ΟYΤΩΣ AΤΑΛΑIΠΩΡΟΣ ΤΟIΣ ΠΟΛΛΟIΣ H ΖHΤΗΣΙΣ ΤHΣ AΛΗΘΕIΑΣ, ΚΑI EΠI ΤA EΤΟIΜΑ ΜAΛΛΟΝ ΤΡEΠΟΝΤΑΙ. «Così poco faticosa è per i più la ricerca della verità e molti si volgono volentieri verso ciò che è più a portata di mano». (Thuc. I 20, 3)
da G. ZANETTO, P. FERRARI (eds.), Callimaco. Epigrammi, Milano 1992, 13-18.
Esisteva certamente nell’antichità un’edizione completa degli Epigrammi di Callimaco: lo provano le citazioni di grammatici ed eruditi, che appunto fanno riferimento a un liber epigrammatico. Ma ben presto gli epigrammi del poeta entrarono a far parte di sillogi e antologie, che circolavano con successo in tutto il mondo ellenistico[1]. Fra esse ebbe particolare rilievo la raccolta curata all’inizio del I secolo a.C. da Meleagro di Gadara e intitolata Corona: comprendeva poesie di tutti i maestri di questo genere, dall’età arcaica fino a Meleagro stesso, e Callimaco vi figurava in maniera cospicua. La Corona meleagrea, via via integrata dai necessari aggiornamenti, sopravvisse nei secoli fino all’età bizantina, quando Costantino Cefala – intorno al 900 – la utilizzò come base della sua antologia, poi confluita nella nostra Anthologia Palatina.
Lawrence Alma-Tadema, Il poeta preferito. Olio su tela, 1888.
Di Callimaco, dunque, possediamo gli epigrammi trascelti da Meleagro: la nostra conoscenza della sua arte epigrammatica passa inevitabilmente attraverso il filtro di un giudizio altrui[2], anche se possiamo essere certi che il curatore della Corona – epigrammista di grande talento e di gusto sicuro – abbia scelto bene. È singolare prerogativa degli Epigrammi e degli Inni callimachei l’essere sopravvissuti in quanto legati a opere anche di altri poeti. Nella produzione di Callimaco assistiamo a questo curioso contrappasso: le opere «maggiori», quelle in cui più si esprimeva la rivoluzione letteraria dell’autore e a cui Callimaco più affidava il proprio successo poetico – le elegie degli Aitia e il poemetto Ecale – sono andate perdute, e sono oggi solo sommariamente ricostruibili attraverso un pulviscolo di frammenti; mentre rimangono i lavori del Callimaco «minore». A essi, e soprattutto agli Epigrammi, dobbiamo ricorrere per ricostruire la figura di un poeta la cui importanza nella storia della cultura è certo straordinaria, ma che da sempre divide gli interpreti. Nell’antichità egli conobbe stroncature impietose, fu additato a modello negativo di un’arte fredda e cerebrale, refrattaria al calore del sentimento. E anche fra i lettori moderni non mancano i detrattori. Ma sempre si ha l’impressione che il giudizio sul poeta sia in qualche modo inquinato da un pregiudizio di fondo, quasi gli si rimproverasse – inconsapevolmente – di aver suggellato la fine dell’età classica e della sua letteratura.
Chi fu, dunque, Callimaco? Negli Epigrammi il poeta parla direttamente di sé. non solo entro i termini di quella querelle letteraria che si riverbera anche nelle altre opere (soprattutto nel prologo degli Aitia), ma in una prospettiva più spigliatamente autobiografica. Il poeta esprime dei giudizi che ci dànno indicazioni preziose non solo sui suoi convincimenti letterari, ma anche sulla sua personalità. Gli epigrammi 22 e 39 sono rispettivamente l’autoepitafio del poeta e l’epitafio per il padre Batto:
Βαττιάδεω παρὰ σῆμα φέρεις πόδας εὖ μὲν ἀοιδὴν
εἰδότος, εὖ δ’ οἴνῳ καίρια συγγελάσαι.
Passi accanto alla tomba del figlio di Batto, bravo
nel canto, bravo a bere vino e a scherzare.
(Ep. 22 = AP. VII 415)
Ὅστις ἐμὸν παρὰ σῆμα φέρεις πόδα, Καλλιμάχου με
ἴσθι Κυρηναίου παῖδά τε καὶ γενέτην.
εἰδείης δ’ ἄμφω κεν· ὁ μέν κοτε πατρίδος ὅπλων
ἦρξεν, ὁ δ’ ἤεισεν κρέσσονα βασκανίης.
οὐ νέμεσις· Μοῦσαι γάρ, ὅσους ἴδον ὄμματι παῖδας
μὴ λοξῷ, πολιοὺς οὐκ ἀπέθεντο φίλους.
Tu che passi accanto alla mia tomba, sappi
che sono figlio e padre di un Callimaco di Cirene.
Entrambi famosi: il primo comandò l’esercito
della patria, l’altro fu un poeta più forte dell’invidia.
Niente di strano: se le Muse hanno protetto uno da piccolo,
gli rimangono amiche anche quand’è incanutito.
(Ep. 39 = AP. VII 525)
Sono due componimenti che vanno letti in coppia: era infatti tradizione, nelle tombe di famiglia, incidere sui due lati di una stessa stele due diverse iscrizioni funebri; con un espediente letterario molto abile Callimaco utilizza questa convenzione per comporre una sorta di dittico, animato da una serie di rimandi, in cui talvolta ciò che è taciuto è più significativo di ciò che è detto[3]. Parlando di sé, il poeta si definisce «bravo nel canto, bravo a bere vino e a scherzare»: affiora in queste parole il vezzo, assolutamente tradizionale, di considerare la propria attività poetica come qualcosa di marginale; ma, nel complesso, la definizione colpisce nel segno. Non nel senso che Callimaco fosse davvero così, ma nel senso che così avrebbe voluto essere, lui che era tanto lontano dall’ispirazione larga e immediata di un poeta-soldato.
Pittore di Orfeo. Un trace (dettaglio). Pittura vascolare da un cratere a colonne a figure rosse, 440 a.C. c. da Gela. Berlin, Antikensammlung.
Del resto, è tipico di un letterato, quando accetta di ritrarsi, offrire una rappresentazione di sé che corrisponda alla propria immagine fantastica, e che spesso contraddice la realtà. Il menestrello spensierato ritratto nell’Ep. 22 è un po’ il Robert Jordan di Callimaco! Il protagonista di Per chi suona la campana, nelle riflessioni notturne che precedono il giorno dell’azione, si compiace di ricordare il nonno, grande soldato e grande comandante di cavalleria nella guerra civile americana; il ricordo del nonno, rappresentato come termine positivo di riferimento, si intreccia con quello del padre, il cobarde fallito. Robert Jordan ama pensare, applicando una sorta di aristocratismo genetico, che il coraggio e il valore si trasmettano di nonno in nipote, con il salto di una generazione: «È un gran peccato che ci sia un tale salto di tempo fra due uomini come noi». Il personaggio è immagine dell’autore: Hemingway cercò per tutta la vita di neutralizzare il fantasma del padre, il cobarde sottomesso e suicida; ma il suo vitalismo convulso approdò a un colpo di fucile liberatorio.
Anche Callimaco, nell’Ep. 39, traccia un parallelo ideale fra sé e il nonno, che aveva portato il suo stesso nome: il padre Batto – che formalmente parla dalla stele – si annulla, attribuendosi come unico merito quello di rappresentare l’anello di congiunzione fra il grande condottiero e il grande poeta. Ma poeta-soldato Callimaco assolutamente non fu. C’è una distanza siderale fra lui e un Archiloco: non solo perché Callimaco trascorse tutta la sua vita ad Alessandria, in un’operosità divisa fra la produzione letteraria e la frenetica attività erudita, ma anche perché gli mancò affatto l’umiltà dell’uomo d’azione, quella curiosità ingenua che spinge a far la prova di persona, fatta di orgoglio e di valore fisico, la forma più elementare ma forse più autentica del coraggio. Callimaco ebbe invece in somma misura il coraggio intellettuale. L’Ellenismo gli impose la riduzione della letteratura ad attività erudita, escludendola dal respiro della comunicazione politica. Egli l’accettò impavido: seppe donare un nuovo prestigio e un nuovo valore alla produzione letteraria, intesa ora come sfida estrema di intelligenza e di gusto, da affrontare con dedizione totale, con il bando di ogni compromesso e di ogni mediocrità. Dovette però pagare un prezzo: dovette accettare che ogni suo pensiero fosse rivolto alla poesia, e che per converso l’intero suo immaginario poetico si risolvesse nei termini di una religione dell’arte.
Caserma con soldati e processione. Mosaico, I sec. a.C. ca. dal «Mosaico con scena nilotica». Palestrina, Museo Archeologico Nazionale.
Callimaco anticipò Moravia: credette solo nella letteratura. Fu il primo, e forse il più grande, degli intellettuali moderni: fu l’«inventore» – in una proiezione psicologica e biografica prima ancora che ideale – della figura stessa dell’intellettuale. Dello scholar ebbe il rigore metodico e l’impegno scientifico, ma anche la passionalità introversa e stagnante, la propensione al rancore, alla rivalità di scuola e di clan. La stessa polemica letteraria, che assorbe tanta parte dell’affetto negli Epigrammi, non assume la maniera delle parabasi aristofanee: quel che in Aristofane è la consapevolezza sanguigna del ruolo sociale e politico diventa in Callimaco l’eco di una rivalità professionale. L’Ep. 45 (AP. IX 566) propone un siparietto fra un poeta virtuoso e uno sconfitto:
Μικρή τις, Διόνυσε, καλὰ πρήσσοντι ποιητῇ
ῥῆσις· ὁ μὲν Νικῶ φησὶ τὸ μακρότατον·
ᾧ δὲ σὺ μὴ πνεύσῃς ἐνδέξιος, ἤν τις ἔρηται
Πῶς ἔβαλες; φησί· Σκληρὰ τὰ γιγνόμενα.
τῷ μερμηρίξαντι τὰ μὴ ἔνδικα τοῦτο γένοιτο
τοὖπος· ἐμοὶ δ’, ὦναξ, ἡ βραχυσυλλαβίη.
È di poche parole il poeta che fa bene, o Dioniso:
la più lunga che dice è «vittoria!».
Quell’altro, quello che tu non ispiri, se uno gli chiede:
«Com’è andata?», risponde: «Maledetta scalogna!».
Ma questo lo dica pure chi pensa cose brutte;
io, signore, preferisco esprimermi a sillabe.
Il contesto è lasciato indeterminato – certo un agone poetico, l’equivalente di un moderno premio letterario – e l’elemento di assoluta evidenza è il compiacimento per il successo: la vittoria coinvolge il vincitore sul piano personale, ma segna nel contempo il trionfo della sua poetica, quindi della sua «scuola». L’implicita irrisione dello sconfitto, ritratto mentre maledice la sfortuna, è assolutamente conforme alla mentalità greca (che fin da Omero conosce la risata sardonica e maligna sopra il nemico vinto!), ma esprime anche la nuova consapevolezza del letterato, in corsa per un’affermazione di sé che trascende il significato stesso del suo ruolo.
Statua di Dioniso. Marmo, copia romana da un originale greco del 325 a.C. ca., dalla Campania. London, British Museum.
Nelle Rane di Aristofane Dioniso scende nell’oltretomba per riportare in vita un poeta capace di riscattare la scena tragica ateniese dalla mediocrità cui l’ha condannata la morte quasi contemporanea di Euripide e di Sofocle (Eschilo è scomparso da tempo). Nell’agone che occupa la seconda metà della commedia, Eschilo ed Euripide si affrontano – sotto l’arbitrato di Dioniso – per stabilire chi dei due è il miglior tragediografo in assoluto, e quindi il più degno di risurrezione; alla fine, il dio del teatro decide di riportare in vita Eschilo, giudicandolo il poeta più sapiente, anche se non ha difficoltà ad ammettere che Euripide gli dà le emozioni estetiche più travolgenti. Anche Callimaco, com’è naturale, giudica la tradizione poetica del passato; ma il suo metro di valutazione prescinde ormai affatto dal valore di «verità» contenuto nell’opera letteraria, per privilegiare la dimensione del gusto, ossia proprio quella categoria che il Dioniso aristofanesco finisce per scoraggiare. Nell’Ep. 43 (AP. IX 507; Achill. comm. Arat. 78, 28 Maas) il riconoscimento dell’arte minuta e sapiente di Arato si accompagna a un’implicita difesa della propria poetica e si appoggia a un’esaltazione di Esiodo, anteposto addirittura al grande padre Omero:
Ἡσιόδου τό τ’ ἄεισμα καὶ ὁ τρόπος· οὐ τὸν ἀοιδῶν
ἔσχατον, ἀλλ’ ὀκνέω μὴ τὸ μελιχρότατον
τῶν ἐπέων ὁ Σολεὺς ἀπεμάξατο. χαίρετε, λεπταὶ
ῥήσιες, Ἀρήτου σύμβολον ἀγρυπνίης.
Il tema e lo stile sono quelli di Esiodo: non è l’ultimo
dei poeti, ma direi che l’amico di Soli
ha raccolto il meglio della poesia epica. Benvenuta,
arte sottile, notturna fatica di Arato!
Callimaco non poteva certo non apprezzare il prestigio formale del linguaggio omerico né poteva ignorare il ruolo svolto dai poemi omerici nella trasmissione della cultura greca: ma nel confronto fra i due maestri della poesia epica, Esiodo finisce per diventare il simbolo del clan letterario cui il poeta appartiene e per essere quindi privilegiato.
La notizia di una rivalità irriducibile fra Callimaco e il suo allievo Apollonio è probabilmente un’invenzione o almeno un’amplificazione di biografi più tardi. Ma come spesso avviene per le tradizioni biografiche concernenti i poeti greci, viene la tentazione di crederci! Una lotta al coltello fra i due poeti per la carica di arci-bibliotecario ad Alessandria equivarrebbe, in termini odierni, alla competizione di due romanzieri per il Nobel della Letteratura: ossia per un riconoscimento cui ogni letterato protesta di essere indifferente, e che pure è in cima ai pensieri di tutti. Certo, nell’Ep. 44 Callimaco augura all’amico Teeteto di godere di una lunga gloria presso i posteri, invitandolo a rinunciare di buon grado alla notorietà e al successo immediati. Ma il tono sembra consolatorio; e comunque l’agonalità della πόλις ellenica è ancora troppo vicina nel tempo per non infiammare il cuore anche dei poeti, oltre che dei dinasti.
Statua di Apollo. Marmo, copia romana del II secolo d.C. da un originale ellenistico, da Cirene. London, British Museum.
Callimaco apparitene sempre, infatti, per molti versi al mondo della πόλις. Non – come si è visto – nel senso che egli creda ancora all’impegno civile della poesia; ma certo nel segno di un orgoglio d’appartenenza, che non è in contraddizione con l’orizzonte ormai cosmopolita della cultura ellenistica. Aveva sangue dorico nelle vene, poiché Cirene era un’antica colonia di Thera: e i Dori erano, fra i Greci, quelli più legati al proprio passato, più calati nel mito eugenetico della città e della schiatta. Molti epigrammi, soprattutto funebri, hanno il senso di un ritorno ideale ai luoghi dell’infanzia. L’Ep. 31 muove dalla disgrazia che ha sconvolto una delle famiglie più in vista di Cirene, e si chiude con l’immagine suggestiva della città che si stringe attorno alle bare dei due ragazzi scomparsi, dunque della comunità che si riconosce affettivamente nei due nobili giovanetti. E l’Ep. 38, pure un epitimbio, è un divertente dialogo con un altro cireneo, Carida: qui la patria lontana è evocata con un diverso registro, fatto di allusioni e ammiccamenti, in parte incomprensibili per il lettore moderno. D’altra parte, proprio lo studio dei reperti archeologici ed epigrafici di Cirene ha consentito, negli ultimi decenni del Novecento, di ricostruire con più precisione la discendenza del poeta, rampollo di una famiglia che vantava come capostipite lo stesso Batto, il capo dei “padri pellegrini” cirenei; e ha altresì permesso di riconoscere tutta una serie di riferimenti alla realtà della città contenuti negli Epigrammi e nelle altre opere callimachee.
In che forma, concretamente, si estrinsecasse il rapporto d’amore di Callimaco per Cirene, presente con tanto calore nell’opera poetica, è assolutamente oscuro. Periodici ritorni sembrano in contraddizione con l’immagine che abbiamo di un intellettuale ormai calato nella dimensione sociale e culturale della metropoli alessandrina. Quel che è certo è che Callimaco conserva l’abitudine classica di connettere ogni persona con la sua patria, come fondendo insieme il πολίτης e la πόλις. Negli epigrammi funebri la puntigliosa indicazione della città d’origine non ha solo la funzione del dato anagrafico, ma acquista anche il senso di un gesto d’attenzione, di un’estrema carezza.
In sostanza, la rivoluzione culturale ellenistica non sottrae i poeti dalla prima generazione all’eredità classica, almeno nella dimensione affettiva. E fra le opere di Callimaco, forse proprio gli Epigrammi offrono la testimonianza più convincente. È il caso dell’Ep. 15, l’epitimbio che il poeta compose per l’amico Eraclito di Alicarnasso:
Εἶπέ τις, Ἡράκλειτε, τεὸν μόρον, ἐς δέ με δάκρυ
ἤγαγεν· ἐμνήσθην δ’, ὁσσάκις ἀμφότεροι
ἥλιον ἐν λέσχῃ κατεδύσαμεν. ἀλλὰ σὺ μέν που,
ξεῖν’ Ἁλικαρνησεῦ, τετράπαλαι σποδιή·
αἱ δὲ τεαὶ ζώουσιν ἀηδόνες, ᾗσιν ὁ πάντων
ἁρπακτὴς Ἀίδης οὐκ ἐπὶ χεῖρα βαλεῖ.
Uno mi ha detto che sei morto, Eraclito, e ho pianto:
ho ricordato quante volte, chiacchierando, vedemmo
insieme tramontare il sole. Amico di Alicarnasso, ora
tu non sei che polvere, chissà dove e da quanto tempo,
ma continuano a vivere i tuoi versi: su di essi Ade,
il ladrone spietato, non potrà allungare la mano.
Un’elegia struggente, questa, divisa fra il dolore della separazione irrimediabile e il conforto della memoria. La perfezione formale di questi versi è squisitamente ellenistica; ma il loro fascino – cui non rimasero insensibili, fra gli altri, Callimaco e Foscolo – è in larga misura connesso con la rete di sentimenti che li innerva e che sono assolutamente classici: un pianissimo lene e diffuso, bilanciato però in qualche misura dalla fede nella φιλία e nell’arte. Basta quest’esempio – fra i molti presenti negli Epigrammi – di poesia composta e commossa per togliere a Callimaco la scomoda definizione di freddo versificatore e per far capire come la sua arte si alimenti ancora della riflessione greca sulla vita e sull’uomo.
[1] Sulla base di una notizia fornita da Aristarco (schol. Il. XI 101), si pensa che Posidippo ed Edilo avessero curato un’edizione comune dei loro epigrammi intitolata Σωρός. Inoltre, sono stati ritrovati ostraka e papiri con resti di raccolte epigrammatiche pre-meleagree.
[2] Come spesso avviene in questi casi, il successo della silloge di Meleagro fece sì che gli epigrammi non compresi nella raccolta venissero presto dimenticati. In effetti, le citazioni antiche riguardano quasi sempre componimenti compresi nella Corona.
[3] Secondo alcuni interpreti, i due epigrammi avrebbero avuto originariamente la funzione di chiudere il liber epigrammatico di Callimaco, fornendo insieme la mossa di congedo e una sorta di autoritratto dell’autore.
da I. BIONDI, Storia e antologia della letteratura greca. III. L’Ellenismo e la tarda grecità, Firenze 2004, 43-45.
Muovendo dal Polo Nord, l’elemento sul quale si chiudeva la sezione proemiale, Arato introduce la descrizione delle costellazioni note come Orse, che infatti ruotano intorno a esso; le due costellazioni sono tra loro rovesciate, perciò ciascuna guarda con la testa la coda dell’altra, e si muovono all’indietro. Il poeta si sofferma a spiegarne l’origine mitica, collegata al racconto dell’infanzia di Zeus: le Orse occupano una posizione significativa in cielo, perché tengono fissa la volta celeste, visibile nell’emisfero settentrionale.
New York, The Morgan Library and Museum. Ms M. 389 (1469, Napoli), Phaenomena Arati Solensis, f. 11v. Le due Orse.
[…] Le due Orse, circoscrivendo [il polo dalla parte di Borea],
insieme gli ruotano intorno; e per questo si chiamano Carri.
Esse, dunque, hanno il capo sempre rivolto ciascuna verso le reni
dell’altra, e sempre si muovono in giro sul dorso,
volte indietro verso le spalle. Se è vero ciò che si racconta,
esse, da Creta, per volontà del grande Zeus,
ascesero al cielo, poiché un tempo, sul Dicte odoroso,
presso il monte Ida, lo posero, ancora neonato,
in una caverna e lo nutrirono per un anno intero,
mentre i Cureti del Dicte ingannavano Crono.
E l’una la chiamano con l’appellativo di Cinosura,
l’altra di Elice. E di Elice gli uomini Achei si servono come punto
di riferimento sul mare, quando bisogna guidare le navi;
invece, i Fenici attraversano il mare confidando nell’altra.
Ma Elice è splendente e facile a riconoscersi,
brillando intensamente fin dal principio dell’imbrunire;
l’altra, invece, è piccola, ma più preziosa per i naviganti:
essa infatti compie tutto il percorso con un giro più stretto,
e con lei anche quelli di Sidone navigano con rotta precisa.
Lyon, Bibliothèque municipale. Ms 172 (XV sec., Germania-Svizzera), Miscellanea astronomica, f. 41r. Le due Orse e il Draco.
Come l’epicureo Lucrezio rappresenta nell’alma Venus la voluptas, il principio fondamentale del suo sistema filosofico, così lo Zeus di Arato è ben lontano dal rispecchiare i caratteri tradizionali del sovrano del pantheon olimpico. In lui si identifica piuttosto l’ideale stoico della divinità, onnipotente, razionale e provvidenziale che, proprio per queste sue qualità, coincide con l’ordine perfetto, saldo e immutabile dell’universo; un principio divino e fisico al tempo stesso, che trova la sua evidente dimostrazione nell’eterno equilibrio della volta celeste, ruotando intorno al proprio asse, teso fra due poli. Di questo ordine universale, come già aveva affermato Esiodo, fanno parte anche gli esseri umani; per il loro benessere, il padre, μέγα θαῦμα, μέγ’ ἀνθρώποισιν ὄνειαρ (v. 15), fornisce, attraverso i segni celesti, le indicazioni necessarie per le varie attività produttive nel corso dell’anno, così che seguire ogni indizio che provenga da lui non significa soltanto disporre di una guida sicura, ma anche attribuire un profondo senso religioso a ogni atto della propria vita. La convinzione che osservare i φαινόμενα (le “manifestazioni”) del cielo sia per l’uomo una necessità morale, oltre che una norma infallibile, offre ad Arato il modo di passare, senza soluzione di continuità, dal proemio all’argomento; e la contemplazione del cielo notturno lo induce a soffermarsi sulle costellazioni dell’Orsa, familiari per diretta esperienza al popolo greco, abituato ai viaggi e alla vita di mare. A questo proposito, ecco apparire l’aspetto erudito della poesia aratea: memore delle esigenze del pubblico a cui intende rivolgersi, il poeta doctus attinge al vasto repertorio della sua cultura mitologica e spiega l’origine delle due costellazioni, facendo ricorso all’espediente del καταστερισμός («trasformazione in stella»), usato anche da Callimaco nella sua Chioma di Berenice. Una ben nota versione della saga sull’infanzia di Zeus narra che la madre Rea, per evitare che il bimbo fosse inghiottito da Crono, come tutti gli altri figli venuti alla luce prima di lui, lo affidò a due Ninfe del monte Ida (o del monte Dicte), figlie di Atlante, Elice e Cinosura, che si occuparono di allevarlo, mentre i Cureti (o Coribanti) ne coprivano i vagiti, battendo le lance contro gli scudi di bronzo, durante le loro danze orgiastiche. Ma Crono scoprì ugualmente l’accaduto, e si mise in cerca delle due Ninfe per punirle; allora Zeus le trasformò nelle due costellazioni dell’Orsa Maggiore e dell’Orsa Minore, che, con caratteristiche diverse, ma ugualmente utili, costituiscono un infallibile punto di riferimento per la rotta delle navi greche e fenicie.
da F. FERRARI, Epica storica e didascalica, in ID., R. ROSSI, L. LANZI (eds.), Bibliothèke. Storia della letteratura, antologia e autori della lingua greca. Con espansione online. Vol. 3: L’ellenismo e l’età imperiale, Bologna 2012.
L’attacco del poema contiene un Inno a Zeus, unico e sommo. Dato che il dio svolge una funzione propulsiva riguardo al lavoro dei campi, si ricalca qui il modello esiodeo. Zeus infatti dà agli uomini segni propizi, rivela quando la zolla è buona per la semina, ha disposto in cielo le costellazioni dalle quali si possono trarre i segni delle stagioni e i tempi del ciclo lavorativo, sì che ogni cosa cresca sicura.
Ma questo Zeus, nella sua bontà provvidenziale e nella sostanziale unicità, è identificabile anche con il dio supremo della dottrina stoica. Come nell’Inno a Zeus del filosofo Cleante, anche nel proemio dei Phaenomena il signore degli dèi della religione tradizionale personifica la mente divina reggitrice dell’universo.
Anche il dio di cui Arato elogia la grandezza e l’onnipotenza è onnipresente («di Zeus sono piene tutte le vie e tutte le piazze, e pieno ne sono il mare e i porti»); egli è padre amorevole degli uomini e loro benefattore, è il principio immanente che compenetra di sé tutto l’essere, spargendo ovunque i semi generatori delle cose e dal quale la materia informe riceve l’impronta e prende vita; è la provvidenza (πρόνοια) che lega gli eventi nella serie inviolabile delle cause.
Cominciamo da Zeus, che noi uomini non cessiamo mai
d’invocare; tutte le strade sono piene di Zeus,
tutte le piazze delle città: ne è pieno il mare,
e i porti: sempre abbiamo bisogno di Zeus!
Stirpe siamo sua, e benignamente indica agli uomini
i segni favorevoli, e li manda al lavoro,
ricordando loro i mezzi di vita, quando la terra
è migliore per i buoi e la zappa, e quando è il momento giusto
di potare gli alberi e seminare tutte le specie.
Lui stesso infatti ha fissato i segni nel cielo,
distribuendo gli astri nel corso dell’anno,
perché indicassero agli uomini i tempi meglio disposti
e le coltivazioni crescessero salde.
Per questo gli uomini se lo propiziano sempre, per primo e per ultimo.
Salve a te, o padre! Meraviglia e benessere grande degli uomini!
A te e alla tua prima generazione! E salve anche a voi, o Muse soavi,
tutte quante! Guidatemi per tutto il canto,
perché chiedo di celebrare secondo il rito le stelle!
Calamide (o bottega di Calamide), Cronide di Capo Artemisio (dettaglio). Statua, bronzo, c. 480-470 a.C. dai fondali euboici. Atene, Museo Archeologico Nazionale.
Riaffiorano qui moduli ed elementi dell’antica tradizione innodica. In particolare, l’uso di specificare che si intende iniziare il canto ricordando la divinità celebrata è presupposto già in Odissea VIII 499 (θεοῦ ἤρχετο, «cominciava dal dio») per il racconto sul Cavallo di Troia intonato da Demodoco e compare, a principio di alcuni inni omerici; più in particolare, l’avvio da Zeus appariva in Alcmane (fr. 29 Davies ἐγὼν δ᾽ ἀείσομαι/ ἐκ Διὸς ἀρχομένα, «ed io canterò cominciando da Zeus»), veniva ricordato come caratteristica dei rapsodi da Pindaro (Nemea II 1 s.) e in età ellenistica è recuperato anche da Teocrito nel suo Encomio di Tolomeo (Id. XVII 1, Ἐκ Διὸς ἀρχώμεσθα καὶ ἐς Δία λήγετε Μοῖσαι, «Cominciamo da Zeus e terminate con Zeus, o Muse»); per la sua topicità, vd. R. Tosi, Dizionario delle sentenze latine e greche, Milano 1991, nr. 805. E sulla stessa linea del formulario tradizionale (cfr. Esiodo, Teogonia 34, Teognide 3 ecc.) è la specificazione, al v. 14, che gli uomini invocano Zeus «per primo e per ultimo».
Anche la sottolineatura della funzione del dio come propulsiva al lavoro agricolo, pur non rientrando nella dizione innica, si richiama pur sempre al modello esiodeo (cfr. soprattutto v. 6, λαοὺς δ᾽ ἐπὶ ἔργον ἐγείρει, «desta le genti al lavoro», con Esiodo, Erga 20, dove della buona Contesa si dice che καὶ ἀπάλαμνόν περ ὁμῶς ἐπὶ ἔργον ἐγείρει, «desta al lavoro anche l’indolente»). Ma le antiche memorie letterarie e cultuali (anche il dire che di Zeus sono piene le piazze e i porti presuppone gli epiteti ἀγοραῖος e λιμένιος) vengono caricate di un senso nuovo grazie a una visione del dio supremo che nella sua bontà provvidenziale e nella sua sostanziale unicità ha come punto di riferimento la dottrina stoica e probabilmente, se (come pare) è anteriore, l’inno a Zeus dello stoico Cleante (in tal caso τοῦ γὰρ καὶ γένος εἰμέν al v. 5 rappresenterebbe una vera e propria “citazione” di ἐκ σοῦ γὰρ γενόμεσθα v. 4 dell’inno di Cleante); e la collocazione della preghiera alle Muse alla chiusa anziché al principio di un proemio epico coincide con quella delle Argonautiche di Apollonio Rodio.
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Bibliografia:
M. FANTUZZI, Ἐκ Διὸς ἀρχώμεσθα. Arat. Phaen. 1 e Theocr. XVII 1, M&D 5 (1980), 163-172 [Jstor].
J. RYAN, Zeus in the Phaenomena, in J.J. CLAUSS, M. CUYPERS, A. KAHANE (eds.), The Gods of Greek Hexameter Poetry, From the Archaic Age to Late Antiquity and Beyond, Stuttgart 2016, 152-163 [academia.edu].
K. VOLK, Letters in the Sky: Reading the Signs in Aratus’ Phaenomena, AJPh 133 (2012), 209-240 [academia.edu].
K. VOLK, Aratus, in J. CLAUSS, M. CUYPERS (eds.), A Companion to Hellenistic Literature, Malden MA 2010, 197-210 [academia.edu].
di G.B. Cᴏɴᴛᴇ, E. Pɪᴀɴᴇᴢᴢᴏʟᴀ, Lezioni di letteratura latina. 1. L’età arcaica e repubblicana, Milano 2010, 129-135.
Nella memoria dei Romani Quinto Ennio rimase impresso come uno dei poeti arcaici più degni di venerazione. La sua opera restò infatti nei secoli successivi il simbolo di un’epoca – quella dello scontro politico e militare tra Roma e il mondo ellenico – e l’emblema di un approccio orgogliosamente romano, di confronto ma non di subalternità nei riguardi della cultura greca. Ennio fu un poeta estremamente influente, dunque: molte sue innovazioni marcarono la storia successiva di alcuni tra i più importanti generi letterari coltivati a Roma; senza di lui e senza l’opera riconosciuta come il suo capolavoro poetico, gli Annales, non si potrebbe più capire la storia dell’epica celebrativa romana, che sarebbe culminata con Virgilio; e se non si avesse conoscenza delle tragedie di Ennio, mancherebbe un tassello importante per comprendere alcuni sviluppi tipicamente romani del genere teatrale.
Ennio. Testa, tufo dell’Aniene, metà del II secolo a.C. ca. dal Mausoleo dei Cornelii Scipiones. Città del Vaticano, Musei Vaticani.
Una vita per la poesia
Ennio nacque nel 239 a.C. a Rudiae, una cittadina della regione chiamata dai Romani Calabria (cioè l’area più meridionale dell’odierna Puglia). Dunque, come molti altri poeti e letterati dell’età arcaica, anche Ennio non era latino ma proveniva da una zona di cultura italica fortemente grecizzata. Sembra inoltre molto probabile che egli abbia trascorso gli anni fondamentali della sua formazione nella città italiota di Taranto. Ennio giunse a Roma in età già matura, nel 204, quasi settant’anni dopo la venuta di Livio Andronico. A portarcelo sarebbe stato, secondo la tradizione, Catone, all’epoca quaestor in Sicilia e in Africa, che lo avrebbe incontrato in Sardinia, dove il futuro poeta militava come soldato di guarnigione. A Roma Ennio svolse l’attività di insegnante, ma presto (entro il 190) si affermò come autore di opere teatrali, in particolare di tragedie.
Nel 189-187 egli accompagnò il generale romano Marco Fulvio Nobiliore in Grecia, con l’incarico di celebrarne nei suoi versi la campagna militare contro la coalizione dei popoli e delle città raccolti nella Lega Etolica, che culminò nella battaglia di Ambracia. A questa vittoria romana il poeta dedicò, infatti, un’opera intitolata Ambracia, molto probabilmente una tragedia praetexta. Nel seguito della sua vita Ennio fu protetto e favorito dalla nobile famiglia di Nobiliore nonché dalla casata degli Scipiones, entrando a far parte del loro “circolo”. Risale all’ultima fase della sua vita la fatica, senz’altro vastissima, degli Annales, il poema epico che gli avrebbe dato fama perpetua. Ennio morì a Roma nel 169. Già in vita gli furono tributati grandi onori e, per questo, l’orgoglio per la propria fama e il presentimento dell’immortalità si incontrano spesso nella sua opera.
Q. Pomponio Musa. Denarius, Roma 56 a.C. Ar. Dritto: Hercules | Musarum. Ercole Musagetes (‘conduttore delle Muse’), stante verso destra, vestito di leontea e suonante la lyra.
La produzione letteraria
Gli inizi poetici di Ennio, come si è visto, si posero nel segno del teatro. In questo campo egli fu poeta fecondo, con una produzione che non rimase confinata agli anni giovanili, ma si estese lungo l’arco di tutta la sua vita (la tragedia Thyestes, infatti, è databile al 169, l’anno della sua scomparsa). Restano, tuttavia, i titoli di circa venti tragedie coturnatae e un numero insolitamente ricco di brevi citazioni tratte dai drammi, per un totale di circa quattrocento versi. I temi delle tragedie enniane sono soprattutto quelli del ciclo troiano: Alexander, Andromacha aechmalotis, Hecuba, Iphigenia, Medeaexul, ecc. Gli studiosi antichi conoscevano, di Ennio, anche due commedie, la Caupuncula [L’ostessa] e il Pancratiastes [Il lottatore], ma per questa parte della sua produzione il poeta era ritenuto un minore; in effetti, fu l’ultimo autore latino a praticare insieme tragedia e commedia.
L’opera che gli diede immensa celebrità nel mondo romano, e grazie alla quale ancora oggi egli resta un autore molto importante, furono gli Annales, il primo poema latino in esametri. In essi Ennio narrava la storia di Roma dalle origini fino ai suoi tempi. Dei diciotto libri originari restano attualmente quattrocento trentasette frammenti, per un totale di circa seicento versi. Se si escludono i testi comici, il poema enniano è dunque l’unica opera latina di età medio-repubblicana della quale è possibile farsi un’idea di una qualche ampiezza.
Di Ennio sono attestate anche alcune opere minori, delle quali si può leggere poco, ma che meritano comunque menzione perché molte di esse hanno avuto un seguito nella letteratura latina. Gli Hedyphagètica [Il mangiar bene] erano un’opera didascalica sulla gastronomia, ispirata a un poemetto del greco Archestrato di Gela, vissuto nel IV secolo a.C. Se essi, come tutto fa pensare, furono composti prima degli Annales, si tratterebbe della prima opera latina in esametri attestata. Era probabilmente un testo di carattere sperimentale e parodico: lo dimostra già il verso scelto, che era quello di Omero e, in generale, della poesia narrativa in stile elevato. Se è così, gli Hedyphagètica avevano probabilmente affinità con un’altra opera di Ennio, le Saturae, primo esempio di un genere che avrebbe avuto larga fortuna nella poesia latina, fino a Orazio e oltre. Ennio probabilmente raccontava episodi autobiografici, ma il contenuto di questa raccolta, in vari libri e in metri diversi, è largamente congetturale.
Altri testi di minore rilevanza si possono raggruppare per il loro sfondo filosofeggiante: l’Euhèmerus, scritto forse in prosa, era una narrazione che divulgava il pensiero di Evemero da Messina; l’Epicharmus, in settenari trocaici, si richiamava alle riflessioni del grande poeta comico greco Epicarmo, vissuto nel V secolo.
Talia, musa del teatro (dettaglio). Rilievo, marmo, II sec. d.C. ca. da un sarcofago romano con le Muse. Paris, Musée du Louvre.
Le tragedie: il gusto per il patetico e il grandioso
Benché Ennio abbia acquistato l’immortalità poetica attraverso gli Annales, che sono la sua opera fondamentale, furono le tragedie a garantirgli nell’immediato la maggiore affermazione letteraria. Il motivo di questo successo va senza dubbio ricercato nella capacità del poeta di sviluppare una forma tragica sempre più in grado di collocarsi con dignità a fianco dei classici greci. Per quanto è possibile osservare dai frammenti superstiti, il carattere innovativo delle tragedie di Ennio rispetto alla tragedia greca va individuato nella netta accentuazione dell’elemento patetico e spettacolare: si tratta di visioni, apparizioni, orride descrizioni, in cui il poeta dà prova di una fantasia visionaria che sembra anticipare certi esiti del teatro moderno. Questa predilezione per le rappresentazioni a effetto sembra essere stata una cifra stilistica comune della tragedia latina arcaica: a differenza di quanto sarebbe accaduto in età imperiale, quando i drammi sarebbero stati concepiti espressamente per la recitazione nelle sale da lettura, le tragedie di Ennio (come pure quelle di Accio e Pacuvio) erano scritte per essere rappresentate sulla scena, ed è certo che la spettacolarità dell’allestimento doveva essere una sicura garanzia di successo e popolarità. Un frammento, tratto dall’Alcmeo (Scaenica, vv. 27-30 Vahlen, apud Cɪᴄ. de orat. III 217), porta in scena l’incubo del matricida Alcmeone, da cui l’opera trae il titolo, tormentato dalle Furie materne. Si tratta di un bell’esempio della predilezione di Ennio per i momenti di maggiore pathos e per la rappresentazione degli sconvolgimenti dell’animo e della mente.
unde haec flamma oritur?
†incede incede† adsunt; me expetunt.
fer mi auxilium, pestem abige a me, flammiferam hanc uim quae me excruciat.
caeruleae incinctae igni incedunt, circumstant cum ardentibus taedis.
Donde si leva questa fiamma?
Corri, corri! Avanzano, s’avventano.
Aiuto! Scaccia da me questo malanno, quest’assalto avvampante che mi strazia!
Cinte di cerulee serpi irrompono, mi serrano con faci ardenti!
(trad. di C. Marchesi – G. Campagna)
Alcmeone uccide la madre Erifile. Affresco, ante 79 d.C. dalla casa di Sirico, da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
Secondo il mito greco, Alcmeone era figlio di Anfiarao, re di Argo, e di Erifile. Quando la donna costrinse lo sposo a partecipare alla guerra contro la città di Tebe (un riflesso della quale si ha nella tragedia eschilea I sette contro Tebe), Anfiarao, sapendo che vi avrebbe trovato la morte, comandò al figlio Alcmeone di vendicarlo: egli avrebbe dunque dovuto uccidere la madre e compiere una seconda spedizione contro Tebe. Il che, puntualmente, accadde. Tuttavia – come emerge anche da questo frammento enniano – Alcmeone dovette subire la persecuzione delle Furie (divinità vendicatrici dei delitti di sangue, corrispondenti alle greche Erinni, che si ritrovano nella saga dell’Orestea di Eschilo) e si recò esule in vari luoghi della Grecia per purificarsi del matricidio. Ma, nonostante i ripetuti tentativi in tal senso, venne infine ucciso dai figli di Fegeo, re di Psofi.
Un altro frammento enniano, tratto dall’Alexander (Scaenica, vv. 63-71 Vahlen, apud Cɪᴄ. Div. 1, 66), si sofferma sulla profezia di Cassandra, l’inascoltata profetessa, figlia di Priamo. La visione profetica, relativa alla caduta di Troia, è di raffinata struttura e di vivo effetto, stravolta com’è nel suo ordine logico e cronologico: prima l’immagine dell’incendio e del sangue simboleggiata e suscitata dalla fiaccola, poi l’invasione dell’armata nemica e, infine, la causa prima della rovina, il giudizio di Paride e la conseguente venuta a Troia di Elena (Lacedaemonia mulier), premio offerto da Venere al giudice che le aveva dato vittoria sulle dee rivali.
adest, adest fax obuoluta sanguine atque incendio,
multos annos latuit, ciues, ferte opem et restinguite.
iamque mari magno classis cita
texitur, exitium examen rapit:
adueniet, fera ueliuolantibus
nauibus complebit manus litora.
eheu uidete:
iudicauit inclitum iudicium inter deas tris aliquis:
quo iudicio Lacedaemonia mulier, Furiarum una adueniet.
Ecco, ecco la fiaccola avvolta di sangue e di fuoco!
Per molti anni rimase nascosta: portate aiuto, cittadini, spegnetela!
E già sul mare una veloce flotta
si allestisce e con sé porta uno sciame di sventure.
Giungerà qui un’armata di guerra
e navi con le vele al vento riempiranno i lidi!
Ahimè, guardate:
un uomo ha giudicato le tre dee col celebre giudizio:
per quel giudizio giungerà qui una donna spartana, una delle Furie!
Cassandra (al centro) predice la caduta di Troia. Priamo stringe tra le braccia Paride (sinistra). Ettore assiste alla scena (destra). Affresco, ante 79 d.C. da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
La profezia di Cassandra inverte completamente la consueta successione degli eventi che portano alla guerra e alla caduta della città. All’inizio del frammento (vv. 63-64) l’abitato è già presentato come dato alle fiamme per mano dei Greci. Quindi, secondo un cammino a ritroso, vengono richiamati i momenti dell’allestimento della flotta greca e, implicitamente, dell’approdo sui lidi della Troade (vv. 65-68). Solo alla fine (vv. 69-71) la profetessa evoca gli antefatti della guerra, connessi con il giudizio di Paride, che tra Giunone, Minerva e Venere scelse di attribuire la palma della bellezza a quest’ultima, in cambio dell’amore di Elena.
Ora, questo frammento e quello precedente costituiscono un bell’esempio delle rappresentazioni a tinte forti tipiche della tragedia latina arcaica. Al tono profetico si mescolano infatti parole dense di significato, che orientano nettamente la descrizione in senso macabro. Soprattutto in questo, al v. 63 la fiaccola che prefigura la fine di Troia è descritta come avvolta da sangue e fuoco (fax obuoluta sanguine atque incendio). Ai vv. 67-68 l’armata achea è definita fera… manus, che letteralmente vale «feroce manipolo (di uomini)». Al v. 71 Elena, causa della guerra, è equiparata a una delle Furie, terribili e vendicative entità rappresentate come donne alate dai capelli intrecciati di serpi e con in mano una torcia o una frusta. Al v. 67 Ennio definisce le navi ueliuolantes. Si tratta dell’unico esempio, in tutta la letteratura latina, dell’aggettivo composto ueliuolans, letteralmente «che vola con le vele», che è dunque, per usare una locuzione tecnico-retorica, un hàpax legòmenon. A quanto si sa, Ennio, che prediligeva la coniazione di aggettivi composti, sentiti come caratteristici dello stile poetico elevato, introdusse nella poesia latina anche ueliuolus (due esempi, sempre in riferimento alle navi), poi ripreso da Lucrezio, Virgilio e Ovidio.
Il gusto di Ennio per la sperimentazione linguistica, che caratterizza il suo stile, è riconoscibile, tra l’altro, nell’invenzione di aggettivi composti (quelli che diventeranno un marchio stilistico della lingua poetica latina). Ennio li modellò sugli “aggettivi doppi”, cari alla lingua elevata della poesia greca. Già Aristotele, infatti, aveva fatto notare che una delle caratteristiche principali della lingua della poesia greca solenne era l’uso di composti; intendeva riferirsi a quelle formazioni linguistiche prodotte dall’unione di due parole che prese di per sé hanno ciascuna un significato autonomo, quasi centauri formati da due corpi diversi. È appunto questa immagine con cui li definisce Quintiliano (Inst. I 5, 65), e duobos quasi corporibus coalescunt («risultano formati come se consistessero di due corpi insieme»).
In quanto espressioni in cui due concetti sono riuniti in una sola parola, i composti risultano particolarmente appropriati nei linguaggi che hanno bisogno di mezzi fortemente espressivi, vale a dire soprattutto nella lingua viva del popolo e nella lingua intensa dei poeti, due forme di linguaggio che spesso paradossalmente si incontrano. Per quanto riguarda il parlato, si possono citare molte forme popolari frequenti nelle commedie arcaiche, soprattutto quelle di Plauto, che ama inventare espressioni ingiuriose vivaci: per esempio, multiloqua et multibiba… anus (Cist. v. 149: «una vecchia chiacchierona e ubriacona»). Quanto al linguaggio della poesia elevata, i composti più conformi allo spirito della lingua latina sembrano essere stati quelli che hanno un elemento verbale nel secondo membro (del tipo omnipotens, horrisonus), e soprattutto quelli in -fer-, -ger- e -cola, antichi temi verbali (fero, gero, colo), che per il loro uso frequente erano di fatto ridotti quasi a suffissi (come frugifer, «fruttifero, ferace, fertile»; armiger, «armato»; coelicola, «abitatore del cielo, divinità»). Di Ennio si può citare come buon esempio un verso degli Annales (v. 198 Skutsch = 181 Vahlen): bellipotentes sunt magis quam sapientipotentes («forti-in-guerra sono più che forti-in-senno»), dove di grande efficacia espressiva è anche la “rima” (o meglio l’omeoteleuto, cioè una uguale fine di parola). In Annales, v. 593 Skutsch oratores doctiloqui («gli ambasciatori abili a parlare»), il composto doctiloquus è invenzione enniana, anche se già Plauto aveva prodotto forme analoghe, come blandiloquus, «che parla in modo carezzevole», falsiloquus, stultiloquus. Molti sono i composti che appaiono come calchi di aggettivi doppi greci consacrati dalla grande poesia: così Annales, v. 554 Skutsch contremuit templum magnum Iouis altitonantis, «tremò il grande recinto (= il cielo) di Giove che tuona dall’alto», dove l’aggettivo altitonans riproduce il corrispondente greco βαρυβρεμέτης; così ancora Annales, v. 76 Skutsch genus altiuolantum, «la stirpe degli uccelli», dove altiuolans ricalca il greco ὑψιπετήεις. Questa innovazione introdotta da Ennio fu assai rilevante per la lingua poetica romana: l’uso dei composti diventò uno dei principali elementi capaci di differenziare la lingua poetica da quella della prosa letteraria. I composti, infatti, adatti per la loro forma a riempire lunghi versi e a offrire ampie possibilità di effetti fonici, furono un importante mezzo di espressività e insieme un vero e proprio marchio dello stile elevato.
Dunque, il gusto per l’effetto grandioso, l’insistenza sui sentimenti più oscuri dell’animo umano, quali il terrore e la paura, la grande commozione, sono tutti elementi tipici di questo linguaggio teatrale che si avviò, sul modello tracciato da Ennio, a diventare tipico della poesia tragica latina. Su questa scia, infatti, si sarebbero posti in seguito i più importanti tragediografi: Pacuvio e Accio prima, e poi Seneca.
A questo proposito, vale la pena di citare un brano come il “cantico di Andromaca”, tratto dall’omonima Andromacha aechmalotis, che rappresenta un caso esemplare degli effetti di commozione propri della tragedia arcaica; ancora ai tempi di Cicerone, esso costituiva un pezzo di bravura per i più celebri attori, che sapevano sfruttare i toni altamente patetici caratteristici della situazione tragica del monologo, quali il disperato ricordo della patria lontana e distrutta e il dolore per la nuova condizione di servitù (Scaenica vv. 86-99):
quid petam praesidi aut exequar? quoue nunc
auxilio exili aut fugae freta sim?
arce et urbe orba sum: quo accedam? quo applicem?
cui nec arae patriae domi stant, fractae et disiectae iacent,
Dove chiedere protezione o dove cercarla? Adesso, in quale
esilio trovare aiuto, in quale la fuga?
Sono stata privata della città e della rocca: dove mi aggrapperò? Dove piegherò le ginocchia? Per me non ci sono più altari dei padri in patria, esse giacciono infrante e disperse,
i templi incendiati dalle fiamme, bruciacchiate si levano alte le pareti
deformate e con le travi contorte.
O padre, o patria, o casa di Priamo,
sacra dimora chiusa da altisonanti cardini!
Io ti vidi ergerti nello sfarzo orientale,
coi soffitti a cassettoni tutti intarsiati,
regalmente adorna d’oro e d’avorio.
Tutto questo io vidi preda delle fiamme,
e la vita violentemente tolta a Priamo,
e l’altare di Giove insozzato di sangue!
Georges-Antoine Rochegrosse, Andromaca. Olio su tela, 1883.
Gli Annales: finalità e composizione dell’opera
Gli Annales garantirono al poeta grande fama in virtù dell’argomento affrontato: la celebrazione della storia di Roma. Gli intenti laudativi dovevano, del resto, essere fondamentali in tutta la sua produzione: il poeta in precedenza aveva composto un poema dal titolo Scipio in lode di Scipione Africano e la tragedia Ambracia per ricordare la vittoria di Nobiliore. In particolare, il caso dell’Ambracia è sintomatico e, in qualche modo, fece epoca. L’età ellenistica aveva visto un formidabile sviluppo della poesia “di corte”: presso le regge dei dinasti greci orientali (ad Alessandria, Pella, Antiochia, Pergamo, ecc.) risiedevano artisti che celebravano – spesso in narrazioni epiche – le gesta dei loro sovrani. Poesia ed encomio erano strettamente saldati. Così, Ennio, partecipando alla campagna di Nobiliore come poeta “al seguito” e poi componendo una tragedia per celebrarne l’impresa, non fece che ripetere quel modello. Difatti, Catone protestò vivacemente contro quell’iniziativa, che ai suoi occhi costituiva un atto di propaganda personale. Ennio, invece, doveva vedere la propria poesia come celebrazione di gesta eroiche: si rifaceva così da un lato a Omero, dall’altro alla recente tradizione epica ellenistica, di argomento storico e contenuto celebrativo. Nella parte più tarda della sua carriera Ennio dovette concepire il grandioso progetto di una laudatio che si allargasse a tutta la storia di Roma, raccontata in un unico poema epico: gli Annales, appunto. L’opera risultò, per ampiezza e concezione, assai più vasta di quei poemi ellenistici scritti in lode dei sovrani. Per ricchezza di struttura, il precedente più prossimo era certamente il Bellum Poenicum di Nevio, che però non disponeva gli avvenimenti in una sequenza continuativa dalla caduta di Troia ai suoi giorni. Ennio, invece, decise di narrare la sua materia senza stacchi e in ordine cronologico. Rispetto a Nevio, un’importante novità fu la divisione in libri del poema, sulla scorta di quello che i dotti alessandrini avevano fatto per i poemi omerici, originariamente un continuum indiviso di versi.
Il titolo Annales voleva richiamarsi alle raccolte degli annales maximi, le pubbliche registrazioni di eventi che i pontifices maximi, membri del più autorevole collegio sacerdotale dell’Urbe, erano soliti redigere anno per anno. Anche l’opera enniana era condotta secondo una scansione cronologica progressiva, “dalle origini ai giorni nostri”; ma non bisogna pensare che il poeta trattasse tutti i periodi con lo stesso ritmo e la stessa concentrazione. Se, da un lato, lasciava un certo spazio alle antiche leggende sulle origini di Roma, dall’altro, mostrandosi assai più selettivo di uno storico, Ennio prediligeva quasi esclusivamente gli eventi bellici, mentre si occupava pochissimo di politica interna: per lui era ovviamente la guerra l’interesse di un poeta epico ed era la guerra l’attività in cui si mostrava la virtus romana.
Secondo le ricostruzioni degli studiosi, alle origini leggendarie della città erano dedicati i primi libri dell’opera. Al contrario di Nevio, che aveva narrato probabilmente in un excursus il solo viaggio di Enea da Troia all’Italia, come una sorta di “premessa” al racconto della guerra punica, in Ennio le leggende sulla fondazione dovevano essere esposte in una forma narrativa continua e più sistematica. Nel poema enniano trovava così per la prima volta una sistemazione coerente tutto quel patrimonio mitico propriamente quiritario, che voleva dare lustro e dignità anche alle origini storiche dell’Urbe, ammantandole di un velo leggendario e riconducendole all’opera degli dèi e degli eroi del mito. Questa rivendicazione della nobiltà del passato della città era ideologicamente molto importante, nel momento in cui la potenza di Roma si avviava a dominare su tutto il Mediterraneo e la cultura romana tentava di affiancarsi a quella greco-ellenistica, con il suo vastissimo patrimonio mitologico.
Generale romano. Statua, marmo, 75-50 a.C. ca. dal Santuario di Ercole (Tivoli).
L’investitura poetica
Riguardo agli Annales sembra che Ennio avesse progettato inizialmente un poema in quindici libri, che si sarebbe concluso con il trionfo di Fulvio Nobiliore, il suo protettore, e forse con la consacrazione da parte di Nobiliore stesso di un tempio alle Muse. Per motivi non del tutto chiari, però, Ennio aggiunse poi tre libri al piano originario, probabilmente per aggiornare l’opera con la celebrazione di altre, più recenti, imprese romane. Il suo poema rimase comunque contrassegnato da due grandi proemi, al libro I e al libro VII, punti in cui il poeta prendeva direttamente la parola per rivelare le ragioni del suo far poesia. Il primo proemio era probabilmente aperto dalla tradizionale invocazione alle Muse (v. 1 Skutsch = Vahlen): Musae quae pedibus magnum pulsatis Olympum («O Muse, che col vostro passo l’alto Olimpo calcate»). Dopodiché, con un’invenzione molto più audace, Ennio raccontava di un sogno, in cui gli era apparsa l’ombra di nientemeno che Omero, il capofila di tutti i poeti epici, il quale gli rivelava di essersi reincarnato proprio in lui, nel poeta romano Quinto Ennio (vv. 2-3 Skutsch = 5-6 Vahlen): … somno leni placidoque reuinctus / … uisus Homerus adesse poeta («… preso da un dolce e calmo sonno /… apparve di fronte a me Omero, il poeta»). In questo modo, Ennio si presentava come il “sostituto” vivente di colui che, a giudizio degli antichi, era stato il più grande poeta di tutti i tempi.
Nel proemio al VII libro l’autore dava più spazio alle divinità della poesia (vv. 206-210 Skutsch = 213-217 Vahlen): … scripsere alii rem / uersibus quos olim Fauni uatesque canebant, / cum neque Musarum scopulos… / … nec dicti studiosus quisquam erat ante hunc. nos ausi reserare… («… altri scrissero di storia / con i versi che un tempo cantavano i Fauni e i vati, / quando né le rocce delle Muse… / e quando, prima di me, non c’era neppure qualcuno che professasse il culto della parola. / Noi osammo aprire…»).
Ora, il poeta sottolineava che queste erano proprio le Muse dei grandi poeti greci, non più le Camenae dell’arcaico e ormai superato Livio Andronico; e certamente polemizzava anche con Nevio, che aveva poetato in saturni, il verso – così lo definisce Ennio – cantato da «Fauni e vati», il verso dal passato, adatto alle divinità campestri e agli ancestrali profeti. Lui, Ennio, era il primo poeta dicti studiosus, cioè “filologo”, “cultore della parola”. In altri termini, il primo che poteva pretendere di stare alla pari con i contemporanei poeti greci, gli alessandrini, che praticavano un’arte per pochi, raffinata ed erudita, curatissima nella forma. Sicuramente Ennio, nell’affermare orgogliosamente la propria priorità tra i Romani, poteva riferirsi all’importanza di essere stato il primo ad adottare l’esametro dattilico, il verso della grande poesia epica.
Un generale tiene una contio davanti alle sue truppe. Illustrazione di Seán Ó’Brógáin.
Uno stile all’insegna della sperimentazione
Dato il carattere di estrema frammentarietà in cui è giunta l’opera di Ennio, del suo stile si rischia di farsi un’idea distorta. Ciò dipende in gran parte – come avviene regolarmente per i poeti romani arcaici – dalla tipologia delle fonti che lo riportano. A citare Ennio, infatti, sono per lo più grammatici e filologi tardo-antichi, studiosi spesso – anche se non sempre – più interessati a raccogliere dalla letteratura dei secoli passati esempi di stranezze e particolarità linguistiche che non casi di normalità. Così, l’immagine che si ha di Ennio epico è quella di un autore che adotta uno stile quasi sperimentale, arditamente innovatore. Egli accolse nel testo epico parole greche traslitterate e adottò persino, della lingua ellenica, caratteristiche forme sintattiche estranee all’uso latino-italico, addirittura alcune desinenze. Scrisse sovente esametri tutti in dattili e tutti in spondei (per esempio, Āfrĭcă tērrĭbĭlī trĕmĭt hōrrĭdă tērră tŭmūltu e ōllī rēspōndīt rēx Ālbāī Lōngāī; in entrambi i casi appare evidente una motivazione stilistica per la scelta del ritmo); e insieme, il suo stile è ricco di figure di suono (com’era tipico della tradizione indigena dei carmina), che a volte sottolineano il pathos della situazione con esiti veramente felici.
In alcuni casi, il procedimento raggiunge l’esasperazione, come nel famigerato verso (104 Skutsch = 109 Vahlen) o Tite, tute, Tati, tibi tanta, tyranne, tulisti («o Tito Tazio, tiranno, tu ti attirasti disgrazie tanto grandi!»), dalla fortissima insistenza onomatopeica, sottolineata dall’ininterrotta serie dattilica; o ancora in quest’altro verso, in cui Ennio escogita una parola come taratantara per riprodurre il suono di una tromba militare (v. 451 Skutsch = 140 Vahlen): at tuba terribili sonitu taratantara dixit («con terribile suono la tromba fece udire il suo taratatà»).
Molte innovazioni introdotte da Ennio ebbero un grande futuro nella letteratura latina successiva: la ripresa dell’esametro dattilico greco fece storia, ma non fu l’unica conquista. Egli lavorò per adattare la lingua latina all’esametro e l’esametro alla lingua latina. Sicuramente elaborò regole precise per la collocazione delle parole nel verso e per l’uso delle cesure. Se i suoi esametri possono comunicare una certa impressione di durezza per il lettore moderno, è perché è possibile confrontarli con quelli, più fluidi, di Virgilio o Ovidio. Ma non bisogna dimenticare che Ennio è stato il primo ad adattare la lingua latina a questa forma metrica, senza avere alcun modello davanti a sé: è lui il creatore di una tradizione letteraria.
T. Vettio Sabino. Denario, Roma 70 a.C. Ar. 4,05 gr. Dritto: Sabinus, testa nuda barbata di Tito Tazio verso destra con di fronte l’espressione S(enatus) C(onsulto).
I destini dell’epica a Roma: Ennio e i suoi successori
Ennio restò per molti secoli il “poeta nazionale” romano, esercitando con i suoi Annales un’enorme influenza su tutta la produzione epica successiva. Il discorso epico, dopo di lui, fu interpretato come discorso panegirico, celebrativo; solo Virgilio, recuperando Omero, darà al genere un’interpretazione e un’impronta nettamente diverse, scrivendo un poema che non rinuncia a essere celebrazione (del nuovo ordine augusteo), ma che è soprattutto una complessa riflessione, fatta attraverso il mito, sull’uomo, sul destino, sulla guerra.
Ennio fu il cantore della virtus individuale, eroica: a differenza di quanto accadeva nelle opere di Nevio e di Catone, gli Annales erano affollati di condottieri (imperatores, duces), ricordati con il loro nome, con la presunzione che la voce del poeta avrebbe saputo renderli immortali, si badi bene, non solo per le loro abilità guerresche, ma anche per quelle di pace. Questo filone avrebbe avuto un enorme seguito ed esiti non necessariamente disprezzabili. Un elegante poeta come il neoterico Varrone Atacino scrisse il Bellum Sequanicum, poema sulle campagne condotte da Cesare in Gallia; e compose un’opera epica a contenuto storico anche Cicerone, il De consulatu suo. Il genere, così concepito, avrebbe continuato a vivere a lungo, sopravvivendo anche all’Eneide, che pure avrebbe battuto una strada del tutto diversa. Molti Romani pensavano che la poesia non fosse altro che questo: celebrazione di azioni eroiche in versi; e molti illustri protettori avranno incoraggiato questi esercizi, che erano adatti ad amplificare, in una cornice epica e trasfigurante, le più recenti imprese di generali che erano anche capi politici. Fino a tutta l’età imperiale, insomma, la poesia epico-storica continuò a essere il miglior legame tra letteratura e propaganda, tra letteratura e potere.
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Bibliografia:
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R.A. Bʀᴏᴏᴋs, 𝐸𝑛𝑛𝑖𝑢𝑠 𝑎𝑛𝑑 𝑅𝑜𝑚𝑎𝑛 𝑇𝑟𝑎𝑔𝑒𝑑𝑦, New York 1981.
Traduzione personale di C. Mᴇᴄᴄᴀʀɪᴇʟʟᴏ, 𝐴𝑛𝑜𝑛𝑦𝑚𝑜𝑢𝑠, 𝑂𝑛 𝑎 𝐹𝑒𝑚𝑎𝑙𝑒 𝑃𝑢𝑝𝑖𝑙 𝑜𝑓 𝑃𝑙𝑎𝑡𝑜, 𝑆𝑝𝑒𝑢𝑠𝑖𝑝𝑝𝑜𝑠, 𝑎𝑛𝑑 𝑀𝑒𝑛𝑒𝑑𝑒𝑚𝑜𝑠 (𝑃.𝑂𝑥𝑦. 𝐿𝐼𝐼 3656) (1136), in J. Bʀᴜsᴜᴇʟᴀs, D. Oʙʙɪɴᴋ, S. Sᴄʜᴏʀɴ (eds.), 𝐷𝑖𝑒 𝐹𝑟𝑎𝑔𝑚𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑑𝑒𝑟 𝐺𝑟𝑖𝑒𝑐ℎ𝑖𝑠𝑐ℎ𝑒𝑛 𝐻𝑖𝑠𝑡𝑜𝑟𝑖𝑘𝑒𝑟 𝐶𝑜𝑛𝑡𝑖𝑛𝑢𝑒𝑑, Part IV: 𝐵𝑖𝑜𝑔𝑟𝑎𝑝ℎ𝑦 𝑎𝑛𝑑 𝐴𝑛𝑡𝑖𝑞𝑢𝑎𝑟𝑖𝑎𝑛 𝐿𝑖𝑡𝑒𝑟𝑎𝑡𝑢𝑟𝑒. IV A. 𝐵𝑖𝑜𝑔𝑟𝑎𝑝ℎ𝑦. Fasc. 8. 𝐴𝑛𝑜𝑛𝑦𝑚𝑜𝑢𝑠 𝐵𝑖𝑜𝑔𝑟𝑎𝑝ℎ𝑖𝑐𝑎𝑙 𝑃𝑎𝑝𝑦𝑟𝑖, Leiden-Boston in print. Consulted online on 06 July 2021 [link].
First published online: 2017.
Il 𝑃. 𝑂𝑥𝑦. LII 3656, pubblicato per la prima volta da P.J. Parsons nel 1984, preserva un frammento di testo in prosa che parla di un’allieva dell’Accademia platonica, ma il suo nome non si è conservato nei lacerti superstiti. Diverse fonti antiche (Dɪᴏɢ. III 46; IV 2; Aᴛʜᴇɴ. 𝐷𝑒𝑖𝑝𝑛. XII 546d; Aᴘᴜʟ. 𝑃𝑙𝑎𝑡. 1,4; Cʟᴇᴍ. Aʟᴇx. 𝑆𝑡𝑟𝑜𝑚. IV 122, 2; Tʜᴇᴍ. 𝑂𝑟. 23, 295c; 𝑃𝑟𝑜𝑙𝑒𝑔. 𝑖𝑛 𝑃𝑙𝑎𝑡. 4) riferiscono della presenza di donne all’Accademia, ma fanno espressamente i nomi di due allieve di Platone e di Speusippo, Lastenea di Mantinea e Assiotea di Fliunte. Il papiro in questione menziona probabilmente una di queste due, ma l’identità esatta rimane incerta.
Le due allieve sono spesso citate in coppia e indicate come le uniche due accademiche[1]. Lastenea e Assiotea sono menzionate come discepole di Platone nelle 𝑉𝑖𝑡𝑒 𝑑𝑒𝑖 𝑓𝑖𝑙𝑜𝑠𝑜𝑓𝑖 di Diogene Laerzio, in Clemente di Alessandria, e negli anonimi 𝑃𝑟𝑜𝑙𝑒𝑔𝑜𝑚𝑒𝑛𝑎 𝑝ℎ𝑖𝑙𝑜𝑠𝑜𝑝ℎ𝑖𝑎𝑒 𝑝𝑙𝑎𝑡𝑜𝑛𝑖𝑐𝑎𝑒 (nei quali, però, la seconda è chiamata Dessitea)[2]. Il Laerzio le elenca anche tra gli allievi di Speusippo[3].
Benché le fonti antiche le riportino insieme, pare che si trattasse di due persone molto diverse. Innanzitutto, certa tradizione presenta Lastenea come amante e compagna di Speusippo: Ateneo (VII 279e; XII 546d) racconta che allieva e maestro avessero una relazione erotica, citando una presunta lettera che Dionisio II di Siracusa avrebbe inviato al filosofo, definisce la donna un’ἑταίρα e descrive Speusippo come un uomo dissoluto e incontinente, dedito unicamente al piacere[4]. Si tratta certamente di una notizia proveniente da una fonte ostile al nipote di Platone, che trova riscontro anche in un altro passo laerziano (IV 2) e in un testo epistolografico spurio (𝐸𝑝𝑖𝑠𝑡. 𝑆𝑜𝑐𝑟. 36 Hercher τῷ μὲν ἥδεϲθαι ᾧ Λαϲθένεια καὶ Ϲπεύϲιπποϲ χρῆται)[5].
Quanto ad Assiotea, invece, costei è ricordata dalla tradizione per l’abitudine di indossare indumenti maschili, come racconta già Dicearco[6]. Temistio, riprendendo il medesimo particolare, aggiunge che fu la lettura della 𝑅𝑒𝑝𝑢𝑏𝑏𝑙𝑖𝑐𝑎 di Platone a indurla a dedicarsi alla filosofia[7]. L’abbigliamento maschile è menzionato 𝑒𝑛 𝑝𝑎𝑠𝑠𝑎𝑛𝑡 anche da Olimpiodoro e da Filodemo: secondo il primo, tra i seguaci di Platone c’erano sia uomini sia γυναῖκαϲ ἀνδρείωι ϲχήματι, mentre il secondo attribuisce questa abitudine a due non meglio note discepole di Speusippo[8]. Benché Temistio dica espressamente che Assiotea nascondeva il suo sesso (𝑂𝑟. 23, 295c: λανθάνουϲα ἄχρι πόρρω ὅτι γυνὴ εἴη), la tradizione da cui ha attinto non ha motivo di insinuare che la donna frequentasse l’Accademia solo sotto mentite spoglie, poiché non sarebbe stata accolta come donna in un contesto esclusivamente maschile. Questo preconcetto potrebbe essere stato utilizzato dalla tradizione antiplatonica per evidenziare una contraddizione tra le opinioni scritte di Platone sull’uguaglianza dei sessi e le reali (presunte) dinamiche interne alla sua scuola[9]; tuttavia, una studentessa avrebbe potuto sfoggiare il τρίβων maschile solo per mettere in mostra con orgoglio il proprio 𝑠𝑡𝑎𝑡𝑢𝑠 di filosofa, come fece anche la cinica Ipparchia, che era solita indossare un τρίβων e accompagnarsi a Cratete di Tebe[10].
Indizi per l’identificazione della scolara del 𝑃. 𝑂𝑥𝑦. LII 3656 sono forniti dal titolo di due opere ivi citate, il Περὶ ϲυνοχῆϲ di Ieronimo di Rodi e il Περὶ ἀλυπίαϲ di Aristofane il Peripatetico, che, tra l’altro, accenna alla singolare bellezza della donna (col. ii, ll. 16-18 ὡραίαν χαρίτων τε ἀνεπιτηδεύτων πλήρη οὖϲαν). Secondo Gigante (1985, 69; 1986, 60), che si avvale della testimonianza di Ateneo, la candidata migliore sarebbe Lastenea; invece, per Dorandi (1989, 58), che si concentra sull’aneddoto tradito da Temistio, la più probabile sarebbe Assiotea. Secondo questo studioso, infatti, un racconto nel quale una giovane donna ϲυνοχή (se questo termine indica davvero lo stato morale di essere «prigioniera delle passioni») si redime grazie a una conversione alla filosofia si adatterebbe perfettamente a un’opera dal titolo Περὶ ϲυνοχῆϲ (ciononostante, tale aneddoto non è attestato dalla tradizione precedente!). Sembra più probabile, comunque, che il riferimento all’allieva di Speusippo nel Περὶ ϲυνοχῆϲ (𝑆𝑢𝑙𝑙𝑎 𝑝𝑟𝑖𝑔𝑖𝑜𝑛𝑖𝑎, sempre che il titolo e la sua interpretazione siano corretti) riguardi il maestro piuttosto che l’alunna stessa, dato che le fonti concordano nel descrivere Speusippo in preda alle passioni. Allo stesso modo, l’altro scritto, il Περὶ ἀλυπίαϲ, potrebbe indicare che il riferimento alla filosofa sia stato fatto in relazione alla proverbiale φιληδονία di Speusippo, forse per rimarcare una contraddizione tra il pensiero e lo stile di vita di costui, nell’ambito di un dibattito circa la concezione del piacere come male[11]. Non a caso, il riferimento alla bellezza della giovane filosofa sarebbe particolarmente adatto a un simile contesto: insomma, Lastenea appare la più probabile fra le due[12].
La datazione e la paternità del brano trasmesso dal papiro restano ignote. Le opere citate sembrano oscillare nella cronologia tra la fine del III secolo e gli inizi del II secolo a.C. Ora, se è plausibile collocare il documento a questa altezza cronologica, virtualmente, a titolo d’ipotesi, si potrebbe identificarne l’autore (ma non si esclude che possa trattarsi di un compilatore più tardo che ha citato testi di età ellenistica!) con uno dei seguenti biografi di filosofi:
1) Diocle di Magnesia, che scrisse sia una Ἐπιδρομὴ τῶν φιλοϲόφων [𝑆𝑜𝑚𝑚𝑎𝑟𝑖𝑜 𝑠𝑢𝑖 𝑓𝑖𝑙𝑜𝑠𝑜𝑓𝑖] (Dɪᴏɢ. VII 48; X 11) sia delle Βίοι τῶν φιλοϲόφων [𝑉𝑖𝑡𝑒 𝑑𝑒𝑖 𝑓𝑖𝑙𝑜𝑠𝑜𝑓𝑖] (𝑖𝑏𝑖𝑑. II 54; 82)[13]. Un argomento, anche se un po’ debole, a favore di Diocle potrebbe essere l’uso nel papiro dell’epiteto Ἐρετρικόϲ anziché Ἐρετριεύϲ riferito a Menedemo alla col. ii, l. 7.
2) Sozione di Alessandria, autore delle Διαδοχαὶ τῶν φιλοϲόφων [𝑆𝑢𝑐𝑐𝑒𝑠𝑠𝑖𝑜𝑛𝑖 𝑑𝑖 𝑓𝑖𝑙𝑜𝑠𝑜𝑓𝑖], attivo probabilmente durante il primo quarto del II secolo a.C. e, secondo Wehrli, si servì di Ippoboto come fonte, qui menzionato nella col. ii, l. 5[14].
3) Eraclide Lembo, che epitomò le Διαδοχαί di Sozione[15]: il papiro potrebbe quindi conservare questa versione riassunta. La frequenza dei nomi delle fonti rende il frammento in esame molto diverso per carattere dall’epitome che Eraclide trasse dai 𝐿𝑒𝑔𝑖𝑠𝑙𝑎𝑡𝑜𝑟𝑖 di Ermippo di Smirne, conservata nel 𝑃. 𝑂𝑥𝑦. XI 1367 (= 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 1026 F 3), nel quale in poco meno di una sessantina di linee (col. i, ll. 36 e 47; col. ii, l. 8) sono nominati solo tre autori. Ciononostante, una differenza nell’estensione e nella profondità dei dettagli tra l’epitome di Ermippo e quella di Sozione non è assolutamente improbabile[16]. A giudicare dai frammenti superstiti, Eraclide sembra mostrare una certa inclinazione per i pettegolezzi, le abitudini sessuali e gli aneddoti sui personaggi di cui parla, ma anche qualche imprecisione come epitomatore[17]. Questi aspetti potrebbero trovare paralleli nel papiro in esame. Eraclide ha certamente scritto di Menedemo di Eretria (si vd. 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. III F 15a e 15b = Dɪᴏɢ. II 138, 143) e di Platone (𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. III F 16 = Dɪᴏɢ. III 26). In particolare, von Fritz suggerisce che l’erroneo incontro di Platone e Menedemo di Eretria, di cui parla il Laerzio, potrebbe derivare proprio da Eraclide[18].
Comunque sia, è troppo poco ciò che è rimasto di questi storici da consentire un qualche collegamento sicuro con il frammento in questione, ed espositori meno noti di διαδοχαί, o addirittura del tutto sconosciuti, sono ipotesi altrettanto plausibili. Infine, bisogna tenere in conto che l’apparente carattere biografico e dossografico del documento papiraceo può essere solo una conseguenza della sua natura frammentaria: insomma, non è detto che l’opera a cui appartiene sia necessariamente una biografia.
Come si vede, il papiro contiene i resti di tre colonne, ma solo la col. ii presenta un testo significativo. È visibile un margine superiore di 3 cm, oltre a due 𝑖𝑛𝑡𝑒𝑟𝑐𝑜𝑙𝑢𝑚𝑛𝑖𝑎 di circa 2 cm ciascuno. Le linee, contenente ciascuna circa 15 lettere, sono tracciate lungo le fibre in una grafia formale inclinata nel cosiddetto “stile severo”, che può essere tranquillamente attribuita alla fine del II o agli inizi del III secolo d.C.[19]
Lo scriba principale usa la παράγραφος in combinazione con lo spazio vuoto per contrassegnare una forte interpunzione (col. ii, ll. 7 e 11). Altri due tipi di segni marginali, χ e διπλῆ, sono stati aggiunti con un inchiostro diverso: si tratta forse di annotazioni dei lettori. La χ è apposta prima della col. ii, l. 2, 4, 6, 9 e 12, dove ricorrono i nomi propri (di filosofi o autori), ma è usato in modo incoerente, dato che il nome di Ippoboto alla l. 5 non è contrassegnato. La διπλῆ nella col. ii, l. 16 sembra evidenziare una citazione più specifica, quella di Aristofane il Peripatetico; altre quattro διπλαῖ sono state utilizzate nella colonna iii, ma mancano le linee da esse contrassegnate (ll. 11, 14, 17, 19). Una παράγραφος è visibile anche nella col. iii sotto la perduta l. 15.
P. Oxy. 52 3656 (II-III sec. d.C.). Anonimo, A proposito di una discepola di Platone, Speusippo e Menedemo = FGrHist. 1136 F 1 [papyri.info].
Dopo la morte di Platone, ella, secondo Ippoboto, divenne discepola di Speusippo e, infine, di Menedemo di Eretria. Ieronimo di Rodi parla di lei in un suo trattato 𝑆𝑢𝑙𝑙𝑎 𝑝𝑟𝑖𝑔𝑖𝑜𝑛𝑖𝑎 (?). Parimenti, anche Aristofane il Peripatetico nella sua opera 𝑆𝑢𝑙𝑙’𝑎𝑠𝑠𝑒𝑛𝑧𝑎 𝑑𝑖 𝑑𝑜𝑙𝑜𝑟𝑒 racconta che questa ragazza era nel fiore della giovinezza e piena di grazia non ricercata… intorno a lei (?).
Commento (col. ii):
1-4 διήκουϲε δὲ με|τὰ τὴν Πλάτωνοϲ | τελευτὴν καὶ Ϲπευ|ϲίππου. La parte superstite del documento non afferma esplicitamente che l’anonima filosofa fosse stata allieva di Platone, ma il fraseggio di queste linee e in particolare il καὶ alla l. 3 – che allude al fatto che Speusippo sia stato maestro dopo qualcun altro – fanno fortemente supporre che Platone sia stato sua guida prima di Speusippo.
4 καθὰ λέγει: è un’espressione tipicamente dossografica; cfr. l’uso frequente di καθά φηϲιν nel Laerzio per introdurre la fonte impiegata. (𝑒.𝑔. I 1; VI 102; IX 25).
5 ὁ Ἱππόβοτοϲ. F 6a Gigante (cfr. Gɪɢᴀɴᴛᴇ [1985]). Ippoboto visse probabilmente tra la fine del III e l’inizio del II secolo a.C.[27] La sua 𝑎𝑐𝑚𝑒́ è collocata da Gigante nella prima metà del II secolo a.C.[28] Glucker sostiene in modo meno convincente una datazione fino al I secolo a.C.[29] Il Laerzio conserva i titoli di due opere, una Περὶ αἱρέϲεων (I 19; II 88) e una Τῶν φιλοϲόφων ἀναγραφή (I 42), e alcuni frammenti, tra cui un aneddoto su Menedemo il Cinico (VI 102), che è diverso dal Menedemo menzionato in 𝑃. 𝑂𝑥𝑦. 3656.
6-7 Μενεδήμου τοῦ | Ἐρετρικοῦ. 𝑆𝑆𝑅 III F 25; 𝐶𝑃𝐹 I 1,2,68, T 1. Lastenea e Assiotea non sono altrimenti associate a Menedemo. Menedemo di Eretria, discepolo del socratico Fedone e poi fondatore della scuola di Eretria, visse probabilmente dal 350/45 al 266/1 a.C.[30] Se la filosofa in questione fu allieva di Platone, morto nel 348/7, allora si dovrebbero ipotizzare per lei almeno due decenni di attività filosofica. Ciò non è impossibile, se iniziò a seguire Platone da giovanissima (cfr ll. 15-16 μείρακα)[31]. Tuttavia, come sostiene in maniera convincente Knoepfler, è probabile che il Menedemo menzionato nel 𝑃. 𝑂𝑥𝑦. 3656 sia erroneamente chiamato Ἐρετρικόϲ, mentre in realtà si intende proprio Menedemo di Pirra[32]: quest’ultimo, un Accademico battuto da Senocrate nella successione a Speusippo, fondò una sua propria scuola, e venne parodiato insieme a Platone e Speusippo in un frammento di Epicrate, autore della Commedia di Mezzo[33]. Secondo Knoepfler, l’autore del testo conservato nel 𝑃. 𝑂𝑥𝑦. 3656 deve aver trovato il nome di Menedemo senza ulteriori specificazioni nella sua fonte, e gli ha erroneamente attribuito l’epiteto di Ἐρετρικόϲ; ciò sarebbe indicato anche dall’uso impreciso dello ctetico Ἐρετρικόϲ al posto dell’etnico Ἐρετριεύϲ, che Knoepfler considera un tratto più tardo. Si può notare che il Laerzio chiama sempre Menedemo Ἐρετριεύϲ, mentre usa regolarmente Ἐρετρικόϲ per indicare la sua scuola e i suoi discepoli; soltanto in un caso riferisce questo nome allo stesso Menedemo (Dɪᴏɢ. VI 91; nessun riscontro è attestato a parte 𝑃. 𝑂𝑥𝑦. 3656). Vale la pena notare che la fonte citata di questo passo è Diocle di Magnesia, che è un possibile candidato per l’attribuzione del papiro. Nessuna fonte è allegata alla menzione di Menedemo nel 𝑃. 𝑂𝑥𝑦. 3656, a differenza di quello di Speusippo, e non si può escludere che Menedemo sia stato aggiunto proprio come un altro membro dell’Accademia (con l’epiteto sbagliato!), riflettendo il raggruppamento trovato in Epicrate, ma non aveva alcun rapporto con Lastenea o Assiotea.
7 ἀ[[υθιϲ]]φηγήϲατο δὲ. Lo scriba principale ha corretto un errore αὖθιϲ δὲ, chiaramente indotto dalle due righe sopra, che si trova nella stessa posizione sulla riga. La correzione è stata apportata modificando la forma di υ in quella di φ, eliminando θιϲ con un solo tratto orizzontale e aggiungendo ηγηϲατο nello spazio interlineare superiore.
8-9 Ἱερώ|νυμοϲ ὁ Ῥόδιοϲ. F 55 White; 𝐶𝑃𝐹 I 1,2,61, T 1. Il peripatetico Ieronimo di Rodi visse nel III secolo a.C. (ca. 290-230 a.C.)[34]. Il Laerzio (II 105) gli attribuisce un Περὶ ἐποχῆϲ (𝑆𝑢𝑙𝑙𝑎 𝑠𝑜𝑠𝑝𝑒𝑛𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑑𝑒𝑙 𝑔𝑖𝑢𝑑𝑖𝑧𝑖𝑜) e un’opera in almeno due libri dal titolo Ϲποράδην ὑπομνήματα (𝑀𝑒𝑚𝑜𝑟𝑖𝑒 𝑠𝑝𝑎𝑟𝑠𝑒), da cui trae informazioni – per lo più aneddotiche – su Talete e Anassagora (I 26; II 14).
10 Περὶ ϲυνοχῆϲ. Come si è appena accennato, Dɪᴏɢ. II 105 attribuisce a Ieronimo un Περὶ ἐποχῆϲ (Hɪᴇʀᴏɴ.¹ F 24 Wehrli = 54b White). Per questo motivo, sottolineando l’ambiguità semantica di ϲυνοχή (che tra l’altro significa «detenzione, prigionia, oppressione», ma anche «coesione, compattezza»), poco ideale in un titolo, Gottschalk ha emendato la 𝑙𝑒𝑐𝑡𝑖𝑜 tradita dal papiro ϲυνοχῆϲ in ἐποχῆϲ («fermata, sospensione di giudizio»)[35]. Non è da escludere che si tratti di due opere diverse, ma, come ha notato da Gigante, la tradizione manoscritta di Diogene mostra diversi esempi di scambio di preverbi e preposizioni[36]. Gigante difende la 𝑙𝑒𝑐𝑡𝑖𝑜 del papiro e interpreta ϲυνοχή come uno stato di «coercizione» fisica o psicologica. In effetti, ciò sarebbe confermato dalla rappresentazione canzonatoria di Fedone di Elide – maestro di Speusippo – come δοῦλοϲ («servo»), che il Laerzio attribuisce al Περὶ ἐποχῆϲ di Ieronimo: probabilmente non si tratta di una mera invenzione, ed è plausibile che Fedone abbia sperimentato quella triste condizione dopo l’espugnazione della sua città nel 401 a.C. Ora, se le cose stanno così, allora la vicenda della giovane allieva potrebbe essere la storia della liberazione di una donna da qualsiasi tipo di servitù – secondo Gigante e Dorandi, si tratterebbe di una «schiavitù delle passioni»[37]. L’editore del papiro, Parsons, ha valutato i diversi significati filosofici della parola ϲυνοχή, quali «inibizione del movimento nel sonno» ([Aʀɪsᴛᴏᴛ.] 𝑃𝑙𝑎𝑛𝑡. 1,2 p. 816b39), «coesione dell’universo» (Cʜʀʏsɪᴘ. 𝑆𝑉𝐹 II F 550), «continuità nel luogo o nella forma» (Aᴘᴏʟʟᴏᴅ.⁴ 𝑆𝑉𝐹 III F 260), e «mantenimento della felicità» (Eᴘɪᴄᴜʀ. F 361 Usener), pur notando che «il significato di “afflizione” o “prigionia” non sembra essere attestato prima del I secolo a.C.»[38]: i primi paralleli, considerati da Gigante, si trovano appunto in due papiri documentali dell’epoca, nei quali ϲυνοχή è inteso letteralmente come «prigione» (𝑃. 𝐿𝑜𝑛𝑑. II 354, l. 24 e 𝐵𝐺𝑈 VIII 1821, l. 21; cfr. 𝐿𝑆𝐽 II 5). White, invece, propende per Περὶ ἐποχῆϲ come unico titolo corretto: ἐποχή si riferirebbe tecnicamente alla «”sospensione del giudizio” associata ad Arcesilao di Pitane e alla sua ‘Nuova Accademia”», che fu obiettivo polemico o quantomeno un conoscente di Ieronimo di Rodi[39]. In effetti, nel contesto di una discussione sullo Scetticismo accademico, un riferimento all’«eredità di Socrate, compreso Platone e altri socratici» non sarebbe del tutto fuori luogo[40]. Tuttavia, sebbene questo possa spiegare la rilevanza della trattazione di Ieronimo su Fedone, è più difficile immaginare un contesto adatto per una menzione di Lastenea o Assiotea: ma si può ipotizzare, per esempio, che un aneddoto ostile sia stato inserito in una discussione polemica sull’epistemologia o sulla teoria etica di Speusippo.
11-15 ἱϲτο|ρεῖ δ’ Ἀριϲτοφάνηϲ | ὁ περιπατητικὸϲ | ὁμοίωϲ ἐν τῷ Περὶ | ἀλυπίαϲ. 𝐶𝑃𝐹 I 1, 1, 23, T 1. Si menziona un filosofo peripatetico di nome Aristofane, non altrimenti attestato. Sull’identità di costui, si possono considerare tre diverse opzioni: 1) si ha a che fare con un autore sconosciuto; 2) la fonte è, in realtà, Aristofane di Bisanzio, che qui è insolitamente presentato come un Peripatetico; 3) si è verificato un problema testuale, forse una corruttela. Tralasciando la prima, se si assume la seconda opzione, forse occorre considerare un’accezione “liquida” di περιπατητικὸϲ, nome che sarebbe stato qui impiegato per indicare genericamente uno «studioso», oppure – e sembra un poco più plausibile – designerebbe una qualche connessione con il Peripato, se si pensa, per esempio, alle analisi filologiche di Aristofane di Bisanzio sugli studi di zoologia di Aristotele[41]. Ora, un altro problema è che non è attestato da nessuna parte che Aristofane di Bisanzio abbia redatto un Περὶ ἀλυπίαϲ, ma questo titolo si trova elencato nella 𝑆𝑢𝑑𝑎 fra i testi del suo presunto maestro, Eratostene (𝑆𝑢𝑑𝑎 ε 2898); come quest’ultimo, in effetti, Aristofane potrebbe aver nutrito sia interessi linguistico-grammaticali sia di natura filosofica[42]. Se, dunque, questo Aristofane “il Peripatetico” fosse il filologo alessandrino, si avrebbe una maggiore certezza circa la datazione dell’opera conservata dal 𝑃. 𝑂𝑥𝑦. 3656, dato che il Bizantino visse circa tra il 265/57 e il 190/80 a.C.[43]
Quanto alla possibile corruttela, Gigante ha proposto di emendare Ἀριϲτοφάνηϲ con Ἀριϲτόξενοϲ, sebbene un Περὶ ἀλυπίαϲ non sia tra le opere conosciute di quest’ultimo[44]. In alternativa, si potrebbe pensare ad Aristone il Peripatetico (originario di Ceo, da non confondere con l’omonimo stoico di Chio). Nemmeno per lui, in realtà, è attestato un Περὶ ἀλυπίαϲ, ma sembra plausibile per l’autore di una lettera su 𝐶𝑜𝑚𝑒 𝑠𝑡𝑒𝑚𝑝𝑒𝑟𝑎𝑟𝑒 𝑙’𝑎𝑟𝑟𝑜𝑔𝑎𝑛𝑧𝑎, citata nel 𝑆𝑢𝑖 𝑣𝑖𝑧𝑖 di Filodemo[45].
Montanari, con certa riserva, ha ipotizzato che il Περὶ ἀλυπίαϲ attribuito ad Aristofane possa essere, in realtà, il titolo di uno scritto di Ieronimo, dato che quest’ultimo era ben noto per la sua teoria, secondo la quale l’assenza di dolore sia il bene più grande[46]. Può essere interessante osservare anche che “Peripatetico” era un attributo attestato proprio per Ieronimo: cfr., per es., Cʟᴇᴍ. Aʟᴇx. 𝑆𝑡𝑟. II 21, 127; Aᴛʜᴇɴ. XIII 602a; e si vd. la questione al riguardo in Cɪᴄ. 𝑑𝑒 𝑓𝑖𝑛. 5, 14 = F 11 White. L’espunzione di Ἀριϲτοφάνηϲ, che lascerebbe soltanto ὁ περιπατητικόϲ riferito a Ierononimo, sarebbe forse una soluzione, ma è difficile spiegare come quel nome possa essere entrato nel testo.
Infine, si potrebbe ancora ipotizzare che Aristofane di Bisanzio abbia parlato di Lastenea nel suo 𝑆𝑢𝑙𝑙𝑒 𝑒𝑡𝑒𝑟𝑒 𝑎𝑡𝑒𝑛𝑖𝑒𝑠𝑖, citata da Ateneo (cfr. n. 42 𝑠𝑢𝑝𝑟𝑎), mentre un Peripatetico (Aristone o il suddetto Ieronimo?) ha fatto riferimento alla sua avvenenza in un Περὶ ἀλυπίαϲ, contestualizzando la relazione fra la donna e Speusippo. Un goffo epitomatore, se di epitome si tratta il testo nel papiro, attingendo a una fonte in cui sono menzionati entrambi gli autori, potrebbe aver confuso il nome del primo con l’epiteto e il titolo dell’opera del secondo. Oppure, parimenti, uno scriba può aver accidentalmente omesso alcune parole o linee, saltando da ciò che seguiva il nome Ἀριϲτοφάνηϲ (𝑒.𝑔. ὁ γραμματικόϲ) a ὁ περιπατητικόϲ: un equivoco errore di copiatura (forse), ma di tipo diverso, occorre anche alla l. 7.
14 ὁμοίωϲ. Questo avverbio si trova di consueto nei resoconti dossografici per indicare l’accordo fra le fonti citate (si vd., per es., Dɪᴏɢ. III 47; VII 87; 148; VIII 51). Mentre in questo passo sembra esserci un’asimmetria fra le due frasi che ὁμοίωϲ dovrebbe equiparare: da un lato, si ha solo un riferimento generico all’aspetto della giovane allieva nel trattato di Ieronimo; dall’altro, c’è una specifica informazione attribuita ad Aristofane (?). Questo potrebbe essere un indizio della natura suntiva del testo papiraceo (compatibile, per esempio, con l’epitomatore Eraclide Lembo): si potrebbe immaginare che la fonte dell’autore del documento abbia attribuito a Ieronimo una specifica informazione, in linea con il riferimento alla bellezza fisica della fanciulla contenuta nel catalogo aristofaneo; mentre lo scriba l’avrebbe omessa, inserendo nel proprio testo soltanto il nome della fonte e il titolo dell’opera. Si noti che la presenza di ὁμοίωϲ potrebbe essere spiegata anche se il Περὶ ἀλυπίαϲ fosse opera di Ieronimo e il nome di Aristofane un’interpolazione; in questo senso, si potrebbe tradurre: «Ieronimo ha parlato della ragazza nel suo Περὶ ϲυνοχῆϲ; così, nel suo Περὶ ἀλυπίαϲ il Peripatetico riferisce…».
15-18 τὴν μείρα|κα ὡραίαν χαρίτων | τε ἀνεπιτηδεύτων | πλήρη οὖϲαν. È probabile che ἱϲτορεῖ (ll. 11-12) regga un’infinitiva (𝑒.𝑔. Dɪᴏᴅ. I 15, 2; III 44, 3; ecc.), con οὖϲαν, che è un participio circostanziale, ma non si può escludere l’uso di un participio predicativo (Iᴏs. 𝐴𝐽 1, 108); quindi, non si può dire se questa frase termini prima o dopo νεα.
18-20? νεα | [ ̣ ̣] ̣[ ̣] ̣[ ̣] π̣ερὶ αυτήν | [ 𝑐𝑎. 9 ] ̣οϲκαι. περὶ αὐτῆϲ (l. 8) è complemento d’argomento, mentre è probabile – ma non sicuro – che qui π̣ερὶ αὐτήν (o soltanto αὑτήν) abbia un valore diverso, forse un complemento di luogo: si potrebbe colmare la lacuna con νεα|[νε]ί̣[α]ϲ̣ (l. νεανίαϲ) π̣ερὶ αὑτὴν | [ἀεὶ ἔχειν], cioè «aveva sempre attorno a sé dei giovanotti» (cfr. Lᴜᴄ. 𝑉𝐻 1, 15 ὁ αϲιλεὺϲ τοὺϲ ἀρίϲτουϲ περὶ αὑτὸν ἔχων, e Dɪᴏɴ. XI 2, 1 τοῖϲ θραϲυτάτοιϲ τῶν νέων, οὓϲ εἶχον ἕκαϲτοι περὶ αὑτούϲ). Si osservi che le due tracce visibili alla l. 19 sono indicate da Parsons rispettivamente come «top of upright» e «short horizontal or arc just below the letter-tops».
20 ] ̣. τ. potrebbe trattarsi della traccia di un αὐτὸϲ o un οὗτοϲ (?). Un’espressione, come οὗτοϲ (𝑠𝑐𝑖𝑙. Aristofane) καὶ (un’altra fonte) λέγουϲι(ν)/φαϲι(ν)/ἱϲτοροῦϲι(ν), continuerebbe il racconto dossografico.
Michel Corneille il Giovane, Aspasia fra i filosofi dell’antica Grecia. Olio su tela, 1670 c. Château de Versailles.
G. Rᴀɴᴏᴄᴄʜɪᴀ, 𝐴𝑟𝑖𝑠𝑡𝑜𝑛𝑒 Sul modo di liberare dalla superbia 𝑛𝑒𝑙 𝑑𝑒𝑐𝑖𝑚𝑜 𝑙𝑖𝑏𝑟𝑜 De vitiis 𝑑𝑖 𝐹𝑖𝑙𝑜𝑑𝑒𝑚𝑜, Firenze 2007 = rec. G. Iɴᴅᴇʟʟɪ, GFA 13 (2010), 1015-1067.
S. Vᴏɢᴛ, 𝐶ℎ𝑎𝑟𝑎𝑐𝑡𝑒𝑟𝑠 𝑖𝑛 𝐴𝑟𝑖𝑠𝑡𝑜, in W.W. Fᴏʀᴛᴇɴʙᴀᴜɢʜ, S.A. Wʜɪᴛᴇ (eds), 𝐴𝑟𝑖𝑠𝑡𝑜 𝑜𝑓 𝐶𝑒𝑜𝑠. 𝑇𝑒𝑥𝑡, 𝑇𝑟𝑎𝑛𝑠𝑙𝑎𝑡𝑖𝑜𝑛 𝑎𝑛𝑑 𝐷𝑖𝑠𝑐𝑢𝑠𝑠𝑖𝑜𝑛, New Brunswick-London 2006, 261-278.
K. ᴠᴏɴ Fʀɪᴛᴢ, 𝑠.𝑣. 𝑀𝑒𝑛𝑒𝑑𝑒𝑚𝑜𝑠, 𝑅𝐸 15, 1 (1931), 788-789.
S. Wᴇsᴛ, 𝑆𝑎𝑡𝑦𝑟𝑢𝑠: 𝑃𝑒𝑟𝑖𝑝𝑎𝑡𝑒𝑡𝑖𝑐 𝑜𝑟 𝐴𝑙𝑒𝑥𝑎𝑛𝑑𝑟𝑖𝑎𝑛?, GRBS 15 (1974), 279-287.
Note:
[1] Le testimonianze sul loro conto sono state raccolte e discusse da Dᴏʀᴀɴᴅɪ (1989). Per una panoramica sulle due donne, si vd. anche Gᴏᴜʟᴇᴛ (1989) e Gᴏᴜʟᴇᴛ, Dᴏʀᴀɴᴅɪ (2005).
[2] Dɪᴏɢ. III 46, Cʟᴇᴍ. Aʟᴇx. 𝑆𝑡𝑟𝑜𝑚. IV 122, 19; 𝑃𝑟𝑜𝑙𝑒𝑔. 𝑖𝑛 𝑃𝑙𝑎𝑡. 4, 25-26. Nella versione araba della vita di Platone, inclusa nella 𝑇𝑎ʾ𝑟𝑖̄𝑘ℎ 𝑎𝑙-ℎ̣𝑢𝑘𝑎𝑚𝑎̄ʾ [𝐿𝑎 𝑠𝑡𝑜𝑟𝑖𝑎 𝑑𝑒𝑖 𝑠𝑎𝑔𝑔𝑖] di Ibn al-Qifti (1172-1248), si racconta che Assiotea e Lastenea fossero le mogli del filosofo e non sue allieve (24, 2-8 Lippert); cfr. la traduzione latina in Roeper (1866, 12-13) con commento 𝑎𝑑 𝑙𝑜𝑐.
[3] Dɪᴏɢ. IV 2. La testimonianza isolata di Giamblico (𝑉𝑃 267) include una Λαϲθένεια Ἀρκάδιϲϲα tra le più illustri intellettuali pitagoriche (Πυθαγορίδεϲ γυναῖκεϲ αἱ ἐπιφανέϲται). Considerando la ben attestata presenza femminile tra i Pitagorici, Wᴇʜʀʟɪ (1967, 55) ipotizza che Assiotea e Lastenea fossero in realtà membri della scuola pitagorica e fossero state erroneamente collegate all’Accademia di Platone da una tradizione successiva; Sᴡɪꜰᴛ Rɪɢɪɴᴏs (1976, 184 n. 13) sostiene il contrario. Tuttavia, mentre appare improbabile che ci fossero due Lastenea omonime nelle due scuole (con buona pace di Oɢɪʟᴠɪᴇ [1986, 119]), non c’è motivo di escludere che Lastenea di Mantinea possa aver frequentato entrambe le scuole. Su questa linea, e nonostante la mancanza di prove su una connessione tra Assiotea e i Pitagorici, Gᴀɪsᴇʀ (1988, 363) ipotizza che la filosofa sia stata prima pitagorica a Fliunte, sede del pitagorismo, e poi sia divenuta un’accademica ad Atene.
[4] Dɪᴏɢ. IV 1 dice infatti che il filosofo era un uomo «collerico e incapace di dominare i piaceri» (ὀργίλος καὶ ἡδονῶν ἥττων); mentre in IV 4, riprendendo Timoteo di Atene (𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 1079 F 2), il dossografo descrive le conseguenze fisiche della dissolutezza di Speusippo (τὸ σῶμα διακεχυμένος, «fisicamente infiacchito») e riporta un aneddoto secondo cui il filosofo, incontrando un uomo ricco innamorato di una donna sgraziata, si sarebbe offerto di trovargliene una più bella per dieci talenti. La notizia è in qualche modo estremizzata da Tᴇʀᴛᴜʟ. 𝘈𝘱𝘰𝘭. 46, 10, che racconta che Speusippo morì «commettendo adulterio» (𝑎𝑢𝑑𝑖𝑜 𝑒𝑡 𝑞𝑢𝑒𝑛𝑑𝑎𝑚 𝑆𝑝𝑒𝑢𝑠𝑖𝑝𝑝𝑢𝑚 𝑑𝑒 𝑃𝑙𝑎𝑡𝑜𝑛𝑖𝑠 𝑠𝑐ℎ𝑜𝑙𝑎 𝑖𝑛 𝑎𝑑𝑢𝑙𝑡𝑒𝑟𝑖𝑜 𝑝𝑒𝑟𝑖𝑠𝑠𝑒).
[5] Su queste lettere, si vd. Tᴀʀᴀ́ɴ (1981, 223), che ritiene spurie sia l’epistola (o le epistole) citate da Ateneo e Diogene Laerzio, sia 𝐸𝑝𝑖𝑠𝑡. 𝑆𝑜𝑐𝑟. 36, in linea con il generale accordo degli studiosi per cui le 𝐸𝑝𝑖𝑠𝑡𝑢𝑙𝑎𝑒 𝑆𝑜𝑐𝑟𝑎𝑡𝑖𝑐𝑎𝑒 sarebbero un falso di età imperiale fondato, comunque, sulla storicità dell’ostilità tra i due corrispondenti (eccetto 𝐸𝑝𝑖𝑠𝑡. 𝑆𝑜𝑐𝑟. 30, che Speusippo avrebbe inviato a Filippo II, su cui si vd. da ultimo Nᴀᴛᴏʟɪ [2004]). Si noti che il Laerzio ha incluso le «Lettere a Dione, Dionisio e Filippo» nel catalogo della produzione speusippea (IV 4). Sulla tradizione riguardante il rapporto tra Dionisio II e Speusippo, si vd. anche Mᴜᴄᴄɪᴏʟɪ (1999, 275), che ritiene che la loro corrispondenza riflettesse una realtà storica, mentre Mᴇʀʟᴀɴ (1959, 207-209) con sicurezza la considera un autentico scambio epistolare.
[6] Dɪᴄᴀᴇᴀʀᴄʜ. F 44 Wehrli = 50 Mirhady = 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 1400 F 62 (L’informazione che quest’ultimo tramanda è comunemente riferita al suo Περὶ βίων [𝑆𝑢𝑙𝑙𝑒 𝑣𝑖𝑡𝑒]), citato in Dɪᴏɢ. III 46.
[7] 𝑂𝑟. 23, 295c-d. Temistio chiama Assiotea «l’Arcade», confondendola probabilmente con Lastenea, ma si tratterebbe di uno scambio intenzionale: in questo modo il racconto della sua conversione alla filosofia, ambientato in una regione tradizionalmente considerata primitiva e remota, appare certamente più avvincente (cfr. Sᴋɪɴɴᴇʀ 2012, 108-109). Ora, benché questo aneddoto si adatti alla forza protrettica dei dialoghi platonici, menzionati anche in Dɪᴄᴀᴇᴀʀᴄʜ. 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 1400 = F 63b = Pʜʟᴅ. 𝐴𝑐𝑎𝑑. 𝐻𝑖𝑠𝑡., 𝑃𝐻𝑒𝑟𝑐. 1021, col. 1, 11‑45, è molto probabilmente fittizio. Del resto, la conversione alla filosofia è un 𝑡𝑜́𝑝𝑜𝑠 biografico e, difatti, sempre Temistio tramanda una storia simile, tratta da Aristotele (F 64 Rose³ = F 658 Gigon), circa un agricoltore corinzio, il quale, dopo aver letto il 𝐺𝑜𝑟𝑔𝑖𝑎, avrebbe abbandonato i suoi campi per dedicarsi totalmente alla filosofia.
[8] Oʟʏᴍᴘ. 𝐼𝑛 𝐴𝑙𝑐. 2, 147-150 Westerink; Pʜʟᴅ. 𝐴𝑐𝑎𝑑. 𝐻𝑖𝑠𝑡., 𝑃𝐻𝑒𝑟𝑐. 1021, col. 6, 25-27 Dorandi. È possibile, ma tutt’altro che certo, che un altro passo dell’𝐻𝑖𝑠𝑡𝑜𝑟𝑖𝑎 𝐴𝑐𝑎𝑑𝑒𝑚𝑖𝑐𝑜𝑟𝑢𝑚 di Filodemo di Gadara menzioni la sola Assiotea (col. Y 37 – 2, 1), riferendo che ella fosse solita indossare abiti maschili: cfr. Gᴇɪsᴇʀ (1983, 60 e 1988, 154) e Dᴏʀᴀɴᴅɪ (1989, 54-55), ma si noti che il passo è pesantemente interpolato sulla base di diverse 𝑙𝑒𝑐𝑡𝑖𝑜𝑛𝑒𝑠 incerte, come ha recentemente dimostrato Vᴇʀʜᴀssᴇʟᴛ (2013).
[10] Cfr. Dɪᴏɢ. VI 93, che cita un frammento delle Δίδυμαι [𝐺𝑒𝑚𝑒𝑙𝑙𝑒] di Menandro (F 114 K.-A.), e VI 97; cfr. Hᴀʀᴛᴍᴀɴɴ (2007, 239 con n. 39). Questa pratica è in linea con le istruzioni di Zenone di Cizio circa l’abbigliamento comune fra uomini e donne: si vd. Dɪᴏɢ. VII 33 (= 𝑆𝑉𝐹 I F 257) e Pʜʟᴅ. 𝑆𝑡𝑜𝑖𝑐. col. 19, 12-14 Dorandi.
[11] Cfr. Tᴀʀᴀ́ɴ (1981, 177-180) e i frammenti di etica dello stesso Speusippo (F 73-89 Isnardi-Parente).
[12] Wᴇʜʀʟɪ (1978, 15). Sul rapporto tra Speusippo e la bellezza femminile, cfr. ancora l’aneddoto riportato da Dɪᴏɢ. IV 4. A questo proposito, una tradizione ostile al filosofo potrebbe anche aver fatto leva sulla dedica da parte sua di alcune statue alle Cariti nel sacrario alle Muse, fatto erigere da Platone nell’Accademia: 𝑖𝑏𝑖𝑑. IV 1, si vd. Tᴀʀᴀ́ɴ (1981, 5).
[19] Come paralleli paleografici, si possono citare 𝑃. 𝑂𝑥𝑦. I 26 (= 𝑃. 𝐿𝑖𝑡. 𝐿𝑜𝑛𝑑. 129) e 𝑃. 𝑂𝑥𝑦. XXXIV 2703, entrambi effettivamente datati alla seconda metà del II secolo: cfr. Rᴏʙᴇʀᴛs (1955, 19) e Dᴇʟ Cᴏʀsᴏ (2006, 95).
[31] Diogene Laerzio riferisce che Menedemo di Eretria visitò l’Accademia di Atene e incontrò Platone (II 125: ἀνῆλθεν εἰϲ Ἀκαδημείαν πρὸϲ Πλάτωνα, καὶ θηραθεὶϲ κατέλιπε τὴν ϲτρατείαν). Piuttosto che indicare che la ricostruzione accettata della cronologia di Menedemo è sbagliata, questo passo deriva probabilmente da una confusione tra questo Menedemo e Menedemo di Pirra, che fu uno studente dell’Accademia fino alla morte di Speusippo, o da una fonte in cui è menzionata soltanto l’Accademia, e non Platone.
[41] Fin dai saggi di Lᴇᴏ (1901, 118), molti studiosi contemporanei hanno ipotizzato che un legame con la scuola alessandrina e la compilazione di biografie, un genere solitamente associato al Peripato, costituissero un elemento sufficiente perché uno studioso antico fosse designato “peripatetico”. Si vd. 𝑒.𝑔. i casi di Ermippo e Satiro (Pꜰᴇɪꜰꜰᴇʀ [1968, 129-130], e 𝑐𝑜𝑛𝑡𝑟𝑎 Wᴇsᴛ [1974, 280-281]), Agatarchide di Cnido e il grammatico Tolomeo, citato da Sᴇxᴛ. 𝑆. 1, 60 (Mᴏɴᴛᴀɴᴀʀɪ [1989, 249]). Sᴄʜᴏʀɴ (2003), invece, ha mostrato che l’uso dell’epiteto περιπατητικὸϲ è di solito meglio giustificato e designa un’effettiva formazione filosofica aristotelica. Nel caso in questione, comunque, il titolo dello scritto attribuito ad Aristofane non lascia intendere un’opera di tipo biografico e, perciò, l’argomento della connessione al Peripato tramite questo genere letterario si rivelerebbe piuttosto debole. In ogni caso, data la frammentarietà delle informazioni pervenute sulla vita e sulle opere di Aristofane, non è possibile escludere completamente un qualche legame più concreto con la scuola peripatetica.
[42] Va ricordato che ad Aristofane di Bisanzio è inoltre attribuito un 𝑆𝑢𝑙𝑙𝑒 𝑒𝑡𝑒𝑟𝑒 𝑎𝑡𝑒𝑛𝑖𝑒𝑠𝑖, un catalogo di 135 ἑταῖραι con il quale Ateneo di Naucrati sembra avere avuto una certa dimestichezza (si vd. in part. Aᴛʜᴇɴ. XIII 567a e 583d-e; cfr. 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 347 T 2). In effetti, un’opera del genere sembrerebbe pertinente alla bellezza fisica dell’allieva accademica, soprattutto considerando che Lastenea compare nei 𝐷𝑒𝑖𝑝𝑛𝑜𝑠𝑜𝑝ℎ𝑖𝑠𝑡𝑎𝑒 come ἑταίρα di Speusippo. Ciononostante, una relazione tra il catalogo delle cortigiane e il titolo περὶ ἀλυπίαϲ sembra poco convincente e meramente congetturale.
[43] Sulla vita di Aristofane di Bisanzio, si vd. Mᴏɴᴛᴀɴᴀʀɪ (2002).
[45] Pʜɪʟᴏᴅ. 𝐴𝑑𝑢𝑙. col. 10, 10-16, 38 Jensen. La lettera è attribuita a un certo Aristone, ma senza ulteriori specificazioni, e gli studiosi moderni l’hanno variamente attribuita o ad Aristone di Ceo o quello di Chio; si vd. però Vᴏɢᴛ (2006) per un’attribuzione convincente al primo e per ulteriore bibliografia sulla questione. Sugli argomenti piuttosto deboli addotti a favore dello Stoico nell’ultima edizione di Rᴀɴᴏᴄᴄʜɪᴀ (2007), cfr. Iɴᴅᴇʟʟɪ (2010). In ogni caso, non meraviglierebbe se un’opera di Aristone di Chio fosse stata erroneamente attribuita al filosofo di Ceo in antico: la confusione tra i due omonimi, e quasi contemporanei, iniziò già nel II secolo a.C. (cfr. Dɪᴏɢ. VII 163).
[46] Mᴏɴᴛᴀɴᴀʀɪ (1989, 249-250). Sulla teoria di Ieronimo, si vd. in part. F 20A e 20B White.
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