirata contro la brama dei viaggi all’interno del noto brano relativo all’età di Saturno in Ov. Am. 3, 8, 43-44 e 49-52 evidenzia una contraddizione difficilmente sanabile, così come l’intera tirata diatribica che Labate 1984, 116 definisce “piuttosto imbarazzante” per l’interprete. A proposito dell’intera elegia, lo studioso conclude: “Chissà che qualche volta non sia consentito davvero al filologo di cavarsela con la storia dell’ingombrante ricordo di scuola” – ma per quanto riguarda in particolare l’aspetto del rifiuto della navigazione, all’influenza di una diatriba da suasoriae andrà aggiunta almeno la volontà di adeguarsi, almeno per una volta, alle più ‘ortodosse’ convenzioni elegiache. Sull’elegia si confronti anche La Penna 1979, 200. Gli spunti di polemica diatribica non sono frequenti negli Amores ovidiani: si potrebbe citare al più Ov. Am. 2, 11, 33-34, contro l’avidità degli avidi naviganti (cfr. Prop. 3, 7, l’elegia sulla morte di Peto).

[42]   Il collegamento con un aspetto preciso della realtà della vita romana accomuna la gita a Lanuvio di Cinzia in Prop. 4, 8 e quella a Faleri della moglie di Ovidio in Am. 3, 13: il motivo (o, per l’amica di Properzio, forse il pretesto) è rappresentato da un rito in onore di Giunone. Si tratta del culto di Iuno Sospita a Lanuvio (cfr. Fedeli 1965, 206 ad Prop. 4, 8, 3, ed anche Enk 1962, 406 ad Prop. 2, 32, 6); di Iuno Curitis a Faleri (cfr. Brandt 1911, 186 ad Ov. Am. 3, 13, 1). Tra l’altro, anche il rito di Giunone a Faleri sembra avere la connotazione di un rito di fertilità, di natura ierogamica (vd. ancora Brandt 1911, 186, con ulteriore bibliografia).

[43]   Come è noto, non solo l’Egitto rappresentava in questa età il vero centro culturale ed economico dell’ellenismo, ma rimase l’ultimo regno ellenistico a mantenere la propria identità e la propria autonomia, fino a divenire, nello scontro culminante della lunga stagione delle guerre civili, addirittura la controparte ‘orientale’ del blocco sociale e militare italico-occidentale aggregatosi intorno ad Ottaviano. Né si dimentichi che anche dopo l’assoggettamento del regno tolemaico Augusto si era preoccupato di riservargli uno statuto amministrativo speciale, mantenendolo sotto la propria diretta dipendenza – segno dell’importanza strategica dell’Egitto, e della particolare delicatezza delle problematiche legate alla sua gestione.

[44]   Così ad esempio Della Corte, 1966, 332.

[45]   Vd. Gaisser 1971, 221-229; Bright 1975, 31-46 e Id. 1978, 60. Sulla figura divina di Osiride nell’elegia (visto come dio di tutta la vegetazione, e non solo come corrispondente di Bacco), cfr. ancora Alfonsi 1968, 475-476, con ulteriori rimandi bibliografici.

[46]   Tale la tesi, nel complesso poco convincente, di Riposati 19672, 173-174.

[47]   Cfr. ancora Della Corte, 1966, 332-333 e poi Id. 1989, 198 e 202.

[48]   Vd. Hanslik 1970, 142, il quale scorge spunti di ironia verso i culti ‘esotici’, e ricorda la menzione di divinità fortemente connotate come romane, quali Saturno, i Lari, i Penati, seguìto in questo da Mills 1974, 228.

[49]   Il più convinto nello scorgere i contorni un’ostilità tibulliana verso i culti non quiritari, a partire da quello egiziano di Iside, è Morelli 1991, 181-183 e n. 30, il quale cita a raffronto anche il cenno sprezzante ai riti di Opi/Cibele in Tib. 1, 4, 67-70. Sull’ipotesi, cfr. ancora Bright 1978, 52-63 e Della Corte 1986, 7-8.

[50]   Vd. McKeown 1998, 280-281: “Specialmente date le ripercussioni della lotta contro Antonio e Cleopatra (la νέα Ἶσις di Plut. Ant. 54.9; cfr. il commento di Pelling), Iside e il suo séguito subirono una disapprovazione ufficiale, di cui troviamo un riflesso in Verg. Aen. 8.696 ss. e Prop. 3.11.39 ss. Eppure la diffusione del culto isiaco aveva raggiunto un tale séguito in questo periodo che sarebbe affrettato rinvenire in questi versi un vero e proprio affronto al regime. Per la distinzione tra i pronunciamenti ufficiali di Augusto contro i culti egiziani e le sue vedute più tolleranti sulle cerimonie private, si veda Takács (1995), specialmente a 75 ss.” [=  Takács, S.A., Isis and Sarapis in the Roman world, Leiden 1995]. Su Ilizia, basti rimandare a McKeown 1998, 288. La menzione della Gallica turma al v. 28 potrebbe rinviare ad una terza divinità, Cibele (così commenta Brandt 1911, 121 e 217-218, sostenendo che Iside e Cibele venivano spesso scambiate), ma l’oscuro riferimento a questa forma di culto costituisce un problema esegetico più complesso, che McKeown 1998, 287-288 inquadra dal punto di vista storico-religioso e della stessa costituzione del testo senza ricorrere all’ipotesi di una confusione tra Iside e Cibele.

[51]   Si confrontino i versi di Prop. 2, 24, 15-18: ecce coronatae portum tetigere carinae, / traiectae Syrtes, ancora iacta mihist. / nunc demum vasto fessi resipiscimus aestu, / vulneraque ad sanum nunc coiere mea. Vd. Brandt 1911, 180, il quale, per l’immagine del ritorno in porto della nave, cita anche Verg. Georg. 1, 303-304.

[52]   Così, ad esempio, il commento di Brandt 1911 oppure l’edizione critica di  Showerman-Goold 1977. L’ipotesi di una divisione dell’elegia viene rigettata con argomenti convincenti da Franzoi 1993, 31-40.

[53]   Per un’operazione letteraria come quella compiuta in Ov. Am. 3, 11 trovo che il quadro ermeneutico più adatto sia quello dell’‘ironia’ nel senso precisato da Conte 1991, 63-70, ovvero come ‘dialettica riflessiva’, auto-consapevolezza delle regole del genere che costituisce il presupposto fondamentale per la loro riscrittura ma insieme ne permette ancora la sopravvivenza.

[54]   Sul piano della strenuitas, seppure rivolta ad un obiettivo non contemplato tra quelli della morale tradizionale (l’amore della puella), l’etica erotica diviene dunque commensurabile a quella comune: vd. il fondamentale saggio di Labate 1984 già più volte citato, passim. Sulla novità profonda dell’Ars amatoria, al di là del suo cercato rispecchiamento della topica erotica soprattutto elegiaca, cfr. ancora  Wildberger 1998, 214-242; Conte 1991, 53-94 e 72-76 o Pianezzola 1999 (c), 143-159.

[55]   Si vedano in particolare le raccomandazioni ai giovani (Ars 1, 487-494) sull’audacia e l’intraprendenza anche ‘fisica’ degli approcci – particolarmente vivace il quadretto del corteggiatore che cerca di accostare la donna sulla lettiga o a passeggio tra i portici – o gli speculari ammonimenti alle fanciulle (3, 383-394) sull’opportunità del ‘presenzialismo’ nei luoghi d’incontro della capitale.

[56]   Sui versi incipitari, così Hollis 1977, 34: “Gli epiteti applicati alle navi ed ai carri, citae e leves, assumono particolare pregnanza poiché mobilità e volubilità sono note qualità dell’amore che Ovidio deve controllare”. Per quanto riguarda il campo metaforico della navigazione, sulle cui ascendenze omeriche cfr. Citroni 1984, 157-167 (ripreso in  Pianezzola 1991, 186), è ancora possibile citare Ov. 1, 367-368 (‘vela’ e ‘remi’ nella persuasione della fanciulla da parte dell’ancella); 399-404 (i tempora adatti per prendere il mare); 2, 9-10 (la nave dell’amante è ancora in alto mare); 337-338 (i migliori venti da usare per calibrare l’andatura); 671-672 (navigazione, agricoltura e guerra sono accostate all’attività amorosa; cfr. Labate 1984, 98-103); 275-278 (calibrare l’uso delle vele per giungere insieme alla donna alla meta dell’orgasmo); 3, 259-360 (la donna priva di bellezza è come un marinaio nella tempesta). Variazioni sul tema sono costituite da Ars 1, 381-382 (Ovidio non consiglia all’amante di camminare per vette aguzze, rischiose) e 3, 555-558 (la donna deve regere l’amante, come si fa coi cavalli, con accortezza).

[57]   In questo caso appare prevalente il Leitmotiv dell’equitazione: sempre partendo dal proemio, il primo rimando è ad Ars 1, 39-40 (hic modus, haec nostro signabitur area curru: / haec erit admissa meta terenda rota). Ad esso può essere accostato 2, 525-428, in cui pure alla metafora è attribuito un valore ‘strutturale’ nella dispositio dei temi (il poeta rinuncia ad invadere il campo delle arti magiche, e ritorna nell’ambito della didascalica propriamente erotico-libertina). In quest’ultimo passaggio la metaforica del movimento è piegata in pochi versi a tre diversi campi d’applicazione, tra i quali non si potrà negare una forma di rispecchiamento: ai vv. 525-428, il paragone con la nave riguarda, come abbiamo visto, alla poesia di Ovidio; in 429-432 la stessa immagine è riferita alla levitas degli innamorati, simile ad un’imbarcazione spinta da venti diversi; infine, ai vv. 433-434, la metafora del cocchio (più adatta a significare anche il concetto di abilità, tanto del poeta quanto dell’amante accorto) rinvia all’arte di gestire abilmente la gelosia dell’amata. Coerente con l’immagine della gara tra carri potrebbe essere Ars 2, 733-744, laddove giunto al finale del secondo il poeta richiede la palma della vittoria (tra i referenti mitici di eroi vittoriosi non manca al v. 738, subito prima della menzione di Ovidio stesso, Automedonte, campione nella corsa dei cocchi), e potremmo citare ancora Ars 3, 467-468 (dove ritorna ancora una volta il valore ‘strutturale’ dell’immagine; vd. Janka 1997, 502-503), ma soprattuto andrà tenuta presente la conclusione dell’intero poema, in cui Ovidio, terminato il lusus, dice essere tempo di discendere da un carro che scopriamo essere stato condotto dai cigni (Ars 3, 809-810). Sull’intero campo metaforico, un commento di portata generale è in Janka 1997, 324-325. Quanto alla metafora della traversata per mare, la ritroviamo in posizione ‘forte’ nella chiusa del primo libro (Ars 1, 771-772; vd. Hollis 1977, 149), e ancora in 3, 25-26; 3, 99-100; 3, 747-748 (vd. Gibson 2003, 3-5).

[58]   Andrà anche annotato come il libro si apra proprio sul motivo della congenita mobilità di Amor, fanciullo alato (Ars 2, 17-20). Nel proemio del libro, però, l’obiettivo dell’innamorato che ha ormai conquistato la propria preda è proprio di inibire questa caratteristica dell’amore – solo nella propria partner, s’intende.

[59]   Vd. Monella 2005, 125-139, cui rimando per una trattazione più dettagliata.

[60]   Sul peculiare rapporto tra l’Ars amatoria e l’elegia d’amore vd. Conte 1991, 71: nel poema didascalico “attori e comportamenti sono quelli dell’elegia ma non rispondono più a quella retorica fatta di prospettive ‘limitate’ e parziali”.

[61]   Sui rapporti tra il passaggio relativo ai rura nei Remedia amoris e le Georgiche virgiliane vd. Giordano 1992, 89-95, il quale conclude come segue: “una operazione di questo tipo, mirante ad assegnare al modello agricolo un significato alternativo rispetto a quello che esso aveva nelle Georgiche, per la riduzione di una ideologia sociale, quale era quella dell’opera virgiliana, ad un àmbito individuale, ‘privato’, quale è quello della sfera amorosa, finiva per risultare implicitamente antiaugustea” (così a 95). Mi pare che tale conclusione si possa agevolmente ribaltare, affermando che il recupero dell’ideologia romana della terra proprio in funzione ‘anti-elegiaca’, e in stretta relazione con l’intertesto virgiliano, costituisca anzi un uso per nulla dissacratorio di essa (semmai solo scopertamente strumentale). Tale ideologia infatti, oltre a riguardare la dimensione collettiva dello Stato romano per via della restaurazione dei valori quiritari propugnata da Augusto, aveva da sempre riguardato anche la sfera privata. Conte 1991, 82, per parte sua, annota che “l’agricoltura, l’attività economica tradizionale del signore romano […] è raccomandata come modello di vita in cui i tratti dell’utile quasi cedono di fronte alle preponderanti attrattive estetiche che può offrire una tenuta di campagna”. Anche la fuga nei luoghi selvaggi della caccia vanta una propria tradizione all’interno del genere elegiaco, almeno se nell’ambito della riflessione intorno alle dinamiche di tale genere riconosciamo un ruolo alla decima ecloga virgiliana, e all’immagine di Gallo che, di fronte all’abbandono di Licoride, cerca un’impossibile medicina furoris nella caccia tra i Parthenii saltus (Verg. Buc. 10,  55-60). Né si dimenticherà l’avversione di Sulpicia per l’attività venatoria cui si dedica Cerinto in Ps.-Tib. 3, 9 (vd. la topica opposizione tra Diana e Venere, che ritroviamo in Ov. Rem. 199-200, cfr. Ps.-Tib. 3, 9, 19-20). Sulle molteplici ascendenze letterarie dell’intero passaggio, cfr. Pinotti 1988, 156-157 e le singole note di commento nelle pagine seguenti.

[62]   Sui rapporti tra Ars amatoria e Remedia amoris vd. almeno Hollis 1973, 84-115; Küppers 1981, 2507-2551 e Conte 1991, 53-94.