Ipponatte, un aristocratico con la maschera da pitocco


Tra “poeta maledetto”, mendicante dei bassifondi, protagonista in prima persona delle squallide avventure narrate in autobiografici e virulenti giambi – secolare cliché critico-letterario – e il poeta colto e raffinato, compositore di elaboratissime parodie e satire per eterie aristocratiche riunite a simposio c’è un vero abisso: proprio la programmatica varietas della poesia ipponattea, il suo polimorfo mimetismo linguistico – destinato a essere assunto a emblema del genere dagli Alessandrini – e il raro dono di ritrarre icasticamente scene e dettagli hanno certamente contribuito a scavarlo. Nativo di Efeso, vissuto negli ultimi decenni del VI secolo perlopiù a Clazomene, dove lo esiliarono sgradito i tiranni Atenagora e Coma, Ipponatte fu autore di una cospicua raccolta di componimenti giambici in almeno due libri, di cui restano circa 180 frammenti (oltre 200 con i dubia), inegualmente divisi tra trimetri giambici, tetrametri giambici, tetrametri trocaici, esametri, epodi.

Pittore Pedieo. Una musicista accompagna un simposiasta ubriaco. Pittura vascolare dal tondo di una κύλιξ attica a figure rosse, c. 510 a.C. Paris, Musée du Louvre.

Originale interprete – in chiave giambica – delle istanze di un’aristocrazia antitirannica e minacciata, l’Efesino dedicò i suoi velenosi ritratti d’ambiente a quel δῆμος emergente, che la rivoluzione artigianale e mercantile aveva portato in primo piano, che tiranni – e aspiranti tali – fomentavano e manovravano, talora con l’interessata complicità dell’Impero achemenide (dopo il 546), e che gli antichi γένη aristocratici temevano e detestavano. Proprio il nome del poeta, Ἱππῶναξ, che vale «signore dei cavalli», tradisce un’origine aristocratica: sia il secondo elemento, ἄναξ, sia il riferimento del primo ai cavalli, costoso appannaggio dell’aristocrazia, sono ingredienti caratteristici di nomi nobiliari. A questo proposito, altri fattori confermerebbero l’appartenenza a questa classe sociale. Ci sono infatti frammenti in cui il poeta lamenta la propria povertà e inveisce contro la cecità di Pluto, che non gli ha mai detto (F 36 West, 3-4):

“… δίδωμί τοι μνεας ἀργύρου τριήκοντα

καὶ πόλλ’ ἔτ’ ἄλλα” …

“… Io ti concedo qui trenta mine d’argento

e molto altro ancora”…,

altri in cui supplica Ermes perché gli regali un mantello e dei sandali felpati (F 32 West, 4-6):

δὸς χλαῖναν Ἱππώνακτι καὶ κυπασσίσκον

καὶ σαμβαλίσκα κἀσκερίσκα καὶ χρυσοῦ

στατῆρας ἑξήκοντα τοὐτέρου τοίχου.

Da’ un mantello a Ipponatte e una tunichetta,

sandaletti e pantofoline e sessanta stateri

d’oro puro metti dell’altra parte;

altri in cui si dichiara tormentato dal freddo e dai geloni ai piedi (cfr. F 34 West): tutto questo e il fatto che il suo lessico sia spesso attinto al parlare quotidiano e incline all’oscenità hanno indotto gli studiosi a vedere in Ipponatte la tipica figura del «nobile decaduto», con la mano sempre tesa a elemosinare. Per contro, la critica più recente (Degani) ha messo luce come l’elemento «popolare» e i contenuti volgari vadano ricondotti alle convenzioni del genere giambico. Tra le norme e i ruoli tipici c’è infatti «la maschera» del miserabile intirizzito dal freddo e morto di fame. Se questa precisazione costituisce un salutare correttivo alla vecchia immagine del poeta autobiograficamente pitocco, analogamente al caso di Archiloco, non si deve arrivare a escludere che il riconoscimento di un «io» mimetico-drammatico (per cui il poeta assume la posa del miserabile) riduca a semplici invenzioni fittizie le figurazioni e le vicende che affiorano in diversi frammenti.

Fyodor Bronnikov, Mendicante romano. Olio su tela, 1855. Collezione privata.jpeg

Un mondo di artigiani, commercianti, osti, indovini, prostitute, ladri, truffatori, e soprattutto artisti emergenti, quali gli scultori Bupalo e Atenide, il loro collega Bione, il pittore Mimne, il vasaio Eschilide, il musico e guaritore Cicone, i suoi accoliti Codalo e Babi, l’affamato pitocco Sanno, il crapulone Eurimedontiade e, infine, Arete.

Maestro dell’insulto, dell’escrologia, del violento attacco personale, Ipponatte riempì la propria poesia simposiale di furti, aggressioni, violenze, sesso a volontà, e la propria lingua di immagini colorite, di paragoni animaleschi, di metafore popolari rivisitate, di proverbi e formule magiche, di parole gergali o straniere opportunamente “tradotte” e spiegate, di esilaranti parodie dell’ἔπος, di roboanti neoformazioni. Queste molteplici capacità espressive, il tono divertito e irriverente, l’amore per il paradosso e il rifiuto del páthos fecero di Ipponatte il precursore della commedia e poi della disincantata poesia alessandrina.

D’altronde, come ha assai opportunamente evidenziato Enzo Degani, il tratto fortemente innovativo della produzione ipponattea consiste proprio nell’uso della lingua: la patina dialettale che riveste i suoi componimenti è lo ionico d’Asia, ma il poeta sa far propri elementi linguistici di altre aree geografiche e addirittura di parlate non greche; così si trovano impiegati vocaboli nuovi, numerosi termini altrimenti attestati (hápax legómena), parole composte. Proprio per queste sue caratteristiche la produzione di Ipponatte fu oggetto di frequenti citazioni da parte di grammatici, lessicografi ed eruditi dei secoli successivi, che hanno conservato in questo modo molti suoi frammenti.

Pittore della fonderia. Un fabbro e il suo servo alla fornace. Pittura vascolare a una κύλιξ attica a figure rosse, c. 490-480 a.C. da Vulci. Berlin, Antikensammlung.

Tra le vittime del “biasimo giambico” caddero i fratelli scultori Bupalo e Atenide, che avrebbero realizzato un ritratto caricaturale del poeta e che questi con una serie di violentissime invettive avrebbe indotto al suicidio per impiccagione. Con Bupalo, soprattutto, Ipponatte sarebbe entrato in rivalità per una certa Arete, donna di molto liberi costumi; e come Archiloco nel celebre Epodo di Colonia aveva rievocato a denigrazione di Neobule la propria scappatella con la di lei sorella minore, così Ipponatte raccontava del suo incontro notturno con Arete (F 13-14, 16-17 West):

ἐκ πελλίδος πίνοντες· οὐ γὰρ ἦν αὐτῆι

κύλιξ, ὁ παῖς γὰρ ἐμπεσὼν κατήραξε,

bevendo essi dal secchio: lei non aveva

una coppa, perché il servo, cadutovi sopra, l’aveva frantumata,

ἐκ δὲ τῆς πέλλης

ἔπινον· ἄλλοτ’ αὐτός, ἄλλοτ’ Ἀρήτη

προύπινεν.

                      dal secchio

bevevano: una volta era lui, l’altra Arete

a fare il brindisi.

ἐγὼ δὲ δεξιῶι παρ’ Ἀρήτην

κνεφαῖος ἐλθὼν ‘ρωιδιῶι κατηυλίσθην.

Ed io, giunto da Arete di notte,

mentre un airone volava da destra, vi piantai il campo.

κύψασα γάρ μοι πρὸς τὸ λύχνον Ἀρήτη

Chinatasi infatti su di me, a lume di lucerna, Arete…

Quello ritratto da Ipponatte è uno sgangherato simposio, focalizzato su un «secchio per mungitura» (πελλίς), termine che attirò l’attenzione dei testimoni antichi (Ath. XI 495c-d; Eust. ad Od. V 244, 1531, 53 ss.) e che qui sostituisce la coppa (κύλιξ) di una inusuale simposiasta, probabilmente l’impudica Arete, inopinatamente fracassata da un servo (παῖς) cadutovi sopra; si tratta forse di un giovane amante con cui la donna si sarebbe intrattenuta (?). Clima ebbro, gesti goffi e volgari – forse favoriti da prolungate bevute – costituiscono l’orizzonte privilegiato della poesia ipponattea, vasto repertorio di trovate comiche cui attingeranno i poeti di ogni tempo: il gioco sulla «coppa», anzi sul «secchio», sarà mutuato da Aristofane (Th. 633) e dal giambografo ellenistico Fenice di Colofone (F 4, 3; 5, 1-2 Pow.), mentre il motivo del servo che rompe il calice si diffonderà nella poesia latina, da Mazio (F 11, 2 Blänsdorf), a Orazio (Sat. II 8, 72; 81), a Petronio (52).

Pittore della Forgia. Un’etera urina in uno σκύφος. Pittura vascolare dal tondo di una κύλιξ attica a figure rosse, c. 480 a.C. Berlin, Antikensammlung.

Ecco l’arrivo improvviso del poeta, giunto per un’erotica visita notturna, ironicamente propiziata da fausti, omerici auspici: un «airone» (l’ἐρῳδιός, su cui si sofferma il grammatico Erodiano, GG III/1 116, 21-117, 3; III/2 924, 12-19, testimone principale del frammento), che vola da destra, come quello che annunciò il successo, nell’iliadica “Doloneia” (Il. X 274-276), a Odisseo e Diomede; e la notte, che serve a «piantare la tenda» (v. 2) dalla solita Arete, donna rotta a esperienze sessuali di ogni tipo. In questo triviale contesto Ipponatte riprende la nobile equazione fra eros e guerra, che precorre l’immaginario della lirica greca.

La continuazione dell’incontro furtivo – segnalata dalla ripresa del nome della donna – coglie al chiarore di una lucerna la stessa disponibile Arete curva sull’io parlante nella posizione della fellatrix di archilochea memoria (cfr. F 42 West): che il contesto fosse quello di una fellatio pare garantito dal parallelo archilocheo e dalle occorrenze erotiche del verbo κύπτειν («curvarsi», «chinarsi sopra», «mettersi a testa in giù»), tanto realistico. Topica spettatrice di appassionati convegni amorosi diverrà poi la lucerna in commedia (cfr. Aristoph. Ec. 7-13; Adesp. Com. F 724, 1 K.-A.) e soprattutto nella poesia epigrammatica (cfr. AP V 4-5; 7-8; 128; Hor. Sat. II 7, 48; Mart. X 38, 7; XIV 39).

Pur nella grave lacunosità del testo si coglie un’inclinazione a ritrarre per istantanee puntuali, in una progressione di dettagli che costituiscono (o, piuttosto, demoliscono) una figura femminile che certo appare tipizzata nel ruolo della donna incontinente – così nel bere come nell’eros –, ma che doveva riuscire tanto più godibile al gruppo degli ascoltatori partecipi al simposio, in quanto attratta nell’orbita di un «effetto di verità» che il narratore intendeva conseguire, sfruttando nomi, cose, situazioni appartenenti al concreto loro ambito sociale. In altre parole, udendo il nome di Arete il pubblico di Ipponatte doveva riconoscere la deformazione grottesca (la “caricatura”) di un personaggio noto dalla realtà.

Pittore Kleophrades. Incontri galanti tra etere e clienti. Pittura vascolare da un’ὑδρία attica a figure rosse, c. 490 a.C. Berlin, Staatliche Antikensammlungen.

Non meno che nell’episodio dell’incontro notturno con Arete che altrove Ipponatte si rivela un artista della narrativa osée, quasi boccaccesca, ben più portato dello stesso Archiloco all’oscenità spregiudicata. Così nel F 84 West viene rievocato un altro, frettoloso, convegno, scandito da morsi e baci e bruscamente interrotto dal sopraggiungere del rivale Bupalo, che caccia il poeta sul più bello. Nei frammenti riferibili al litigio con l’odiato scultore si avverte tutta la rabbia del poeta (F 120-121 West):

λάβετέ μεο ταἰμάτια, κόψω Βουπάλωι τὸν ὀφθαλμόν.

ἀμφιδέξιος γάρ εἰμι κοὐκ ἁμαρτάνω κόπτων.

Tenetemi il mantello, pesterò l’occhio a Bupalo.

Infatti, sono ambidestro e non sbaglio, se picchio.

Putroppo, la millantata abilità dello sfidante è destinata, di lì a poco, a sgonfiarsi in una malinconica constatazione (F 73 West, 4-5):

οἱ δέ μεο ὀδόντες

ἐν ταῖς γνάθοισι πάντες ‹ἐκ›κεκινέαται.

tutti i denti

mi ballano sulle gengive.

Anche in questo caso, il linguaggio, in apparenza sboccato e plebeo, dell’aggressione ad personam, degno di una rissa da osteria, rivela aristocratiche reminiscenze letterarie; esso ha infatti un precedente illustre nell’epica omerica e riecheggia le parole millantatrici con cui il mendicante Iro sfidò Odisseo, scambiato per un rivale nell’accattonaggio, uscendo poi dallo scontro con le ossa rotte. Anzi, il rapporto di Ipponatte con l’archetipo è così evidente da indurre alcuni studiosi a supporre che l’intento parodistico del passo omerico sia stato suggerito al poeta proprio dall’ascolto recente di una recitazione agonale di rapsodi (Od. XVIII 27-29): … ὃν ἂν κακὰ μητισαίμην / κόπτων ἀμφοτέρῃσι, χαμαὶ δέ κε πάντας ὀδόντας / γναθμῶν ἐξελάσαιμι συὸς ὣς ληϊβοτείρης («… io potrei conciarlo male, / colpendolo con ambo le mani, e fargli cadere tutti i denti / dalle mascelle, come quelli di una scrofa che rovina i raccolti»).

Pittore Epitteto. Lotta fra due pugili. Pittura vascolare dal fondo di una κύλιξ attica a figure rosse, c. 520 a.C. ca. London, British Museum.

Talvolta l’invettiva abbandona gli ambiti propriamente letterari per collegarsi alle pratiche di purificazione, che ogni comunità effettua con scadenze regolari. Dai resti del F 92 West si vede ricostruito un rituale magico eseguito con una sferza di fico battuta sui genitali dell’«io» narrante a opera di una donna lidia nello sconfortante scenario di una latrina. Altrove, il poeta mostra l’abitudine di apostrofare l’avversario con l’appellativo infamante di φαρμακός («avvelenatore di città», «liberatore dai mali»), connesso con φάρμακον («veleno», «rimedio», «farmaco»): nelle città ioniche si trattava di un individuo, scelto annualmente, in genere tra le persone più umili ed emarginate (servi, criminali, straccioni, soggetti affetti da deformità, ecc.), che veniva allontanato dalla comunità cittadina nel corso di rituali più o meno violenti, che potevano portare alla morte; la cerimonia apotropaica prevedeva che il malcapitato, dopo essere stato percosso con rami di fico e mazzi di cipolle (σκίλλαι) in una processione lungo le strade della città, fosse da ultimo lapidato o bruciato vivo, o meno crudamente espulso dalla città. In tal modo, si riteneva di allontanare, insieme con il “capro espiatorio”, le sventure che avrebbero potuto abbattersi sulla società intera. Augurare a un cittadino di fare la fine del φαρμακός equivale, insomma, ad assimilarlo a un individuo della peggiore specie, destinato a una fine violenta. Così, infatti, la frasca di fico (κράδη) è un emblema ricorrente in Ipponatte in connessione con il rito del capro espiatorio, a cui si riferisce una serie di frammenti (F 5-10 West), appartenenti forse a componimenti diversi, ma citati insieme dall’erudito Giovanni Tzetze (Tz. Chil. V 728 ss.):

πόλιν καθαίρειν καὶ κράδηισι βάλλεσθαι.

Purificare la città e farsi battere con frasche di fico.

βάλλοντες ἐν χειμῶνι καὶ ῥαπίζοντες

κράδηισι καὶ σκίλληισιν ὥσπερ φαρμακόν.

Battendolo in un prato e con frasche

di fico e di cipolle, come un capro espiatorio.

δεῖ δ’ αὐτὸν ἐς φαρμακὸν ἐκποιήσασθαι.

Bisogna renderlo un capro espiatorio.

κἀφῆι παρέξειν ἰσχάδας τε καὶ μᾶζαν

καὶ τυρόν, οἷον ἐσθίουσι φαρμακοί.

E alla sua mano porgere fichi secchi e focaccia

e cacio, quale mangiano i capri espiatori.

πάλαι γὰρ αὐτοὺς προσδέκονται χάσκοντες

κράδας ἔχοντες ὡς ἔχουσι φαρμακοῖς.

Da molto tempo, infatti, li aspettano a bocca aperta

con frasche di fico, come le hanno per i capri espiatori.

… λιμῶι γένηται ξηρός· ἐν δὲ τῶι θύμωι

φαρμακὸς ἀχθεὶς ἑπτάκις ῥαπισθείη.

… che rinsecchisca per la fame; e nell’anima,

portato via qual capro espiatorio, sette volte lo si sferzi.

Pittore di Pan. Pan che insegue un capraio. Pittura vascolare da un cratere a campana a figure rosse, c. 470 a.C. Boston, Museum of Fine Arts.

Oltre che ritrattista di figure in azione Ipponatte è anche maestro dell’immagine bloccata, con personaggi fissati in tratti fisiognomici che denunciano il vizio che si cela in loro, come nell’epodo dedicato all’ingordo Sanno (F 118 West, 1-9):

ὦ Σάνν’, ἐπειδὴ ῥῖνα θεό[συλιν φύ]εις,

καὶ γαστρὸς οὐ κατακρα[τεῖς,

λαιμᾶι δέ σοι τὸ χεῖλος ὡς ἐρωιδιοῦ

[ ]

τοὖς μοι παράσχες [ ]

σύν τοί τι βουλεῦσαι θέ[λω.

(. . . .)

τοὺς] βρα[χίονας

καὶ τὸ]ν τράχ[ηλον ἔφθισαι,

κα[τεσθίεις δέ·] μ̣ή σε γαστρίη [λάβηι

O Sanno, poiché quel naso empio coltivi

e il ventre non sai dominare,

e il tuo labbro è ingordo come il becco di un airone

. . . .

Porgimi l’orecchio…

Ti voglio dare un consiglio.

. . . .

Nelle braccia

e nel collo sei rovinato,

eppur ti ingozzi: attento che non ti prenda una colica…

Pittore della Gigantomachia di Parigi. Scena simposiale. Pittura vascolare dal tondo di una κύλιξ attica a figure rosse, c. 490-480 a.C. da Vulci. London, British Museum.

La caricatura e la satira possono sfociare nell’invettiva senza mezze misure in quel primo Epodo di Strasburgo (F 115 West) di pur controversa autenticità, che appare tanto violento nell’augurio di un impietoso naufragio a un traditore (un προπεμπτικόν alla rovescia lo definiva Perrotta) quanto letterariamente cosciente nella sottile ripresa di un celebre brano odissiaco (Od. VI 226 ss.):

.[

η[

π.[ ]ν[…]….[

κύμ[ατι] πλα[ζόμ]ενος

κἀν Σαλμυδ[ησσ]ῶ̣ι̣ γυμνὸν εὐφρονέσ[τατα

Θρήϊκες ἀκρό[κ]ομοι

λάβοιεν ‑ ἔνθα πόλλ’ ἀναπλήσαι κακὰ

δούλιον ἄρτον ἔδων ‑

ῥίγει πεπηγότ’ αὐτόν· ἐκ δὲ τοῦ χνόου

φυκία πόλλ’ ἐπέ̣χοι,

κροτέοι δ’ ὀδόντας, ὡς [κ]ύ̣ων ἐπὶ στόμα

κείμενος ἀκρασίηι

ἄκρον παρὰ ῥηγμῖνι κυμαντῷ ˘ x

ταῦτ’ ἐθέλοιμ’ ἂ̣ν ἰδεῖ̣ν,

ὅς μ’ ἠδίκησε, λ̣[ὰ]ξ δ’ ἐπ’ ὁρκίοις ἔβη,

τὸ πρὶν ἑταῖρος [ἐ]ών.

. . . .

. . . .

sbattuto dalle onde

e nudo in Salmidesso con somma gentilezza

i Traci dalle alte chiome

lo accolgano – là patirà molti mali,

mangiando pane da servo –,

lui, intirizzito dal gelo! E fuori dalla schiuma

molte alghe lo ricoprano,

batta i denti, giacendo riverso

come un cane per sfinimento

sul limitare della battigia…

vorrei che vivesse queste pene,

lui, che mi fece torto, che calpestò i giuramenti,

che in passato mi fu compagno.

Pittore delle Sirene. Odisseo e le Sirene. Pittura vascolare da uno στάμνος attico a figure rosse, 480-470 a.C. ca. da Vulci. London, British Museum.

Non stupisce allora se questo poeta, che aveva al suo arco tanto le frecce della finzione plebeo-satirica quanto quelle del lusus letterario, fosse considerato dagli antichi come l’inventore (il πρῶτος εὑρετής) del genere della parodia letteraria, di cui si possiede un esempio negli esametri del F 128 West:

Μοῦσά μοι Εὐρυμεδοντιάδεα τὴν ποντοχάρυβδιν,

τὴν ἐν γαστρὶ μάχαιραν, ὃς ἐσθίει οὐ κατὰ κόσμον,

ἔννεφ’, ὅπως ψηφῖδι ‹κακῇ › κακὸν οἶτον ὀλεῖται

βουλῆι δημοσίηι παρὰ θῖν’ ἁλὸς ἀτρυγέτοιο.

Musa, dell’Eurimedontiade, Cariddi che divora l’oceano,

la lama-in-pancia di quel mangione senza ritegno

dimmi, sì che per malo suffragio di mala morte perisca,

per volontà del popolo, lungo la riva del mare infecondo!

Pittore di Cadmo. Eracle e Dioniso a banchetto. Pittura vascolare da una πελίκη attica a figure rosse, c. fine V sec. a.C. London, British Museum.

Il ritratto grottesco di un ghiottone volgare, dal patronimico e dagli epiteti altisonanti, ma destinato a una misera fine, dà libero sfogo all’invettiva linguistica di Ipponatte, i cui interminabili e mirabolanti composti, ovviamente nuovi di zecca, insegneranno schemi compositivi ben precisi al rutilante lessico comico. Espressa in esametri eroici e chiaramente memore, con la sua risibilmente solenne invocazione alla Musa, l’esquisse di questo misterioso cialtrone rappresenta altresì il primo chiaro esempio di poesia parodica; è proprio per questo che il testimone, Polemone di Ilio (F 45 Preller), cita questi quattro versi. La contaminazione dei celeberrimi incipit dell’Iliade e dell’Odissea introduce solennemente non già l’epica ira di un Pelide, o l’instancabile e variegata mobilità di un Laertiade, ma la «Cariddi che divora l’oceano» (ποντοχάρυβδιν) e il ventre ben fornito di un coltellaccio trincia-tutto (ἐν γαστρὶ μάχαιραν) di un non meglio precisato Eurimedontiade (sotto le cui fattezze qualcuno ha voluto riconoscere l’ombra del solito Bupalo), le cui assunzioni di cibo, di conseguenza, non sono precisamente ispirate al decoro e all’etichetta. L’allure parodicamente solenne dell’invocazione alla Musa è acuita dall’iperbato del verbo, «narrami», che occorre solo nell’incipit del v. 3, dove l’iperbolica descrizione satirica, attraverso lo snodo dell’invocazione, cede il posto alla giambica maledizione. Ed è quanto mai significativo che la rovina dell’ignobile personaggio – espulso come l’ennesimo capro espiatorio – sia auspicata con un voto negativo, chiasticamente accostato a una «mala morte» che esso determina, e con una «deliberazione popolare», quasi a sottolineare come sia per le scelte del popolo che gli odiosi parvenu del popolo precipitano infine nella fame e nella miseria, «lungo la riva del mare infecondo», epico confine e pietra tombale dello sconfinato stomaco dell’Eurimedontiade.

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M.L. West, Studies in Greek Elegy and Iambus, Berlin-New York 1974.

Chi è Elena?

Elena, nell’immaginario comune, è la donna infedele. È colei che non ha esitato ad abbandonare il marito, la casa e la famiglia, per gettarsi in una vicenda d’amore extra-coniugale irrispettosa di tutto e di tutti, al punto da causare una guerra. Non una guerra qualsiasi, ma la progenitrice epica di tutte le guerre, che ha visto contrapposti gli eserciti di tutto il mondo egeo. È facile etichettare così il personaggio di Elena: una donna bellissima, in grado di stregare ogni uomo, ma portatrice anche di guai e di sventure. Purtroppo, o per fortuna, Omero non rende il giudizio così semplice: l’Elena che ha saputo affrontare e violare ogni convenzione etica e tradizionale per fuggire con l’uomo che ama, viene rappresentata a Troia intenta alle stesse attività praticate dalle altre donne che non hanno mai lasciato il focolare; anche lei, come le altre spose d’eroi, tesse la tela. C’è qualcosa di molto stonato rispetto al ritratto di femme fatale che sembrava essere stato delineato fin dall’inizio.

Ma il vero colpo di scena deve ancora arrivare: Elena viene raggiunta da Iris, la dea dell’arcobaleno, messaggera degli dèi, che le annuncia che suo marito, Menelao, re di Sparta, tradito e furibondo, è in procinto di affrontare in duello il suo amante, Paride Alessandro. Lei, Elena, è il trofeo in palio per il vincitore della contesa. Altro che libertà, altro che padrona del proprio destino!

Pittore di Stoccolma 1999. Elena e Paride. Lato A di un cratere a campana apulo a figure rosse, c. 380-370 a.C. da Taranto. Paris, Musée du Louvre.

La donna, a quel punto, si lascia andare a un sentimento davvero imprevedibile per la seduttrice disinibita che il lettore moderno presumeva di conoscere: Ὣς εἰποῦσα θεὰ γλυκὺν ἵμερον ἔμβαλε θυμῷ / ἀνδρός τε προτέρου καὶ ἄστεος ἠδὲ τοκήων· / αὐτίκα δ’ ἀργεννῇσι καλυψαμένη ὀθόνῃσιν / ὁρμᾶτ’ ἐκ θαλάμοιο τέρεν κατὰ δάκρυ χέουσα (Il. III 139-142, «Così dicendo la dea le ispirava nel cuore desiderio struggente / del marito di prima, della sua città, dei suoi genitori; subito, copertasi con un velo di bianchezza splendente, / si slanciò fuori della stanza, versando una tenera lacrima»).

Allora Elena ha una coscienza, si rende conto di quello che ha fatto, capisce, infine, che la libertà – sempre che sia riuscita a ottenerla – impone un prezzo molto alto: la rinuncia alla comodità, alle sicurezze, agli affetti e alle cose care. Certo, ci potrebbe essere il conforto della bellezza di Paride e del suo coraggio, che Elena spera dimostri contro il terribile Menelao. E, invece, Paride fugge, lasciando il suo elmo in mano all’avversario; anzi no, si dilegua, protetto da una provvidenziale nebbia divina! Adesso l’amante aspetta Elena a letto per fare l’amore. Quel letto, unico campo di battaglia dove il suo amato sembra riuscire a sfoggiare talento e ardimento! Ma, allora, chi è Elena? Una donna senza scrupoli e pudore, o una donna in cerca della libertà e della felicità?

Sorge perfino qualche dubbio sul suo matrimonio con il re di Sparta; perché Menelao, il cui nome significa «repressore del popolo» (da μένειν, «restare», «rimanere», e λαός, «popolo»), sembra in grado di apprezzare soltanto la bellezza fisica della sua sposa. Il dubbio, dunque, persiste, e l’aedo iliadico non fa nulla per dissiparlo. Chi è Elena?

Pittore di Brygos. Menelao ed Elena. Pittura vascolare su una λήκυθος attica a figure rosse, c. 480 a.C. da Armento. Berlin, Altes Museum.

L’Encomio di Elena di Gorgia da Leontini (c. 483-380 a.C.) cerca di scagionare totalmente la donna dall’accusa di aver provocato la guerra. Seguendo la struttura di un’orazione giudiziaria (proemio, esordio, esposizione, confutazione, ricapitolazione, epilogo), l’autore assume la difesa della celeberrima eroina; nel corso della trattazione compaiono anche interessanti annotazioni sulla poesia, che viene considerata affine alla retorica per la capacità di coinvolgere emotivamente ascoltatori e lettori. Partendo dal presupposto che Elena aveva agito sotto l’influenza di una forza più grande di lei, la volontà di Afrodite, ovvero la capacità persuasiva del λόγος, il sofista dimostra la completa innocenza del personaggio.

Dopo averla già eletta a personaggio delle Troiane, Euripide di Atene (c. 486-406 a.C.) dedica un intero dramma a Elena. Accusata dalle donne di Troia di essere la causa, con il suo comportamento, della morte dei loro uomini e della distruzione della loro città, nella tragedia del 415 l’eroina si difende, addossando la responsabilità della guerra a Paride e alla madre di lui, Ecuba, colpevole di aver generato l’uomo di cui si era innamorata. La moglie di Priamo reagisce fino a indurre Elena a chiedere il perdono a Menelao. Nella tragedia del 412, invece, Euripide propone un ritratto della regina spartana completamente diverso: nella sua Elena il tragediografo adotta la versione del mito secondo cui la traditrice, quella fuggita con Paride, sarebbe stata solo un fantasma. Elena avrebbe dovuto essere il premio per un concorso di bellezza, che Paride aveva vinto, ma la dea Hera – adirata con lui – aveva dato al Priamide un simulacro, un fantasma appunto, mettendo al sicuro la vera Elena in Egitto. Ma anche qui il fascino della donna aveva creato problemi: il mite e pio re Proteo, al quale la donna era stata affidata dalla dea, muore e il successore, il figlio Teoclimeno, si innamora della regina di Sparta. Ella, tuttavia, fedele a Menelao, non abbandona mai lo spazio sacro della tomba di Proteo, per evitare che Teoclimeno la importuni. Arriva in Egitto Teucro, fratello di Aiace, che, dopo averla riconosciuta, non senza grande stupore, aggiorna la donna sugli ultimi sviluppi della guerra di Troia: la città è stata presa a distrutta e Menelao ha trascinato in patria il fantasma di Elena, convinto che si tratti davvero della sposa infedele. Infine, giunge in Egitto pure Menelao, con al seguito la regina-simulacro, che si dissolve non appena l’Atride incontra la vera sposa. A questo punto i due devono fuggire dall’Egitto senza incorrere nelle ire dello spasimante Teoclimeno: allora, Elena comunica al re egizio la falsa notizia che l’antico sposo è scomparso, ottenendo il permesso di celebrarne in mare i funerali; al largo, l’Atride la attende su una nave, travestito da semplice marinaio. Finalmente i due possono ritornare a Sparta.

Pittore di Menelao. Il tentativo di vendetta di Menelao. Pittura vascolare su un cratere attico a figure rosse, c. 450-440 a.C. da Egnazia. Paris, Musée du Louvre.

Con quest’opera Euripide mostra che tutta la guerra di Troia non è stata altro che un grande inganno, uno scontro sanguinosissimo, che ha provocato la morte di tanti e ha seminato distruzione senza alcuno scopo e senza alcun senso, se non le allucinazioni a cui vanno soggetti gli uomini. Mentre Menelao si batteva con accanimento per difendere il proprio onore, sua moglie, ritenuta a torto infedele, stava in Egitto, dall’altra parte del mondo allora conosciuto.

La versione “alternativa” di Elena che ripara in Egitto è stato ripreso, nel 1928, dal poeta e drammaturgo austriaco Hugo von Hofmannsthal nella sua Elena egizia, libretto di un’opera lirica composta da Richard Strauss. Nato a Vienna nel 1874, von Hofmannsthal fu testimone degli ultimi anni dell’Impero asburgico e poi del suo crollo, della Grande guerra e della nascita dell’Austria repubblicana. Morì nel 1929, prima che la sua nazione fosse fagocitata dal Terzo Reich hitleriano. Von Hofmannsthal fu, con la sua opera, un sostenitore della creazione di una cultura comune a tutta l’Europa, per lo scrittore unico strumento valido a scongiurare lo scatenarsi di un nuovo conflitto mondiale.

Gustave Moreau, Elena in gloria. Acquarello.

La sua Elena egizia si apre con Menelao che, distrutta Troia, riporta a Sparta la propria sposa. Il re è deciso a uccidere la fedifraga per vendicarsi della sua infedeltà, ma una tempesta, scatenata dalla ninfa Etra, che intende salvare la donna, fa affondare la nave; l’Atride salva a nuoto sé stesso ed Elena e approda sull’isola di Etra. Qui Menelao riprende i propri propositi uxoricidi, ma la ninfa interviene ancora, chiamando gli Elfi e chiedendo loro di fare un gran rumore; in questo modo, si ricreano i clamori della battaglia, distraendo il re e inducendolo a credere di essere ancora sotto le mura di Ilio (da notare come Hofmannsthal non esiti a introdurre nel mito greco personaggi della mitologia norrena). Menelao, convinto ancora di essere in guerra, si precipita fuori dal palazzo, dove crede di vedere Paride ed Elena insieme e di ucciderli; tornato all’interno della reggia, però, con grande stupore si trova davanti la vera moglie, che chiede a Etra di essere portata insieme al marito in un luogo dove possano dimenticare tutti i tristi fatti che li hanno visti protagonisti. La ninfa fa bere al re di Sparta un filtro che gli provoca oblio, inducendolo a desistere dalle sue idee di vendetta, e i due sposi si ritrovano in Egitto.

Se Euripide e Hofmannsthal riprendono, entrambi, il motivo della giovane Elena, dal fascino irresistibile, il poeta e scrittore greco Ghiannis Ritsos (1909-1990) propone un punto di vista completamente diverso. Nella sua opera l’autore offre un ritratto della donna segnato dal passare del tempo, che lascia tracce indelebili sia sul suo aspetto sia nel suo spirito. Ritsos è considerato uno dei maggiori poeti ellenici del XX secolo e si è distinto, oltre che per la sua arte, anche per l’impegno politico, che l’ha visto prima nelle fila della resistenza contro l’invasione nazifascista della Seconda guerra mondiale, poi incarcerato durante il regime dei Colonnelli (1967-1974). Ritsos compose la sua Elena nel 1970 e, nel raffigurare una donna ormai anziana, rivisita un tema già caro ai filosofi e ai poeti della Roma imperiale: Elena, come qualsiasi altro essere vivente, è destinata a recare sulla propria persona i segni del tempo; anche di lei non resterà che un cranio perso in un mucchio d’ossa, come la descriveva Luciano di Samosata nei Dialoghi dei morti (18); anche Marco Aurelio parlava di lei come di «un’animuccia che trascina un cadavere».

«Vecchia ubriaca». Statua, marmo, copia romana da un originale greco del II sec. a.C. attribuita a Mirone. Roma, Musei Capitolini.

Ritsos riprende questo motivo e presenta Elena chiusa nella stanza di un ospizio, in bilico fra un presente fatto di acciacchi, demenza senile e semi-infermità e un passato testimoniato da tanti oggetti e da molti ricordi: la collana ricevuta da Micene dopo l’uccisione di Clitemnestra, le lettere degli ammiratori, i nomi e le immagini degli eroi achei (soggetti, peraltro, alle frequenti amnesie di una vecchia malata). Anche Menelao è stato ormai portato via dal tempo, dopo aver passato gli ultimi anni della sua vita insieme con Elena, a contemplare il bottino di tante guerre accumulato nella loro dimora. Il presente di Elena è fatto di solitudine e di conflitto, con le ancelle che la detestano, la derubano dei suoi tesori e la curano in modo negligente, truccandola malamente, forti della sua debolezza. In questo quadro, la morte giunge come una liberazione: ancora una volta, le serve se ne approfitteranno, portandole via tutto ciò che potranno. L’Elena di Ritsos, composta in pieno regime militare, sembra essere un’allegoria del passato e del presente della Grecia: una Grecia epica, quella omerica, della quale al tempo dello scrittore non sopravvivono che ricordi e oggetti, persi in una dimensione polverosa, volgare e prosaica. Da quel presente asfittico, l’eroe può essere liberato solo mediante la morte.

Ate (Ἄτη) nell’Iliade

Eric Robertson Dodds analizza il concetto di ate, definendola «tentazione o infatuazione divina»; a causa dell’ate mandatagli da Zeus, Agamennone si rifece della perdita di Criseide, portando via ad Achille Briseide. Ate designa la sventura che si abbatte sull’uomo, ma anche l’accecamento che induce l’individuo in errore. Per gli antichi Greci l’uomo è infatti sotto l’influenza di forze superiori, che oscurano il suo giudizio tanto da spingerlo a commettere azioni che in condizioni normali condannerebbe. Pertanto, egli è per un certo verso colpevole ma per un altro vittima di uno sventurato destino.

Pittore di Dario. I funerali di Patroclo. Dettaglio: la libagione di Agamennone sulla pira funebre. Pittura vascolare a figure rosse su un cratere apulo, c. 330 a.C.

“Cominciamo con il considerare la tentazione o infatuazione divina (ἄτη) che indusse Agamennone a rifarsi della perdita della propria concubina, portando via ad Achille la sua. «Ma il colpevole non sono io – dichiarava più tardi –, bensì Zeus e la Moira e l’Erinni che vaga nelle tenebre, che cieca follia (ἄτη) m’ispirarono nell’assemblea, quel giorno in cui strappai ad Achille il suo premio, arbitrariamente. Ma che potevo fare? È un dio che manda a effetto tutte le cose!» (Il. XIX 86-90). Dall’impaziente lettore moderno queste parole di Agamennone sono state talvolta troppo frettolosamente liquidate come debole pretesto per sottrarsi alle proprie responsabilità; non però, credo, da chi legga con attenzione. Evasione di responsabilità, in senso giuridico, sicuramente non c’è, poiché alla fine del suo discorso Agamennone offre un indennizzo così motivato: «Non potevo scordarmi di Ate, che all’inizio m’aveva accecato! Ma dato che fui accecato e il senno mi tolse Zeus, in cambio voglio placarti e darti compensi infiniti» (Il. XIX 136-138). Se avesse agito di volontà propria, non avrebbe tanto facilmente riconosciuto il suo torto; così come stanno le cose, pagherà per le sue azioni. Dal punto di vista giuridico, la sua posizione sarebbe stata la stessa nell’un caso e nell’altro, perché la giustizia greca primitiva non tiene conto dell’intenzione: solo dell’azione importa. Né Agamennone inventa, poco onestamente, un alibi morale; infatti, la vittima stessa della sua azione vede le cose allo stesso modo: «Padre Zeus, tu ispiri agli uomini grandi follie (ἄται): altrimenti mai l’Atride m’avrebbe sconvolto del tutto il cuore nel petto, né avrebbe preso implacabile contro la mia volontà la ragazza» (Il. XIX 270-273). Credete forse che Achille, con molto tatto, accetti una finzione allo scopo di salvare la faccia al Gran Re? Non è così: già nel libro I, spiegando il caso a Teti, Achille parlava della condotta di Agamennone come della sua ἄτη (Il. I 412), e nel libro IX esclamava: «Ma se ne vada tranquillo in malora: infatti, il prudente Zeus gli ha tolto il senno!» (Il. IX 376-377). Come si vede, questo è il punto di vista di Achille, non meno che di Agamennone, e le famose parole che preludono il racconto dell’ira, «compiendosi il volere di Zeus» (Il. I 5), lasciano chiaramente intendere che il poeta era della stessa opinione. Se questo fosse il solo episodio così singolarmente interpretato dai personaggi di Omero, potremmo avere dei dubbi circa le intenzioni del poeta: sospettarlo, per esempio, di voler conservare ad Agamennone, almeno in parte, le simpatie degli ascoltatori, o di voler conferire un senso più profondo della lite poco dignitosa dei due capi, presentandola come una mossa nell’attuazione di un disegno divino. Queste spiegazioni non valgono però per altri passi, dov’è detto che «gli dèi» o «qualche dio», o Zeus, hanno momentaneamente «portato via» o «distrutto» o «ammaliato» il senno di un essere umano”.

da E.R. Dodds, I greci e l’irrazionale, Firenze 1959, 3-5.

Il Preludio del cerilo (PMGF 26)

A giudicare dal metro – l’esametro dattilico – questo frammento, che è forse il più noto di Alcmane, doveva provenire da un προοίμιον citarodico, ovvero da un assolo eseguito dal χοροδιδάσκαλος, che fungeva da introduzione al partenio. Rivolgendosi al coro delle fanciulle, l’esecutore maschile (il poeta stesso?) lamenta la debolezza fisica che gli impedisce di unirsi alle fanciulle in danza, rimpiangendo di non possedere più lo stesso vigore di un tempo e vagheggia di trasformarsi nel «sacro uccello colore di mare», il cerilo, che volteggia sul fiore dell’onda insieme con le femmine, le alcioni. Questa la lettura più credibile del testo di Alcmane, sulla cui interpretazione ha gravato la fantasiosa notizia del paradossografo e teratologo ellenistico Antigono di Caristo (Libro delle meraviglie, 23 ss.), il testimone principale, che cita questi versi per suffragare una tradizione secondo la quale il cerilo, l’alcione maschio, quando per la vecchiaia perde le forze e non riesce più a volare, viene preso sulle ali e trasportato a volo dalle femmine. Interpretazione piuttosto bislacca, in quanto qui il cerilo è visto in atto di volare, non di essere trasportato (D. Page annota giustamente: «ἅμ᾽ ἀλκυόνεσσι ποτῆται, non φορεῖται hic cerylus»). Non si tratta quindi, da parte del poeta, del desiderio di essere trasportato alla danza dalle ragazze del coro (apostrofate al v. 1), quanto piuttosto dello struggimento per la propria menomazione fisica e del rimpianto per la giovinezza perduta.

Οὔ μ᾽ ἔτι, παρσενικαὶ μελιγάρυες ἱαρόφωνοι,

γυῖα φέρην δύναται· βάλε δὴ βάλε κηρύλος εἴην,

ὅς τ᾽ ἐπὶ κύματος ἄνθος ἅμ᾽ ἀλκυόνεσσι ποτήται

νηδεὲς ἦτορ ἔχων, ἁλιπόρφυρος ἱαρὸς ὄρνις[1].


[1] vv. 1-4 «Non più (con οὐ in rilievo in principio di verso e forte stacco rispetto a φέρην δύναται del v. 2), vergini (παρσενικαὶ = παρθένοι) dal canto soave (μελιγάρυες = μελιγήρυες, propriamente “dalla voce di miele”; cfr. Od. XII 187, dove l’aggettivo è riferito al canto delle Sirene) e dal canto sacro (ἱαρόφωνοι = ἱερόφωνοι), le membra hanno forza di portarmi (φέρην = φέρειν; cfr. Sapph. F 58, 15 V γόνα δ’ ο]ὐ φέροισι); fossi, oh fossi (βάλε = lat. utinam, è una forma di imperativo, forse di βάλλω, cristallizzatasi in congiunzione desiderativa) un cerilo (κηρύλος, maschio dell’alcione secondo Antigono, mentre due scoli a Teocrito sostengono che l’alcione prende il nome di “cerilo” nella vecchiaia: cfr. Calame, 473-475), che (ὅς τε: τε è il cosiddetto “τε epico” e ha valore generalizzante, indicando una condizione o attività abituale) sul fior dell’onda (metafora che indica la schiuma delle onde, cfr. Callim. F 260, 57 Pf.) vola (ποτήται = ποτᾶται, πέτεται) insieme con le alcioni con cuore intrepido (νηδεὲς dal prefisso negativo νή + δέος, hapax; cfr. Aristoph. Av. 1376; è correzione di J.F. Boissonade per νηλεές, “spietato”; cfr. Il. XIX 229; IX 497 –, accolto da alcuni editori tra cui Calame, o ἀδεές, tramandati rispettivamente da Antigono e da Fozio), sacro (ἱαρὸς = ἱερὸς, cfr. Riano F 73, 3 P probabilmente in relazione alla leggenda – attestata a partire da Simonid. F 508 – delle “giornate alcionidi”, cioè della quiete marina che si avrebbe al tempo del solstizio d’inverno per consentire all’alcione di nidificare; peraltro, ἱαρὸς è correzione di A. Hecker, mentre la tradizione – Antigono, Fozio, Ateneo – riporta concordemente εἴαρος, e questa lezione ha trovato consensi anche col richiamo a Sapph. F 136 V) uccello dal cangiante colore del mare (ἁλιπόρφυρος, < ἅλς + πορφύρω; cfr. Od. VI 53; XIII 108; Anacr. PMG 447)».


Elihu Vedder, Le Pleiadi. Olio su tela, 1885. New York, Metropolitan Museum of Art.

Ricordava Gennaro Perrotta che «quando un Greco diceva “vorrei essere un uccello”, la frase aveva un senso ben diverso da quello che ha per noi: voleva dire che era al colmo dell’infelicità e voleva divenire un essere irragionevole, per non soffrire»: si tratta in effetti di un tópos che ricorre in Anacreonte (PMG 378) e in vari luoghi di Euripide (Hipp. 732 ss.; 1292-1293; Med. 1297; HF 1157-1158; vd. Di Benedetto 1971, 263), ma in Alcmane il riferimento al cerilo mostra un’evidente connotazione positiva, come figura di un desiderio sia pure irrealizzabile, e sembra piuttosto comparabile – per quanto riguarda il nesso fra l’assimilazione a un animale alato e la liberazione dalla vecchiaia – con l’aspirazione, espressa da Callimaco, nel prologo degli Aitia (F 1, 31-36 Pfeiffer), a essere come una cicala:

θηρὶ μὲν οὐατόεντι πανείκελον ὀγκήσαιτο

ἄλλος, ἐγ]ὼ δ’ εἴην οὑλ[α]χύς, ὁ πτερόεις,

ἆ πάντως, ἵνα γῆρας ἵνα δρόσον ἣν μὲν ἀείδω

πρώκιον ἐκ δίης ἠέρος εἶδαρ ἔδων,

αὖθι τ δ ’ ἐκδύοιμι, τό μοι βάρος

ὅσσον ἔπεστι τριγλώχιν ὀλοῷ νῆσος ἐπ’ Ἐγκελάδῳ.

Nomos, Metaponto c. 500 a.C. AR 8,05 g. Recto: META(ΠOΝΤΙΟΝ), una spiga di grano con cavalletta/cicala.

Altri ragli simile in tutto alla bestia orecchiuta, ma io

sia il minuscolo alato animaletto – ah, sì! Davvero! –

perché la vecchiaia, perché la rugiada – cibandomi di

questo cibo distillato dall’etere divino io canti ma per

contro mi spogli di quella che addosso mi pesa

quanto l’isola a tre punte pesava su Encelado sciagurato.

Dibattuta l’identificazione dell’io: il disegno metrico (esametri dattilici) e la testimonianza di Antigono («[Alcmane] dice così essendo debole a causa della vecchiaia e non potendo partecipare ai cori né alla danza delle fanciulle») ha indotto a più riprese a ricondurre il brano a un προοίμιον, a un preludio citarodico per un partenio (destinato a essere eseguito subito dopo), e forse non è un caso che troviamo un’allocuzione a un coro di giovani coreute da parte del poeta alla fine (vv. 156 ss.) della sezione delia dell’inno omerico Ad Apollo (che in realtà era propriamente un προοίμιον, non diversamente da tutti i più antichi e più estesi inni detti “omerici”). Assai meno verosimile, in quanto priva di riscontri, parrebbe invece l’ipotesi secondo cui l’apostrofe era diretta alle coreute da un corego o da un χοροδιδάσκαλος diverso dal poeta (è semmai il coro a potersi eventualmente rivolgere al suo corego). «Alcmane guida i virginei cori: / “Voglio con voi, fanciulle, volare, volare a la danza, / come il cèrilo vola tratto da le alcioni: / vola con le alcioni tra l’onde schiumanti in tempesta, / cèrilo purpureo nunzio di primavera”»: traduzione “bella e fedele”, il Cèrilo (vv. 12-16), tratto dalle carducciane Odi barbare, costituisce la più famosa tra le riprese di questi celebri versi. Eppure, anche nell’antichità questo brano alcmaniano doveva essere famoso, come mostrano tra gli altri i riecheggiamenti in Saffo (F 58, 11-16 Voigt), negli Uccelli di Aristofane (vv. 250-251) e in Apollonio Rodio (IV 363).

Herbert James Draper, Halcyone. Olio su tela, 1915

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Bibliografia:

GIANGRANDE G., On a Passage of Alcman, QUCC 2 (1979), 161-165.

GRESSETH G.K., The Myth of Alcyone, TAPhA 95 (1964), 88-98.

HENDERSON W.J., Received Responses: Ancient Testimony on Greek Lyric Imagery, ActClass 41 (1998), 5-27.

NERI C. (ed.), Lirici greci. Età arcaica e classica, Roma 2011, 98; 273-274.

TSITSIBAKOU-VASALOS E., Alcman: Poetic Etymology Tradition and Innovation, RCCM 43 (2001), 15-38

VESTRHEIM G., Alcman fr.26: A Wish for Fame, GRBS 44 (2004), 5-18.

Il Partenio per Astimelusa (Alcman. F 3 Davies)

di F. FERRARI et al., Bibliothèke. Storia della letteratura, antologia e autori della lingua greca. Per il Liceo classico. Con espansione online – vol.1. Ionia ed età arcaica, Bologna 2012, 454-458.

Trasmesso da un papiro degli inizi del II secolo d.C. pubblicato da Edgar Lobel nel 1957, anche questo componimento, come il precedente Partenio del Louvre, è legato a una situazione cultuale: fa dunque parte di un’ “azione” di omaggio e di lode nei confronti di una divinità, e a sua volta quest’azione appare inserita nel panorama di una festa che prima e dopo il canto comprendeva altri momenti, altre stazioni di un percorso rituale che poteva durare più ore o più giorni. Da quanto ci resta, non possiamo accertare di quale festa precisamente si trattasse, ma è verosimile che il termine ἀγῶνα al v. 8 sia da interpretare nel senso di una competizione fra due o più gruppi corali. In tal caso il nome della divinità cui l’agone e la festa erano dedicati doveva trovarsi nella lacuna a principio del medesimo verso. Non è più che un’ipotesi che questo nome fosse Ἄνθεια, l’epiteto con cui sappiamo che Hera era venerata ad Argo (cfr. Paus. II 22, 1) e a Mileto, ma la presenza al v. 65 del termine πυλεών («corona») associa alla notizia del lessicografo Panfilo (in Athen. XV 678a), secondo il quale era così designata la corona con cui i Laconi erano soliti ornare la statua di Hera, e a un frammento di Alcmane in cui il coro invoca la divinità mentre le offre appunto un πυλεών (F 60 Davies, καὶ τὶν εὔχομαι φέροισα/τόνδ’ ἑλιχρύσω πυλεῶνα/κἠρατῶ κυπαίρω «E t’invoco recando questa corona di elicriso e d’incantevole cipero»), sembra corroborare l’ipotesi (W.S. Barrett, [review] The Oxyrhynchus Papyri XXIV, Gnomon 33 [1961], 683), secondo cui Astimelusa – la corega che dirige il coro delle fanciulle – si muove attraverso lo spazio di danza recando alla dea quest’offerta floreale.

Le coreute, come nel Partenio del Louvre, si confrontano con la loro maestra e guida, con la loro χοραγός, ma questo rapporto fra chi guida e chi segue, chi insegna gesti e movimenti e chi li replica nella linea o nel cerchio del gruppo viene trasposto nel linguaggio di una relazione d’amore: è subito un’emozione diretta al «diaframma» (cfr. φρένας v. 1), forse un ἵμερος («desiderio») ipotizzato nella lacuna a principio del v. 2, a dissipare dalle palpebre delle ragazze il dolce sonno e a spingerle a muovere alla gara (vv. 7-8); ed è uno struggimento che scioglie le membra, più irresistibile del sonno stesso e della morte, quello che emana dallo sguardo di Astimelusa. E la convenzione per cui il corego non era solito rivolgersi ai propri coreuti (sono piuttosto questi ultimi che usano indirizzarsi in vario modo al corego) viene prospettata come rifiuto, da parte di Astimelusa, a ricambiare lo slancio amoroso delle fanciulle del coro (οὐδὲν ἀμείβεται v. 64), mentre la circostanza che ella – non diversamente dalla corega Agesicora nei confronti di Agidò nel F 1 Davies – si colloca vicino a un’altra figura femminile estranea al coro, forse una sacerdotessa, è sentita dalle coreute come ragione del loro anelito frustrato, della loro inappagabile speranza che Astimelusa le prenda per mano. Infine, lo stesso contatto che collega, attraverso l’azione rituale, Astimelusa alla comunità cittadina, tanto che ella è vista immergersi nella folla (κατὰ στρατόν v. 73), si configura in un’analoga prospettiva erotica: la corega è, infatti, definita, con un’interpretazione etimologica del suo nome (v. 74), luminoso «oggetto di desiderio» per tutti i partecipanti alla festa.

Una permeabilità fra pubblico e privato, fra elemento rituale e microcosmico femminile che conferma tratti che erano apparsi sconcertanti nel Partenio del Louvre ma che, dopo la scoperta di questo nuovo documento, possono più facilmente essere decifrati se da un lato li riconduciamo alla funzione iniziatica e paideutica che non meno che dai tiasi di Lesbo veniva assolta dalle comunità femminili spartane (nel cui ambito l’ungersi di profumi, l’apprendere a danzare e a cantare, lo sperimentare le alterne vicende dello sguardo, della conquista e della separazione non costituivano passatempi individualistici ma momenti di una formazione destinata a preparare la παρθένος ad assumere il proprio ruolo di γυνή nella comunità cittadina) e dall’altro li consideriamo nel quadro delle potenzialità espressive del canto melico arcaico: un canto che non appiattisce il suo profilo nella funzione di scandire e accompagnare i dati programmatici della festa ma, senza mai svincolarsi completamente da essi, li rimodella e li reinterpreta trasformando situazioni concrete in immagini e metafore, costrizioni di regia in costellazioni di sentimenti. Tra la funzione pratica del far poesia a servizio del culto e la “letteratura” come fruizione libresca sta una vasta gamma di soluzioni e di risorse all’interno delle quali sperimenta i suoi molti sentieri la lirica greca arcaica.

Con la metamorfosi operata sulle articolazioni del rituale appare congruente l’aspetto stilistico della poesia di Alcmane. Il recupero di modelli del linguaggio amoroso (lo sguardo, il tenere per mano) o la loro esasperazione (la morte che si associa al sonno come termine di dolcezza struggente: cfr. la nota ai vv. 61-63), la finzione per cui lo schema tradizionale dell’invocazione alla Musa viene trasformato nel desiderio di ascoltarne il canto (un canto che si identifica con quello delle coreute già stanno cantando: cfr. anche per la ripresa pindarica della Nemea III, 1-9), la barocca interazione di immagini per cui un profumo di Cipro è definito «umido fascino leggiadramente chiomato di Cinira» (vv. 64-72), l’iridescente alternanza di dichiarazioni programmatiche, descrizioni, appelli accorati, l’amplificazione paratattica del paragone (tre elementi in rapida successione, ai vv. 66-68, per designare l’immagine di Astimelusa: stella, pianticella, piuma) attraverso richiami di analogica immediatezza, sono tratti che contribuiscono a costruire un coerente discorso poetico che, mentre assolve al compito di ripetere atti e tempi registrati sul calendario delle feste spartane – un ruolo esplicitamente ricordato a proposito di Alcmane da un anonimo grammatico in P. Oxy. 2506,  F1, col. II rr. 30-34 = T A2: «I Lacedemoni a quel tempo assegnarono ad Alcmane, benché fosse lidio, il ruolo di maestro [διδάσκαλον] dei cori tradizionali [πατρίοις χοροῖς] di fanciulle e di adolescenti» –, riesce nel contempo a comunicare l’impressione che ogni cosa avvenga per improvvisi trasalimenti e personalissime emozioni delle coreute.

Pittore dei Niobidi, Coro di fanciulle (dettaglio). Pittura vascolare da un calyx-krater attico a figure rosse, c. 460-450 a.C., da Altamura, Puglia. London, British Museum

col. I

Μώσαι Ὀλ]υμπιάδες, περί με φρένας

ἱμέρωι νέα]ς ἀοιδᾶς

πίμπλατ᾿· ἰθύ]ω δ᾿ ἀκούσαι

παρσενηΐ]ας ὀπός

πρὸς αἰ]θ̣έ̣ρα καλὸν ὑμνιοισᾶν μέλος

             ].οι

ὕπνον ἀ]πὸ γλεφάρων σκεδ[α]σεῖ γλυκύν

              ]ς δέ μ᾿ ἄγ̣ει πεδ᾿ ἀγων̣᾿ ἴμεν

ἇχι τά]χ̣ιστα κόμ[αν ξ]ανθὰν τινάξω[1].

              ]. σχ[ ἁπ]αλοὶ πόδες

………………………………………[2]

col. II

λυσιμελεῖ τε πόσῳ, τακερώτερα

δ᾿ ὕπνω καὶ σανάτω ποτιδέρκεται·

οὐδέ τι μαψιδίως γλυκ[ῆα κ]ήνα·

Ἀ[σ]τυμέλοισα δέ μ᾿ οὐδὲν ἀμείβεται,

ἀλλὰ τὸ]ν πυλεῶν᾿ ἔχοισα

[ὥ] τις αἰγλά[ε]ντος ἀστήρ

ὠρανῶ διαιπετής

ἢ χρύσιον ἔρνος ἢ ἁπαλὸ[ν ψίλ]ον

                       . ̑.]ν

                          ]. διέβα ταναοῖς πο[σί·

καλλίκ]ομος νοτία Κινύρα χ[άρ]ις

ἐπὶ π]αρσενικᾶς χαίταισιν ἵσδει·

ἦ μὰν Ἀ]στυμέλοισα κατὰ στρατόν

ἔρχεται ] μέλημα δάμῳ

               ]μ̣αν ἑλοῖσα

               ]λέγω·

               ]εναβαλ᾿ α[ἰ] γὰρ ἄργυριν

           ] . [.]ία

           ]α ἴδοιμ᾿ αἴ πως με̣… ο̣ν φιλοῖ

ἆσ] σ̣ον̣[ἰο] ῖ̣σ᾿ ἁπαλᾶς χηρὸς λάβοι,

αἶψά κ᾿[ἐγὼν ἰ]κ̣έτις κήνας γενοίμαν·

νῦν δ᾿ [          ]δα παίδα βα[θ]ύφρονα

παιδι.[           ]μ᾿ ἔχοισαν

[].·ε̣[            ]. ν ἁ παίς                   ]χάριν[3].

Pittore di Londra D12. Coro di ragazze. Pittura vascolare da una phiale attica con fondale bianco, V sec. a.C. Boston, Museum of Fine Arts.

[1] vv. 1-9 Il componimento si apre con un’invocazione alle Muse: qui le coreute vorrebbero ascoltare la voce (ὀπός) delle dee pronte a intonare un bel canto, e questo canto dissiperà il dolce sonno dalle loro palpebre e le spingerà a radunarsi nello spazio della danza per dare inizio all’esecuzione, agitando la bionda chioma. Il modulo per cui in principio di componimento la Musa (o le Muse) viene invocata di partecipare alla festa trova paralleli nella produzione pindarica (Olym. XI 16 ss.; Pyth. IV 1 ss.; Nem. IX 1 ss.), ma, in particolare, l’idea che i coreuti sono in attesa di udire il canto della Musa (elaborata sceneggiatura che sottintende in realtà un riferimento al canto che i coreuti già stanno eseguendo) compare in Nem. III 4-5, dove è detto che i giovani cantori egineti sono in attesa presso l’acqua asopia (una fontana eginetica) «agognando la voce» (ὄπα μαιόμενοι) della Musa (cfr. RFIC 118 [1990], 5 ss.). «‹O Muse› dell’Olimpo (per le Muse legate all’Olimpo, cfr. Il. II, 491; H. Herm. 450; Hes. Th. 25; 52; è probabile l’integrazione di A. Giannini e di D. Page Μώσαι = Mοῦσαι a principio del v. 1), me nel cuore ‹riempite› (D. Page ha pensato come verbo reggente a πίμπλατε «colmate» a principio del v. 3, connesso in tmesi con περί «attraverso», «da parte a parte») di un canto ‹…› (intendendo ἀοιδας al v. 2 come genitivo, anche se non si può escludere un accusativo plurale) e io ‹desidero› (nella prima parte del v. 3 doveva comunque essere incluso un verbo indicante desiderio, da parte delle coreute, di ascoltare il canto delle Muse) ascoltare la voce ‹verginale› (W. S. Barrett propone l’integrazione in forma laconica παρσηνΐας) ‹di voi› che intonate (ὑμνιοισᾶν = ὑμνουσῶν, trisillabo per consonantizzazione del primo iota di /ιοι/) un bel canto… dissiperà il dolce sonno dalle palpebre (γλεφάρων = βλεφάρων) e mi spinge ad andare (ἴμεν = ἰέναι) all’agone (ἀγῶν (α), nel senso di «gara» o di «luogo della gara», anche se non si può escludere il valore omerico [cfr. Il. XXIII 258; Od. VIII 200] di «raduno»; notevole in ogni caso l’affinità di prospettiva e di espressione, con Pind. Paean. VI 58-61: «La mia lingua brama di [versare] il dolce fiore del miele, ora che sono giunto all’agone in onore del Lossia nella festa dove gli dèi sono ospiti»: un confronto che, fra l’altro, suggerisce di integrare il genitivo del nome di una divinità in principio del v.8, ad esempio Ἀνθεία]ς «della Floreale», cioè un epiteto con cui sappiamo che Hera veniva onorata ad Argo, nel senso di un «agone in onore di…», cfr. anche Pind. Nem. II 23 Διὸς ἀγῶνι; Pyth. VIII 79 Ἥρας τ’ ἀγῶν’) dove (ἇχι = ἧχι, integrazione di Page: da ἧ, «dove», e suffisso avverbiale –χι) ‹al più presto› (con τά]λ ιστα di Barrett) agiterò la bionda chioma».

[2] vv. 10-61 Poiché la struttura strofica ci permette di ricostruire l’altezza delle colonne del papiro (trenta righe ciascuna), possiamo accertare che fra il v. 10, ultimo verso superstite del F 1 [vv. 1-10], e il primo rigo del F 3, col I. [vv. 31-37], intercorrevano venti versi. Di questa colonna I del F 3 sopravvivono solo tracce insignificanti del margine destro fino al r. 7, mentre nulla rimane dei restanti ventitré versi. Il testo riprende a correre integro, o quasi, a partire dal primo rigo della col. II (vv. 61-85). Di tutta la parte fra il v. 10 e il v. 61 restano così solo la fine del v. 10, ἁπ]αλοὶ πόδες («teneri piedi») – un nesso formulare epico (Il. XIX 92; H. Dem. 287; H. Herm. 273) che smembrato e dislocato, appare riferito a giovani coreute anche in fr. lesb. incerti auctoris 16 – e al v. 34 sulla base dello scolio sul margine (κρυερά· ψυχρά), la presenza dell’aggettivo κρυερά «gelida», o «gelidi» se neutro plurale.

[3] vv. 61-85 «… e col desiderio (πόσῳ = πόθῳ) che scioglie le membra (λυσιμελεῖ <* λύω «io sciolgo» e μέλη «membra»; cfr. Hes. Th. 120-121; Archil. F 196 W2; Sapph. F 130, 1 V; Carm. pop. 873, 3-4; nell’Od. XX 57 e XXIII 343, l’aggettivo appare riferito al sonno e interpretato come λύων τὰ μελεδήματα, «che dissolve le ansie»), e guarda verso di me (ποτιδέρκεται = προσδέρκεται) in modo più struggente (τακερός è legato etimologicamente con il verbo τήκειν, «liquefare»: cfr. Anacr. PMG 459) del sonno (ὕπνω = ὕπνου) e della morte (σανάτω = θανάτου: poiché il sonno viene spesso sentito come simbolo di dolcezza, e poiché sonno e morte sono spesso associati o identificati – il «sonno della morte» compare in Esiodo F 278, 13 M.-W. e, implicitamente, in Il. XI 241 – anche la morte viene attratta, per analogia, nella sfera erotica) e per nulla falsamente (οὐδέ τι μαψιδίως intensifica la dichiarazione assicurandone la veridicità secondo un modulo che si ritrova nell’ἀδόλως, «senza inganno», di Sapph. F 94, 1 V) quella (κήνα = ἐκείνη; secondo C. Calame, «il dimostrativo κήνα sarà stato utilizzato qui a preferenza di αὕτα perché Astimelusa è in qualche modo estranea al gruppo delle coreute. Il verso seguente lo mostra: ella non dà loro risposta») ‹è› dolce (γκυκῆα = γλυκεῖα). Ma Astimelusa (Ἀστυμέλοισα = Ἀστυμέλουσα) non mi risponde nulla (la lode del coro è come una dichiarazione amorosa, ma la corega prosegue imperturbata le sue evoluzioni di danza, assorta nell’eleganza dei propri gesti; il suo silenzio nei confronti delle compagne suscita in esse un senso di frustrazione accorata: si ha così, credo, da parte del poeta anche una traduzione in termini psicologici del dato convenzionale per cui nel canto corale non avviene che il corego si rivolga ai coreuti, ma solo l’inverso) ma tenendo (ἔχοισα = ἔχουσα) quella (τὸν dimostrativo) corona come (ὥ, forma dorica per ὡς) una stella che vola attraverso (διαιπετής, aggettivo di formazione discussa e altrove non attestato, anche se in Eurip. F 971 N2 troviamo διοπετής proprio in nesso con ἀστήρ, e anche se Omero conosce come epiteto di fiumi l’aggettivo διιπετής – ma in H. Aphr. 4 è riferito agli uccelli – già dagli antichi interpretato come formato su Διί, dativo di Ζεύς, e radice a grado debole di πίπτω, «io cado», e quindi nel senso di «caduto dal cielo») il cielo (ὠρανῶ = οὐρανοῦ) scintillante o un aureo (χρύσιον = χρύσεον, in quanto «eccellente», con una sorta di paragone di secondo grado, una metafora all’interno della similitudine) virgulto o una morbida piuma (in Alcmane il termine ψίλον – secondo Adler – ha una risonanza particolare in quanto, secondo la testimonianza della Suda s.v. ψιλεύς il poeta chiamava φιλόψιλος «colei che ama fare la piuma», la ragazza che amava essere collocata alla testa del coro) ha attraversato con gli agili piedi… l’umida grazia di Cinira (Κινύρα genitivo di Κινύρας = Kινύρου: ricercata perifrasi per denotare un «profumo cipriota»; Cinira era, infatti, un leggendario principe di Cipro noto per la sua ricchezza e per aver goduto dei favori di Afrodite, e l’isola era celebre per le sue essenze) si posa (ἵσδει = ἵζει) sulle chiome delle vergini (παρσενικᾶν = παρθένων) Astimelusa… (il verbo principale, che doveva descrivere l’azione della corega, era forse in principio del v.74: ἔρχεται «va», proposto da D. Page) in mezzo alla folla (στρατόν, con un valore del termine attestato in Eschilo e in Pindaro)… cura (μέλημα, oggetto di desiderio, come in Ibyc. F 288; Pind. Pyth. X 59; F 95, 4-5) del popolo (come dice il suo nome, che significa «colei che sta a cuore alla città»: l’intenzionale gioco di parole viene rincalzato dalla prossimità del nome proprio), avendo preso (ἑλοῖσα = ἑλοῦσα)… dico… oh se davvero (<* ἆ interiettivo + βάλε «oh, se!», lat. utinam)… la coppa d’argento (a proposito di coppe messe in palio per i vincitori di un agone cfr. Pind. Olym. IX 90)… vedessi (ϝίδοιμι: Calame, 416 preferisce leggere ϝίδοι μ’ “«mi vedesse»): se mai (αἴ πως = εἴ πως; protasi del periodo ipotetico della possibilità, la cui apodosi è incentrata su κ’…γενοίμαν, v. 81), o dèi diletti (με σιοὶ φίλοι, che Page e Davies leggono anche μεσιον φιλοῖ), avvicinandosi mi prendesse (con accusativo della persona e genitivo della parte del corpo) per la mano delicata, subito (αἶψα) io diventerei supplice (la ricostruzione ἱ]κ έτις di Lobel è stata criticata da Calame, ma resta molto probabile) di lei». I resti di questa strofe suggeriscono che le coreute passassero alla descrizione della fanciulla preferita da Astimelusa così come nel F 1 Davies esse passano a più riprese dalla lode della corega a quella di Agidò. νῦν δ᾿ («Ma ora») doveva marcare il contrasto fra il vagheggiamento delle coreute di essere prese per mano da Astimelusa e la realtà della situazione, in cui la corega resta lontana e irraggiungibile (παίδα βα[θ]ύφρονα è epiteto forse riferito a costei).