Eumene II, re di Pergamo

Eumene II nacque a Pergamo intorno al 221/0 a.C. da Attalo I e Apollonide di Cizico (vd. FGrHist. 171 F 4). Dopo un breve periodo di coreggenza insieme al padre, alla morte di quest’ultimo negli ultimi mesi del 197 Eumene ascese al trono pergameno. Sotto il suo regno, l’egemonia del regno attalide sull’Asia Minore raggiunse la massima espansione e l’apice della potenza. Seguendo la politica estera del predecessore, Eumene II collaborò strettamente con la Repubblica romana, prendendo parte ad alcune operazioni militari contro Nabide, re di Sparta (207-192), nel 195 (IvP. 60-61; 63).

Dinasta ellenistico (forse Eumene II di Pergamo?). Busto, bronzo, c. II-I secolo a.C. dalla Villa dei Papiri, Ercolano. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

In seguito, preoccupato dalle mire espansionistiche di Antioco III il Grande (222-187) sull’Egeo e sulla Grecia, il re pergameno avvertì gli alleati romani del pericolo e ne sollecitò l’intervento armato: ciò provocò la cosiddetta guerra romano-siriaca (Pᴏʟ. XXI 20, 6; Lɪᴠ. XXXV 23, 4-9; XXXVII 53, 11; vd. anche McShane 1964, 139-143; Hansen 1971, 76). Nel corso del conflitto le forze schierate da Eumene giocarono un ruolo decisivo in diverse operazioni: l’invio di soccorsi a Calcide nel 192; l’anno successivo, dopo la vittoria romana alle Termopili, l’impiego della flotta pergamena nella battaglia di capo Corico; nel 190 la presa di Sesto e l’espugnazione di Abido. Eumene non venne mai meno all’alleanza con Roma nemmeno quando, sempre nel 190, Seleuco, figlio di Antioco, lo cinse d’assedio nella stessa Pergamo. Dopo la battaglia di Magnesia ad Sipylum, in cui Eumene partecipò alla testa della sua cavalleria, Antioco sconfitto dovette rinunciare ai suoi propositi e accettare le condizioni preliminari di pace imposte dai Romani. Nell’estate del 189 l’Attalide per trarre il massimo profitto dalla situazione si recò personalmente nell’Urbe e trattare con gli alleati sui frutti della vittoria. Nel frattempo, in sua assenza, alcuni reparti dell’esercito pergameno presero parte alla campagna (non autorizzata dal Senato) condotta da Gneo Manlio Vulsone contro i Galati (Pᴏʟ. XXI 33-39; Lɪᴠ. XXXVIII 12-27; Aᴘᴘ. Syr. 42; [Aᴜʀ. Vɪᴄᴛ.] De vir. ill. 55, 1-2): le tribù dei Tolostobogi e dei Tectosagi furono sconfitte in due scontri decisivi, rispettivamente presso il monte Olimpo (od. Aladağ) e presso il monte Magaba (Fʟᴏʀ. I 27, 5).

Il cosiddetto «Galata inginocchiato». Statua, marmo, copia romana da originale di bronzo del 230-220 a.C., opera dello scultore Epigono di Pergamo. Dal Donario di Attalo I. Paris, Musée du Louvre.

Secondo i termini della pace di Apamea (estate 188 a.C.) al regno di Pergamo fu riconosciuta la sovranità su tutti i territori anatolici al di qua della catena del Tauro, ovvero vi furono annesse la Lidia, la Frigia, la Caria, la Licaonia, la Miliade e parte della Panfilia; inoltre, la regione abitata dai Galati fu posta nominalmente sotto lo stesso dominio. Evidentemente Roma non aveva alcun interesse effettivo nell’amministrare direttamente l’Oriente ellenistico, ma preferiva la presenza di un forte potentato che fungesse da baluardo contro ogni possibile futura espansione seleucide.

L’evoluzione del regno attalide di Pergamo tra il 241 e il 185 a.C. [Brill’s New Pauly].

In seguito, negli anni 186/5-184 grazie all’aiuto romano Eumene condusse una vittoriosa guerra contro Prusia I, re di Bitinia (187-183). Nello stesso periodo, i Galati tentarono una riscossa in armi contro Pergamo, ma l’Attalide ne ebbe ragione, sottomettendoli completamente. Inoltre, Eumene, alleato già da tempo con Ariarate IV, re di Cappadocia (220-163), suo suocero, fece guerra con Farnace I del Ponto (190-170/69) e risultò vincitore nel 179 (Pᴏʟ. XXIII 9, 3-4; Lɪᴠ. XL 2, 6; cfr. Sᴛʀᴀʙ. XII 3, 11). In virtù di questi successi a difesa del regno, i sudditi concessero a Eumene l’epiclesi onorifica di Σωτήρ (“il Salvatore”).

Nello stesso 179, morto Filippo V, saliva al trono macedone Perseo, il quale, desideroso di rilanciare il prestigio del regno antigonide, rinsaldava le alleanze con la Lega achea, Rodi e l’Impero seleucide. Nel 172 Eumene, sentitosi minacciato, partì per l’Italia in ambasceria per convincere il Senato e il Popolo romano a intervenire. Inizialmente i Romani si mostrarono restii a intraprendere un terzo conflitto con la Macedonia, ma, quando il dinasta attalide nel suo viaggio di ritorno a Delfi riuscì a scampare a un attentato contro di lui, i suoi alleati ne attribuirono ogni responsabilità a Perseo, ottenendo il casus belli appropriato (cfr. Will 2003, 264-265).

Il cosiddetto «Principe ellenistico» (dettaglio). Statua, bronzo, c. III-II sec. a.C. Roma, Museo Nazionale Romano di P.zzo Massimo alle Terme.

Senonché, nel 169 il re pergameno entrò in rotta con il console Quinto Marcio Filippo e, accusato di collusione con il nemico, da quel momento cominciò verso di lui una sorda ostilità, che, dopo la vittoria di Lucio Emilio Paolo a Pidna nel 168, gli fece passare un periodo pieno di difficoltà. Eumene, volendo stornar da sé ogni sospetto, inviò a Roma suo fratello Attalo perché portasse allo stesso Paolo le proprie congratulazioni del successo militare. I senatori, tuttavia, cercarono di convincere il principe pergameno, ricevuto con onori regali, ad aspirare al trono e alienargli l’animo del fratello. Nel 167/6 Eumene, allarmato, decise di raggiungere Roma per perorare la propria causa, ma, approdato a Brundisium, gli fu intimato di non rimettere più piede in Italia. Alcuni anni dopo, il Senato inviò in Asia Minore un’ambasceria guidata da Gaio Sulpicio Gallo, allo scopo di spiare la politica estera di Eumene. Questi rimase sul trono fino alla morte, avvenuta nel 159/8 a.C. dopo trentotto anni di regno. Dato che il figlio avuto da Stratonice di Cappadocia era ancora minorenne, gli successe il fratello sessantenne con il nome di Attalo II.

Combattimento tra Ecate e il gigante Clizio. Rilievo delle Gigantomachia, marmo, prima metà del II secolo a.C., fregio est, dall’Altare di Zeus Sotere e Atena Niceforo. Berlin, Pergamonmuseum.

Seguendo le tradizioni dinastiche, Eumene II fu benefattore presso i sudditi e protettore di poeti e artisti; fondò diverse città, fortificò la sua capitale e la dotò di importanti edifici monumentali, tra i quali spiccano la biblioteca – che sotto di lui conobbe una considerevole espansione – e il celeberrimo altare di Zeus e Atena (oggi custodito al Pergamonmuseum di Berlino); dando continue prove di liberalità e di splendore anche nelle città greche, fece costruire un grandioso portico ad Atene.

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Riferimenti bibliografici:

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É. Wɪʟʟ, Histoire politique du monde hellénistique, 323-30 av. J.-C., Paris 2003.

R.B. MᴄSʜᴀɴᴇ, The Foreign Policy of the Attalids of Pergamum, Urbana 1964.

Antioco III il Grande

La vita di Antioco III è un romanzo. L’affermazione non sembri un’esagerazione, dal momento che quest’uomo, nell’arco della sua esistenza, conobbe grandi successi e sconfitte altrettanto notevoli ed ebbe modo di confrontarsi sia con l’immagine di Alessandro, arrivando a fregiarsi del medesimo appellativo di Μέγας, sia con l’azione di due protagonisti maggiori del suo tempo: Annibale Barca e Publio Cornelio Scipione Africano.

Antioco III il Grande. Tetradramma, Asia Minore 213-204 a.C. Ar. 17,01 g. Dritto: Testa diademata del sovrano verso destra.

Antioco era nato intorno al 242 a.C. da re Seleuco II Callinico e Laodice, ma, siccome era il secondogenito, alla morte del padre nel 226 il regno era passato a suo fratello Seleuco III Sotere. In quegli anni, con il fratello sul trono, Antioco ebbe modo di affinare le proprie capacità amministrative e diplomatiche, governando per conto del re le satrapie orientali. Alla morte del fratello nel 223, Antioco fu proclamato βασιλεύς: aveva solo 19 anni ed ereditava un regno in rivolta. Affrontò la situazione affidando incarichi importanti ai fratelli Molone e Alessandro, già satrapi rispettivamente della Media e della Perside, ma essi gli si rivoltarono contro, perché avevano in odio Ermia, il potente primo ministro del sovrano. Molone arrivò persino ad autoproclamarsi βασιλεύς, ma, dopo un’iniziale serie di vittorie in Mesopotamia, alla fine fu sconfitto da Antioco in persona e, abbandonato dai suoi, fu costretto a uccidersi; anche l’altro fratello, Alessandro, che lo aveva seguito nella ribellione, lo seguì anche nella morte. Era il 220, e Antioco aveva 22 anni.

Soldati seleucidi. Illustrazione di D. Alexinski.

Le attenzioni maggiori del re, in quegli anni, erano andate sempre più concentrandosi verso l’Egitto, a cui progettava di togliere il controllo della Celesiria e dell’intera Fenicia. Cominciò così la cosiddetta “Quarta guerra siriaca”: nei due anni successivi il re seleucide conseguì una serie di importanti vittorie, riconquistando anche l’ancestrale Seleucia di Pieria (alle foci dell’Oronte presso l’od. Samandağ, in Turchia) e giungendo a minacciare i confini metropolitani del dominio tolemaico. Tuttavia, Tolemeo IV gli inflisse una sonora sconfitta nella battaglia di Raphia (od. Rafah, a sud di Gaza), costringendo Antioco a riparare a nord del Libano: il faraone non continuò la guerra, ma impose all’avversario miti condizioni di pace, reimpossessandosi della Celesiria. Nel frattempo, il re seleucide dovette fronteggiare una nuova minaccia: Acheo, suo generale plenipotenziario, già al seguito del Callinico, impegnato in Asia Minore contro i re di Pergamo, aveva preso sede a Sardi, in Lidia. Lo stratego approfittò dei suoi successi e del fatto che Antioco fosse in guerra con i Tolemei per dare sfogo alle proprie ambizioni: si fece proclamare βασιλεύς. Ma la sua usurpazione ebbe vita breve: nel 216 Antioco passò rapidamente la catena del Tauro e, alleatosi con Attalo I di Pergamo, conquistò in una sola volta tutti i territori passati sotto il dominio del generale ribelle. Acheo, tradito dai suoi, fu consegnato al re. Era il 213 a.C. e Antioco aveva 29 anni.

Gli elefanti alla battaglia di Raphia (216 a.C.). Illustrazione di A. Karashchuk.

Sulla scia dei successi riportati, Antioco III mosse ancora all’attacco dei propri vicini usando la diplomazia e la forza militare. Negli anni successivi, infatti, tra il 212 e il 205, il re compì una ἀνάβασις attraverso i territori orientali del dominio dei suoi avi, riportando sotto il suo controllo le satrapie di Armenia, Parthia, Bactria e Arachosia e ricevendo il soprannome di Μέγας. Nel 204 era salito al trono d’Egitto Tolemeo V Epifane; approfittando della minorità del faraone, Antioco III pensò bene di rinnovare l’offensiva per controllare la Celesiria: con la “Quinta guerra siriaca” (200-198), conclusasi con la vittoria seleucide a Paneion, la Palestina passava interamente sotto il dominio di Antioco. Dal 196 il re siriaco condusse una campagna militare in Anatolia occidentale e in Tracia, sottomettendo e conquistando numerose città greche, stabilendo legami diplomatici con quelle che erano insoddisfatte della presenza romana nell’Egeo.

Antioco III il Grande. Testa, copia romana in marmo del I secolo da un originale del III secolo a.C. Paris, Musée du Louvre.

Invasa la Grecia nel 192 con un’armata di 10.000 uomini e forte dell’alleanza della Lega etolica e di altre città elleniche, Antioco entrò in guerra con Roma. In quegli anni il re aveva accolto presso di sé anche Annibale, costretto all’esilio da Cartagine: aveva apprezzato la fama, le gesta e il valore del generale punico e ne fece un suo consigliere militare. Tuttavia, non sempre ne seguì i pareri, commettendo una serie di gravi errori. Infatti, nel 191 un esercito romano al comando del console Manio Acilio Glabrione gli inflisse una dura batosta alle Termopili, costringendo Antioco ad abbandonare la Grecia e rientrare nei suoi domini asiatici. L’anno successivo la guerra contro il Seleucide fu assegnata a Lucio Cornelio Scipione, fratello di Africano: Antioco fu di nuovo sconfitto a Magnesia sul Sipilo. Nel 188 con il trattato di Apamea i Romani gli imposero di cedere tutti i territori a nord della catena del Tauro, consentendogli di conservare i domini orientali.

La battaglia di Magnesia al Sipilo (190 a.C.). Illustrazione di I. Dzis.

La situazione del suo regno era compromessa, ma Antioco III cercò di risollevarne le sorti con un’impresa disperata e sacrilega. Dopo aver nominato coreggente il figlio Seleuco IV Filopatore, il re si mise in marcia e sulla via per Babilonia si diresse in Elimaide, dove si trovava un importante santuario dedicato a Baal, che custodiva favolose ricchezze. Antioco tentò di saccheggiarlo, ma non vi riuscì: fu catturato e ucciso dagli abitanti del posto, accorsi in difesa del luogo sacro. Era il 187/6 e Antioco aveva 56 anni.

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Fonti antiche: Syll.³ 601; 605a; 606; OGIS 245-246; Polyb. V 40 ss.; X 28 ss.; XI 34; XV 20; XVI 18 ss.; XXI 6 ss.; Just. prol. 30-32; XXX 2; 4; XXXI; XXXII 2; XLI 5; Diod. XXXVIII-XXIX; XXXI 19, 7; Liv. XXXIII-XXXVIII; Jos. AJ XII 129 ss.; 414; App. Syr. 1-44; DCass. XIX.

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Riferimenti bibliografici:

M. Austin, The Hellenistic World from Alexander to the Roman Conquest. A Selection of Ancient Sources in Translation, Cambridge 2006.

J.D. Grainger, The Roman War of Antiochos the Great, Leiden-Boston 2002.

J.D. Grainger, The Syrian Wars, Leiden-Boston 2010.

J.D. Grainger,  The Seleukid Empire of Antiochus III, 223-187 BC, Barnsley 2015.

M.J. Taylor, Antiochus the Great, Barnsley 2013.

Demetrio di Bisanzio, i Galati e Megas di Cirene

Diversi autori antichi hanno raccontato le vicende legate alla migrazione dei Galati dai Balcani all’Asia Minore e dello scontro che questo popolo sostenne con il mondo greco-ellenistico (per una panoramica generale, vd. Nachtergael 1977, 49-82; Barbantani 2001, 154-155). Tra quanti fornirono una vivida testimonianza dei fatti ci fu anche un certo Demetrio di Bisanzio, di cui non si saprebbe nemmeno l’esistenza, se non fosse per la menzione di Diogene Laerzio (Dɪᴏɢ. Lᴀᴇʀᴛ. V 83) in un catalogo di Δημήτριοι:

γεγόνασι δὲ Δημήτριοι ἀξιόλογοι εἴκοσι… ἕβδομος Βυζάντιος, ἐν τρισκαίδεκα βιβλίοις γεγραφὼς τὴν Γαλατῶν διάβασιν ἐξ Εὐρώπης εἰς Ἀσίαν· καὶ ἐν ἄλλοις ὀκτὼ τὰ περὶ Ἀντίοχον καὶ Πτολεμαῖον καὶ τὴν τῆς Λιβύης ὑπ᾽αὐτῶν διοίκησιν.

Ci sono stati venti Demetrio degni di nota […]; il settimo, uno di Bisanzio, ha narrato in tredici libri la migrazione dei Galati dall’Europa all’Asia e in altri otto i fatti relativi ad Antioco e a Tolemeo e l’amministrazione della Libia per opera loro.

Questo Demetrio, che con ogni probabilità fu contemporaneo ai fatti che narrava (III secolo a.C.), non va tuttavia confuso con un suo omonimo concittadino e contemporaneo, un filosofo peripatetico, autore di un trattato περὶ ποιημάτων (Sulle poesie), che il Laerzio cita come terzo nella sua lista (cfr. Jacoby, FGrH. 2d, Kommentar, 593; Nachtergael 1977, 51 n. 121). Può darsi che lo storico sia vissuto alla corte dei Tolemei e, se le cose fossero così, potrebbe essere identificato con un Demetrio, figlio di Apelle, che ad Alessandria ricoprì il prestigiosissimo sacerdozio nel culto di Alessandro e dei Lagidi negli anni 220/19-219/8, ed fu nientemeno che fratello del capo-bibliotecario Aristofane di Bisanzio (cfr. Peremans, Van’t Dack 1956, n. 5082; Peremans 𝑒𝑡 𝑎𝑙. 1968, n. 16910; IJsewijn 1961, 83).

Tolomeo II Filadelfo. Busto, bronzo. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Secondo Jozef IJsewijn (𝑜𝑝. 𝑐𝑖𝑡.), è più probabile che lo storico Demetrio sia stato figlio di uno stratego bizantino, che, partito per l’Egitto al tempo di Tolemeo II Filadelfo, vi si sarebbe posto al servizio come mercenario, mentre, secondo Giuseppe Zecchini (Zecchini 1990, 216), Demetrio sarebbe stato «uno storico indipendente». In ogni caso, le informazioni di cui si dispone sullo scrittore dipendono unicamente dal testimonium laerziano tratto dalle Vite e dottrine dei filosofi illustri (FGrHist. T 1).

Ciononostante, come ha sottolineato Felix Jacoby (FGrH. 2d, Kommentar, 594), dai titoli si può presumere che l’esposizione dei fatti non seguisse la tradizione degli Hellenikà, ma che Demetrio preferì narrare gli eventi da un punto di vista locale e personale.

Le due opere dovevano inoltre essere strettamente correlate tra loro sia dal punto di vista cronologico sia da quello tematico: il biografo infatti riferisce che l’argomento della prima era la διάβασις dei Galati dall’Europa all’Asia, evento che Pausania il Periegeta (Pᴀᴜs. I 23, 14) faceva risalire all’arcontato dell’ateniese Damocle (circa nel 278/7 a.C.); i tredici libri di Demetrio, dunque, avrebbero narrato – forse con dovizia di dettagli – quell’epopea avvenuta tra il 280 e il 276 a.C. Diversamente, se non si prendono troppo alla lettera le informazioni trasmesse dal Laerzio, si potrebbe ipotizzare che quei tredici libri svolgessero la storia dei Galati dal sacco di Delfi (279) fino al loro definitivo insediamento nella regione microasiatica che da loro prese nome. In Anatolia gli invasori furono combattuti e sconfitti da re Antioco I Sotere (281-261) nella cosiddetta “battaglia degli elefanti” (avvenuta in una data molto discussa: o nel 275 o nel 269/8); il dinasta seleucide, vittorioso, assegnò all’orda migrante i territori della Frigia orientale bagnati dal fiume Halys (od. Kızılırmak). Se si accetta la cronologia più bassa per lo stanziamento dei Celti, è possibile che Demetrio abbia strutturato la sua opera secondo un criterio annalistico, cioè ogni libro corrisponderebbe a un anno. La prospettiva locale emergerebbe dalla forte probabilità che Demetrio abbia narrato quelle vicende dal punto di vista della sua Bisanzio, città che fu direttamente coinvolta nella traversata dei Galati sul Bosforo (cfr. Strobel 1996, 239-244; Carsana 1996, 181).

L’irruzione dei Galati. Illustrazione di A. McBride.

Quanto all’altra opera, è possibile che essa narrasse gli eventi legati ai tentativi di Magas, governatore di Cirene, di creare un regno autonomo rispetto all’Egitto tolemaico. Insignito del ruolo amministrativo nel 300, per desiderio della madre Berenice, dal patrigno Tolemeo I Sotere, quando questi nel 283 morì, Magas si autoproclamò re della Cirenaica. Nel 275, dopo aver conquistato la città tolemaica di Paraitonon, il ribelle marciò su Alessandria, forte dell’alleanza matrimoniale stipulata con i Seleucidi, avendo sposato Apama II, figlia di Antioco I; ma dovette tornare sui suoi passi, a causa di una rivolta della tribù libica dei Marmaridi scoppiata in Cirenaica. Il fratellastro Tolemeo II Filadelfo, dal canto suo, non aveva potuto reagire, dacché aveva dovuto sedare anche lui un ammutinamento fra i suoi mercenari galati. Fallita l’invasione dell’Egitto, Magas pensò bene di rivolgersi al suocero, da tempo già alleato con il regno di Macedonia, perché intervenisse al suo fianco e si organizzasse un attacco congiunto. Accortosi di un potenziale accerchiamento, nel 274 il Filadelfo prese l’iniziativa, radunò una potente armata, dichiarò guerra al Seleucide e marciò sulla Celesiria, occupandola: iniziò così la prima guerra siriaca (274-271). Nel corso del breve conflitto, il faraone riuscì ad affrontare gli avversari separatamente; alla fine, dopo alterne vicende, nel 271 Antioco dichiarò la propria sconfitta e, chiesta e ottenuta la pace, accettò lo 𝑠𝑡𝑎𝑡𝑢𝑠 𝑞𝑢𝑜 prebellico, concedendo all’avversario l’importante metropoli di Damasco. Quanto alla Cirenaica, il Filadelfo costrinse il fratellastro riottoso a scendere a patti, riconoscendogli il titolo regale sulla sua provincia, ma mantenendolo sotto il proprio controllo nominale. Ora, con l’indicazione τὴν τῆς Λιβύης… διοίκησιν forse Diogene Larezio intendeva proprio questa serie di eventi e, se fosse così, gli otto libri in cui Demetrio ne parla coprirebbero un arco di anni dal 275/4 al 271 a.C. (cfr. Will 1979, 145-148; Strobel 1996, 250-251).

Mercenari galati in Egitto. Illustrazione di A. McBride.

In ogni caso, l’elemento galatico potrebbe costituire un trait d’union tra le due opere, dato che uno degli episodi della guerra tra Tolemeo II e Megas fu proprio la rivolta dei mercenari celti arruolati nell’esercito egiziano (Cᴀʟʟɪᴍ. Hymn. IV 170-187; Schol. ad Call. Hymn. IV 175-187; Pᴀᴜs. I 7, 2; cfr. Nachtergael 1977, 184; Hölbl 2001, 39; McKechnie, Guillaume 2008, 300). Ciò è tanto più probabile se la seconda opera di Demetrio fosse la diretta continuazione («Fortsetzung») della prima, così come ha sostenuto Jacoby (FGrH. 2b, Text 889): ventun libri che raccontano i fatti occorsi tra il 280 e il 270 a.C. circa.

Comunque sia, la possibilità che si sia trattato di due opere distinte, in realtà, non è assolutamente da escludere, soprattutto se per la “battaglia degli elefanti” e lo stanziamento dei Galati si assume la cronologia più bassa (vd. Wörrle 1975, 59-87; ma cfr. anche Strobel 1996, 257-261, che ritiene che Antioco I abbia affrontato i Celti in due campagne militari distinte, e cioè una nel 278-275 e un’altra nel 269).

Tempio di Apollo Cirenaico. Cirene, Libia.

Con le scarsissime informazioni pervenute, è praticamente impossibile determinare l’influenza che Demetrio di Bisanzio esercitò con la sua produzione sulla storiografia successiva. Secondo Jacoby (FGrH. 2d, Kommentar, 594), autori come Pompeo Trogo, Diodoro Siculo e Pausania non impiegarono opere così ampie e, al contempo, estremamente specializzate (contra Nachtergael 1977, 52). In realtà, a ben guardare, Demetrio è una delle fonti più probabili di Polibio per la storia di Bisanzio (cfr. Walbank 1957, 213, 499). E, infine, il fatto che ancora nel III secolo d.C. Diogene Laerzio lo annoverasse in un suo catalogo lascia intendere che Demetrio di Bisanzio fu per tutta l’antichità uno storico molto importante.

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Riferimenti bibliografici:

Barbantani 2001 = S. Bᴀʀʙᴀɴᴛᴀɴɪ, Phatis Nikephoros. Frammenti di elegia encomiastica nell’età delle Guerre Galatiche: Supplementum Hellenisticum 958 e 969, Milano 2001.

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Hölbl 2001 = G. Hᴏ̈ʟʙʟ, A History of the Ptolemaic Empire, London-New York 2001.

IJsewijn 1961 = J. IJsᴇᴡɪᴊɴ, De sacerdotibus sacerdotiisque Alexandri magni et Lagidarum eponymi, Bruxelles 1961.

McKechnie, Guillaume 2008 = P. MᴄKᴇᴄʜɴɪᴇ, P. Gᴜɪʟʟᴀᴜᴍᴇ, Ptolemy II Philadelphus and His World, Louvain 2008.

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Peremans, Van’t Dack 1956 = W. Pᴇʀᴇᴍᴀɴs, E. Vᴀɴ’ᴛDᴀᴄᴋ, Prosopographia Ptolemaica, III: Le clergé, le notariat, les tribunaux, nos. 4984-8040, Louvain 1956.

Peremans et alii 1968 = W. Pᴇʀᴇᴍᴀɴs, E. Vᴀɴ’ᴛDᴀᴄᴋ, L. Mᴏᴏʀᴇɴ, W. Sᴡɪɴɴᴇɴ, Prosopographia Ptolemaica, VI: La cour, les relations internationales et les possessions extérieures, la vie culturelle, nos. 14479-17250, Louvain 1968.

Strobel 1996 = K. Sᴛʀᴏʙᴇʟ, Die Galater. Geschichte und Eigenart der keltischen Staatenbildung auf dem Boden des hellenistischen Kleinasien, I, Berlin 1996.

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Will 1979 = E. Wɪʟʟ, Histoire politique du monde hellénistique, 323-30 av. J.-C., Nancy 1979.

Wörrle 1975 = M. Wᴏ̈ʀʀʟᴇ, Antiochos I., Achaios der Ältere und die Galater. Eine neue Inschrift in Denizli, Chiron 5 (1975), 59-87.

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Callimaco: il poeta degli Epigrammi

da G. ZANETTO, P. FERRARI (eds.), Callimaco. Epigrammi, Milano 1992, 13-18.

Esisteva certamente nell’antichità un’edizione completa degli Epigrammi di Callimaco: lo provano le citazioni di grammatici ed eruditi, che appunto fanno riferimento a un liber epigrammatico. Ma ben presto gli epigrammi del poeta entrarono a far parte di sillogi e antologie, che circolavano con successo in tutto il mondo ellenistico[1]. Fra esse ebbe particolare rilievo la raccolta curata all’inizio del I secolo a.C. da Meleagro di Gadara e intitolata Corona: comprendeva poesie di tutti i maestri di questo genere, dall’età arcaica fino a Meleagro stesso, e Callimaco vi figurava in maniera cospicua. La Corona meleagrea, via via integrata dai necessari aggiornamenti, sopravvisse nei secoli fino all’età bizantina, quando Costantino Cefala – intorno al 900 – la utilizzò come base della sua antologia, poi confluita nella nostra Anthologia Palatina.

Lawrence Alma-Tadema, Il poeta preferito. Olio su tela, 1888.

Di Callimaco, dunque, possediamo gli epigrammi trascelti da Meleagro: la nostra conoscenza della sua arte epigrammatica passa inevitabilmente attraverso il filtro di un giudizio altrui[2], anche se possiamo essere certi che il curatore della Corona – epigrammista di grande talento e di gusto sicuro – abbia scelto bene. È singolare prerogativa degli Epigrammi e degli Inni callimachei l’essere sopravvissuti in quanto legati a opere anche di altri poeti. Nella produzione di Callimaco assistiamo a questo curioso contrappasso: le opere «maggiori», quelle in cui più si esprimeva la rivoluzione letteraria dell’autore e a cui Callimaco più affidava il proprio successo poetico – le elegie degli Aitia e il poemetto Ecale – sono andate perdute, e sono oggi solo sommariamente ricostruibili attraverso un pulviscolo di frammenti; mentre rimangono i lavori del Callimaco «minore». A essi, e soprattutto agli Epigrammi, dobbiamo ricorrere per ricostruire la figura di un poeta la cui importanza nella storia della cultura è certo straordinaria, ma che da sempre divide gli interpreti. Nell’antichità egli conobbe stroncature impietose, fu additato a modello negativo di un’arte fredda e cerebrale, refrattaria al calore del sentimento. E anche fra i lettori moderni non mancano i detrattori. Ma sempre si ha l’impressione che il giudizio sul poeta sia in qualche modo inquinato da un pregiudizio di fondo, quasi gli si rimproverasse – inconsapevolmente – di aver suggellato la fine dell’età classica e della sua letteratura.

Chi fu, dunque, Callimaco? Negli Epigrammi il poeta parla direttamente di sé. non solo entro i termini di quella querelle letteraria che si riverbera anche nelle altre opere (soprattutto nel prologo degli Aitia), ma in una prospettiva più spigliatamente autobiografica. Il poeta esprime dei giudizi che ci dànno indicazioni preziose non solo sui suoi convincimenti letterari, ma anche sulla sua personalità. Gli epigrammi 22 e 39 sono rispettivamente l’autoepitafio del poeta e l’epitafio per il padre Batto:

Βαττιάδεω παρὰ σῆμα φέρεις πόδας εὖ μὲν ἀοιδὴν

   εἰδότος, εὖ δ’ οἴνῳ καίρια συγγελάσαι.

Passi accanto alla tomba del figlio di Batto, bravo

nel canto, bravo a bere vino e a scherzare.

(Ep. 22 = AP. VII 415)

Ὅστις ἐμὸν παρὰ σῆμα φέρεις πόδα, Καλλιμάχου με

   ἴσθι Κυρηναίου παῖδά τε καὶ γενέτην.

εἰδείης δ’ ἄμφω κεν· ὁ μέν κοτε πατρίδος ὅπλων

   ἦρξεν, ὁ δ’ ἤεισεν κρέσσονα βασκανίης.

οὐ νέμεσις· Μοῦσαι γάρ, ὅσους ἴδον ὄμματι παῖδας

   μὴ λοξῷ, πολιοὺς οὐκ ἀπέθεντο φίλους.

Tu che passi accanto alla mia tomba, sappi

che sono figlio e padre di un Callimaco di Cirene.

Entrambi famosi: il primo comandò l’esercito

della patria, l’altro fu un poeta più forte dell’invidia.

Niente di strano: se le Muse hanno protetto uno da piccolo,

gli rimangono amiche anche quand’è incanutito.

(Ep. 39 = AP.  VII 525)

Sono due componimenti che vanno letti in coppia: era infatti tradizione, nelle tombe di famiglia, incidere sui due lati di una stessa stele due diverse iscrizioni funebri; con un espediente letterario molto abile Callimaco utilizza questa convenzione per comporre una sorta di dittico, animato da una serie di rimandi, in cui talvolta ciò che è taciuto è più significativo di ciò che è detto[3]. Parlando di sé, il poeta si definisce «bravo nel canto, bravo a bere vino e a scherzare»: affiora in queste parole il vezzo, assolutamente tradizionale, di considerare la propria attività poetica come qualcosa di marginale; ma, nel complesso, la definizione colpisce nel segno. Non nel senso che Callimaco fosse davvero così, ma nel senso che così avrebbe voluto essere, lui che era tanto lontano dall’ispirazione larga e immediata di un poeta-soldato.

Pittore di Orfeo. Un trace (dettaglio). Pittura vascolare da un cratere a colonne a figure rosse, 440 a.C. c. da Gela. Berlin, Antikensammlung.

Del resto, è tipico di un letterato, quando accetta di ritrarsi, offrire una rappresentazione di sé che corrisponda alla propria immagine fantastica, e che spesso contraddice la realtà. Il menestrello spensierato ritratto nell’Ep. 22 è un po’ il Robert Jordan di Callimaco! Il protagonista di Per chi suona la campana, nelle riflessioni notturne che precedono il giorno dell’azione, si compiace di ricordare il nonno, grande soldato e grande comandante di cavalleria nella guerra civile americana; il ricordo del nonno, rappresentato come termine positivo di riferimento, si intreccia con quello del padre, il cobarde fallito. Robert Jordan ama pensare, applicando una sorta di aristocratismo genetico, che il coraggio e il valore si trasmettano di nonno in nipote, con il salto di una generazione: «È un gran peccato che ci sia un tale salto di tempo fra due uomini come noi». Il personaggio è immagine dell’autore: Hemingway cercò per tutta la vita di neutralizzare il fantasma del padre, il cobarde sottomesso e suicida; ma il suo vitalismo convulso approdò a un colpo di fucile liberatorio.

Anche Callimaco, nell’Ep. 39, traccia un parallelo ideale fra sé e il nonno, che aveva portato il suo stesso nome: il padre Batto – che formalmente parla dalla stele – si annulla, attribuendosi come unico merito quello di rappresentare l’anello di congiunzione fra il grande condottiero e il grande poeta. Ma poeta-soldato Callimaco assolutamente non fu. C’è una distanza siderale fra lui e un Archiloco: non solo perché Callimaco trascorse tutta la sua vita ad Alessandria, in un’operosità divisa fra la produzione letteraria e la frenetica attività erudita, ma anche perché gli mancò affatto l’umiltà dell’uomo d’azione, quella curiosità ingenua che spinge a far la prova di persona, fatta di orgoglio e di valore fisico, la forma più elementare ma forse più autentica del coraggio. Callimaco ebbe invece in somma misura il coraggio intellettuale. L’Ellenismo gli impose la riduzione della letteratura ad attività erudita, escludendola dal respiro della comunicazione politica. Egli l’accettò impavido: seppe donare un nuovo prestigio e un nuovo valore alla produzione letteraria, intesa ora come sfida estrema di intelligenza e di gusto, da affrontare con dedizione totale, con il bando di ogni compromesso e di ogni mediocrità. Dovette però pagare un prezzo: dovette accettare che ogni suo pensiero fosse rivolto alla poesia, e che per converso l’intero suo immaginario poetico si risolvesse nei termini di una religione dell’arte.

Caserma con soldati e processione. Mosaico, I sec. a.C. ca. dal «Mosaico con scena nilotica». Palestrina, Museo Archeologico Nazionale.

Callimaco anticipò Moravia: credette solo nella letteratura. Fu il primo, e forse il più grande, degli intellettuali moderni: fu l’«inventore» – in una proiezione psicologica e biografica prima ancora che ideale – della figura stessa dell’intellettuale. Dello scholar ebbe il rigore metodico e l’impegno scientifico, ma anche la passionalità introversa e stagnante, la propensione al rancore, alla rivalità di scuola e di clan. La stessa polemica letteraria, che assorbe tanta parte dell’affetto negli Epigrammi, non assume la maniera delle parabasi aristofanee: quel che in Aristofane è la consapevolezza sanguigna del ruolo sociale e politico diventa in Callimaco l’eco di una rivalità professionale. L’Ep. 45 (AP. IX 566) propone un siparietto fra un poeta virtuoso e uno sconfitto:

Μικρή τις, Διόνυσε, καλὰ πρήσσοντι ποιητῇ

   ῥῆσις· ὁ μὲν Νικῶ φησὶ τὸ μακρότατον·

ᾧ δὲ σὺ μὴ πνεύσῃς ἐνδέξιος, ἤν τις ἔρηται

   Πῶς ἔβαλες; φησί· Σκληρὰ τὰ γιγνόμενα.

τῷ μερμηρίξαντι τὰ μὴ ἔνδικα τοῦτο γένοιτο

   τοὖπος· ἐμοὶ δ’, ὦναξ, ἡ βραχυσυλλαβίη.

È di poche parole il poeta che fa bene, o Dioniso:

la più lunga che dice è «vittoria!».

Quell’altro, quello che tu non ispiri, se uno gli chiede:

«Com’è andata?», risponde: «Maledetta scalogna!».

Ma questo lo dica pure chi pensa cose brutte;

io, signore, preferisco esprimermi a sillabe.

Il contesto è lasciato indeterminato – certo un agone poetico, l’equivalente di un moderno premio letterario – e l’elemento di assoluta evidenza è il compiacimento per il successo: la vittoria coinvolge il vincitore sul piano personale, ma segna nel contempo il trionfo della sua poetica, quindi della sua «scuola». L’implicita irrisione dello sconfitto, ritratto mentre maledice la sfortuna, è assolutamente conforme alla mentalità greca (che fin da Omero conosce la risata sardonica e maligna sopra il nemico vinto!), ma esprime anche la nuova consapevolezza del letterato, in corsa per un’affermazione di sé che trascende il significato stesso del suo ruolo.

Statua di Dioniso. Marmo, copia romana da un originale greco del 325 a.C. ca., dalla Campania. London, British Museum.

Nelle Rane di Aristofane Dioniso scende nell’oltretomba per riportare in vita un poeta capace di riscattare la scena tragica ateniese dalla mediocrità cui l’ha condannata la morte quasi contemporanea di Euripide e di Sofocle (Eschilo è scomparso da tempo). Nell’agone che occupa la seconda metà della commedia, Eschilo ed Euripide si affrontano – sotto l’arbitrato di Dioniso – per stabilire chi dei due è il miglior tragediografo in assoluto, e quindi il più degno di risurrezione; alla fine, il dio del teatro decide di riportare in vita Eschilo, giudicandolo il poeta più sapiente, anche se non ha difficoltà ad ammettere che Euripide gli dà le emozioni estetiche più travolgenti. Anche Callimaco, com’è naturale, giudica la tradizione poetica del passato; ma il suo metro di valutazione prescinde ormai affatto dal valore di «verità» contenuto nell’opera letteraria, per privilegiare la dimensione del gusto, ossia proprio quella categoria che il Dioniso aristofanesco finisce per scoraggiare. Nell’Ep. 43 (AP. IX 507; Achill. comm. Arat. 78, 28 Maas) il riconoscimento dell’arte minuta e sapiente di Arato si accompagna a un’implicita difesa della propria poetica e si appoggia a un’esaltazione di Esiodo, anteposto addirittura al grande padre Omero:

Ἡσιόδου τό τ’ ἄεισμα καὶ ὁ τρόπος· οὐ τὸν ἀοιδῶν

   ἔσχατον, ἀλλ’ ὀκνέω μὴ τὸ μελιχρότατον

τῶν ἐπέων ὁ Σολεὺς ἀπεμάξατο. χαίρετε, λεπταὶ

   ῥήσιες, Ἀρήτου σύμβολον ἀγρυπνίης.

Il tema e lo stile sono quelli di Esiodo: non è l’ultimo

dei poeti, ma direi che l’amico di Soli

ha raccolto il meglio della poesia epica. Benvenuta,

arte sottile, notturna fatica di Arato!

Callimaco non poteva certo non apprezzare il prestigio formale del linguaggio omerico né poteva ignorare il ruolo svolto dai poemi omerici nella trasmissione della cultura greca: ma nel confronto fra i due maestri della poesia epica, Esiodo finisce per diventare il simbolo del clan letterario cui il poeta appartiene e per essere quindi privilegiato.

La notizia di una rivalità irriducibile fra Callimaco e il suo allievo Apollonio è probabilmente un’invenzione o almeno un’amplificazione di biografi più tardi. Ma come spesso avviene per le tradizioni biografiche concernenti i poeti greci, viene la tentazione di crederci! Una lotta al coltello fra i due poeti per la carica di arci-bibliotecario ad Alessandria equivarrebbe, in termini odierni, alla competizione di due romanzieri per il Nobel della Letteratura: ossia per un riconoscimento cui ogni letterato protesta di essere indifferente, e che pure è in cima ai pensieri di tutti. Certo, nell’Ep. 44 Callimaco augura all’amico Teeteto di godere di una lunga gloria presso i posteri, invitandolo a rinunciare di buon grado alla notorietà e al successo immediati. Ma il tono sembra consolatorio; e comunque l’agonalità della πόλις ellenica è ancora troppo vicina nel tempo per non infiammare il cuore anche dei poeti, oltre che dei dinasti.

Statua di Apollo. Marmo, copia romana del II secolo d.C. da un originale ellenistico, da Cirene. London, British Museum.

Callimaco apparitene sempre, infatti, per molti versi al mondo della πόλις. Non – come si è visto – nel senso che egli creda ancora all’impegno civile della poesia; ma certo nel segno di un orgoglio d’appartenenza, che non è in contraddizione con l’orizzonte ormai cosmopolita della cultura ellenistica. Aveva sangue dorico nelle vene, poiché Cirene era un’antica colonia di Thera: e i Dori erano, fra i Greci, quelli più legati al proprio passato, più calati nel mito eugenetico della città e della schiatta. Molti epigrammi, soprattutto funebri, hanno il senso di un ritorno ideale ai luoghi dell’infanzia. L’Ep. 31 muove dalla disgrazia che ha sconvolto una delle famiglie più in vista di Cirene, e si chiude con l’immagine suggestiva della città che si stringe attorno alle bare dei due ragazzi scomparsi, dunque della comunità che si riconosce affettivamente nei due nobili giovanetti. E l’Ep. 38, pure un epitimbio, è un divertente dialogo con un altro cireneo, Carida: qui la patria lontana è evocata con un diverso registro, fatto di allusioni e ammiccamenti, in parte incomprensibili per il lettore moderno. D’altra parte, proprio lo studio dei reperti archeologici ed epigrafici di Cirene ha consentito, negli ultimi decenni del Novecento, di ricostruire con più precisione la discendenza del poeta, rampollo di una famiglia che vantava come capostipite lo stesso Batto, il capo dei “padri pellegrini” cirenei; e ha altresì permesso di riconoscere tutta una serie di riferimenti alla realtà della città contenuti negli Epigrammi e nelle altre opere callimachee.

In che forma, concretamente, si estrinsecasse il rapporto d’amore di Callimaco per Cirene, presente con tanto calore nell’opera poetica, è assolutamente oscuro. Periodici ritorni sembrano in contraddizione con l’immagine che abbiamo di un intellettuale ormai calato nella dimensione sociale e culturale della metropoli alessandrina. Quel che è certo è che Callimaco conserva l’abitudine classica di connettere ogni persona con la sua patria, come fondendo insieme il πολίτης e la πόλις. Negli epigrammi funebri la puntigliosa indicazione della città d’origine non ha solo la funzione del dato anagrafico, ma acquista anche il senso di un gesto d’attenzione, di un’estrema carezza.

In sostanza, la rivoluzione culturale ellenistica non sottrae i poeti dalla prima generazione all’eredità classica, almeno nella dimensione affettiva. E fra le opere di Callimaco, forse proprio gli Epigrammi offrono la testimonianza più convincente. È il caso dell’Ep. 15, l’epitimbio che il poeta compose per l’amico Eraclito di Alicarnasso:

Εἶπέ τις, Ἡράκλειτε, τεὸν μόρον, ἐς δέ με δάκρυ

   ἤγαγεν· ἐμνήσθην δ’, ὁσσάκις ἀμφότεροι

ἥλιον ἐν λέσχῃ κατεδύσαμεν. ἀλλὰ σὺ μέν που,

   ξεῖν’ Ἁλικαρνησεῦ, τετράπαλαι σποδιή·

αἱ δὲ τεαὶ ζώουσιν ἀηδόνες, ᾗσιν ὁ πάντων

   ἁρπακτὴς Ἀίδης οὐκ ἐπὶ χεῖρα βαλεῖ.

Uno mi ha detto che sei morto, Eraclito, e ho pianto:

ho ricordato quante volte, chiacchierando, vedemmo

insieme tramontare il sole. Amico di Alicarnasso, ora

tu non sei che polvere, chissà dove e da quanto tempo,

ma continuano a vivere i tuoi versi: su di essi Ade,

il ladrone spietato, non potrà allungare la mano.

Un’elegia struggente, questa, divisa fra il dolore della separazione irrimediabile e il conforto della memoria. La perfezione formale di questi versi è squisitamente ellenistica; ma il loro fascino – cui non rimasero insensibili, fra gli altri, Callimaco e Foscolo – è in larga misura connesso con la rete di sentimenti che li innerva e che sono assolutamente classici: un pianissimo lene e diffuso, bilanciato però in qualche misura dalla fede nella φιλία e nell’arte. Basta quest’esempio – fra i molti presenti negli Epigrammi – di poesia composta e commossa per togliere a Callimaco la scomoda definizione di freddo versificatore e per far capire come la sua arte si alimenti ancora della riflessione greca sulla vita e sull’uomo.


[1] Sulla base di una notizia fornita da Aristarco (schol. Il. XI 101), si pensa che Posidippo ed Edilo avessero curato un’edizione comune dei loro epigrammi intitolata Σωρός. Inoltre, sono stati ritrovati ostraka e papiri con resti di raccolte epigrammatiche pre-meleagree.

[2] Come spesso avviene in questi casi, il successo della silloge di Meleagro fece sì che gli epigrammi non compresi nella raccolta venissero presto dimenticati. In effetti, le citazioni antiche riguardano quasi sempre componimenti compresi nella Corona.

[3] Secondo alcuni interpreti, i due epigrammi avrebbero avuto originariamente la funzione di chiudere il liber epigrammatico di Callimaco, fornendo insieme la mossa di congedo e una sorta di autoritratto dell’autore.

Le due Orse (Arat. 𝑃ℎ𝑎𝑒𝑛. 26-44)

da I. BIONDI, Storia e antologia della letteratura greca. III. L’Ellenismo e la tarda grecità, Firenze 2004, 43-45.

Muovendo dal Polo Nord, l’elemento sul quale si chiudeva la sezione proemiale, Arato introduce la descrizione delle costellazioni note come Orse, che infatti ruotano intorno a esso; le due costellazioni sono tra loro rovesciate, perciò ciascuna guarda con la testa la coda dell’altra, e si muovono all’indietro. Il poeta si sofferma a spiegarne l’origine mitica, collegata al racconto dell’infanzia di Zeus: le Orse occupano una posizione significativa in cielo, perché tengono fissa la volta celeste, visibile nell’emisfero settentrionale.

New York, The Morgan Library and Museum. Ms M. 389 (1469, Napoli), Phaenomena Arati Solensis, f. 11v. Le due Orse.

[…] Δύω δέ μιν ἀμφὶς ἔχουσαι

Ἄρκτοι ἅμα τροχόωσι· τὸ δὴ καλέονται Ἅμαξαι.

Αἱ δ’ ἤτοι κεφαλὰς μὲν ἐπ’ ἰξύας αἰὲν ἔχουσιν

ἀλλήλων, αἰεὶ δὲ κατωμάδιαι φορέονται,

ἔμπαλιν εἰς ὤμους τετραμμέναι. Εἰ ἐτεὸν δή,

Κρήτηθεν κεῖναί γε Διὸς μεγάλου ἰότητι

οὐρανὸν εἰσανέβησαν, ὅ μιν τότε κουρίζοντα

Δίκτῃ ἐν εὐώδει, ὄρεος σχεδὸν Ἰδαίοιο,

ἄντρῳ ἐγκατέθεντο καὶ ἔτρεφον εἰς ἐνιαυτόν,

Δικταῖοι Κούρητες ὅτε Κρόνον ἐψεύδοντο.

Καὶ τὴν μὲν Κυνόσουραν ἐπίκλησιν καλέουσιν,

τὴν δ’ ἑτέρην Ἑλίκην. Ἑλίκῃ γε μὲν ἄνδρες Ἀχαιοὶ

εἰν ἁλὶ τεκμαίρονται ἵνα χρὴ νῆας ἀγινεῖν·

τῇ δ’ ἄρα Φοίνικες πίσυνοι περόωσι θάλασσαν.

Ἀλλ’ ἡ μὲν καθαρὴ καὶ ἐπιφράσσασθαι ἑτοίμη

πολλὴ φαινομένη Ἑλίκη πρώτης ἀπὸ νυκτός·

ἡ δ’ ἑτέρη ὀλίγη μέν, ἀτὰρ ναύτῃσιν ἀρείων·

μειοτέρῃ γὰρ πᾶσα περιστρέφεται στροφάλιγγι· τῇ καὶ Σιδόνιοι ἰθύντατα ναυτίλλονται.

[…] Le due Orse, circoscrivendo [il polo dalla parte di Borea],

insieme gli ruotano intorno; e per questo si chiamano Carri.

Esse, dunque, hanno il capo sempre rivolto ciascuna verso le reni

dell’altra, e sempre si muovono in giro sul dorso,

volte indietro verso le spalle. Se è vero ciò che si racconta,

esse, da Creta, per volontà del grande Zeus,

ascesero al cielo, poiché un tempo, sul Dicte odoroso,

presso il monte Ida, lo posero, ancora neonato,

in una caverna e lo nutrirono per un anno intero,

mentre i Cureti del Dicte ingannavano Crono.

E l’una la chiamano con l’appellativo di Cinosura,

l’altra di Elice. E di Elice gli uomini Achei si servono come punto

di riferimento sul mare, quando bisogna guidare le navi;

invece, i Fenici attraversano il mare confidando nell’altra.

Ma Elice è splendente e facile a riconoscersi,

brillando intensamente fin dal principio dell’imbrunire;

l’altra, invece, è piccola, ma più preziosa per i naviganti:

essa infatti compie tutto il percorso con un giro più stretto,

e con lei anche quelli di Sidone navigano con rotta precisa.

Lyon, Bibliothèque municipale. Ms 172 (XV sec., Germania-Svizzera), Miscellanea astronomica, f. 41r. Le due Orse e il Draco.

Come l’epicureo Lucrezio rappresenta nell’alma Venus la voluptas, il principio fondamentale del suo sistema filosofico, così lo Zeus di Arato è ben lontano dal rispecchiare i caratteri tradizionali del sovrano del pantheon olimpico. In lui si identifica piuttosto l’ideale stoico della divinità, onnipotente, razionale e provvidenziale che, proprio per queste sue qualità, coincide con l’ordine perfetto, saldo e immutabile dell’universo; un principio divino e fisico al tempo stesso, che trova la sua evidente dimostrazione nell’eterno equilibrio della volta celeste, ruotando intorno al proprio asse, teso fra due poli. Di questo ordine universale, come già aveva affermato Esiodo, fanno parte anche gli esseri umani; per il loro benessere, il padre, μέγα θαῦμα, μέγ’ ἀνθρώποισιν ὄνειαρ (v. 15), fornisce, attraverso i segni celesti, le indicazioni necessarie per le varie attività produttive nel corso dell’anno, così che seguire ogni indizio che provenga da lui non significa soltanto disporre di una guida sicura, ma anche attribuire un profondo senso religioso a ogni atto della propria vita. La convinzione che osservare i φαινόμενα (le “manifestazioni”) del cielo sia per l’uomo una necessità morale, oltre che una norma infallibile, offre ad Arato il modo di passare, senza soluzione di continuità, dal proemio all’argomento; e la contemplazione del cielo notturno lo induce a soffermarsi sulle costellazioni dell’Orsa, familiari per diretta esperienza al popolo greco, abituato ai viaggi e alla vita di mare. A questo proposito, ecco apparire l’aspetto erudito della poesia aratea: memore delle esigenze del pubblico a cui intende rivolgersi, il poeta doctus attinge al vasto repertorio della sua cultura mitologica e spiega l’origine delle due costellazioni, facendo ricorso all’espediente del καταστερισμός («trasformazione in stella»), usato anche da Callimaco nella sua Chioma di Berenice. Una ben nota versione della saga sull’infanzia di Zeus narra che la madre Rea, per evitare che il bimbo fosse inghiottito da Crono, come tutti gli altri figli venuti alla luce prima di lui, lo affidò a due Ninfe del monte Ida (o del monte Dicte), figlie di Atlante, Elice e Cinosura, che si occuparono di allevarlo, mentre i Cureti (o Coribanti) ne coprivano i vagiti, battendo le lance contro gli scudi di bronzo, durante le loro danze orgiastiche. Ma Crono scoprì ugualmente l’accaduto, e si mise in cerca delle due Ninfe per punirle; allora Zeus le trasformò nelle due costellazioni dell’Orsa Maggiore e dell’Orsa Minore, che, con caratteristiche diverse, ma ugualmente utili, costituiscono un infallibile punto di riferimento per la rotta delle navi greche e fenicie.