Olimpo, medico di Cleopatra

«A seguito di così grande afflizione e dolore fisico — il suo petto, infatti, si era infiammato per i colpi che si era inferta e le piaghe suppuravano —, Cleopatra fu colta dalla febbre e si rallegrò di quel pretesto per astenersi dal cibo e liberarsi della vita senza che glielo impedissero. Ella aveva come medico il solito Olimpo; gli rivelò la verità ed egli la consigliò e l’aiutò a togliersi la vita, come lo stesso Olimpo ha riferito in una relazione che pubblicò su questi avvenimenti. Ma Cesare Ottaviano, sospettando delle sue intenzioni, le rivolse minacce e le ispirò timore sulla sorte dei figli; allora, ella si arrese, come sotto i colpi di macchine da guerra, e abbandonò il suo corpo a coloro che volevano prendersene cura e nutrirlo».

ἐκ δὲ λύπης ἅμα τοσαύτης καὶ ὀδύνης – ἀνεφλέγμηνε γὰρ αὐτῆς (sc. Κλεοπάτρας) τὰ στέρνα τυπτομένης καὶ ἥλκωτο – πυρετῶν ἐπιλαβόντων, ἠγάπησε τὴν πρόφασιν, ὡς ἀφεξομένη τροφῆς διὰ τοῦτο καὶ παραλύσουσα τοῦ ζῆν ἀκωλύτως ἑαυτήν. ἦν δ᾽ ἰατρὸς αὐτῆι συνήθης ῎Ολυμπος, ὧι φράσασα τἀληθὲς ἐχρῆτο συμβούλωι καὶ συνεργῶι τῆς καθαιρέσεως, ὡς αὐτὸς ὁ ῎Ολυμπος εἴρηκεν, ἱστορίαν τινὰ τῶν πραγμάτων τούτων ἐκδεδωκώς. ὑπονοήσας δὲ Καῖσαρ ἀπειλὰς μέν τινας αὐτῆι καὶ φόβους περὶ τῶν τέκνων προσέβαλλεν, οἷς ἐκείνη καθάπερ μηχανήμασιν ὑπηρείπετο καὶ παρεδίδου τὸ σῶμα θεραπεύειν καὶ τρέφειν τοῖς χρήιζουσιν.

(Pʟᴜᴛ. Ant. 82, 3-5 = Oʟʏᴍᴘ. FGrHist. 198 F 1)

Artemisia Gentileschi, Cleopatra. Olio su tela, c. 1633-1635.

Nonostante Cesare Ottaviano le avesse concesso di dare all’amato Antonio una sepoltura sontuosa e degna di un sovrano tolemaico (πολυτελῶς καὶ βασιλικῶς), facendolo imbalsamare secondo il costume egizio e tumulare in Alessandria (Pʟᴜᴛ. Ant. 82, 2; DCᴀss. LI 11, 5), Cleopatra provava ancora grande angoscia e afflizione poiché i suoi figli erano stati fatti ostaggio dei Romani e messi sotto sorveglianza speciale (Pʟᴜᴛ. Ant. 81, 3). Mentre soltanto Plutarco registra il vano tentativo della regina di darsi la morte, restano invece incerti i dettagli circa il suicidio effettivo, avvenuto il 10 o il 12 agosto 30 a.C., all’età di 39 anni.

Nel complesso, le fonti pervenute tramandano diverse versioni dello stesso episodio, ma tutte concordano sull’uso del veleno da parte della regina – sebbene non specifichino esattamente quale – e sul fatto che l’unico elemento sicuro sia la coppia di piccoli fori trovati sul braccio della donna. Quel che è certo è che Cleopatra morì avvelenata, ma non si sa se ciò avvenne per il morso di un serpente (un aspide o un cobra egiziano), oppure attraverso l’iniezione letale di un siero con un ago o uno spillone, oppure ancora tramite l’assunzione di un unguento tossico durante l’ultimo pasto (si vd. Roller 2010, 147-149; Goldsworthy 2010, 384-385; Tsoucalas, Sgantzos 2014).

In ogni caso, tuttavia, lo stesso resoconto plutarcheo non fornisce alcuna certezza che Cleopatra abbia fatto chiamare Olimpo per ottenerne un consulto sul da farsi. Quasi nulla si sa di Olimpo, tranne che fu medico personale della regina Cleopatra VII e che fu presente nel momento in cui ella si suicidò, nell’agosto 30 a.C.

Morte di Cleopatra. Affresco, ante 79 d.C. da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

A quanto sembra, su quel drammatico evento Olimpo lasciò una memoria, che Plutarco utilizzò come fonte autorevole per il proprio resoconto (cfr. Diller 1932; Becher 1966, 153-155; contra Roller 2010, 148). Ciononostante, c’è chi, tra gli interpreti moderni (Pelling 1988, 313), ha affermato con sicurezza che alcuni dei termini medici che compaiono nella descrizione plutarchea, quali ἀνεφλέγμηνε, ἥλκωτο, καθαιρέσεως, sarebbero stati ripresi pari pari da Olimpo (si vd. anche Pʟᴜᴛ. Ant. 71, 8; 78, 5-79, 6; 83, 4; 85-86; e Pelling 1988, 294). Siccome Plutarco (77, 3) non usa simili espressioni tecniche per narrare la fine di Antonio, si esclude che Olimpo vi abbia assistito, mentre, al contrario, sarebbe stato testimone oculare degli ultimi istanti di vita della sua regina (Pelling 1988, 307).

Nella Vita Antonii Plutarco menziona tra le sue fonti autorevoli anche un altro medico, Filota di Anfissa. Costui era un conoscente del nonno dell’autore e gli aveva raccontato alcune storie sulla sua giovinezza: Filota era ancora uno scolaro ad Alessandria, quando ebbe l’opportunità di osservare gli elaborati preparativi per uno dei banchetti di Cleopatra (Pʟᴜᴛ. Ant. 28, 3-7). Diversamente da Olimpo, Filota non aveva avuto alcun contatto diretto con la regina, tranne che con i cuochi reali (cfr. Fraser 1972, 369-376; Kudlien 1979, 17-40; 65-72).

Pittore della Clinica. Un medico esamina il paziente. Pittura vascolare su aryballos a figure rosse, V sec. a.C. Paris, Musée du Louvre.

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Bibliografia:

I. Bᴇᴄʜᴇʀ, Das Bild der Kleopatra in der griechischen und lateinischen Literatur, Berlin 1966.

H. Dɪʟʟᴇʀ, s.v. Olympos (32), RE 18, 1 (1932), 324.

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D.W. Rᴏʟʟᴇʀ, Cleopatra: A Biography, Oxford 2010.

G. Tsᴏᴜᴄᴀʟᴀs, M. Sɢᴀɴᴛᴢᴏs, The Death of Cleopatra: Suicide by Snakebite or Poisoned by Her Enemies?, in P. Wᴇxʟᴇʀ (ed.), History of Toxicology and Environmetal Health: Toxicology in Antiquity, I, Waltham 2014, 11-20.

L’ἀγωγή: l’educazione spartana

di N. Fields, Crescere a Sparta? Una vita da duri, «Il Piccolo», 22 mag. 2015.

Nel mondo greco la guerra era per definizione un mestiere da uomini, tanto che nel loro vocabolario il coraggio, l’audacia o la combattività necessari per resistere nelle falangi di opliti erano riassunti nella parola ἀνδρεία («virilità»).

Quindi, a rigor di termini per una donna greca era impossibile essere coraggiosa in senso militare, ossia ardimentosa sul campo di battaglia. Dopotutto, l’intero bagaglio guerresco maschile era sintetizzato nella spiegazione della parola πόλεμος («guerra») di genere maschile, del visionario Eraclito di Efeso: 22 B 53 [44]. Hippol. Refut. IX 9 Πόλεμος πάντων μὲν πατήρ ἐστι, πάντων δὲ βασιλεύς, καὶ τοὺς μὲν θεοὺς ἔδειξε τοὺς δὲ ἀνθρώπους, τοὺς μὲν δούλους ἐποίησε τοὺς δὲ ἐλευθέρους («Polemos è padre di tutte le cose, e di tutti è il monarca, e gli uni mostrò come dèi e gli altri come uomini, gli uni fece servi e gli altri uomini liberi».

Pittore Cleimaco. Combattimento di opliti sotto le mura di Tebe (dettaglio). Pittura vascolare da una hydria attica a figure nere, 560-550 a.C. c. Paris, Musée du Louvre.

Le due principali fonti letterarie riguardanti la società spartana sono Senofonte, il quale ne scrive un elogio acritico, e Plutarco, che si basa in gran parte sui racconti di Senofonte, in cui inserisce una pletora di aneddoti antichi, alcuni in buona fede, altri del tutto inventati.

Da queste opere letterarie si viene a sapere che il cittadino spartano a pieno titolo, lo spartiata, era completamente al servizio dello Stato. Perché questi fosse in grado di superare le resistenze psicologiche causate dal naturale timore della morte, doveva essere addestrato a pensare a sé come a un uomo non padrone della propria vita; quindi, doveva sempre essere preparato a una fine improvvisa e violenta, e sin dall’infanzia veniva condizionato a questo tipo di atteggiamento, che oggi si potrebbe definire “fanatismo”.

Fin dalla nascita di un bimbo, gli anziani di Sparta decidevano in base alla sua salute se doveva essergli concesso di crescere; la triste alternativa era abbandonarlo in un luogo chiamato Ἀποθέτης («dove si lascia qualcosa»), un burrone presso il monte Taigeto. Era la terribile legge spartana: nessun maschietto deforme – che, quindi, non avrebbe potuto diventare un guerriero – aveva il diritto di vivere!

Jean-Baptiste Camille Corot, Ragazza di Sparta. Olio su tela, 1868-70.

Quanti superavano l’esame venivano intenzionalmente induriti dalle madri fin dalla più tenera età, facendo loro il bagno nel vino, – che si riteneva provocasse convulsioni nei bambini deboli, mentre temprava e rafforzava quelli sani –, nutrendoli con cibi semplici e abituandoli a condizioni di vita disagevoli. Poi, dall’età di sette anni (secondo Plutarco) o quattordici (secondo Senofonte), cominciava l’educazione organizzata dallo Stato, l’ἀγωγή («allevamento», come per il bestiame), che mirava a prepararli per il futuro ruolo di guerrieri. I ragazzi venivano inquadrati in ἀγέλαι («mandrie») e guidati da un παιδονόμος («mandriano di ragazzi»), ai cui ordini dovevano ubbidire, e che a loro volta venivano strettamente controllati da magistrati (ἔφοροι).

Il παιδονόμος era nominato tra i cittadini più influenti e autorevoli, affinché si occupasse dell’educazione dei ragazzi; egli doveva ispirare con l’esempio e incutere rispetto, esercitando la sua autorità sui giovani in maniera non dissimile da ciò che faceva un generale con l’esercito. Nel far rispettare la disciplina, il maestro era assistito da un certo numero di cittadini chiamati μαστιγοφόροι («portatori di frusta»), e si può presumere che questo titolo non fosse soltanto formale!

Edgar Degas, Giovani Spartani. London National Gallery.

I ragazzi venivano brutalmente iniziati alla vita in comune: per esempio, dovevano provvedere da sé a un giaciglio con cannicci strappati con le loro mani dalle rive dell’Eurota, il fiume basso e sabbioso che attraversa Sparta. Erano anche vietati agi quotidiani come le calzature, era permesso soltanto un unico mantello da portare in ogni stagione dell’anno, e sopravvivevano con una dieta deliberatamente inadeguata. Quest’ultima imposizione favoriva il furto di cibo, inteso come un compito avventuroso mirato a sviluppare l’astuzia in guerra, ma se colti sul fatto, si veniva castigati con dure punizioni fisiche. Il dolore doveva essere sopportato senza tradire la minima emozione. L’educazione scolastica era ridotta al minimo: tuttavia, includeva musica, esercizi ginnici e giochi violenti che avrebbero suscitato tutti i princìpi fondamentali della guerra. Secondo Plutarco, ai ragazzi veniva insegnato a parlare con uno stile secco, ma anche elegante e adatto a esporre in modo conciso un buon numero di opinioni; stando ad Aristotele, già nel IV secolo a.C. questo modo di esprimersi stringato era definito “laconico”.

Gli studiosi, passati e presenti, hanno definito l’educazione in molti modi, che per comodità possono essere ridotti a due criteri principali. Il primo è attivo, e comprende tutte le definizioni che si riferiscono all’educazione come a una ricerca intellettuale in campi di conoscenza nuovi o da ampliare. Il secondo è passivo, e comprende tutte le definizioni che considerano l’educazione un addestramento alla padronanza di varie capacità.

Christoffer Wilhelm Eckersberg, Tre ragazzi spartani praticano il tiro con l’arco. Olio su tela, c. 1812. Copenaghen, Den Hirschsprungske Samling.

Il primo tipo di educazione (quindi, di conoscenza) abbraccia l’intera gamma o quanti più aspetti possibili della realtà umana, diventando così una ricerca indipendente nel dilemma senza risposta da essa proposto quasi a ogni traguardo. Il secondo si concentra soprattutto su pochi aspetti dell’esistenza ritenuti conosciuti e stabiliti, che esso ripete e riconferma. Uno si spinge nell’ignoto e in ogni direzione possibile, mentre l’altro ruota attorno a quanto è familiare, e quindi si muove in un’unica direzione.

In tale contesto si comprenderà come l’ἀγωγή – per la sua stessa natura e l’accento posto sulla formazione di guerrieri, i quali basavano la propria esistenza sulla regolarità e la rigida disciplina della vita militare – si concentrasse sul secondo tipo di educazione, definita prudentemente come la ripetizione di schemi ordinati e prevedibili di pensiero e comportamento, secondo una precisa sequenza che lasciava poco o nessuno spazio all’improvvisazione. L’educazione spartana era il sistema più meticoloso del mondo greco, ma mirava a produrre ingranaggi per una macchina.

Quindi, per i successivi quattordici anni di vita un ragazzo si faceva strada da solo in una pedagogia sempre più brutale e brutalizzante, un’educazione elementare interamente determinata dallo scopo di abituarlo a resistere ai disagi, addestrandolo a sopportare una disciplina rigida, e instillandogli nel cuore un sentimento di devozione a Sparta. Com’è naturale, fallire significava l’infamia più assoluta, perché spesso (alla tipica maniera di Sparta) comportava l’ostracismo sociale.

Guerrieri spartani, VI sec. a.C. Illustrazione di R. Hook.

Perfino ai suoi tempi, Tucidide poteva mettere a confronto la comodità della vita ateniese con i disagi che i Lacedemoni dovevano sopportare fin dalla culla; e – come quasi tutti i popoli nella maggior parte delle epoche – gli Ateniesi ritenevano che una cultura diversa dalla loro fosse ineluttabilmente inferiore.

A loro volta gli Spartani, militaristi, nutrivano gli stessi pregiudizi: orgogliosi della propria cultura e del proprio retaggio, non avevano dubbi che questi fossero superiori a quelli degli Ateniesi, democratici, decadenti e abituati alle mollezze. Erano fieri di appartenere a una casta militare, in cui l’individuo era rigidamente subordinato alle necessità dello Stato; erano soldati, ed educazione, matrimonio e dettagli della vita quotidiana erano strettamente regolati in funzione del mantenimento dell’efficienza militare professionale.

Per concludere, si può sottolineare il fatto che le adolescenti spartane erano sottoposte a un’educazione analoga a quella dei maschi. Per loro, com’è ovvio, il regime era meno brutale, ma concentrato sulla danza e sulla ginnastica; quest’ultima comprendeva la corsa, la lotta e il lancio del giavellotto e del disco. Frequentavano liberamente i maschi, e come loro – secondo Plutarco e com’è illustrato nell’arte primitiva di Sparta – eseguivano in pubblico questi esercizi del tutto o in parte nude.

Ragazza spartana in corsa. Statuetta (decorazione di un vaso), bronzo, 550-540 a.C. ca., dal Santuario di Dodona. Museo Archeologico Nazionale di Atene.

Non deve quindi sorprendere che un tale disprezzo delle normali inibizioni sessuali sconvolgesse gli osservatori esterni; l’offensivo epiteto φαινομηρίδες («mostra-cosce») venne coniato proprio per loro da alcuni viaggiatori, anche se, in ultima analisi, questo “esibizionismo” veniva sfruttato per attirare corteggiatori.

L’autore comico ateniese Aristofane suscitava risate fra i suoi spettatori con una battuta salace riguardo gli esercizi ginnici eseguiti dalle donne spartane, mentre il suo collega, il drammaturgo Euripide, sebbene più moderato, era pronto a condannarle perché correvano «discinte, con le cosce nude». Il potere sessuale delle donne poteva disturbare il mondo dei maschi, e quelli greci oltre i confini di Sparta ne erano chiaramente spaventati, per quanto forse non se ne rendessero conto del tutto.

Focione di Atene

Militare e uomo politico ateniese, Focione (Φωκίων) nacque intorno al 397 a.C. da Foco, probabilmente originario del demo di Potamone.

Di lui sono ben note le doti di retore, come testimonia un passo dalla biografia che gli dedicò Plutarco (Phoc. 5, 3-5):

ὁμοίως δέ πως τοῦ Φωκίωνος καὶ ὁ λόγος ἦν ἐπὶ χρηστοῖς ἐνθυμήμασι καὶ διανοήμασι σωτήριος, προστακτικήν τινα καὶ αὐστηρὰν καὶ ἀνήδυντον ἔχων βραχυλογίαν. ὡς γὰρ ὁ Ζήνων ἔλεγεν, ὅτι δεῖ τὸν φιλόσοφον εἰς νοῦν ἀποβάπτοντα προφέρεσθαι τὴν λέξιν, οὕτως ὁ Φωκίωνος λόγος πλεῖστον ἐν ἐλαχίστῃ λέξει νοῦν εἶχε. καὶ πρὸς τοῦτ’ ἔοικεν ἀπιδὼν ὁ Σφήττιος Πολύευκτος εἰπεῖν, ὅτι ῥήτωρ μὲν ἄριστος εἴη Δημοσθένης, εἰπεῖν δὲ δεινότατος ὁ Φωκίων.

Altrettanto, erano salutari i discorsi di Focione, nutriti di utili pensieri e riflessioni, dalla brevità imperiosa, secca, sgradevole. Zenone diceva che il filosofo deve pronunciare parole dopo averle immerse nel pensiero: ebbene, il discorso di Focione conteneva il massimo di pensiero nel minimo di parole. E forse, tenendo conto di ciò, Polieutto di Sfetto osservò che Demostene era un ottimo oratore, ma il più abile a parlare era proprio Focione.

Focione. Statua, marmo, copia romana del I sec. da originale greco della seconda metà del V secolo a.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

Alunno di Platone all’Accademia (Plut. Phoc. 4, 2), rivestì la strategia (στρατηγία) per ben quarantacinque volte (ibid. 8, 1-2), molto di più non solo dei propri contemporanei ma anche di qualsiasi altro cittadino nella storia di Atene!

Nel 376/5 a.C. in qualità di trierarca, agli ordini dello στρατηγός Cabria (c. 415-357), Focione comandò l’ala sinistra della flotta ateniese nella vittoria navale sui Lacedemoni a Nasso; dopodiché, gli fu affidato l’onere di riscuotere i tributi (Plut. Phoc. 6, 2; 7, 1; Praecepta 805f).

La cronologia esatta del suo primo mandato da στρατηγός (forse nel 371/0) è incerta. È comunque sicuro che con questo ruolo nel 349/8 egli guidò un corpo di spedizione ateniese in Eubea: mentre, nello stesso periodo, Atene era impegnata a Olinto contro Filippo II di Macedonia, il contingente affidato a Focione era abbastanza circoscritto, poiché i suoi concittadini contavano che gli Eubei si sarebbero presto uniti nella lotta contro i Macedoni.

Invece, fin da subito, il comandante si trovò ad affrontare una serie di insidie tesegli tanto dai locali, quanto dai suoi stessi commilitoni che non lo sopportavano. In ogni caso, Focione ottenne una splendida vittoria nella piana di Tamine, scacciò il tiranno Plutarco di Eretria e conquistò la piazzaforte di Zaretre (Plut. Phoc. 12-13; Dem. Or. 21, 164; Aeschin. Leg. 169-170).

Probabilmente nel 344/3, ricevuta in segreto una richiesta d’aiuto dai Megaresi, Focione convinse i propri concittadini a intervenire in soccorso di Megara (Plut. Phoc. 15, 1).

Franc Kavčič, Focione con sua moglie e una signora di Ionia. Olio su tela, 1801. Ljubljana, Narodna galerija.

Eletto nuovamente stratego per l’anno 343/2, egli prese le difese di Eschine durante il noto processo della “Falsa ambasceria”, mossogli dal collega Demostene che lo accusava di corruzione: in quell’occasione, Focione dimostrò apertamente la propria posizione politica nei riguardi della monarchia macedonica (Aeschin. Leg. 170; 184).

Nella primavera dell’anno successivo lo στρατηγός, inviato nuovamente in Eubea, sconfisse in battaglia Clitarco, tiranno di Eretria, e vi stabilì un governo filo-ateniese (Diod. XVI 74, 1-2; schol. ad Aeschin. in Ctes. 103; Filocoro FGrHist. 328 F 160); poi, nel 340/39, al comando della flotta soccorse Bisanzio e la liberò dall’assedio di Filippo (Plut. Phoc. 14, 3; Apoph. 188b-c; decem orat. 851a; IG II/III² 1628c, 437; 1629d, 958).

Dopo la vittoria macedone a Cheronea (338 a.C.), Focione tornò ad Atene (Plut. Phoc. 16, 1), dove, su voto unanime, fu scelto come comandante supremo all’organizzazione della difesa della città (ibid. 16, 4); egli, tuttavia, consigliando un accordo con Filippo, fece cadere le proposte disperate con cui il predecessore, Iperide, aveva cercato di rafforzare Atene. La pace infatti poté essere raggiunta proprio grazie alla sua mediazione, inviato ambasciatore della città insieme a Eschine e a Demade, ma si dichiarò contrario all’ingresso di Atene nella Lega di Corinto, fondata dallo stesso Filippo (Plut. Phoc. 16, 5).

Nel 336 si oppose fermamente alla risoluzione di votare un sacrificio di ringraziamento per l’uccisione del re macedone e alla proposta di tributare onori all’autore materiale del delitto (ibid. 16, 8).

Gioacchino Assereto, Focione rifiuta i doni di Alessandro il Grande. Olio su tela, ante 1649. Nantes, Musée des Beaux-Arts.

Eletto nuovamente στρατηγός per l’anno successivo, ma scoppiata a Tebe una rivolta anti-macedone, Focione ammonì i propri concittadini dal prendervi parte: la sedizione, infatti, fu prontamente e duramente soffocata e Focione convinse gli Ateniesi a consegnare i capi democratici, come Demostene, Iperide e altri, ad Alessandro, che li richiedeva (Diod. XVII 15, 2; Plut. Phoc.  17, 2-4).

Alla notizia della morte di Alessandro nel 323, Focione cercò in tutti i modi di contenere gli animi degli Ateniesi dal fare una rivolta. Inoltre, si oppose strenuamente in assemblea ai discorsi di Iperide e di Leostene, che portarono alla guerra lamiaca (Plut. Phoc. 22, 5-23, 4). Eletto per l’ennesima volta στρατηγός (ibid. 24, 1), Focione condusse l’esercito ateniese contro Micione, che, sbarcato nel demo di Ramnunte, al comando di una forza macedone e truppe mercenarie, stava devastando la regione, e lo respinse (ibid. 25, 1-4).

Dopo la sconfitta dei Greci, Focione e Demade guidarono i negoziati per concludere la pace con il reggente Antipatro (Diod. XVIII 18, 2; Plut. Phoc. 26-28; Nep. 19, 2). Convinto che nessun governo ben regolato potesse sussistere senza la tutela macedonica e senza l’esclusione della democrazia, che con le sue spinte estremistiche aveva arrecato ad Atene quella sconfitta, Focione approvò le condizioni imposte da Antipatro: l’insediamento di una guarnigione macedonica al porto di Munichia e l’instaurazione di un governo oligarchico-timocratico, di cui lo stesso Focione sarebbe stato uno dei capi.

In seguito, i rapporti amichevoli e la familiarità dell’anziano στρατηγός con Nicanore di Stagira, il comandante del presidio macedonico, gli costarono la sfiducia dei suoi stessi concittadini. Nella tarda primavera del 318, Poliperconte, successo ad Antipatro nella reggenza in Macedonia, proclamò un cambio di rotta nella politica verso le πόλεις greche, favorendo il ritorno dei regimi democratici. Focione, che vedeva nella restaurazione popolare, la fine di ogni buon governo, vi si oppose, forse aiutando i Macedoni a occupare anche il Pireo. Abbandonato a al proprio destino da Poliperconte e dal figlio di questi, Alessandro, Focione fu arrestato dai democratici ateniesi e, accusato di alto tradimento, fu condannato a morte (Nep. 19, 3-4; Plut. Phoc. 38, 1).

Charles Brocas, La morte di Focione. Olio su tela, 1804. Milwaukee Art Museum.

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Bibliografia:

C. Bearzot, Focione tra storia e trasfigurazione ideale, Milano 1985.

H.-J. Gehrke, Phokion. Studien zur Erfassung seiner historischen Gestalt, München 1976.

G.A. Lehmann, Oligarchische Herrschaft im klassischen Athen. Zu den Krisen und Katastrophen der attischen Demokratie im 5. und 4. Jahrhundert v. Chr., Opladen 1997, 32-40.

L.A. Tritle, Phocion the Good, London 1988.

La civiltà minoica

Verso la fine del III millennio (c. 2000) nel mondo egeo ebbero luogo profondi mutamenti, che coinvolsero soprattutto due regioni con sviluppi diversi. Da una parte, Creta e le Cicladi videro un’espansione dei centri abitati, adottarono il sistema palaziale e mantennero un intenso grado di scambi. Dall’altra, il Peloponneso e la Grecia continentale registrarono una significativa regressione culturale.

Creta, la più grande delle isole greche (ha una superficie di c. 8000 km2), situata nel cuore del Mar Egeo, fu crocevia di genti e culture, snodo strategico per i commerci, e grazie alla fertilità del suolo e al clima favorevole fu un luogo ideale in cui vivere. L’isola svolse per tutta la prima metà del II millennio (c. 2000-1450) un ruolo di primo piano, sia durante il periodo dei “primi palazzi” (c. 2000-1700), edificati in forme relativamente semplici a Cnosso e a Festo, sia soprattutto durante il periodo dei “secondi palazzi” (c. 1700-1450), cioè l’apogeo della civiltà che ivi fiorì.

Delfini. Affresco parietale, c. 1600-1450 a.C. dal megàron della Regina. Cnosso, sito archeologico del Palazzo.

Non è noto come gli abitanti di Creta chiamassero loro stessi, ma furono ribattezzati Minoici dall’inglese sir Arthur J. Evans (1851-1941), l’archeologo che condusse delle campagne di scavo a Cnosso tra il 1900 e il 1935: tale denominazione è tratta dal mitico re cnossio Minosse, ricordato da Tucidide (I 4) come il più antico possessore di una flotta e θαλασσοκράτωρ («signore del mare»). L’autore non ha fatto riferimento tanto al mito in sé, quanto piuttosto ha indagato le ragioni effettive che dovettero guidare l’azione di Minosse:

Ora, Minosse fu il più antico di coloro che conosciamo grazie alla tradizione a possedere una flotta e a detenere il controllo di gran parte di quel mare, che oggi si chiama “Greco” [sc. l’Egeo]. Egli ottenne il dominio delle Cicladi e fu il primo a colonizzarne la maggior parte, scacciandone i Cari e stabilendovi come capi i propri figli; e, com’era naturale, si prodigò quanto più poté per sgomberare il mare dai pirati, affinché i tributi gli arrivassero con maggior facilità[1].

Lo storico illustra gli effetti della talassocrazia, cioè il dominio dei mari esercitato dai Cretesi, fenomeno al quale collega il progresso economico cui dovette assistere l’intero bacino egeo. Del resto, anticamente la pirateria aveva rappresentato un diffuso mezzo di guadagno per molte genti affacciate sul mare, ai tempi di Tucidide le città greche adottavano ormai misure atte a combatterla per tutelare i viaggi e i commerci, mentre, in caso di guerra, non esitavano a rimetterla in auge per danneggiare i nemici.

Il «Principe dei gigli». Affresco parietale, c. 1600-1450 a.C., dal «Corridoio delle processioni» del Palazzo di Cnosso. Heraklion, Museo Archeologico.

Insomma, durante la seconda fase palaziale Cnosso divenne il centro egemone dell’isola, imprimendo sul territorio una significativa unità culturale.

Gli studiosi moderni periodizzano la storia di questa civiltà in due modi: seguendo la cronologia propria dell’Età del Bronzo, distinguono in Periodo Antico Minoico (c. III millennio), Periodo Medio Minoico (c. 2000-1570) e Periodo Tardo Minoico (c. 1570-1050); oppure individuano due fasi, contrassegnate dalla formazione e dallo sviluppo dei grandi palazzi, ovvero una Fase Protopalaziale (o “dei primi palazzi”) e una Fase Neopalaziale (o “dei secondi palazzi”); a marcare le differenze tra i due periodi si è assunta la data canonica dell’anno 1700, dopo la quale i primi palazzi avrebbero subito una grave distruzione.

Il sistema palaziale, già ampiamente collaudato in Asia occidentale, era una forma di organizzazione politico-sociale fortemente centralizzata, basata appunto sul palazzo e sulle sue funzioni: sede del potere politico, esso svolgeva anche un ruolo economico, sacrale e culturale. Come una vera e propria comunità autosufficiente, chi risiedeva nel palazzo organizzava il lavoro agricolo e la produzione artigianale, si preoccupava di gestire la raccolta delle materie prime, di immagazzinare prodotti e manufatti, di ridistribuire gli strumenti di lavoro e le risorse, ma anche di praticare e officiare il culto.

«Le raccoglitrici di croco». Affresco parietale, c. 1700-1600 a.C., da Akrotiri. Santorini, Museo Archeologico.

L’adozione di questo sistema è stata collegata, oltre che agli influssi orientali, a un’evoluzione interna legata a fattori diversi, come, per esempio, l’introduzione nell’isola delle colture della “triade mediterranea” (vite, ulivo e cereali), che avrebbe creato la necessità di organizzare la produzione, la raccolta di eccedenze e la loro ridistribuzione.

Dal punto di vista architettonico, il palazzo aveva una struttura complessa, che fu alla base della tradizione cretese del Labirinto: intorno a un grande cortile centrale, di forma quadrangolare e orientato in direzione Nord-Sud, si raggruppavano ambienti di servizio, aree d’abitazione e sale di ricevimento, luoghi di culto, magazzini, uffici, laboratori; un ampio cortile lastricato introduceva alla facciata monumentale, collocata sul lato occidentale; molti ambienti presentavano una ricca decorazione ad affreschi policromi. L’inserimento nel contesto naturale era particolarmente curato: l’edificio era aperto sull’ambiente circostante e sull’abitato che lo circondava, capace di ospitare una popolazione numerosa; particolare attenzione era posta all’aerazione e all’illuminazione. L’assenza di fortificazioni, che aveva fatto pensare a un pacifismo minoico ai primi interpreti, sembra indicare una certa sicurezza rispetto alle aggressioni esterne: non va dimenticato che i Cretesi, che confidavano nella loro potenza navale, erano un popolo di marinai, mercanti, pirati e conquistatori.

Guerrieri minoici. Illustrazione di G. Rava.

Un elemento fondamentale nello sviluppo dei palazzi è rappresentato dai progressi nei sistemi di notazione, computazione e scrittura: la Creta minoica, infatti, fu l’unica regione europea ad aver adoperato un sistema scrittorio fin dal III millennio. Gli scavi sull’isola hanno restituito sigilli di vario materiale, cretule d’argilla con impronte di sigilli, apposti su vasi, forzieri e porte, nonché tavolette e altri oggetti in terracotta. Mentre i sigilli e le cretule servivano a controllare la raccolta e la ridistribuzione di beni, la scrittura era necessaria per la contabilità, l’annotazione e la registrazione dei prodotti immagazzinati o scambiati.

Rispetto a quelle mesopotamiche e a quella egizia, la scrittura minoica fu approntata in maniera del tutto autonoma: prima una scrittura ideogrammatica (Evans la definì “geroglifica”), che ha la sua principale attestazione nel cosiddetto Disco di Festo, una tavoletta ceramica (c. 1600) dalla caratteristica forma circolare, dal diametro di 16 cm e solcata, su entrambe le facce, da 241 simboli disposti a spirale; poi la cosiddetta “Lineare A”, presente non solo a Creta ma anche nelle Cicladi. Si tratta, in entrambi i casi, di scritture sillabiche, che esprimevano una lingua non greca e che non è stato possibile finora decifrare.

Tavoletta ceramica con i segni incisi della Lineare A. La Canea, Museo Archeologico di Chanià.

La religione era un aspetto fondamentale della vita del palazzo, tanto che Evans fu indotto ad avanzare l’ipotesi di una “teocrazia” minoica, guidata da un re-sacerdote. Benché questa congettura non trovi riscontro sicuro, certo è che il palazzo riservava al culto ambienti specifici con adeguata decorazione.

La divinità più importante era una dea, che veniva generalmente rappresentata sotto sembianze umane in figurine dai seni prosperosi, simboli di fertilità, e in qualche caso nell’atto di stringere tra le mani una coppia di serpenti, creature ctonie, o affiancata da altri animali sacri. Le immagini della dea riproducono il modulo della πότνια θηρῶν («signora delle bestie») e la identificano con la Grande Madre mediterranea, espressione della fertilità della Terra e delle forze rigeneratrici della Natura.

«Dea dei Serpenti». Statuetta, faïence, c. 1600 a.C. da Cnosso. Heraklion, Museo Archeologico.

Ella proteggeva i raccolti e da lei, con ogni probabilità, era ritenuto discendere il potere regale del sovrano cretese, che si presentava in terra come suo figlio. Tra gli oggetti a lei sacri si segnalavano la λάβρυς, l’ascia bipenne utilizzata nei sacrifici, e le “corna di consacrazione”, che ornavano i tetti dei palazzi. Entrambi i paramenti erano manifestazioni simboliche ricollegabili alla natura del cerimoniale rivolto alla dea, che prevedeva l’immolazione di un toro mediante l’impiego, appunto, di una doppia ascia. Il significato sacrale attribuito al toro è testimoniato dall’onnipresenza di questo animale nell’arte minoica: tra le attestazioni più note si segnalano un vaso di steatite a forma di testa di toro e l’affresco proveniente dal palazzo di Cnosso (c. 1450-1400), raffigurante il gioco rituale della ταυροκαθάψια; quest’ultimo prevedeva che, quando il toro caricava, gli acrobati gli afferrassero le corna, compissero un doppio salto mortale sulla sua groppa e, infine, balzassero a terra in piedi: una prova di forza e di agilità assai difficile e molto pericolosa!

Testa di toro. Rhyton, steatite e limonite, c. 1425-1390 a.C. da Cnosso. Heraklion, Museo Archeologico.

Alla figura del toro si associano le leggende di Minosse, del Minotauro e di Dedalo e Icaro. Secondo il mito, infatti, il re cnossio aveva ordinato al celebre artefice Dedalo di costruire il Labirinto, un edificio a pianta complessa, al cui interno sarebbe stato difficile orientarsi a causa dell’intreccio di passaggi, in cui rinchiudere il mostruoso Minotauro, un essere metà uomo e metà toro che si cibava di carne umana. A costruzione ultimata, però, per impedire che Dedalo svelasse il modo di uscire dall’edificio, Minosse lo fece rinchiudere nel Labirinto insieme al figlio Icaro. Il mirabile artiere, tuttavia, fabbricò due paia di ali fatte di piume d’uccello e incollate con la cera, grazie alle quali riuscì a scappare con il figlio; Icaro, però, imprudentemente si avvicinò troppo al Sole, che sciolse la cera, facendolo precipitare in mare.

Il Labirinto, secondo la tradizione, continuò a mietere vittime. Dopo aver sottomesso gli Ateniesi per un torto subito, Minosse li costrinse, in segno di resa, a inviargli ogni anno sette fanciulli e sette fanciulle da offrire in pasto al Minotauro. Il mostro fu infine ucciso dall’eroe Teseo, che aveva fatto parte di un gruppo di ragazzi destinati al sacrificio, ma era poi riuscito ad avere la meglio sulla creatura e a uscire dal Labirinto: per far ciò aveva srotolato un gomitolo di lana che gli era stato dato da Arianna, la figlia del re, innamorata del giovane straniero[2].

La leggenda è forse un’eco del tributo che gli abitanti della Grecia continentale dovevano pagare ai Minoici, che spadroneggiavano sull’Egeo; il Labirinto, invece, sarebbe una rappresentazione simbolica del palazzo di Cnosso, che era il centro principale dell’isola; la figura del Minotauro, infine, potrebbe evocare la consuetudine dei re-sacerdoti cretesi di vestirsi con pelli e corna di toro. La vittoria di Teseo sul mostro e, quindi, su Minosse potrebbe simboleggiare la liberazione dal predominio cretese, durante la fase micenea della storia dell’isola[3].

Teseo e il Minotauro. Illustrazione di P. Connolly.

Le fonti antiche restituiscono un’immagine complessa e ambigua di Minosse, mitico re: talvolta è presentato come un despota autoritario, talvolta invece è annoverato tra i legislatori più saggi e giusti, e dunque riconosciuto come uomo dai giudizi equilibrati. Pareri discordanti circolavano anche in merito alle funzioni del Labirinto e ai riti che a esso erano associati.

Notevole fu l’impulso dato dal sistema palaziale alla produzione artistica: la centralizzazione della struttura economica garantiva la fornitura di materie prime e di servizi agli artigiani, favorendo il progresso tecnico come nell’uso del tornio, dell’incrostazione, della placcatura e della granulazione. Nell’ambito della produzione cretese si segnalano la ceramica del cosiddetto “stile di Kamarés” (dal nome della grotta sul monte Ida, dove furono scoperte le prime terrecotte), decorata con motivi naturalistici, tra i quali prevale il polpo, e preziosi manufatti di metallurgia e oreficeria. Non solo. Splendidi affreschi dalle tinte accese ornavano i palazzi: queste opere forniscono alcune informazioni interessanti sui costumi di questa civiltà. I gioielli erano portati indistintamente dalle donne e dagli uomini, entrambi i sessi avevano l’abitudine di dipingersi gli occhi e curarsi il volto con prodotti cosmetici.

Cratere decorato con gigli bianchi, ceramica di «stile Kamares», c. 1800-1700 a.C., da Festo (Creta). Heraklion, Museo Archeologico.

La documentazione archeologica, in sostanziale accordo con la visione tucididea della “talassocrazia” di Minosse, attesta i rapporti dell’isola di Creta con l’Egitto, con Cipro, con le coste dell’Asia Minore e con le altre isole dell’Egeo: l’epoca dei “secondi palazzi” segnò infatti una svolta rivoluzionaria per la civiltà minoica, ovvero l’egemonia di Cnosso su tutta l’isola e l’estensione dei traffici commerciali nel Mediterraneo, costituendo il momento di massimo splendore. I Cretesi possono essere identificati con i Keftiu dei testi egizi e con i Kaptara di quelli mesopotamici. Nelle Cicladi, durante il Tardo Periodo Cicladico (c. 1700-1600), la diffusione della cultura minoica fu notevole, soprattutto a Melo e a Tera (od. Santorini): qui, in particolare, nel 1967 venne alla luce un insediamento palaziale con splendidi affreschi, andato distrutto nelle catastrofiche eruzioni vulcaniche e dai conseguenti violenti terremoti, datati alla fine del XVII secolo. Il destino dell’isola, di cui buona parte sprofondò in mare a causa dell’esplosione del vulcano, probabilmente diede spunto alla formazione nella memoria collettiva dei Greci del mito di Atlantide, raccontato da Platone in due suoi dialoghi, il Timeo e il Crizia. La successiva ubicazione al di là delle Colonne d’Ercole di questo Paese leggendario rispose forse al bisogno dell’uomo Greco di collocare episodi a lui storicamente lontani in luoghi remoti, ai confini del mondo conosciuto.

Rovine di abitazioni ad Akrotiri, Thera/Santorini.

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Riferimenti bibliografici:

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[1] Thuc. I 4, Μίνως γὰρ παλαίτατος ὧν ἀκοῇ ἴσμεν ναυτικὸν ἐκτήσατο καὶ τῆς νῦν Ἑλληνικῆς θαλάσσης ἐπὶ πλεῖστον ἐκράτησε καὶ τῶν Κυκλάδων νήσων ἦρξέ τε καὶ οἰκιστὴς πρῶτος τῶν πλείστων ἐγένετο, Κᾶρας ἐξελάσας καὶ τοὺς ἑαυτοῦ παῖδας ἡγεμόνας ἐγκαταστήσας· τό τε λῃστικόν, ὡς εἰκός, καθῄρει ἐκ τῆς θαλάσσης ἐφ’ ὅσον ἐδύνατο, τοῦ τὰς προσόδους μᾶλλον ἰέναι αὐτῷ.

[2] Lo Pseudo-Apollodoro (Bibl. III 15, 8-9; Epit. 7-9), per esempio, riferisce: «Non molto tempo dopo, Minosse, che aveva il domino sui mari, armò una flotta contro Atene e s’impossessò Megara […]. Il conflitto andava per le lunghe, ma Minosse non riusciva a conquistare anche Atene. Allora invocò Zeus affinché ottenesse riparazione dagli Ateniesi: la comunità fu colpita da carestia e pestilenza. Per prima cosa, perciò, gli Ateniesi, seguendo un’antica profezia, immolarono sulla tomba del Ciclope Geresto le figlie di Giacinto, Anteide, Egle, Litea e Ortea […]. Ma il sacrificio non servì a nulla ed essi domandarono all’Oracolo come potessero liberarsi dalle calamità. Il dio rispose che avrebbero dovuto subire una pena scelta da Minosse. Mandarono, quindi, dei messi a Minosse per domandargli a quale punizione avrebbero dovuto sottoporsi e quello rispose loro di inviargli sette ragazzi e sette ragazze, disarmati, da dare in pasto al Minotauro. Questo stava rinchiuso nel Labirinto, dove colui che entrava non poteva più uscirne perché i suoi intricati corridoi impedivano di trovare l’uscita […]. Al tempo del terzo tributo per il Minotauro, Teseo fu messo in lista: alcuni affermano che si fosse offerto spontaneamente. […] Quando Teseo giunse a Creta, la figlia di Minosse, Arianna, si innamorò di lui e promise di aiutarlo, a patto che acconsentisse di riportarla ad Atene e la facesse sua sposa. Il giovane accettò e giurò; allora Arianna chiese a Dedalo di rivelarle il modo di uscire dal Labirinto. E su consiglio dell’artefice, ella consegnò a Teseo, nel momento in cui vi entrò, un filo; il giovane lo legò al portale e s’inoltrò, tirandoselo dietro. S’imbatté nel Minotauro nell’ambiente più interno dell’edificio, lo uccise a forza di pugni e poi, seguendo il filo a ritroso, riguadagnò l’uscita».

[3] Plutarco di Cheronea (Thes. 15-16), oltre alla versione mitica più diffusa, riferisce anche una versione che “razionalizza” il racconto: «Minosse, convinto che suo figlio Androgeo fosse stato assassinato con l’inganno in Attica, aveva mosso guerra e arrecava molti mali ai suoi abitanti; la divinità, da parte sua, mandava in rovina il Paese: su di esso infatti si abbatterono sterilità e malattie innumerevoli e i fiumi si prosciugavano; il dio indicò loro di riconciliarsi e di riappacificarsi con Minosse, per far cessare l’ira e porre fine alle sofferenze; così, gli abitanti dell’Attica mandarono un araldo, chiesero di scendere a patti e conclusero un accordo in base al quale come tributo avrebbero inviato ogni nove anni sette ragazzi e sette ragazze: su questo concorda la maggior parte degli autori. Il racconto più tragico rappresenta il Minotauro che strazia nel Labirinto i giovani condotti a Creta, oppure essi che, dopo aver vagato, incapaci di trovare una via d’uscita, muoiono lì. […] Filocoro narra che i Cretesi non sono d’accordo su questo punto, ma sostengono che il Labirinto fosse una prigione con un solo svantaggio: coloro che fossero stati lì internati non avrebbero potuto fuggire; essi dicono anche che Minosse istituiva gare ginniche in onore di Androgeo e ai vincitori dava come premio i ragazzi, fino a quel momento imprigionati nel Labirinto. Le prime gare furono vinte da un uomo che allora era molto influente presso di lui e che comandava i suoi eserciti: si chiamava Tauro, era smodato e crudele di carattere, e anche nei confronti dei giovani Ateniesi si comportò in modo sprezzante e violento».

La congiura di Catilina e la rivolta degli esclusi dal potere

da R. CRISTOFOLI, Storie e parabole del potere personale al tramonto dell’antica Repubblica romana: anni 107-44 a.C.,in ID., A. GALIMBERTI, F. ROHR VIO (eds.), Dalla Repubblica al Principato. Politica e potere in Roma antica, Roma 2014, 43-49 [con modifiche].

Se per la prima parte dei I secolo a.C. si parla del potere, delle sue basi e di coloro che, raggiungendolo e concependolo in maniera diversa, lo detennero effettivamente, ora con la figura di Catilina si apre invece una luce su quanti si trovarono, a un certo punto della propria carriera politica, a non essere più in grado di aspirarvi, e tentarono una rivolta uscendo prima dalle regole non scritte dell’ortodossia politica, poi dalla legalità. Non si trattò, appunto, di un povero o di un uomo di umili origini, ma di un aristocratico in declino, il quale, animato dal disegno di tornare a competere per il potere, guardò al popolo e agli indigenti non solo dell’Urbe, nonché ad altri aristocratici male in arnese, come a una base di sostegno e a un bacino di reclutamento militare: la sua coniuratio, che minacciava un rovesciamento violento, non fu che un tentativo estremo di imporre una svolta all’interno di un quadro in cui, con l’avvicinamento tra optimates ed equites e lo stemperarsi delle tensioni della guerra civile e degli anni Settanta, la sola preoccupazione per un sistema politico e istituzionale sempre più ristretto alla partecipazione di poche famiglie erano ormai i paventati tentativi autocratici dei signori della guerra.

L. Cassio Longino. Denario, Roma 63 a.C. Ar. 3,70 gr. Rovescio: Longin(us) IIIV(ir). Un cittadino in atto di votare, stante, verso sinistra, mentre ripone una tabella, riportante l’abbreviazione U(ti rogas), in una cista.

Lucio Catilina, della famiglia ormai in declino dei Sergii, nacque a Roma nel 108/7. Il matrimonio con Gratiana lo portò ad avvicinarsi a Mario (la donna era sua nipote), ma, dopo la militanza con Gneo Pompeo Strabone, nell’88 passò al seguito di Silla nella prima guerra mitridatica (87-85); al ritorno, fu un sostenitore così accanito di Silla da massacrare il cognato Mario Gratidiano. Il cursus honorum di Catilina prese avvio nel 78 con la questura e proseguì nel 71 con l’edilità, mentre più importanti cariche arrivarono all’inizio degli anni Sessanta: è del 68 la pretura, e del 67-66 il governatorato provinciale in Africa. Erano, quelli, gli anni in cui la competizione elettorale si restringeva ai facoltosi: la propaganda dei candidati e la possibilità di ben figurare una volta eletti in alcune cariche (soprattutto l’edilità) dipendevano strettamente dalle risorse economiche dei singoli, e così era frequente che i membri delle famiglie non più al culmine della prosperità si indebitassero in maniera anche molto rilevante. Tale era la situazione di Catilina, anche per una tendenza allo sperpero cominciata fin dagli anni giovanili, e in quell’epoca tipica di molti rampolli della gioventù capitolina di alto rango.

Tornato a Roma dall’Africa e pendendo su di lui un processo de repetundis (come capitava spesso ai governatori indebitati che si trovavano preposti a una provincia ricca), accusato di aver sfruttato indegnamente quel territorio, Lucio Catilina si candidò nel 66 al consolato per l’anno successivo: l’occasione era propizia, perché i consoli già eletti per il 65, Autronio Peto e Publio Cornelio Silla (nipote di Silla Felix), furono accusati de ambitu e deposti, cosicché Catilina, da poco tornato dall’Africa, poté partecipare alla gara elettorale supplementare, anche sperando di sfuggire così al processo (il diritto romano non consentiva di portare alla sbarra chi avesse cominciato una magistratura, fino allo scadere del mandato). Tuttavia, oltre alla causa incombente, proprio i suoi temuti trascorsi – che includevano uno scandalo con le Vestali! – minarono le sue possibilità e frustrarono il suo tentativo: si decise di non ammettere alla candidatura, pretestuosamente, quanti non fossero già stati candidati alle prime elezioni, e furono così eletti consoli Lucio Aurelio Cotta e Lucio Manlio Torquato.

Ritratto virile, detto ‘Cicerone’. Busto, marmo bianco, I sec. d.C. Firenze, Galleria degli Uffizi

A questo punto Sallustio (Cat. 18, 4 ss.; ma cfr., tra l’altro, DCass. XXXVI 44, 3 ss.) di una cosiddetta «prima congiura di Catilina», con Catilina e Autronio Peto che avrebbero coinvolto Gaio Pisone in una trama contro la vita dei nuovi consoli Cotta e Torquato, da attuarsi il 1° gennaio del 65 alla loro entrata in carica; compiuto l’assassinio, Pisone sarebbe poi dovuto andare con un esercito a occupare le due Hispaniae. La congiura fu posticipata al 5 febbraio perché trapelata, e in quell’occasione la strage avrebbe dovuto riguardare anche molti senatori: ma quel giorno lo scarso numero di adesioni e il segnale dato da Catilina troppo presto fecero fallire tutto. Pisone andò in Spagna lo stesso, come governatore e con l’appoggio del neocensore Crasso (Sall. Cat. 19, 1), ma lì venne assassinato. Nessuna indagine acclarò i fatti del 65, e la maggioranza degli studiosi moderni non accorda molta fiducia alla loro realtà; se fu Cicerone nel 64, con l’orazione per la sua candidatura, a dare origine alle illazioni su tale presunta trama, reiterandole in discorsi successivi, va detto che in effetti Sallustio, Livio (ma la Per. 101 non fa il nome di Catilina) e Cassio Dione le considerarono molto seriamente, andando oltre lo stesso oratore per quanto riguarda la costruzione di una vera e propria congiura. È con Svetonio che il quadro si arricchisce di un dato significativo, che la tradizione ostile a Cesare aveva conservato: al cap. 9 della sua biografia leggiamo infatti che Cesare, pochi giorni prima di assumere l’edilità del 65, venne sospettato di aver dato vita a una congiura insieme a Crasso e ai due consoli vincitori delle prime elezioni del 66, Silla e Autronio. La congiura – poi naufragata per pavidità o per un ripensamento di Crasso – sarebbe stata finalizzata all’uccisione degli avversari in Senato, dopodiché Crasso avrebbe dovuto assumere la dittatura con Cesare come magister equitum, e riattribuire il consolato a Silla e Autronio. Notevole però il fatto che, in questo ramo della tradizione confluito in Svetonio, non si facesse menzione di Catilina: di vero può esserci soprattutto l’avvicinamento di Crasso e Cesare, preoccupati dai successi di Pompeo in Oriente.

Catilina venne assolto dall’accusa di concussione (de repetundis) che pendeva su di lui, ma troppo tardi per poter presentare la candidatura al consolato del 64; tornò in lizza per quello del 63, questa volta con possibilità accresciute grazie al sostegno di importanti personaggi, tra i quali probabilmente Crasso e forse Cesare, entrambi annoverati da Asconio Pediano (nel commento all’orazione ciceroniana In toga candida 74, p. 83 Clark) come sostenitori di Catilina, e che è possibile presupporre interessati – in un’ottica di perseguimento del proprio utile, che nell’aristocrazia del tempo si faceva sempre più preponderante rispetto a qualsiasi coerente ideologia – a un programma parzialmente “popolare”, nell’intento di fronteggiare la paventata elezione del candidato pompeiano e conservatore Marco Tullio Cicerone.

M. Tullio Cicerone (?). Statua, marmo, II sec. d.C. Oxford, Ashmolean Museum.

Si può presumere che il programma di Catilina contenesse sì delle aperture riformiste e delle misure volte ad alleviare la crisi finanziaria che colpiva il popolino e la plebe rurale, ma non ancora i disegni di riforme ad alto impatto che avrebbero contraddistinto l’ultima parte della sua attività politica e che in questa fase sarebbero stati ancora prematuri, in quanto lo avrebbero privato dell’appoggio di Crasso, legato al ceto imprenditoriale-finanziario e quindi sordo a qualsiasi misura inerente a condoni di debiti e a trasformazioni sociali radicali: ha senz’altro ragione Syme (1968, 92-93) a rimarcare che Sallustio, in realtà, anticipa nella sua narrazione i piani rivoluzionari del personaggio.

Catilina e i suoi fautori dovettero mobilitarsi per questa competizione elettorale per il consolato del 63 e indulgere alla pratica, del resto diffusa, dell’ambitus («broglio»); ma le cose non andarono come essi si auguravano, e furono eletti Cicerone, appoggiato dalla maggioranza degli optimates (spaventati dalle manovre di Crasso e Cesare) e degli equites, e, tra coloro che facevano capo al sostegno elettorale di Crasso, il solo Gaio Antonio Hybrida, un sillano.

Non ancora disposto a rassegnarsi, Catilina tentò per la terza volta di raggiungere la suprema magistratura e si candidò per le elezioni del 63 per il consolato del 62, senza più l’appoggio di Crasso: Catilina, che almeno alle elezioni precedenti aveva goduto ancora del sostegno di potenti personaggi – i quali intendevano avvalersi di lui come di uno strumento per la loro politica – ed era stato a un passo dal coronamento della carriera dell’alta aristocrazia, da questo momento può invece essere considerato un escluso dal potere, che come tale cerca di ovviare alla propria situazione e alle difficoltà della sopravvenuta indigenza, cavalcando il malcontento di quanti non appartenevano da sempre, e di quanti non appartenevano più, alla ristretta élite dominante.

La sua è una rivolta che comincia fin dal programma: in sé legittimo, pur se questa volta radicale, e imperniato sulla remissione dei debiti pregressi (tabulae novae) come su una bandiera anche ideologica, in qualche modo mirata a far presa trasversalmente, in quanto teoricamente in grado di attrarre nel favore a essa la plebe e i piccoli proprietari terrieri italici, ma anche non pochi patrizi indebitati per lo stile di vita o per l’ambizione politica. La base di consenso di Catilina vantava infatti ancora degli optimates (ma per la maggiore in difficoltà), tra i quali Publio Cornelio Lentulo Sura (cos. 71), espulso dal Senato nel 70, e Lucio Cassio Longino (praet. 66), mentre la sua base sociale era composta in larga parte dalla plebe urbana, da giovanotti ambiziosi e pieni di debiti, da piccoli proprietari soprattutto dell’Etruria e da ex soldati di Silla. Nondimeno, Catilina andò incontro all’ennesima sconfitta elettorale.

Joseph-Marie Vien, La congiura di Catilina. Olio su tela, c. 1809.

La maggioranza dell’aristocrazia ottimate e la pressoché totalità dei cavalieri si erano infatti date molto da fare alla luce di quella che Catilina aveva configurato come la sua azione politica in caso di elezione consolare; l’immagine di Catilina fu dai suoi avversari propagandisticamente deformata e presentata come quella di un dissoluto ispirato da intenti sovversivi, che giungeva al punto di cibarsi delle viscere di bambini immolati a suggello di sacrifici (DCass. XXXVII 30, 3). Catilina, deciso allora a giocarsi il tutto per tutto uscendo dalla legalità, passò alla soluzione estrema (il «piano B»: Waters 1970, 198 ss.) di ordire un complotto a danno di Cicerone e di arruolare un esercito di veterani in Etruria, comprendente, oltre ai sostenitori della prima ora e ai braccianti, anche bande paramilitari e servi: Gaio Manlio agì per conto di Catilina proprio a tal scopo.

La nuova sconfitta nella competizione per il consolato era nata soprattutto dall’abbandono da parte di Crasso, nonché dal differimento – non si sa quanto lungo, forse fino all’autunno – dei comitia attuato da Cicerone, che impedì di votare alla plebe rurale (Plut. Cic. 14, 5); ma va rilevato che anche un’ampia percentuale della plebe urbana indipendente (soprattutto i tabernarii, secondo Yavetz 1969) dovette distaccarsi da lui, in piccola parte già prima e in parte maggiore dopo le elezioni, a mano a mano che Cicerone pronunciava i suoi discorsi contro Catilina, intrisi di rivelazioni circa i suoi progetti eversivi e l’inevitabile sconvolgimento dell’ordine pubblico, cui il temuto reclutamento di servi – mentre era ancor viva la memoria di Spartaco – offriva conferma. La plebs di Roma, non tutta indigente, che non si entusiasmò davanti alla lex agraria proposta da Rullo (appoggiata da Cesare e da Crasso, che volevano togliere a Pompeo il controllo delle assegnazioni di terreno, e per questo osteggiata da Cicerone), in quanto niente affatto sedotta dalla prospettiva di dover abbandonare l’Urbe per andare in colonie di nuova fondazione, dovette togliere il proprio favore a Catilina con buona probabilità per effetto della martellante propaganda, che oltre alle accuse di cui sopra arrivò ad attribuirgli anche quella di voler incendiare la città (Sall. Cat. 43, 2 ss., e altre fonti). Tutto ciò non era controbilanciato dall’attrattiva dell’abolizione dei debiti, che pur se realizzata non avrebbe comunque evitato ai disperati di contrarne di nuovi, in assenza di una reale e adeguata riforma economico-finanziaria (Yavetz 1969). Sallustio (Cat. 48) fa infatti notare come, dopo la scoperta della congiura, la plebe urbana avesse cambiato il suo modo di vedere le cose (mutata mente), maledicendo i progetti di Catilina e portando alle stelle Cicerone (Catilinae consilia exsecrari, Ciceronem ad caelum tollere), timorosa soprattutto della prospettiva che fossero appunto appiccati incendi (per facilitare l’invasione della città da parte dei catilinari), particolarmente temibili per chi possedeva solo utensili e vestiti. Faremmo inoltre rilevare che per una parte non piccola della platea dei poveri esisteva ormai anche la prospettiva dell’arruolamento militare professionale post-mariano, che certo aveva ridotto il numero degli uomini sui quali potesse far presa un progetto rivoluzionario e rischioso, basato su misure che in ultima analisi erano palliative.

Cesare Maccari, Cicerone denuncia la congiura di Catilina in Senato. Affresco, 1882-88. Roma, Palazzo di Villa Madama.

Il 27 ottobre del 63 in Etruria avvenne l’insurrezione, mentre il 6 novembre a Roma i catilinari pianificarono l’assassinio del console Cicerone per la nottata. L’azione contro il magistrato fu però sventata, e la risposta del console non si fece attendere: l’8 e il 9 novembre egli tenne in Senato le prime due orationes in Catilinam, che poco più di una settimana dopo sortirono gli effetti della dichiarazione di Catilina come hostis publicus e dell’emanazione di un Senatus consultum ultimum. Catilina fu costretto a fuggire dall’Urbe e a cercare scampo presso i suoi in Etruria; nella disperata ricerca di nuove alleanze, era entrato in trattative perfino con gli Allobrogi, ma alcuni loro esponenti furono sorpresi a Roma con messaggi per Catilina e confessarono. La terza e la quarta delle Catilinariae, pronunciate rispettivamente il 3 e il 5 dicembre subito dopo la scoperta della corrispondenza segreta, se valsero a Cicerone il titolo di «salvatore della patria», costarono l’accusa di perduellio ai congiurati che erano ancora a Roma, e l’esecuzione in tutta fretta nel carcere Mamertino, senza che fosse loro concessa la provocatio ad populum.

Cesare aveva parlato in Senato contro l’opportunità di una condanna a morte almeno così immediata, e a favore invece della confisca dei beni e della prigionia per gli arrestati in attesa della sconfitta di Catilina e di un processo con tutti i crismi e le garanzie costituzionali; prevalsero però i pareri dell’ottimate emergente Marco Porcio Catone il Giovane e di Cicerone. Catilina, con eroismo eternato da Sallustio nel suo «ritratto paradossale» (La Penna 1976) del personaggio, morì nel gennaio del 62 a Pistoia, combattendo contro l’esercito condotto da Petreio.

Alcide Segoni, Il ritrovamento del corpo di Catilina dopo la battaglia di Pistoia. Olio su tela, 1871. Firenze, Galleria dell’Arte.

Anche fra gli studiosi moderni – una parte dei quali ritiene di ridimensionare l’importanza della vicenda – si trovano quanti danno credito alle fonti antiche e presentano quello di Catilina come il tentativo di destabilizzare lo Stato romano a opera di un dissoluto manovrato da politici potenti, e quanti, invece, hanno guardato a lui come a un leader con un’ambizione politica autonoma, che certamente trovò poi anche l’appoggio di personaggi influenti; ma non sono mancati neanche alcuni che, con buona dose di esagerazione, hanno annoverato il personaggio tra gli autentici riformatori sociali dell’antica Roma.

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