La società delle api (Verg. G. IV 149-227)

Dopo essersi occupato nel libro precedente dell’allevamento del bestiame, affrontando questioni connesse a cavalli, bovini, ovini, cani e malattie degli animali, Virgilio si rivolge a un tema particolare e per i moderni apparentemente insolito: l’allevamento delle api, argomento al quale dedica una buona parte del IV libro dei Georgica. Di questi insetti il poeta valorizza una serie di caratteristiche e comportamenti, descrivendone la prodigiosa vita sociale: nella loro comunità ogni individuo esiste in funzione della collettività, assolvendo scrupolosamente i compiti che il suo ruolo gli impone. Benché molti di questi aspetti, oggi, non abbiano alcun fondamento scientifico, tuttavia essi contribuiscono a esaltare in chiave poetica la vita delle api, una società ideale nella quale è possibile cogliere un riferimento alla realtà politica del tempo di Virgilio: l’autore auspicava per l’Italia il ritorno a quell’armonia sociale che decenni di guerre civili avevano logorato e che Ottaviano aveva promesso di restaurare.

Aberdeen, University Library. Univ Lib. MS 24 (inizi XIII secolo), Bestiario di Aberdeen, f. 63r. Sciami di api tornano ai favi.

Nunc age, naturas apibus quas Iuppiter ipse    

addidit expediam, pro qua mercede canoros    

Curetum sonitus crepitantiaque aera secutae  

Dictaeo caeli regem pauere sub antro.   

solae communis natos, consortia tecta  

urbis habent magnisque agitant sub legibus aeuum,  

et patriam solae et certos nouere penatis;         

uenturaeque hiemis memores aestate laborem           

experiuntur et in medium quaesita reponunt. 

namque aliae uictu inuigilant et foedere pacto

exercentur agris; pars intra saepta domorum   

narcissi lacrimam et lentum de cortice gluten 

prima fauis ponunt fundamina, deinde tenacis           

suspendunt ceras; aliae spem gentis adultos    

educunt fetus; aliae purissima mella      

stipant et liquido distendunt nectare cellas;    

sunt quibus ad portas cecidit custodia sorti,    

inque uicem speculantur aquas et nubila caeli,           

aut onera accipiunt uenientum, aut agmine facto      

ignauum fucos pecus a praesepibus arcent:      

feruet opus, redolentque thymo fraglantia mella.       

ac ueluti lentis Cyclopes fulmina massis

cum properant, alii taurinis follibus auras        

accipiunt redduntque, alii stridentia tingunt   

aera lacu; gemit impositis incudibus Aetna;     

illi inter sese magna ui bracchia tollunt 

in numerum, uersantque tenaci forcipe ferrum:         

non aliter, si parua licet componere magnis,    

Cecropias innatus apes amor urget habendi    

munere quamque suo. grandaeuis oppida curae         

et munire fauos et daedala fingere tecta.          

at fessae multa referunt se nocte minores,        

crura thymo plenae; pascuntur et arbuta passim        

et glaucas salices casiamque crocumque rubentem    

et pinguem tiliam et ferrugineos hyacinthos.   

omnibus una quies operum, labor omnibus unus:      

mane ruunt portis, nusquam mora; rursus easdem     

Vesper ubi e pastu tandem decedere campis    

admonuit, tum tecta petunt, tum corpora curant;      

fit sonitus, mussantque oras et limina circum. 

post, ubi iam thalamis se composuere, siletur 

in noctem, fessosque sopor suus occupat artus.          

nec uero a stabulis pluuia impendente recedunt        

longius, aut credunt caelo aduentantibus Euris,          

sed circum tutae sub moenibus urbis aquantur           

excursusque breuis temptant, et saepe lapillos,          

ut cumbae instabiles fluctu iactante saburram,

tollunt, his sese per inania nubila librant.         

  Illum adeo placuisse apibus mirabere morem,          

quod neque concubitu indulgent, nec corpora segnes

in Venerem soluunt aut fetus nixibus edunt;    

uerum ipsae e foliis natos, e suauibus herbis    

ore legunt, ipsae regem paruosque Quirites     

sufficiunt, aulasque et cerea regna refingunt.   

saepe etiam duris errando in cotibus alas         

attriuere, ultroque animam sub fasce dedere:  

tantus amor florum et generandi gloria mellis.

ergo ipsas quamuis angusti terminus aeui        

excipiat (neque enim plus septima ducitur aestas),    

at genus immortale manet, multosque per annos       

stat fortuna domus, et aui numerantur auorum.         

  Praeterea regem non sic Aegyptus et ingens

Lydia nec populi Parthorum aut Medus Hydaspes      

obseruant. rege incolumi mens omnibus una est;       

amisso rupere fidem, constructaque mella       

diripuere ipsae et cratis soluere fauorum.         

ille operum custos, illum admirantur et omnes

circumstant fremitu denso stipantque frequentes,      

et saepe attollunt umeris et corpora bello         

obiectant pulchramque petunt per uulnera mortem. 

  His quidam signis atque haec exempla secuti

esse apibus partem diuinae mentis et haustus 

aetherios dixere; deum namque ire per omnis 

terrasque tractusque maris caelumque profundum;   

hinc pecudes, armenta, uiros, genus omne ferarum,   

quemque sibi tenuis nascentem arcessere uitas:         

scilicet huc reddi deinde ac resoluta referri      

omnia, nec morti esse locum, sed uiua uolare  

sideris in numerum atque alto succedere caelo.

Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Ms. Vat. lat. 592 (1075 c.), Exultet. Scena di apicoltura.

Su dunque, ora descriverò quali doti naturali ha dato alle api

Giove in persona, come ricompensa, perché, seguendo i Cureti

sonori e i loro bronzi tintinnanti, vennero a nutrire

il re del cielo sotto l’antro ditteo.

Sole hanno prole in comune e abitazioni congiunte in città,

sole trascorrono l’esistenza secondo leggi grandiose,

sole riconoscono una patria e Penati certi,

e, memori dell’inverno incalzante, faticano in estate

e mettono in comune il frutto del loro lavoro.

Alcune, infatti, provvedono al nutrimento e, secondo un accordo

stabilito, lavorano nei campi; una parte nei recessi delle case

pone la stilla del narciso e il vischioso glutine di corteccia

a fondamenta dei favi, poi vi stende sopra

cere tenaci; altre fanno uscire i figli ormai adulti,

speranza della stirpe; altre ammassano miele purissimo

e gonfiano le celle d’un nettare trasparente.

Ad alcune è toccata in sorte la custodia dei portali

e a turno sorvegliano le piogge e le nubi del cielo

o raccolgono i fardelli di chi arriva o, schierate in colonna,

respingono i fuchi, bestie ignave, dalle mangiatoie.

Ferve il lavoro, profuma di timo il miele fragrante.

E, come quando i Ciclopi approntano in fretta le folgori

dalle masse di duttili metalli, alcuni aspirano e soffiano fuori l’aria

con mantici di pelle taurina, altri immergono in un bacino

i bronzi sfrigolanti – geme al peso delle incudini l’Etna –,

quelli a turno con forza immane sollevano le braccia,

ritmicamente, e rigirano il ferro nella presa delle tenaglie:

non diversamente, se è lecito paragonare il piccolo al grande,

un’innata passione di possedere incalza le api cecropie,

ognuna alla propria mansione. Le anziane badano alle dimore,

a proteggere i favi e a plasmarne i tetti con arte.

Invece, sfiancate tornano a notte fonda le più giovani,

le zampe colme di timo; colgono dovunque il cibo: su corbezzoli

e scuri salici e cassia e croco rossastro

e succoso tiglio e ferrigni giacinti.

Per tutte uno solo è il riposo, una sola è la fatica:

al mattino si riversano dagli accessi; non c’è posa; di nuovo,

quando la sera ordina di abbandonare finalmente il pascolo

nei campi, allora s’avviano a casa, allora si rifocillano;

si leva un ronzio, rumoreggiano intorno alle entrate e alle soglie.

Poi, quando ormai si sono sistemate nelle loro stanze, c’è silenzio

per tutta la notte e il giusto sonno s’impossessa delle stanche membra.

Però, se la pioggia incombe, non s’allontanano troppo dalle loro sedi,

né si fidano del cielo quando giungono gli Euri,

ma raccolgono acqua lì intorno, al sicuro sotto i bastioni della città,

azzardando brevi sortite e spesso portano con sé,

come le barche instabili all’urto dei flutti si zavorrano,

dei sassolini, con i quali si librano in volo tra nubi leggere.

C’è un comportamento, fra le api, che davvero ti stupirà:

non si abbandonano ai congiungimenti né fiaccano con indolenza

i corpi al servizio di Venere né generano i piccoli con il parto:

al contrario, da sole, raccolgono con la bocca i piccoli dalle fronde,

dalle erbe soavi, da sole rimpiazzano il sovrano e i piccoli cittadini

e riplasmano le aule e i reami di cera.

Spesso, inoltre, nel vagabondare spezzano le ali contro duri roccioni

e così rendono l’anima, con libera scelta, sotto il carico;

tanto è l’amore dei fiori, tanta la gloria di produrre il miele!

Dunque, anche se le afferra in breve tempo il limite della vita

– infatti, non sopravvivono alla settima estate –,

la stirpe, però, rimane immortale e per molti anni si regge la fortuna

d’una schiatta e si può risalire agli avi degli avi.

Inoltre, non rispettano altrettanto il loro sovrano

l’Egitto, la vasta Lidia, i popoli dei Parti, i Medi che vivono

sull’Idaspe. Finché il re è incolume, hanno un’anima sola;

quando è morto, subito violano l’obbedienza, saccheggiano

il miele ammassato e distruggono la struttura dei favi.

Il re è il regolatore dei lavori: lo riveriscono e tutte

lo circondano con denso ronzio, gli stanno attorno in gran numero,

lo sollevano sulle spalle e spesso gli fanno scudo con i loro corpi,

e cercano in mezzo alle ferite una morte gloriosa.

Da questi segni e da questi esempi alcuni han detto

che le api hanno parte della mente divina

e afflato dell’etere, che un dio penetra in tutte le cose,

nelle terre, nei tratti di mare, nel cielo profondo.

Di là le greggi, gli armenti, gli uomini, ogni specie animale

attingono, ciascuno nascendo, il soffio vitale;

e là ogni cosa è restituita e ritorna, dissolta;

non c’è spazio alla morte: volano vive le cose

in mezzo agli astri e si ritirano nelle altezze del cielo.

London, British Library. Ms Harley 3244 (c. 1236-1250). Peraldo, Summa teologica (con una Summa de vitiis), f. 57v. Favo con sciame di api.

Affascinato dal micromondo delle api, nella sua trattazione Virgilio ha seguito uno schema tipicamente etnografico: dopo aver descritto l’area di maggiore diffusione di questa specie (clima, vegetazione, ecc.), le attività condotte nelle varie stagioni, il loro comportamento in guerra (!), il poeta si sofferma – come farebbe un etnografo – sugli aspetti più insoliti e curiosi: nel caso delle api, una certa capacità divinatoria di cui questi insetti sarebbero dotati (vv. 191 ss.), la castità (vv. 197 ss.), la grande venerazione per il loro rex (cioè l’ape regina, di cui Virgilio, come quasi tutti i trattatisti antichi, ignorava il sesso femminile) e la loro natura spirituale e divina (vv. 220-221).

Il poeta impiega per le api un lessico umanizzante (natos e tecta urbis, vv. 153-154) non solo in forza di un tópos poetico ma anche perché l’esistenza di questi insetti era considerata la trasfigurazione di una società umana ideale. Si dice, infatti, nei versi successivi che le api vivono tutta la vita magnis sub legibus, grazie alle quali riconoscono patriam… et… penates. Poco dopo (v. 158) si fa riferimento al foedere pacto, all’accordo prestabilito, che presiede al lavoro in campagna, ancora una volta assimilando la società della api a quella umana e alle regole che sanciscono la convivenza del gruppo. Da perfetta comunità organizzata quale sono, le api appaiono anche in grado di far fronte al pericolo: esse si schierano in ordine di combattimento (agmine facto, v. 167: può essere curioso notare che anche l’italiano «sciame» deriva da un termine militare, exagmen, propriamente «colonna di soldati schierati») per allontanare i fuchi; difendono gli alveari, indicati con il termine oppida (v. 178), quasi fossero vere e proprie «città fortificate», e difendono i favi (v. 179, munire favos, anche qui un verbo attinto al lessico militare).

Proprio l’organizzazione delle api consente a Virgilio di sviluppare la trasfigurazione tradizionale della società umana ideale. Questi insetti assurgono a modello di convivenza civile, di Stato perfetto, in cui tutti agiscono per il bene comune aggregati attorno a una figura regale, garante dell’ordine e della concordia, e uniti da un forte senso di legalità reciproca: insomma, esattamente il progetto politico vagheggiato da Ottaviano, che negli anni in cui il poeta componeva i Georgica (37-29 a.C.), stava affermando il proprio potere. A fugare ogni dubbio interviene l’inequivocabile locuzione: parvos Quirites (v. 201), «piccoli Quiriti», utilizzata per definire le api. In questo modo l’allegoria che Virgilio va delineando è resa quanto mai esplicita: le api finiscono per rappresentare, a tutti gli effetti, l’immagine stessa della Romana civitas.

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L’Alcesti di Euripide

L’Alcesti (Ἄλκηστις) è il più antico dramma che di Euripide ci sia pervenuto, pur appartenendo già alla maturità del poeta (438 a.C.). Nella tetralogia di cui faceva parte – insieme con Cretesi, Alcmeone a Psofide e Telefo – e che ottenne il secondo premio, occupava il quarto posto: una anomalia, quella di porre in luogo del dramma satiresco una tragedia sia pure a lieto fine, che non dovette essere isolata nella produzione euripidea.

Pittore di Laodamia. Il commiato di Alcesti. Pittura vascolare da una λουτροφόρος apula a figure rosse, c. 350-325 a.C. Basel, Antikenmuseum.

La storia di Admeto e di Alcesti deriva con ogni probabilità da un’antica leggenda, comune presso molti popoli, secondo la quale il demone della Morte (Θάνατος), venuto a portar via il giovane uomo, si dichiara disposto a lasciarlo vivere, a patto che si trovasse chi lo avrebbe sostituito; il giovane allora supplicava il padre e la madre di morire al suo posto, ma ne otteneva un secco rifiuto. Soltanto la sua amata era disposta al sublime sacrificio, ma la sua abnegazione era compensata, perché ella veniva sottratta alla morte e restituita all’amato. Prima di Euripide la leggenda aveva già subito una rielaborazione mitico-religiosa, con personaggi e avvenimenti ben precisi nelle Eoie di Esiodo, in cui si narra che Apollo, punito dal padre Zeus per aver sterminato con le frecce i Ciclopi, fu condannato a servire per un anno, come mandriano, in casa di un mortale, Admeto, re di Fere in Tessaglia. Dopo qualche tempo Admeto sposò Alcesti, una delle figlie di Pelia, re di Iolco, ma nel giorno delle nozze dimenticò di sacrificare ad Artemide. La dea, infuriata, riempì di serpenti la camera da letto di Admeto; Apollo, che in casa del re era stato trattato con ogni riguardo, placò l’ira della sorella e ottenne, inoltre, per Admeto uno straordinario privilegio: una volta giunto per lui il giorno del trapasso, egli avrebbe potuto continuare a vivere, se avesse trovato un altro mortale disposto a morire al posto suo. Quando il momento arrivò, però, soltanto Alcesti fu disposta ad accettare il sacrificio e a scendere nell’Ade al posto del marito; Persefone, commossa da tanta fedeltà, le concesse il ritorno fra i vivi. Il racconto esiodeo era stato utilizzato da Frinico, con una sola variante: al personaggio di Persefone era stato sostituito quello di Eracle, antico compagno d’armi di Admeto nella spedizione argonautica, che, impietosito dall’eroismo di Alcesti e dallo straziante dolore dell’amico, era sceso nell’Ade e aveva rapito l’anima della donna al regno dei morti. Euripide, dunque, riprese questa versione del dramma, inserendovi un’ulteriore modifica: Eracle, invece di scendere nella casa di Ade, lottava contro il demone della Morte, Thánatos, e riusciva a strappargli la preda, riconducendola da Admeto.

Al principio del dramma, ambientato a Fere in Tessaglia, Alcesti si è ormai dichiarata pronta a morire al posto dell’amato sposo, mentre neppure gli anziani suoceri hanno voluto dare la propria vita in cambio di quella del figlio. Ora che è arrivato il momento supremo, interviene Thánatos a reclamare la sua vittima, e Apollo, che ha rievocato gli antefatti, si allontana. Il coro, formato da vecchi cittadini di Fere, entra nell’orchestra in preda all’ansia per la sorte di Alcesti e viene informato da un’ancella che all’interno della casa la donna si sta congedando dalla famiglia e dai servi. Entrano in scena i due coniugi: Alcesti, sostenuta dal marito è in preda a una visione in cui le sembra che lo stesso Caronte (il traghettatore dei morti) la chiami per l’ultimo viaggio (vv. 244-279). Adornata come a festa, ella prende commiato da tutti, soprattutto dai figli e dal letto nuziale; rimasta poi sola col marito, lo supplica, in nome del sacrificio che sta facendo per lui, di non risposarsi e non dare ai figli una matrigna, che potrebbe addirittura odiarli, se dalle seconde nozze ne nascessero altri. Il re, profondamente angosciato, dopo aver recitato il κομμός («lamento funebre»), promette solennemente alla moglie che non si risposerà, anzi, che si farà forgiare da un artista un’immagine di Alcesti che terrà sempre con sé, per avere l’illusione di avere ancora la sposa al proprio fianco; poi, lo sfinimento assale definitivamente la donna, che viene portata via esanime dal demone, lasciando la reggia e la città immerse nel lutto.

Alcesti e Admeto. Affresco pompeiano, ante 79, dalla Casa del Poeta Tragico. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Intanto Eracle, in viaggio verso la Tracia, dove su ordine di Euristeo dovrà sottrarre le cavalle di re Diomede, giunge a Fere e si reca a palazzo per chiedere ospitalità; Admeto, pur immerso nel dolore, non può venire meno ai doveri di ospite e di amico e accoglie l’eroe nella sua casa senza rivelargli che cosa sia accaduto alla sposa. Mentre Eracle si rifocilla, mangiando e bevendo gagliardamente, Admeto riceve la visita di suo padre Ferete, venuto a piangere la nuora. Il colloquio fra padre e figlio degenera ben presto in un violento alterco, nel quale Admeto rimprovera l’egoismo del vecchio, che non ha voluto sacrificarsi per il proprio figlio, costringendolo ad accettare la dipartita dell’amata sposa; Ferete, dal canto suo, ribatte a tutte le accuse ritorcendole sul figlio. Mentre i due si separano pieni di livore reciproco, tutti i personaggi e gli stessi coreuti si apprestano a condurre le esequie di Alcesti, ecco irrompere in scena Eracle, sazio di cibo e di vino: non appena rinsavisce e si rende conto del grave lutto che ha colpito l’amico, egli si vergogna del proprio comportamento e, deciso a ricambiarne l’ospitalità, parte alla volta dell’Ade per strappare l’ombra di Alcesti alle grinfie di Thánatos. Di ritorno dal funerale, Admeto si abbandona alla più cupa disperazione: solo ora elabora il significato della sciagura che gli è capitata con la perdita della sposa e lamenta la solitudine in cui è stato precipitato. Solo ora sembra rendersi conto che la vita per lui non ha più senso.

Nell’esodo del dramma ritorna Eracle, accompagnato da una donna velata, che dice di aver avuto come premio in una gara di lotta. Siccome si accinge a un viaggio lungo e difficile, prega Admeto di volerla ospitare nella reggia fino al suo ritorno. Admeto in un primo tempo rifiuta; poi, cedendo all’insistenza dell’eroe, solleva il velo: la donna si rivela essere Alcesti, restituita alla vita, sottratta a Thánatos. Così, mentre Eracle riparte per le sue avventure, i due sposi rientrano a palazzo, di nuovo uniti.

Ercole conduce Alcesti dall’Ade. Rilievo (particolare), marmo, II secolo, da un sarcofago raffigurante le fatiche dell’eroe. Velletri, Museo Civico.

Tragedia dai contorni quanto mai sfuggenti e passibile di interpretazioni contraddittorie, l’Alcesti è stata additata da Platone (Simposio, 179-180) come un fulgido esempio di dedizione e di φιλία da parte della protagonista, a dimostrazione di come solo chi ama è disposto a sacrificare la vita per la persona amata; con la precisazione che «non solo gli uomini, ma anche le donne». Proprio questa precisazione del filosofo può essere d’aiuto per un’interpretazione del personaggio di Alcesti in chiave meno “romantica”, ma più consona alla mentalità greca, secondo la quale il dramma fu scritto. Il sacrificio della propria vita per uno scopo alto e nobile, che lasci dietro di sé ammirazione, lode e ricordo, è considerato di solito una prerogativa maschile, un atto di ἁρετή eroica, purificato da qualunque sentimento soggettivo, e che non ha altro fine se non la fama che ne deriva. Al tempo di Euripide era convinzione comune che la vera ἁρετή fosse negata alle donne, ma l’insistenza con cui il poeta sottolinea il gesto di Alcesti avrebbe procurato fama eterna a lei e alle donne in genere, dimostrando che l’autore era di opinione diversa, e che vedeva nel suo personaggio più il limpido coraggio dell’eroina che la tenerezza dell’innamorata[1].

Complementare alla φιλία è la virtù dell’ospitalità, peculiare di Admeto e delle persone a lui più vicine: sotto il segno dell’ospitalità si apre il dramma, nel congedo di Apollo dalla dimora che lo ha accolto per un anno, e alla fine della vicenda l’ospitalità concessa a Eracle sarà elemento risolutivo.

Indissolubilmente legato a questi vi è il tema della gloria, che costituisce movente fondamentale dell’azione per i personaggi (ad esclusione di Ferete): nel κλέος, rivendicato in primo luogo dalla protagonista, si può individuare quel prestigio che deriva dal riconoscimento sociale della virtù, che costituisce un surrogato dell’immortalità e un compenso postumo, dopo la riduzione dell’individuo al nulla.

Ercole riconduce l’ombra di Alcesti dagli Inferi. Affresco, IV secolo, dalle Catacombe di Via Latina a Roma.

Un altro punto focale del dramma è la domanda che il poeta pone con chiarezza, anche se indirettamente: è giusto che Admeto accetti il sacrificio della sposa e che poi rinfacci a suo padre un eccessivo attaccamento alla vita? Euripide non risolve il quesito, ma lo evidenzia nell’accesa discussione fra padre e figlio, che si svolge secondo lo schema dei δισσοὶ λόγοι di stampo sofistico, e che ribalta completamente l’idea tradizionale del rapporto fra padre e figlio. Nel mondo greco esso era caratterizzato dall’assoluta dipendenza reale e psicologica del secondo rispetto al primo. Eppure, mentre per l’Admeto euripideo appare ovvio che un padre debba sacrificarsi per il figlio, per affetto e perché è vecchio, Ferete sposta l’obiettivo dal dovere al volere e soprattutto sull’attaccamento alla vita, che è più forte di qualunque altro sentimento, indipendentemente dall’età; ed è proprio in nome di questo istinto irrazionale e potentissimo che Admeto ha permesso che Alcesti morisse al posto suo. Perché ora dovrebbe scaricare su altri il proprio senso di colpa, accusandoli di ciò di cui egli stesso è responsabile?

Un ulteriore centro di interesse è rappresentato dal personaggio di Eracle, descritto da Euripide ora con caratteristiche comico-farsesche, ora con tratti di nobiltà eroica. Sulla figura di questo eroe, il più popolare fra quelli greci, esisteva una duplice tradizione, che da un lato lo presentava come un singolare modello di ἁρετή volta al bene degli uomini (in quest’ottica, per esempio, lo consideravano le scuole filosofiche dei Cinici e degli Stoici); dall’altro, lo deformava comicamente, fino a farne la caricatura di un omaccione tutto muscoli ma con poco cervello, con appetiti sfrenati e giganteschi come la sua persona. Questa interpretazione parodistica di Eracle, iniziata verso gli ultimi anni del VI secolo a.C. da Epicarmo, che secondo Aristotele (Poet. V 5), dev’essere considerato l’inventore della commedia, sfruttava elementi ancora più antichi e divenne poi abbastanza comune – come attesta chiaramente Aristofane negli Uccelli (414) e nelle Rane (405). La posizione di Euripide appare così cronologicamente intermedia fra Epicarmo e il poeta comico ateniese, visto che l’Alcesti è del 438.

In questa “strana” tragedia, ha centralità drammatica soprattutto il problema della morte, destino comune degli uomini, che viene evidenziato proprio da quell’unicum “miracoloso” costituito dalla resurrezione della protagonista. Il confronto con la morte ha effetto rivelatore del carattere delle persone, consentendo di verificare la consistenza dei legami famigliari e sociali: coloro che sembrano φίλοι, o che tali si rivelavano a parole, di fronte alla morte dimostrano la loro vera natura di esseri tenacemente attaccati alla propria ψυχή a scapito di quella altrui, anche a costo di perpetuare un’esistenza ingloriosa (un destino che accomuna Admeto e Ferete, nella grettezza del loro scontro verbale).

Joseph-Boniface Franque, Eracle recupera l’anima di Alcesti dall’oltretomba. Olio su tela, 1806.

Nel delirio di Alcesti davanti al terribile «demone alato», emerge l’aspetto ambivalente dell’aldilà, che da una parte sottrae le gioie della vita, oscurando la luce del sole, ma dall’altra prospetta una insensibilità liberatoria dal dolore (οὐδέν ἐσθ᾽ ὁ κατθανών «chi muore non è più nulla», osserva Alcesti al v. 380), che colloca il defunto in una condizione privilegiata rispetto ai suoi cari, costretti a perpetuare un πόθος («struggimento di desiderio») destinato a rimanere inappagato.

Per loro rimane l’insipida consolazione – che è anche un “dovere” – di perpetuare il ricordo degli estinti o, tutt’al più, la «fredda gioia» di abbracciare simulacri che restituiscono vane parvenze. «Il motivo centrale della tragedia – secondo le parole di C.M.J. Sicking – è il carattere limitato di ogni potere umano: l’uomo non vincerà mai la morte, sacrificarsi per un altro non ha dunque senso». Il dono divino offerto a un essere umano di «sfuggire al κύριον ἧμαρ sostituendo un altro al suo posto si rivela fallimentare: la vita di chi resta dopo aver accettato il sacrificio dei propri φίλοι è pura esistenza biologica, ἀβίωτον χρόνον (vv. 242-3)» (S. Barbantani).

Jean-François Pierre Peyron, La morte di Alcesti. Olio su tela, 1785. Paris, Musée du Louvre

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[1] Rappresentazioni del mito di Alcesti sono rare, nonostante l’interesse per la storia promosso dall’omonima tragedia di Euripide (andata in scena nel 438 a.C.). All’interno del palazzo reale di Fere in Tessaglia, suggerito dalle due colonne che sorreggono il frontone, Alcesti è seduta sul letto nuziale. È il momento traumatico del commiato. A sinistra è il marito Admeto, stante e drappeggiato nell’himátion, che porta una mano alla fronte in segno di tristezza. La sovrapposizione con il dramma euripideo si ferma qui; i personaggi vicini non sono i suoceri di Alcesti. A destra è la vecchia nutrice: il suo sguardo è abbassato, mentre con la mano si sorregge il mento in segno di dolore. Dietro di lei il pedagogo, vecchio e canuto, si appoggia a un bastone. Al centro, Alcesti – l’unica figura di cui sia indicato il nome (Ἄλκηστις) – sta salutando per l’ultima volta i figli. In disparte, ad arricchire il quadro, sono due serve: l’una porta sulla spalla un cesto di vimini, l’altra ha un nastro e un ventaglio.

Omero, il primo aedo

I due più celebri poemi epici del mondo antico, l’Iliade e l’Odissea, appaiono indissolubilmente legati al nome di Omero. Ma gli antichi, in realtà, non sapevano niente di questo personaggio. Infatti, la grande quantità di dati biografici e di aneddoti esistenti su di lui, sottoposta a un più attento esame, si è rivelata per lo più frutto di fantasia. Tali dati, volti ad appagare la curiosità del pubblico nei confronti di un poeta così famoso, si trasmisero nel tempo senza subire sostanziali alterazioni; ma la loro scarsa attendibilità è dimostrata dal fatto che biografie omeriche relativamente recenti, come la Vita falsamente attribuita a Erodoto, o il racconto di una gara poetica che sarebbe avvenuta fra Omero ed Esiodo, hanno utilizzato materiale più antico, risalente almeno al VI secolo a.C. senza apportarvi cambiamenti.

Perfino il nome del poeta era oggetto di interpretazioni diverse: appellandosi alla tradizione che faceva di lui un cantore cieco e girovago – infatti, in età arcaica, la condizione di cecità conferiva a un aedo un’aura sacrale, per il fatto che si attribuiva ai non vedenti capacità profetiche, una forma di conoscenza superiore – il suo nome fu fatto derivare dall’espressione ὁ μὴ ὁρῶν, «colui che non vede», mentre il reale significato di ὅμηρος è «ostaggio», parola che non contiene nessun riferimento né all’attività poetica né alla cecità, sebbene quest’ultima caratteristica fosse considerata tipica, appunto, dei cantori e dei veggenti; ne è un esempio, nell’Odissea, proprio Demòdoco, l’aedo che vive alla corte di Alcinoo, re dei Feaci.

William-Adolphe Bouguereau, Omero e la sua guida. Olio su tela, 1874. Milwaukee, Art Museum.

Studi più recenti hanno ricollegato il nome del poeta al verbo ὀμηρεῖν, «incontrarsi», «andare insieme», alludendo così al carattere agonale della poesia epica, che prevedeva, in particolari solennità, l’incontro di cantori provenienti da varie parti dell’Ellade, per gareggiar fra loro. Tale ipotesi troverebbe conferma in un appellativo di Zeus, Ἁμάριος, così chiamato in quanto protettore di Hamarion, una località dell’Acaia in cui avvenivano le riunioni federali di tutti gli Achei, in occasione di grandi festività religiose.

Pertanto, agli antichi fu ignoto il vero nome di Omero e ignota anche la patria; secondo un celebre epigramma dell’Anthologia Palatina (XVI 295-298), raccolta composta probabilmente nell’XI secolo d.C., ben sette città – Smirne, Chio, Colofone, Itaca, Pilo, Argo e Atene – si contendevano l’onore di aver dato i natali al famoso poeta; ma anche l’accostamento dei nomi risulta però del tutto arbitrario e solo quelli di Smirne e di Chio sembrerebbero offrire una qualche attendibilità: Smirne era infatti colonia degli Eoli, ai quali si sovrapposero poi popoli di stirpe ionica; e ciò spiegherebbe il linguaggio usato nei poemi epici, di base ionica, ma arricchito di molti eolismi; a Chio, invece, esisteva una corporazione di rapsodi a ordinamento gentilizio, gli Omeridi (Ὁμηρίδαι), che si vantavano di discendere direttamente dal poeta; ma la validità di questa affermazione si fonda sulla fragile base rappresentata dalle parole dell’Inno ad Apollo (v. 172), attribuito a Omero, il cui compositore (in realtà, sconosciuto) si definiva «il cieco che abita nella rocciosa Chio» (τυφλὸς ἀνήρ, οἰκεῖ δὲ Χίῳ ἔνι παιπαλοέσσῃ).

Anche le Vite di Omero (ben sette, tutte di età post-classica, fra quelle anonime e quelle attribuite a un preciso autore) non forniscono alcun dato attendibile; si tratta di racconti favolosi, che presentano situazioni assai lontane dai dati che si possono ricavare dai poemi stessi. Nell’Iliade e nell’Odissea, infatti, l’aedo frequenta ambienti aristocratici o addirittura vive nella reggia, mentre le Vite pongono di fronte alla ben diversa figura di un poeta di umili origini, che vive ed esercita la sua arte in mezzo al popolo, in un contesto sociale in cui gli antichi palazzi regali, di cui il cantore era ospite rispettato e gradito, non sono più che un remoto ricordo. Altrettanto incerta è la cronologia che riguarda Omero: le oscillazioni sono talora di centinaia d’anni, dal periodo della guerra di Troia, intorno al 1184 a.C., a molto prima, intorno al 1250, fino a quattro secoli dopo. L’unico dato attendibile potrebbe essere quello fornito da Erodoto (II 53), secondo cui Omero sarebbe vissuto circa quattrocento anni prima dello storico, cioè verso l’850 a.C. e sarebbe stato contemporaneo di Esiodo.

Omero. Statua, marmo, c. II secolo a.C. dalla Villa dei Papiri, Ercolano. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

La «questione omerica»

Nonostante l’incertezza della sua figura storica, per gli antichi Omero rimase pur sempre un personaggio reale, oggetto della più profonda venerazione o, molto più raramente, di polemica. Quest’ultimo atteggiamento fu proprio dell’età ellenistica, quando Callimaco di Cirene (315/10-244 a.C.) e i suoi seguaci contrapposero una poesia di breve estensione e di grande accuratezza formale alla vasta mole del «poema uno e continuo, di molte migliaia di versi».

I poemi omerici si collocano a cavallo tra oralità e scrittura: da un lato, essi sono il prodotto di una lunga e stratificata produzione orale, durante la quale intere generazioni di aedi elaborarono il materiale narrativo; dall’altro, mostrano i caratteri di un’elaborazione unitaria, che presuppone l’utilizzo di materiale scritto.

Secondo la tradizione classica, il passaggio probabilmente decisivo per la redazione dei poemi omerici fu costituito dall’edizione voluta da Ipparco, figlio di Pisistrato e tiranno di Atene, alla fine del VI secolo a.C.. In occasione dei festival poetici che si svolgevano all’interno delle Panatenee (luglio-agosto, in onore di Atena), i cantori che volevano esibirsi dovevano attenersi alla redazione ufficiale. Il controllo esercitato dal potere politico confermerebbe così la funzione educativa riconosciuta alla poesia epica e l’influenza che la performance dei cantori aveva sulla mentalità collettiva.

Ma le vere e proprie edizioni critiche dei due poemi si ebbero solo a partire dal III secolo a.C. per opera dei filologi alessandrini, che lavoravano nell’ambito di istituzioni culturali come la Biblioteca e il Museo, sorte ad Alessandria d’Egitto per volontà dei sovrani della dinastia Tolemaica. Fra questi studiosi si possono ricordare Zenodoto di Efeso (330-260 a.C.), Aristofane di Bisanzio (257-180 a.C.) e Aristarco di Samotracia (216-144 a.C.), che operarono in un arco di tempo compreso fra il 300 e il 150 a.C. Costoro suddivisero Iliade e Odissea in ventiquattro libri ciascuno, tanti quanti erano le lettere del nuovo alfabeto attico, usando le maiuscole per il primo e le minuscole per il secondo. Il lavoro di questi studiosi fu rigorosamente conservatore, tanto da mantenere nel testo anche parti di dubbia autenticità, che contrassegnarono tuttavia con un segno grafico speciale, l’ὀβελός, «spiedo» (÷).

Benemeriti per la conservazione del testo omerico, i filologi alessandrini contribuirono però a distruggerne definitivamente il carattere originario di poesia destinata alla recitazione. Questa contraddizione fu notata già in età antica, tanto che Cicerone (De oratore III 137) espresse un giudizio favorevole nei confronti della redazione pisistratea, mentre a Giuseppe Flavio (Adv. Apion. I 12) la stesura scritta apparve in contrasto con l’intenzione originaria del poeta, che aveva concepito la propria opera come una serie di canti destinati alla trasmissione orale. Dalla coesistenza di questi due elementi, redazione pisistratea e composizione orale, oltre che dall’incertezza dei dati sulla stesura e sull’autore dei due poemi, nacque e si sviluppò nel tempo la cosiddetta «questione omerica», che rimane, malgrado l’opera di molti studiosi, un problema tuttora insoluto.

Senza addentrarsi troppo nei meandri dell’omerologia, si riassumeranno le linee essenziali di sviluppo della vexata quaestio. In età antica il problema fu affrontato nel III secolo a.C. da due grammatici, Xenone ed Ellanico, detti poi χωρίζοντες («separatisti»), perché attribuirono l’Iliade a Omero e l’Odissea a un aedo più tardo, fondandosi solo sull’analisi interna dei poemi e sulle differenze di contenuto e di stile. Per gli stessi motivi, nel I secolo d.C. l’anonimo autore del trattato Sul sublime propose, con una certa ingenuità, di attribuire l’Iliade all’età giovanile del poeta e l’Odissea alla sua tarda maturità.

Più di mille anni dopo, e precisamente nella seconda metà de XVII secolo, François Hédelin (1604-1676), abate d’Aubignac, in un suo scritto, le Conjectures académiques ou Dissertation sur l’Iliade, pubblicato soltanto nel 1715, sostenne una tesi che fu fin da subito considerata clamorosamente innovativa e rivoluzionaria: Omero non era mai esistito e, poiché in quell’epoca (che egli però non determinò) non esisteva ancora la scrittura, l’Iliade non sarebbe stata altro che una raccolta di canti composti in momenti diversi, riuniti poi nella redazione scritta attribuita a Pisistrato.

Rembrandt van Rijn, Omero. Olio su tela, 1663. Den Haag, Mauritshuis.

A distanza di circa trent’anni, nel 1744, il filosofo italiano Giambattista Vico (1668-1744) dedicò alla questione omerica il III capitolo dei suoi Principii di una Scienza nuova. In esso, sotto il programmatico titolo di Discoverta del vero Omero, negava anch’egli consistenza storica alla figura del celebre poeta, sostenendo che le opere a lui attribuite dovevano essere considerate solo espressione del patrimonio collettivo dei ricordi del popolo greco «nel suo tempo favoloso». Questo aspetto gli appariva più evidente nell’Iliade, mentre l’Odissea era da considerarsi espressione di una civiltà meno antica.

In tempi più recenti, la «critica antiunitaria» trasse origine dagli studi del filologo tedesco Friedrich August Wolf (1759-1824), il quale approfondì gli spunti offerti dai suoi predecessori e, con un’accurata analisi testuale dei due poemi, giunse nei suoi Prolegomena ad Homerum, pubblicati nel 1795, a conclusioni simili a quelle del D’Aubignac. Wolf illustrò con chiarezza di argomentazioni l’impossibilità che i testi omerici fossero opera di un solo poeta e sostenne, al contrario, che canti separati, recitati da aedi, fossero stati definitivamente fissati e riuniti nel VI secolo a.C. Queste teorie ebbero diffusione e fortuna nel corso dell’Ottocento e altri studiosi condivisero l’idea dell’esistenza di un vasto e antico materiale trasmesso oralmente, al quale avrebbero attinto i compositori dell’Iliade e dell’Odissea. In base a tale convinzione, ebbe quindi origine la cosiddetta «teoria del nucleo ampliato», secondo cui la matrice dell’Iliade sarebbe stato un canto dedicato alla contesa fra Achille e Agamennone, mentre l’Odissea si sarebbe sviluppata dal racconto del lungo e travagliato ritorno di Odisseo: entrambi sarebbero stati ampliati nel corso dei secoli dall’opera di generazioni di rapsodi, fino a raggiungere l’ampiezza attuale.

Un altro studioso tedesco, Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff (1848-1931), avanzò l’ipotesi dell’esistenza di un poeta di lingua ionica, unico autore del nucleo fondamentale dell’Iliade; la sua opera, databile all’VIII secolo a.C., sarebbe stata poi ampliata da altri.

Il primo quarto del Novecento fu caratterizzato da una vivace ripresa delle teorie unitaristiche, secondo le quali non vi sarebbe stato che un solo autore per entrambi i poemi; tuttavia, tali conclusioni appaiono sostenute più da un’entusiastica ammirazione per Omero che da un’attenta analisi critica dei testi, condotta con metodi rigorosi e scientifici.

Una svolta decisiva negli studi omerici arrivò solo nei primi decenni del XX secolo, grazie alle ricerche dell’americano Milman Parry (1902-1935). Attraverso il contributo dato dagli studi di comparatistica e di antropologia culturale sulle modalità di comunicazione orale delle civiltà tribali, e analizzando il linguaggio dell’Iliade, riuscì a dimostrare che l’unità compositiva di base della poesia epica non fosse la singola parola (come sarebbe avvenuto per una civiltà fondata sulla scrittura), bensì gli elementi formulari: la ripetizione di parole o frasi che compaiono molte volte, come epiteti umani e divini, inizio e conclusione di discorsi, modi di interpellare e di rispondere, indicazioni temporali, formule di transizione del discorso.

La tesi di Parry, secondo il quale Omero era un cantore di oral poetry, ebbe il pregio di allargare l’indagine dalla filologia all’antropologia, in quanto egli cercò sostegno alle proprie teorie confrontando l’ἔπος greco con le composizioni di cantori popolari, numerosi e attivi fino alla prima metà del Novecento soprattutto nell’Europa orientale.

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Il programma architettonico dell’Acropoli

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Il quadro storico della seconda metà del V secolo risente di alcuni avvenimenti occorsi nel decennio precedente: ad Atene le incomprensioni con Sparta e l’ostracismo di Cimone determinarono il rafforzamento della fazione democratica più radicale, consentendo a Pericle (c. 495-429), morto Efialte, di occupare la scena politica in modo continuativo sino all’anno 432/1. La pace con la Persia (altrimenti detta «pace di Callia») stipulata dopo la scomparsa di Cimone (post 450) e la «pace dei trent’anni» con i Lacedemoni, siglata nel 446, segnarono l’apogeo del ruolo internazionale della πόλις attica e la sua egemonia politica e culturale, ponendo le basi per una trasformazione radicale dell’aspetto della città e delle forme della sua vita urbana.

Il polo principale del rinnovamento edilizio fu l’Acropoli, che recava ancora le tracce dell’invasione persiana (480-479): di ciò che c’era prima nulla è rimasto a causa delle distruzioni e degli incendi. Sono pervenuti soltanto quelle statue, quegli arredi e quei frammenti di frontoni che i cittadini ateniesi, dopo la battaglia di Salamina, seppellirono con devozione negli avvallamenti rocciosi del pianoro dell’Acropoli e che, per essere stati in tal modo riempiti, vengono collettivamente denominati «colmata persiana». Fu appunto sotto il governo di Pericle che si procedette alla ricostruzione degli edifici sacri della spianata, procurando il maggior diletto e ornamento per gli Ateniesi.

Nel 447, all’interno del grandioso programma di riattamento promosso dallo statista, l’edificio più importante fu il Partenone, costruito sotto la sovrintendenza (ἐπισκοπία) di Fidia, affiancato dagli architetti Callicrate e Ictino. Interamente realizzato in marmo pentelico, il tempio, un periptero dorico di 8 x 17 colonne, mostra una soluzione planimetrica senza precedente, essendo gli ottastili in genere dipteri o pseudodipteri. La scelta non era dovuta soltanto alla decisione di realizzare un edificio più grande – le dimensioni sono infatti prossime a quelle del tempio di Zeus a Olimpia –, ma derivava dall’eccezionalità dell’immagine di culto, la colossale statua crisoelefantina di Atena Parthenos, per la quale il tempio era stato progettato: la planimetria prescelta permetteva dunque di ottenere una cella di ampiezza significativamente maggiore di quella di un periptero esastilo di pari dimensioni e l’organizzazione del colonnato interno, disposto a Π, contribuiva a dare ulteriore risalto alla statua della dea. Della realizzazione del simulacro è pervenuta l’iscrizione frammentaria del rendiconto relativo alle spese (IG I³ 458): «Chichesippo del demo di Mirrinunte è stato segretario dei sovrintendenti alla costruzione della statua. Ricevuta da parte dei tesorieri, di cui Demostrato, figlio di Csipete, è stato loro segretario: 100 talenti. Tesorieri: Ctesio, Strosia, Antifate, Menandro, Timocare, Smocordo, Fidelide. Si è acquistato dell’oro per un valore di 6 talenti, 1618 dracme e 1 obolo; il costo complessivo è stato di 87 talenti, 4652 dracme e 5 oboli. Si è acquistata una partita d’avorio per 2 talenti e 743 dracme». Seguendo lo schema del tempio di Apollo a Corinto o dello stesso tempio pisistratide di Atena Polias sull’Acropoli, sul retro l’opistodomo si articola come un vestibolo, dando accesso a una sala posteriore, la cui copertura è sorretta da quattro colonne, forse ioniche, che incrementano le commistioni tra linguaggi morfologici diversi, presenti in vario modo nell’edificio.

Ictino, Callicrate e Fidia, Partenone. Tempio octastilo, periptero di ordine dorico, 447-438 a.C. Fronte occidentale e lato settentrionale. Atene, Acropoli.

Il monumento, che si configurava come un tempio-tesoro, destinato ad accogliere le dediche più preziose del santuario di Atena, dovette la sua eccezionalità alle esigenze connesse alla realizzazione di un ambizioso programma iconografico, di cui la statua della dea era essenzialmente il fulcro. All’esterno, infatti, si avvaleva di vari cicli figurativi, in larga parte volti all’esaltazione della comunità ateniese e a rivendicare il ruolo di “campione” nella lotta contro i barbari, che Atene rivendicava presso gli altri Greci: un fregio ionico che rappresentava la processione delle Panatenee lungo il perimetro esterno della cella; metope scolpite nel fregio dorico della peristasi; frontoni con statue.

Nel 437, mentre nel Partenone si completano i frontoni, fu aperto il cantiere dei Propilei, destinati a dotare il complesso sacro dell’Acropoli di un accesso monumentale adeguato alle ambizioni della πόλις. L’incarico di dirigere i lavori fu affidato a Mnesicle, il quale propose la realizzazione di una struttura complessa, che avrebbe integrato in un unico edificio il propileo vero e proprio, una sala da banchetti a nord e un vestibolo al santuario di Atena Nike a sud. Il progetto affrontava per la prima volta, a livello monumentale, le difficoltà dell’integrazione in un unico organismo di più strutture a scala diversa, anticipando quello che sarebbe stato un tema centrale dell’architettura ellenistica. La planimetria del complesso combinava in uno schema a Π un corpo centrale, anfiprostilo esastilo dorico, e due ali di proporzioni minori con prospetto tristilo in antis. A causa dell’orografia del sito, l’edificio centrale presentava quote diverse a est e a ovest, raccordate da gradini posti a ridosso del muro trasversale; il dislivello comportò lo sfalsamento della parte anteriore rispetto a quella posteriore, entrambe coperte con tetto a due falde, determinando così un doppio frontone sul prospetto ovest, comunque non percepibile da chi accedeva all’Acropoli. Alla parte anteriore del corpo centrale, la cui copertura era peraltro sostenuta da due file di alte colonne ioniche, furono collegate l’ala nord, che ospita un ampio ἑστιατόριον («salone del focolare»), e l’ala sud, che, pur salvaguardando la simmetria del prospetto, adottava una planimetria irregolare determinata dai vincoli imposti dal τέμενος di Atena Nike, che faceva da vestibolo di ingresso.

Atene. Acropoli, ναΐσκος di Athena Nike, sezione (disegno di Giraud, in Brouskari, 1997).

Tuttavia, il progetto non fu portato a compimento: a nord-est e a sud-est erano stati previsti anche altri due ambienti, attestati da diverse evidenze; se l’imminenza della guerra del Peloponneso fu all’origine di questa interruzione, essa non impedì comunque di porre mano alla realizzazione del nuovo tempio nel santuario di Atena Nike, forse proprio per l’attualità dell’epiclesi della dea. Questa costruzione fu intrapresa intorno al 427 con l’edificazione di un anfiprostilo tetrastilo ionico: la tipologia templare affondava le sue radici in modelli cicladici medio e tardo-arcaici e si era diffusa largamente in Atene e in altre località dell’Attica, durante l’epoca proto-classica. Il tempio di Atena Nike era infatti espressione di un’architettura di stile ionico affermatasi in Attica con forme ormai autonome, indipendenti dai modelli più antichi; i tratti più caratteristici si possono rilevare sia nelle proporzioni dell’ordine, con colonne e trabeazione relativamente pesanti, sia negli elementi morfologici, che combinano particolari di ascendenza cicladica o asiatica (capitelli d’anta, architravi a fasce) con componenti rielaborate in forme originali (capitelli e basi attiche).

L’ultimo edificio realizzato sull’Acropoli fu l’Eretteo, la cui costruzione (421-405) iniziò durante la «pace di Nicia», in una fase di ripresa delle tradizioni religiose e dei culti poliadici più ancestrali. Le apparenti irregolarità del complesso rispondono, oltre che alla particolare orografia del sito, a vincoli determinati dalla peculiare concentrazione nell’area di attività e testimonianze sacre. Ai culti di Poseidone, Eretteo, Boote ed Efesto (forse anche Atena) furono aggiunti anche il Κεκρόπιον e il Προστομιαῖον, la sorgente di acqua salata fatta scaturire, secondo il mito, da Poseidone, mentre il Πανδρόσειον, nel cui τέμενος c’erano l’olivo sacro ad Atena e l’altare di Zeus Herkèios, fu annesso in un recinto subito a ovest.

Atene. Acropoli, Eretteo, prospetto orientale (elaborazione grafica da Paton, Stevens, 1927).

Anche l’Eretteo risultò, dunque, una costruzione complessa, in cui il corpo principale venne suddiviso in due ambienti separati tra loro e aperti su quote diverse; mentre a est, infatti, la cella, preceduta da una facciata esastila ionica, si raccorda con il piano dell’Acropoli e fronteggia l’antico altare, i vani a occidente si aprono 3 m più in basso, su una corte a nord e sul Πανδρόσειον. La terminazione ovest, necessariamente contratta, fu risolta con un alto podio sormontato da un prospetto tetrastilo in antis con semicolonne ioniche addossate a pilastri: l’accesso ai vani occidentali e al Πανδρόσειον fu reso possibile da nord, tramite un ampio portico prostilo tetrastilo ionico a tal fine parzialmente sfalsato rispetto all’edificio principale. Addossata al suo angolo sud-ovest, presso la tomba di Cecrope, si trova la cosiddetta «Loggia delle Cariatidi», con figure femminili stanti in luogo di colonne, che riveste la funzione di ἡρῷον del mitico primo re dell’Attica. Sostanzialmente in controtendenza appare l’architettura dell’edificio, che, se da un lato recupera forme recessive, eco di soluzioni proto-classiche, dall’altro introduce un estremo decorativismo, estraneo alla cultura architettonica cicladico-attica, evidente sia nella sovrabbondanza dell’intaglio decorativo, sia nella ricercata dicromia dei fregi, configurandosi come il corrispettivo in architettura dello “stile ricco” della scultura contemporanea.

Ulfila, vescovo dei Goti

Le prime missioni cristiane fuori dell’Impero romano furono finalizzate non tanto a convertire i barbari, quanto piuttosto ad amministrare le comunità cristiane già esistenti. Il più grande «apostolo dei barbari» venne proprio da una di queste comunità: nato intorno al 311, forse discendente di cittadini romani fatti prigionieri fra il 260 e il 270 dai Goti che avevano attaccato Sadagolthina, in Cappadocia, Ulfila («lupacchiotto») crebbe tra i Goti Tervingi. Le fonti antiche gli attribuiscono un ruolo fondamentale nell’evangelizzazione di massa delle genti transdanubiane negli anni ’40 del IV secolo, ma circa le sue inclinazioni spirituali la tradizione letteraria riferisce informazioni discordanti: Filostorgio e Aussenzio vogliono che l’«apostolo dei Goti» si fosse accostato alla dottrina ariana fin da ragazzo, mentre Socrate Scolastico, Sozomeno e Teodoreto asseriscono che egli abbandonò il Credo niceno per “convertirsi” all’Arianesimo nella maturità (c. 360-376).

Missorio. Oro cesellato, c. V secolo, dal Tesoro di Pietroasele. București, Muzeul Național de Istorie a României.

Lo scrittore Filostorgio (HE II 5), della cui opera (Ἐκκλησιαστικὴ ἱστορία) si è conservato uno stralcio nella Biblioteca di Fozio, di molto posteriore, riferisce che Ulfila si sarebbe recato nell’Impero come membro di un’ambasciata per conto dei Goti, con lo scopo di ridefinire le relazioni tra Roma e i Tervingi dopo la morte di Costantino. Poco dopo, nel 341, in occasione del Sinodo di Antiochia, Ulfila sarebbe stato ordinato vescovo «dei cristiani nella terra dei Geti» (τῶν ἐν τῇ Γετικῇ χριστιανιζόντων). Sozomeno (HE VI 37, 8) precisa che fu Eusebio di Nicomedia, vescovo ariano, a somministrare il battesimo a Ulfila e a proporne la candidatura episcopale. Secondo quanto tramandato da Aussenzio di Durostorum (od. Silistra), citato nella Dissertatio Maximini contra Ambrosium,  Ulfila ricopriva all’interno della comunità gotica il ruolo di lector: pertanto, doveva già aver ricevuto il battesimo e il livello della sua educazione (considerando che Ulfila parlava e scriveva in gotico, latino e greco) suggerisce che provenisse da una condizione sociale particolarmente elevata (Diss. Max. 53-56). È del tutto probabile che proprio questi elementi avrebbero indotto le autorità tervinge a sceglierlo come partecipante ai negoziati con Roma.

Ulfila, comunque, non sarebbe stato il primo predicatore cristiano in terra barbara, ma indubbiamente fu il più importante. Sozomeno (HE II 6, 2), infatti, ricorda che «molti sacerdoti di Cristo fatti prigionieri si trovavano con i barbari» (πολλοὶ τῶν ἱερέων τοῦ Χριστοῦ αἰχμάλωτοι γενόμενοι). A tal proposito, già Edward Gibbon aveva definito questi prigionieri degli «involuntary missionaries», a sottolineare come, una volta giunti in Gothia, i sacerdoti non avessero intrapreso un’azione dichiaratamente evangelizzatrice, ma si fossero limitati a mantenere le proprie abitudini religiose, che si sarebbero diffuse a poco a poco tra i barbari in maniera spontanea, a seguito di una prolungata convivenza. Il ruolo e la portata dell’azione di questi “missionari involontari”, tuttavia, sono spesso sovradimensionati dalla storiografia moderna.

Mappa della Gothia (IV secolo).

Diversamente da Sozomeno, Socrate Scolastico, pur riconoscendo il ruolo centrale di Ulfila nello sviluppo del Cristianesimo gotico, riferisce di un suo discepolato presso Teofilo, vescovo Gothiae metropolis (Socr. HE II 41, 23). Comunque, Sozomeno (HE VI 37, 10-11) è l’unica fonte a designare esplicitamente Ulfila come διδάσκαλος dei Goti e ad affermare che, grazie a lui, essi furono educati alla «pietà» (εὐσέβεια) e alla «civiltà» (πολιτεία). A detta dello storiografo, il prestigio e il rispetto di cui Ulfila godeva presso i barbari erano stati alimentati dal fatto che egli aveva dato «grandi prove del proprio valore, sopportando mille pericoli per la fede, quando i suddetti barbari praticavano ancora la religione pagana» (πλείστην … πεῖραν τῆς αὐτοῦ ἀρετῆς· μυρίους μὲν ὑπομείνας κινδύνους ὑπὲρ τοῦ δόγματος, ἔτι τῶν εἰρημένων βαρβάρων Ἑλληνικῶς θρησκευόντων).

Stando a Filostorgio (HE II 5), costretto da una violenta persecuzione anticristiana ad abbandonare la Gothia, ad attraversare il Danubio e a rifugiarsi nell’Impero romano, nel 347-348 Ulfila ottenne dall’imperatore Costanzo II, che lo considerava il «Mosè della nostra epoca» (ὁ ἐφ’ ἡμῶν Μωσῆς), di stabilirsi insieme ai suoi Tervingi nei pressi di Nicopolis ad Istrum (a nord dell’od. Tărnovo, Bulgaria), in Moesia inferior (περὶ τὰ τῆς Μυσίας χωρία,). Giordane (Get. 51, 267) asserisce che i seguaci di Ulfila, ai quali il vescovo aveva insegnato a scrivere, erano detti Gothi minores e abitavano ancora lì, ai piedi del monte Emo, ai tempi suoi (c. 551): «Sono un popolo numeroso, ma povero e pacifico, che non ha nulla in abbondanza se non armenti di vario genere di bestiame, pascoli e boschi da legname; terreni, pur poveri di frumento, ricche di altri prodotti. Alcuni di loro, infatti, se ce ne sono altrove, conoscono i vigneti, comprando il vino da luoghi vicini; del resto, la maggior parte di loro si nutre di latte» (gens multa, sed paupera et inbellis nihilque habundans nisi armenta diversi generis pecorum et pascua silvaque lignarum; parum tritici citerarumque specierum terras fecundas. Vineas vero nec, si sunt alibi, certi eorum cognoscent ex vicina loca sibi vinum negotiantes; nam lacte aluntur plerique). La persecuzione e l’esodo della comunità di Ulfila dimostrano che questo gruppo doveva costituire una minoranza all’interno di una società ancora prevalentemente pagana.

Le fonti antiche illustrano la penetrazione della fede cristiana soprattutto nei ceti alti della società gotica in virtù degli stretti rapporti intercorrenti fra élites germaniche e autorità imperiali, i dissidi e le lacerazioni che tale predicazione provocò all’interno dei clan, ma anche l’importanza che la traslazione delle reliquie dei martiri goti ebbe per la costruzione identitaria delle comunità religiose nella Romània orientale (Theodoret. HE 4, 33). I capi tervingi si opposero alla cristianizzazione per lo meno in due occasioni, entrambe probabilmente ispirate da sentimenti antiromani. La prima volta successe all’epoca in cui Ulfila fu scacciato, intorno al 347-348 (cfr. Epiph. Panar. Haer. 70, 15-4-5), e la seconda volta accadde dopo l’accordo di pace tra il reiks Atanarico e l’imperatore Valente (Amm. Marc. XXVII 5, 6-9; Them. Or. 10, 134-135).

Eduard Bendemann, Atanarico e Valente sul Danubio. Illustrazione, 1880. Da Weltgeschichte fur das Volk (ed. O. von Corvin, W. Held).

Dopo il 369, infatti, sarebbe scoppiata in terra gotica una vera e propria guerra civile tra due fazioni, guidate rispettivamente da Atanarico e Fritigerno. Quest’ultimo si sarebbe rivolto a Valente per ottenere supporto e, una volta risultato vincitore, avrebbe acconsentito ad accogliere e promuovere la fede cristiana in segno di riconoscenza. Stando a Socrate Scolastico (HE IV 33, 7), Ulfila avrebbe iniziato a predicare la nuova religione tra i fautori di Fritigerno, per estenderla poi ai partigiani di Atanarico. Probabilmente, quando quest’ultimo si rese conto che la diffusione della fede cristiana andava di pari passo con l’estendersi dell’influenza imperiale sulla propria gente, «siccome ciò alterava la religione degli antenati» (ὡς παραχαραττομένης τῆς πατρῴου θρησκείας), Atanarico diede avvio a una sanguinosa persecuzione e «sottopose a punizioni molti tra coloro che professavano il Cristianesimo; in quella circostanza ci furono molti martiri barbari e ariani» (πολλοὺς τῶν Χριστιανιζόντων τιμωρίαις ὑπέβαλλεν· ὥστε γενέσθαι μάρτυρας τηνικαῦτα βαρβάρους Ἀρεανίζοντας).

Tra le altre fonti sui medesimi fatti (Vita S. Nicetae; Basil. Ep. 164-165; Sozom. HE VI 37; August. Civ. XVIII 52; Prosp. a. 370 = Chron. min. I, 458) esiste un interessante documento, assai noto agli studiosi, redatto dalla comunità cristiana della Gothia e rivolto alle chiese di Cappadocia e di altre regioni: la Passio Sancti Sabae Gothi. L’opera agiografica racconta la storia del rifiuto opposto da un goto, di nome Saba, a partecipare al pasto della carne consacrata agli dèi tradizionali: una prova cui erano sottoposti i Goti allo scopo di identificare quelli che fra loro erano cristiani. Tutti gli altri suoi correligionari furono disposti a mangiare la carne pur di salvarsi, mentre Saba li denunciò. Da ultimo egli fu di nuovi catturato e, sottoposto a tortura, morì il 12 aprile 372. La Passio riferisce che non solo egli fu devoto, celibe e astinente, ma che fu anche ortodosso. Questo documento enfatizza l’ortodossia di Saba perché lo stesso Ulfila era un eretico (cfr. Theodoret. ad l.c.): egli infatti era seguace di una confessione che era stata condannata dal Concilio di Nicea del 325 e che, già dal tardo IV secolo, venne concordemente considerata un’eresia.

L’eresia di Ulfila era l’Arianesimo, ovvero egli professava la dottrina predicata da Ario di Alessandria, secondo la quale Cristo, il Dio-figlio, e lo Spirito Santo erano stati creati da Dio-Padre e non erano a lui uguali. La disputa che divampò nel corso del IV secolo spesso si allontanò da quella che era stata la posizione di Ario e, oggi, si è generalmente concordi nel ritenere che il termine «ariano» indichi individui che di fatto ebbero opinioni del tutto diverse fra loro. La cosa importante, però, è che ai tempi di Ulfila le dispute sulla natura della Trinità rivestirono grande interesse per tante persone, mentre nel V secolo le dispute sulla natura di Cristo raggiunsero lo stesso parossistico grado d’interesse, e non soltanto tra i dottori della Chiesa.

Ulfila predica il Vangelo ai Goti. Incisione, 1880.

Ulfila, vicino alla corrente omea, ebbe parte attiva nei dibattiti trinitari dopo il suo esilio dalla Gothia, prendendo parte anche al Concilio di Costantinopoli del 360: Socrate Scolastico (HE II 41, 23) afferma che proprio in questa occasione il vescovo si sarebbe convertito alle dottrine subordinazioniste, mentre Sozomeno (HE IV 37, 8) riferisce che egli non avrebbe sottoscritto il simbolo prodotto dal sinodo, rimanendo fedele alla tesi della consustanzialità.

È possibile farsi qualche idea sul punto di vista di Ulfila grazie a una lettera in cui si parla di lui, la Dissertatio contra Ambrosium di Aussenzio di Durostorum (od. Silistra), riportata da Massimino, un vescovo ariano del V secolo, nel margine della sua copia del De fide di Ambrogio. Si tratta di una vera e propria «professione di fede», che Ulfila avrebbe pronunciato in punto di morte, nel 383 (Diss. Max. 59):  «Io Ulfila, vescovo e confessore, ho sempre creduto così e in questa sola e vera fede faccio il mio passaggio verso il Signore mio. Credo in un unico Dio Padre; solo ingenito e invisibile e nell’unigenito Figlio suo Signore e Dio nostro, creatore e artefice di tutte le creature, non avente simili a sé, per cui esiste un unico Dio Padre di tutti, che è anche il Dio del nostro Dio e [credo] in uno Spirito Santo, forza illuminante e santificante, come disse Cristo dopo la resurrezione ai suoi apostoli: ecco io mando la promessa di mio Padre su di voi, ma voi sedete nella città di Gerusalemme fino a quando non sarete rivestiti di forza dall’alto; e poi anche: riceverete la forza che discenderà su di voi dallo Spirito Santo – né Dio né Signore, ma ministro fedele di Cristo, non eguale ma suddito e obbediente in tutto a Dio Padre» (Ego Ulfila episkopus et confessor semper sic credidi et in hac fide sola et vera transitum facio ad Dominum meum. Credo unum esse Deum Patrem solum ingenitum et invisivilem et in unigenitum Filium eius Dominum et Deum nostrum, opificem et factorem universae creaturae non habentem similem suum, ideo unus est omnium Deus Pater, qui et Dei nostri est Deus et unum Spiritum Sanctum, virtutem inluminantem et sanctificantem, ut ait Christus post resurrectionem ad apostolos suos: ecce ego mitto promissum Patris mei in vobis, vos autem sedete in civitate[m] Hierusalem, quoadusque induamini virtute[m] ab alto; item et: accipietis virtutem superveniente[m] in vos Sancto Spiritu – nec Deum nec Dominum sed ministrum Christi fidelem, nec equalem sed subditum et oboedientem in omnibus Deo Patri). Del resto, l’intera faccenda sarebbe del tutto irrilevante non fosse per un fatto piuttosto sconcertante: che nel corso del V e del VI secolo la maggior parte delle popolazioni barbariche abbracciò l’Arianesimo, un credo che nello stesso Impero romano si era riusciti con successo a marginalizzare, ma che sarebbe tornato in auge quando con la formazione dei cosiddetti «regni romano-barbarici», gestiti da élites ariane.

Fibula a foggia di aquila. Oro cesellato, c. V secolo, dal Tesoro di Pietroasele. București, Muzeul Național de Istorie a României.

L’opera più duratura di Ulfila fu la traduzione in lingua gota dal greco di alcune parti della Bibbia: si disse allora che avrebbe deliberatamente deciso di non tradurre i Libri dei Re dell’Antico Testamento, in quanto i Goti erano già troppo inclini alla guerra senza che ci fosse bisogno di offrire loro ulteriore incoraggiamento (Philostor. HE II 5). È probabile che Ulfila, che prima della sua creazione a vescovo era stato lector, abbia avuto già occasione in Gothia di tradurre oralmente passaggi delle Scritture, per agevolare la predicazione, ma l’ambizioso progetto per iscritto sarebbe cominciato dopo l’arrivo in Moesia.

Allo stato attuale delle conoscenze, la Bibbia gotica fu il primo documento di una certa lunghezza a essere redatto in una lingua germanica e con un sistema di scrittura concepito appositamente: Ulfila infatti creò un alfabeto di 27 grafemi, ispirandosi allo stile onciale greco e latino e alla scrittura runica; la Bibbia gotica rimane un’opera di fondamentale importanza per gli studi filologici sull’evoluzione delle lingue germaniche. L’esemplare più celebre, il Codex Argenteus, occupa oggi il posto d’onore alla Biblioteca dell’Università di Uppsala, in Svezia: si tratta di un manoscritto di lusso, da 188 fogli superstiti (su 336), che contiene i quattro Vangeli in gotico nell’ordine “occidentale”: Matteo, Giovanni, Luca e Marco. Confezionato verisimilmente a Ravenna nei primi anni del VI secolo, ha le pagine di pergamena tinta di porpora, ed è magnificamente scritto in inchiostro d’argento e d’oro. Doveva essere l’evangeliario di corte di Teoderico. Il testo gotico che contiene simboleggiava il Cristianesimo dei Goti, e il codice stesso, scritto nella lingua nazionale e nel particolare alfabeto gotico, aveva acquisito un forte valore simbolico, che legittimava la Chiesa ariana degli Ostrogoti nell’ambiente italo-romano.

Uppsala, Universitetsbibliotek “Carolina Rediviva”. Codex Argenteus (VI secolo), f. 292. Vangelo di Marco 3, 26-32.

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