Gli aspetti scenografici del teatro greco

di F. Ferrari, R. Rossi, L. Lanzi, Bibliothéke. Storia della letteratura, antologia e autori della lingua greca. 2. Atene e l’età classica, Bologna 2012, 10-15.

L’edificio teatrale greco è costituito da cavea, orchestra e scena. Una tarda tradizione riconnette i più antichi spettacoli teatrali in Atene all’agorà, con panche di legno e tavolati provvisori, ma in età classica le rappresentazioni si svolgevano nel teatro di Dioniso, situato ai piedi della scarpata meridionale dell’Acropoli e dominante l’area cultuale dedicata a Dioniso.

La cavea (il θέατρον vero e proprio come «luogo donde si guarda») era costituita dalle gradinate appoggiate a un pendio a conca e tagliate in senso verticale da scalinate (κλίμακες) che la dividevano in settori e in senso orizzontale da corridoi (διαζώματα) che consentivano un rapido affollamento e svuotamento del teatro.

Gli spettatori si distribuivano secondo gerarchie giuridiche e sociali: i seggi più vicini all’orchestra erano riservati agli alti funzionari della πόλις e agli orfani dei caduti in guerra, mentre il settore inferiore ai cittadini di pieno diritto.

Ricostruzione planimetrica del Teatro di Dioniso, Atene [Campanini, Scaglietti 2004, 70].

Al centro della prima fila, su una poltrona di pietra, sedeva il sacerdote di Dioniso, al quale il dio stesso si rivolge burlescamente in Aristofane, Rane 297: ἱερεῦ, διαφύλαξόν μ΄, ἵν’ ὦ σοι ξυμπότης («Ehi, sacerdote, salvami se vuoi che io continui a bere con te!»).

L’orchestra (ὀρχήστρα, cioè lo «spazio della danza»), al centro della quale sorgeva la θυμέλη («l’altare di Dioniso»), aveva un diametro di circa 20 metri o poco più e forma dapprima circolare, poi semicircolare, ma il coro (χορός) della tragedia si muoveva in formazione rettangolare (su cinque file quando il coro, con Sofocle, passo da 12 a 15 elementi) dopo aver fatto il suo ingresso preceduto da un suonatore di flauto doppio (αὐλητής).

Più liberi e variati erano i movimenti del coro comico, costituito da 24 elementi, che potevano raffigurare, oltre che uomini, esseri della più varia natura, molto spesso animali, ma anche nuvole o città (rispettivamente nelle Nuvole di Aristofane e nelle Città di Eupoli). Mentre i cori del ditirambo (διθύραμβος) eseguivano la τυρβασία circolare, la danza composta e stilizzata caratteristica della tragedia era chiamata ἐμμέλεια; le danze proprie del dramma satiresco e della commedia erano invece rispettivamente la vivace «sicinnide» (σίκιννις) e il lascivo «cordace» (κόρδας).

Pittore dell’Altalena (attribuito), Gruppo di coreuti che incede su sostegni di legno e trampoli (forse Titani). Pittura vascolare da un’anfora attica a figure nere, c. 550-525 a.C. Christchurch, University of Canterbury.

Fra la scena (ἐμμέλεια) e le due proiezioni dell’emiciclo della cavea si aprivano due corridoi laterali (εἴσοδοι o πάροδοι) che consentivano l’accesso degli spettatori alla cavea e l’ingresso, oltre che del coro, degli attori che non uscissero dall’edificio scenico. È dubbia la regola secondo cui da destra sarebbero entrati i personaggi provenienti dalla città, da sinistra quelli provenienti dalla campagna.

I drammi più antichi di Eschilo non sembrano presupporre un edificio scenico (σκηνή) quale invece compare sicuramente nell’Orestea del 458: si trattò inizialmente su una linea tangente all’orchestra di una costruzione in legno con tendaggi, con la trasformazione in requisito dell’area teatrale di un locale originariamente adibito a deposito per maschere, costumi e attrezzatura scenica e a camerino per i cambiamenti di costume degli attori. La scena fungeva da sfondo all’azione identificandosi volta a volta con un palazzo, un tempio, una tenda militare, una grotta.

Fra il 338 e il 330 a.C. il teatro di Dioniso, su iniziativa dell’oratore Licurgo, fu ricostruito in pietra (σκηνή compresa). Poi la scena fu proiettata in avanti per mezzo di un alto proscenio sostenuto da un colonnato.

Furono altresì create quinte girevoli su pali (περίακτοι), con decorazioni di paesaggi, che permettevano rapidi mutamenti di luogo. In relazione alla nuova struttura dovette essere introdotto anche un tipo a suola fortemente rialzata di quegli stivaletti in pelle con incurvatura delle punte che rappresentavano la consueta calzatura degli attori (i κόθορνοι, «coturni»).

Secondo una dubbia testimonianza dell’enciclopedia bizantina (X sec.) denominata Suda (φ 609) la decorazione della scena sarebbe stata introdotta per la prima volta, fra VI e V secolo a.C., da Formo di Siracusa, che avrebbe usato una tenda fatta di pelli conciate e dipinte di rosso (ἐχρήσατο […] σκηνῇ δερμάτων φοινικῶν), ma Aristotele fa della scenografia un invenzione di Sofocle (Poetica 1449a 18- 19), mentre Vitruvio (VII 1, 11) informa che Eschilo adottò la σκηνογραφία giovandosi dell’aiuto del pittore Agatarco di Samo. I pannelli decorati dovevano mostrare uno o più edifici o sfondi paesistici.

Scena tragica davanti a un palazzo. Pittura vascolare a figure rosse da un cratere tarentino, c. 350 a.C. Würzburg, Martin von Wagner Museum.

Un problema che è stato largamente discusso è quello dell’area antistante l’edificio scenico e retrostante l’orchestra, ovvero del cosiddetto proscenio (προσκήνιον): si dibatte se nel teatro del V secolo a.C. lo spazio in questione fosse costituito da una pedana soprelevata rispetto al livello dell’orchestra. Certo è che, se pure questa pedana esisteva, essa era tale da non impedire la comunicazione verbale e il transito dei personaggi e dei coreuti fra proscenio e orchestra (perciò, non avrebbe comunque potuto superare il dislivello corrispondente a due o tre scalini).

Dibattuta è anche la questione del numero di porte che si aprivano sulla facciata dell’edificio scenico: due sembrano richieste nelle Coefore di Eschilo (oltre a quella centrale, la porta degli alloggi delle donne, verso cui si precipita un servo) e tre nella Pace di Aristofane (abitazione di Trigeo, dimora di Zeus, caverna dello scarabeo). Anche il tetto della σκηνή poteva essere eventualmente utilizzato come spazio occupato dagli attori: da esso, per esempio, balza al suolo il servo frigio nell’Oreste di Euripide. Inoltre, ugualmente a un livello soprelevato, poteva essere utilizzata una piattaforma (θεολογεῖον) invisibile agli spettatori su cui gli attori salivano dal retro della scena.

Un altro problema che ha diviso gli studiosi riguarda l’esistenza e, in caso positivo, la frequenza di utilizzo, già nel corso del V secolo, di una sorta di basso carrello su ruote (ἐκκύκλημα), una piattaforma che, sospinta in avanti ed eseguendo un movimento circolare, serviva a rendere visibile al pubblico quanto avveniva nella parte più interna della scena: di esso trattano, con descrizioni sensibilmente divergenti, fonti tarde, fra cui gli scoli, cioè i commenti ai testi drammatici.

Un probabile uso di questa macchina si trova nell’Antigone di Sofocle (vv. 1294 ss., rappresentata nel 442 a.C.): Creonte, ormai conscio della catena di morti atroci che hanno decimato la famiglia a causa della sua ostinazione, vede da ultimo anche il corpo della moglie Euridice avvinto all’altare di Zeus Ercheo (Ἕρκειος, «Protettore del focolare domestico»), posto nel cortile interno del palazzo. Uscita di scena, la donna aveva annunciato che sarebbe andata a pregare per il figlio Emone e per la casata tutta. Grazie all’ἐκκύκλημα, gli spettatori potevano vedere l’altare domestico sul quale Euridice, dopo essere andata a piangere il figlio Megareo e ora anche Emone, si è tolta la vita.

Va rammentato, di passaggio, che le scene violente non potevano essere proposte sulla scena ed era, quindi, sempre un narratore – spesso un servo o un messaggero – a riferire al coro e al pubblico l’accaduto. Solo grida si potevano udire “dietro le quinte” e immaginare quanto si stava perpetrando o, come in questo caso, scorgere il cadavere. Oltre a questo, un altro celebre finale in cui si sarebbe fatto ricorso alla macchina è quello dell’Ippolito (430) di Euripide, mentre, per restare alla produzione sofoclea, si pensi all’Elena (v. 1458) e, probabilmente, all’Aiace (v. 344).

Ricostruzione schematica delle principali macchine teatrali in uso sulla σκηνή (link).

In ogni caso, a un tale congegno alludono due passi parodici di Aristofane. Negli Acarnesi (vv. 406-409) Diceopoli supplica Euripide di uscire di casa per prestargli qualche straccio dei suoi eroi cenciosi:

D                        Ti chiama Diceopoli di Collide: io!

E                         Ma non ho tempo!

D                      E dai: fatti trasportare fuori sul carrello!

E                         Ma non è possibile!

                       Su, avanti!

E                         Ecco, mi farò metter fuori sul carrello: non ho tempo di scendere!

Nelle Tesmoforiazuse è lo stesso Euripide a cercare l’aiuto di Agatone, il quale sta uscendo dalla σκηνή (νν. 95-96):

E                        Silenzio!

P                        Che c’è?

E                        Agatone sta uscendo!

P                        E quale sarebbe?

E                        Lui, quello che si fa metter sul carrello!

Pacificamente accertato è invece, per alcuni drammi, il ricorso a una macchina del volo, detta γέρανος («gru»), che – grazie a un sistema di cavi, carrucole e ganci – serviva per tenere sollevato in aria un personaggio o fargli percorrere un certo tragitto aereo.

Nella Pace di Aristofane, con parodia del perduto Bellerofonte di Euripide (dove il protagonista volava in groppa a Pegaso), Trigeo impartisce istruzioni dapprima allo scarabeo che intende cavalcare per recarsi a colloquio con Zeus (vv. 82-87):

T Oh, buono, buono: rallenta, asinello mio!
Non slanciarti con troppo impeto,
fin da principio fidando nella tua forza,
prima di aver ammorbidito
i muscoli col battito veloce delle ali!
E non soffiarmi addosso questo puzzo, per pietà!

Poi si rivolge al macchinista addetto alla manovra, il μηχανοποιός (vv. 174-176):

T Macchinista, pensa a me!
Già mi sento turbinare un vento sotto l’ombelico:
se non stai attento, ingrasserò lo scarabeo!

Con la macchina del volo arriva Oceano nel Prometeo di Eschilo (vv. 284 ss.), fugge per l’etere Medea alla fine dell’omonimo dramma euripideo, appaiono talora gli dèi di cui si dice che giungono per l’aria, come, nelle chiuse di alcuni drammi euripidei, Tetide (Andromaca), Atena (Ione), i Dioscuri (Elettra).

Pittore anonimo. Il volo di Medea. Pittura vascolare da un κρατήρ-κάλυξ lucano a figure rosse, c. 400 a.C. Cleveland, Museum of Art.

Talvolta i personaggi potevano comparire in scena anche su un carro da parata, come nell’Agamennone eschileo il sovrano argivo e la sua prigioniera Cassandra o, nell’Elettra di Euripide, Clitennestra, che si reca in campagna a far visita alla figlia.

Nell’area scenica potevano comparire anche tombe e altari, come, in Eschilo, nelle Supplici, dove uno rialzo sacro adorno di statue e altari degli dèi (una κοινοβωμία) diventa l’asilo delle Danaidi, o nelle Coefore, dove il tumulo di Agamennone è il luogo presso il quale Elettra scorge le orme del fratello e poi intona insieme con lui e con le coreute il commo di invocazione (κομμός) al padre defunto. E in Euripide si rifugiano ai piedi di un altare, fra gli altri, Andromaca perseguitata da Ermione e la sposa e i figli di Eracle perseguitati dal tiranno Lico (Eracle).

Occasionalmente anche un letto poteva essere portato alla vista degli spettatori. come, in Euripide, nel caso di Fedra delirante nell’Ippolito e di Oreste malato nell’Oreste o in Aristofane, per Strepsiade che, tormentato dal pensiero dei debiti, si agita su un pagliericcio al principio delle Nuvole.

Sparta arcaica

Per meglio comprendere le ragioni e i riferimenti dell’elegia guerresca arcaica occorre soffermarsi sulla realtà storica cui afferiscono i vivaci affreschi di Tirteo, abbastanza ignota all’ἔπος omerico.

Le radici di Sparta, infatti, benché la città sia citata nell’Iliade come possesso di Menelao e mitica sede del ratto di Elena, non risalgono storicamente oltre al X secolo a.C. Furono i Dori provenienti da nord che, sottomettendo i Laconi, si stanziarono sulle rive dell’Eurota, a ridosso del Taigeto, nell’estremità sud-occidentale del Peloponneso.

Dioscuri. Rilievo su stele votiva, pietra locale, c. 575-550 a.C. Sparta, Museo Archeologico.

Dalla progressiva unificazione (sinecismo) di almeno quattro borghi, Cinosura, Limne, Mesoa e Pitane, ebbe origine Sparta. A questo processo unitario può essere ricondotta la diarchia che governò per secoli la città, una forma monarchica che assegnava per via ereditaria il potere ai discendenti delle famiglie degli Agiadi e degli Euripontidi, probabilmente sovrane di uno o due villaggi originari. Questa composizione è riflessa oltre che nel nome (Σπάρτη, «la dispersa») anche nella ripartizione in tre tribù originali, a loro volte suddivise in fratrie (φρατρίαι), composte dai diversi clan familiari degli Spartiati (Σπαρτιᾶται).

Alla ricerca di pascoli e terre «buone da arare e buone da piantare», mentre le altre πόλεις greche sopperivano alla mancanza di terre fertili spedendo colonie verso l’occidente, la città cominciò la sua espansione nel Peloponneso. Limitata a nord-est dalla potenza di Argo, dopo essersi assicurata l’intero corso dell’Eurota e uno sbocco al mare (prima metà dell’VIII secolo a.C.), si rivolse a ovest, alla pianura messenica. Prendendo a pretesto l’uccisione del re Amicle (c. 740 a.C.), gli Spartani attaccarono la Messenia finché nel 715, con la presa della rocca di Itome, non si furono impadroniti della sua fertile pianura.

La conclusione di quella che fu chiamata “Prima guerra messenica” portò all’asservimento dell’intera popolazione locale, utilizzata come forza-lavoro e inserita nella classe sociale infima degli Iloti (Εἱλῶται).

I Messeni tendono un’imboscata agli Spartani. Illustrazione di C. Draghici.

Nella progressiva espansione territoriale, infatti, agli Spartiati – Dori appartenenti alle famiglie dei borghi originari, dediti esclusivamente alle armi e partecipi alla vita pubblica della πόλις (sedevano nell’assemblea, ἀπέλλα, e potevano essere eletti nel consiglio degli anziani, γερουσία) –, si erano aggiunti i Perieci. Questa seconda classe era probabilmente formata dai primi assoggettati dei villaggi circonvicini (περι-οίκοι), equiparabili agli Spartiati sul piano sociale (possedevano anch’essi un κλᾶρος, un fondo agricolo, servi per lavorarla e servivano come opliti nell’esercito), ma privi dei diritti politici. Gli Iloti, infine, costituivano una vera e propria massa di servi, formata dalle popolazioni indigene (i Laconi e Messeni) che via via erano state sottomesse.

Questa condizione di sfruttamento costituì da subito, e ancor più nei secoli a venire, uno dei motivi di debolezza della città: se da una parte gli Spartiati provenivano da un nucleo limitato di famiglie, destinato nei secoli ad assottigliarsi a causa delle continue guerre, gli Iloti, appartenenti alla stessa città ma trattati in maniera disumana, erano in numero maggiore e soprattutto pronti in ogni momento a ribellarsi.

Pittore di Naucrati. Scena simposiale. Pittore vascolare su una coppa laconica a figure nere. 565 a.C. ca. Paris, Musée du Louvre.

E una ribellione alle inique imposizioni spartane («Come asini sotto una pesante soma, erano costretti a trasportare per i loro padroni la metà di tutte le messi che un campo poteva produrre», Tyrt. F 6 West) fu l’origine della “Seconda guerra messenica”, quella di cui Tirteo fu testimone diretto.

La rivolta esplose nel 685 a.C. Argo, la rivale di sempre, approfittando della situazione, attaccò Sparta sconfiggendola a Ilie nel 669 a.C., chiudendo di fatto per almeno un secolo le ambizioni di espansione verso nord dei Lacedemoni. Questo li spronò a portare a termine la guerra contro i Messeni per annetterne integralmente il territorio ed estendere all’intero sud del Peloponneso la propria supremazia (668 circa a.C.).

A metà del VII secolo, dunque, Sparta era una πόλις in piena espansione. Era dotata di un esercito capace di affermare la propria superiorità grazie alla coesione dei suoi opliti, stretti nella formazione a falange.

Era regolata da una forma politica oligarchica fissata dalla costituzione tradizionalmente attribuita a Licurgo (Μεγάλη ῥήτρα). Il potere monarchico era controbilanciato dalla presenza dell’assemblea degli Spartiati, che eleggeva i ventotto membri del consiglio degli anziani e i cinque efori (ἔφοροι). Questi ultimi erano chiamati a controllare l’operato dei due re e del consiglio, per garantire che non si scivolasse in una monarchia arbitraria e assoluta e, contemporaneamente, in una oligarchia che privasse gli ὁμοῖοι (cioè gli Spartiati) di partecipare direttamente al governo della città.

La γερουσία spartana. Illustrazione di P. Connolly.

Per un certo periodo, questo sistema, lodato come il più democratico della Grecia da Aristotele, permise a Sparta stabilità e sviluppo non solo espansionistico ma anche nelle arti (oltre a Tirteo, altri poeti come Alcmane, fecero della πόλις una delle città greche più illuminate). Un inarrestabile regresso demografico, dovuto al numero chiuso degli Spartiati e alle continue guerre, e una progressiva rottura dell’equilibrio politico, dovuta al contrasto fra potere diarchico e controllo degli efori, costituirono per la città i due fattori che accelereranno la decadenza, già evidente alla fine del V secolo, nonostante la temporanea egemonia raggiunta con la vittoria su Atene nella Guerra del Peloponneso.

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Riferimenti bibliografici:

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Il calendario romano

Presso i Romani era usanza indicare gli anni con i nomi dei magistrati in carica, in ablativo. Per esempio, per esprimere l’anno 62 a.C., in latino l’indicazione sarebbe la seguente: M. Tullio C. Antonio («Sotto il consolato di Marco Tullio e Gaio Antonio»). Altrimenti, i Romani computavano gli anni con un numero in ablativo a partire dalla fondazione di Roma (che la tradizione fissava al 753 a.C.): ab Urbe condita (espressione abbreviata in a.U.c.).

L’antico calendario, attribuito a re Romolo, era lunare e prevedeva dieci mesi, i cui noi erano tutti aggettivi maschili, che sottintendevano il sostantivo mensis: Martius, Aprilis, Maius, Iunius, Quinctilis, Sextilis, September, October, November, December. Poi, dal 153 a.C., i mesi furono portati a dodici con l’aggiunta di Ianuarius e Februarius. Tuttavia, alcune fonti attribuiscono l’introduzione di questi due mesi già a re Numa (cfr. Plut. Num. 18-19; Liv. I 19).

Ricostruzione grafica dei Fasti Antiates Maiores (Inscr.It. XIII 2, 42), un calendario pre-giuliano. Frammenti da un affresco dalle rovine della villa di Nerone ad Anzio.

Coerentemente con l’originario calendario lunare, ogni mese aveva tre giorni fissi, corrispondenti ad altrettanti fasi lunari (Varr. l.L. 6, 4):

  • le Kalendae («Calende»), il 1° giorno nel mese, il cui nome è etimologicamente connesso con il verbo arcaico calare, «chiamare, convocare»; si trattava del giorno in cui il pontifex maximus convocava i cittadini per annunciare le feste religiose del mese;
  • le Nonae («None»), così chiamate perché cadevano il nono giorno prima delle Idi, e cioè il 5° o il 7° giorno del mese;
  • le Idus («Idi»), che cadevano normalmente il 13° giorno, oppure il 15° giorno (in questo caso nei mesi di marzo, maggio, luglio e ottobre).

Le date dei giorni fissi erano espresse in ablativo (complemento di tempo determinato), concordate con l’aggettivo indicante il mese: Kalendis Ianuariis («il 1° gennaio»).

Gli altri giorni erano segnati con riferimento a queste date fisse, che di solito coincidevano con effettive scadenze di transazioni finanziarie, rispetto alle quali i Romani facevano un conteggio alla rovescia.

Calendario rurale (Fasti Praenestini CIL I2 1 = I.It. XIII, 2, 17 = AE 1898, 14 = 1922, 96 = 1953, 236 = 1993, 144 = 2002, 181 = 2007, 312), ante 22 d.C. Roma, Museo Nazionale Romano.

Benché possa sembrare complicato, questo criterio era funzionale alla vita pratica, visto che la data ricordava i giorni mancanti al termine. In questi casi, la data era espressa in riferimento al giorno precedente a una delle tre date fisse: per esempio, pridie Kalendas Ianuarias («il 31 dicembre»); al giorno immediatamente successivo: postridie Nonas Septembres («il 6 settembre»). Per segnalare tutti gli altri giorni del mese si calcolavano i giorni mancanti a quello fisso seguente, incluso il giorno di partenza del conteggio: per esempio, ante diem XII Kalendas Novembres, oppure die duodecimo ante Kalendas Novembres («il 21 ottobre»).

Oltre che per calcolare il tempo, il calendario aveva la funzione di indicare, per ogni giorno di ciascun mese, le attività consentite e quelle vietate. Nel computo si distinguevano innanzitutto i dies fasti, «giorni favorevoli», dai dies nefasti, «giorni sfavorevoli» (Varr. l.L. 6, 4).

L’aggettivo fastus, -a, -um, è etimologicamente legato al verbo fari («dire»), e i dies fasti erano quelli in cui era consentito ai magistrati di amministrare la giustizia, emettendo verdetti; in quelli nefasti, invece, non era possibile svolgere tali mansioni.

Sulle tavole del calendario, inoltre, erano segnati i dies comitiales, quelli in cui i cittadini facevano attività politica e praticavano qualsiasi tipo di negotium. In particolare, tra queste date, si evidenziavano i dies nundinales, cosiddetti perché cadevano ogni nove giorni: il termine nundinum (da cui nundinum, «mercato», «giorno di mercato»), infatti significa letteralmente «periodo di nove giorni»; data la grande affluenza di persone in città in occasione dei dies nundinales, era solitamente in quei giorni che si tenevano le elezioni. Talvolta, si segnavano anche dei dies intercisi (o endotercisi), cioè giorni fasti nelle ore centrali, ma nefasti il mattino e la sera.

Codex Barberini Lat. 2154 (VII-VIII sec.). Pagina dedicata al mensis December dalla Chronographia di Furio Dionisio Filocalo.

Infine, si rendeva conto delle feriae (o dies fasti), ovvero i giorni in cui si celebravano le feste, e che per questo non risultavano lavorativi (cfr. Macrob. Sat. I 16, 4-13). Dai termini feria e festus, etimologicamente affini, in italiano sono continuate diverse parole: per esempio, da festus, «festa», e da feria, «fiera», termine sostanzialmente sinonimo di «mercato» (data l’abitudine, protrattasi nel Medioevo, di tenere il mercato nei giorni di festa).

Quanto all’apparente contraddizione tra il fatto che l’aggettivo «feriale» significa «relativo al giorno lavorativo», mentre il sostantivo «ferie» significa «periodo di riposo», essa è dovuta al fatto che quando si impose il calendario ecclesiastico, che suddivideva il mese in settimane, il settimo giorno, dedicato al culto, fu detto dies dominica («giorno del Signore»), mentre gli altri sei giorni, pur lavorativi, corrispondevano comunque ciascuno alla festa (feria) di un santo specifico e, come tali, venivano numerati: il lunedì era feria I, il martedì feria II, ecc.

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Bibliografia:

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Caronda, il grande legislatore di Catania

Πρῶτον μὲν γὰρ τοῖς μητρυιὰν ἐπαγομένοις κατὰ τῶν ἰδίων τέκνων ἔθηκε πρόστιμον τὸ μὴ γίνεσθαι συμβούλους τούτους τῇ πατρίδι, νομίζων τοὺς κακῶς περὶ τῶν ἰδίων τέκνων βουλευσαμένους καὶ συμβούλους κακοὺς ἔσεσθαι τῇ πατρίδι. ἔφη γὰρ τοὺς μὲν πρῶτον γήμαντας καὶ ἐπιτυχόντας δεῖν εὐημεροῦντας καταπαύειν, τοὺς δὲ ἀποτυχόντας τῷ γάμῳ καὶ πάλιν ἐν τοῖς αὐτοῖς ἁμαρτάνοντας ἄφρονας δεῖν ὑπολαμβάνεσθαι. τοὺς δ’ ἐπὶ συκοφαντίᾳ καταγνωσθέντας προσέταξε περιπατεῖν ἐστεφανωμένους μυρίκῃ, ὅπως ἐν πᾶσι τοῖς πολίταις φαίνωνται τὸ πρωτεῖον τῆς πονηρίας περιπεποιημένοι. διὸ καί τινας ἐπὶ τούτῳ τῷ ἐγκλήματι καταδικασθέντας τὸ μέγεθος τῆς ὕβρεως οὐκ ἐνεγκόντας ἑκουσίως ἑαυτοὺς ἐκ τοῦ ζῆν μεταστῆσαι. οὗ συντελεσθέντος ἐφυγαδεύθη πᾶς ἐκ τῆς πόλεως ὁ συκοφαντεῖν εἰωθώς, καὶ τὸ πολίτευμα μακάριον εἶχε βίον τῆς τοιαύτης κακίας ἀπηλλαγμένον.

Per prima cosa, per coloro che avessero introdotto in casa una matrigna contro i propri figli stabilì come punizione che essi non potessero più dare consigli alla patria, ritenendo che coloro che prendevano soluzioni sbagliate riguardo ai propri figli sarebbero stati anche cattivi consiglieri per la patria. Egli appunto sentenziò che quelli che dapprima si erano sposati e che poi erano stati fortunati dovevano restare nel consiglio, mentre quelli che nel matrimonio erano stati sfortunati e nella stessa situazione sbagliavano di nuovo dovevano essere considerati dei perfetti idioti. Coloro che fossero stati accusati di diffamazione prescrisse che andassero in giro con una corona di tamerice in testa, perché davanti a tutti i concittadini fosse evidente che si erano guadagnati il primo premio per la loro cattiveria. Perciò, alcuni di quelli che erano stati giudicati colpevoli di questo reato, non sopportando l’entità dell’oltraggio, si tolsero volontariamente la vita. Non appena ciò avvenne, chiunque avesse l’abitudine di muovere false accuse fu bandito dalla città e il governo, orbato di una tale calamità, godette di un’esistenza felice.

(Diod. XII 12, 1-2)

Caronda di Catania. Statua, marmo, opera contemporanea. Catania, Giardino di Villa Bellini.

Gli interventi più antichi di carattere legislativo sembrano da collocarsi in area coloniale. Nelle nuove comunità sorte dalla colonizzazione fu maggiormente avvertita la necessità di stabilire norme condivise e più forte s’impose l’esigenza di garanzie egalitarie tra i cittadini, che spesso avevano abbandonato la madre-patria cercando scampo dallo strapotere degli aristocratici e desideravano, dunque, limitare ogni forma di arbitrio; inoltre, la cittadinanza, talora di carattere misto, si sentiva meno vincolata alle norme consuetudinarie del contesto di provenienza ed era meglio disposta all’adozione di nuove normative. È stata avanzata anche l’ipotesi che il termine νόμος abbia assunto il significato di “legge” proprio in ambito coloniale, dove l’operazione di spartire (νέμειν) i lotti di terra tra i coloni deve aver fatto da presupposto alla creazione di una comunità bisognosa di nuove regole che ne esprimessero le esigenze.

Uno dei più famosi legislatori dell’antichità di cui le fonti tramandano il nome è Caronda di Catania, ricordato, accanto ad altri importanti riformatori quali Licurgo di Sparta, Zaleuco di Locri e Diocle di Siracusa, come estensore di un codice legislativo per la propria città. Ora, della sua storicità, come degli altri, si è dubitato in passato (Beloch 1911), ritenendolo, anche a motivo del suo nome, ipostasi di un’antica divinità; in tempi più recenti si è tentato di ascrivere la codificazione giuridica delle πόλεις non all’iniziativa di singoli, ma alle comunità stesse, che l’avrebbero poi attribuita a figure remote e autorevoli (Hölkenskamp 1999). D’altronde, lo stato della tradizione, che offre dati biografici incerti e caratterizzati da sospetti elementi topici, che spesso si ripetono (p. es., l’ispirazione divina, il viaggio in terre lontane, ecc.), può certamente giustificare qualche scetticismo; eppure non pare prudente respingere in toto le informazioni sulle attività di questi legislatori.

Catania. Tetradramma, 410 a.C. c. Ar. 17 g. Recto: HPAKΛEIΔAΣ. Testa laureata e raggiata di Apollo, inclinata verso sinistra.

Di Caronda si dice che fosse originario di Catania (Steph1. s.v. Κατάνη K 367, 11, ἀπὸ δὲ τῆς Κατάνης Χαρώνδας) ed esponente della classe media (Aristot. Pol. IV 11, 1296a, τῶν μέσων πολιτῶν), al pari di Solone e di Licurgo; gli autori antichi, in genere, lo ritengono più giovane di Zaleuco di Locri e alcuni lo fanno suo discepolo (Aristot. Pol. II 12, 1274a), mentre altri lo dichiarano seguace di Pitagora insieme a quello (Diog. Laert. VIII 16; Porph. Pyth. 21 [= FGrHist. 1063 F 1, Nicomaco di Gerasa). Secondo un’altra notizia, Caronda sarebbe vissuto prima del 494 a.C., sicché egli andrebbe collocato, al più tardi, nel VI secolo.

Intorno alla legislazione di Caronda informa ampiamente Diodoro Siculo (Diod. XII 11-19), benché con notizie di dubbia attendibilità. Da quel poco che si può ricavare vagliandone l’esposizione con altre fonti, il “codice” di Caronda mitigava la prassi giudiziaria, introducendo, a quanto sembra di dover dedurre da testimonianze epigrafiche, pene pecuniarie anche per i reati di sangue. Le pene erano graduate in base al patrimonio dei condannati, il che sembrerebbe implicare l’esistenza di una costituzione di tipo timocratico, con la divisione della popolazione in base al censo (τιμή). Questo pare confermato dalla legge sulla partecipazione ai tribunali, che puniva con ammende maggiorate i ricchi cittadini che non si fossero resi disponibili: una legge che Aristotele (Aristot. Pol. IV 13, 1297a) considerava un espediente di natura oligarchica. Ulteriori conferme derivano dall’accostamento tra Caronda e Solone, proposto da Platone (Plat. Resp. X 599e) – che, tra l’altro, ricorda il Catanese come «nomoteta dell’Italia e della Sicilia» – e da Cicerone (Cic. Leg. I 57), e da notizie relative a singole città di area calcidese, come Reggio, Cuma, Leontini, che si servivano delle leggi di Caronda e si reggevano con regimi oligarchici di tipo timocratico. A conferma di questo, sempre secondo Aristotele (Aristot. Pol. II 12, 1274a), Caronda avrebbe legiferato τοῖς αὑτοῦ πολίταις καὶ ταῖς ἄλλαις ταῖς Χαλκιδικαῖς πόλεσι ταῖς περὶ Ἰταλίαν καὶ Σικελίαν («per i propri concittadini e per le altre città calcidesi dell’Italia e della Sicilia»). Il passo avallerebbe la tradizione che parla di un’adozione generalizzata del “codice” di Caronda presso le città di matrice calcidese: si tratta molto probabilmente di quelle «istituzioni calcidesi» (νόμιμα Χαλκιδικά) che Tucidide (Thuc. VI 5, 1) ricorda a proposito della fondazione di Himera, colonia calcidese di Zancle, ma che vide anche la presenza di esuli siracusani: καὶ φωνὴ μὲν μεταξὺ τῆς τε Χαλκιδέων καὶ Δωρίδος ἐκράθη, νόμιμα δὲ τὰ Χαλκιδικὰ ἐκράτησεν («e la lingua fu dunque una mescolanza tra la parlata calcidese e quella dorica, mentre le istituzioni calcidesi ebbero il sopravvento»). Insomma, la città ebbe una lingua e una cultura mista dorico-calcidese, ma sul piano istituzionale prevalsero i νόμιμα Χαλκιδικά, evidentemente considerati molto autorevoli.

Catania. Litra, 461-450 a.C. c. Ar. 0,78 g. Recto: Testa nuda, barbata, di Sileno, voltata a destra.

A proposito del corpus normativo, Aristotele (Aristot. Pol. II 12, 1274a) giudicò Caronda τῇ δ᾽ ἀκριβείᾳ τῶν νόμων ἐστὶ γλαφυρώτερος καὶ τῶν νῦν νομοθετῶν («per la precisione delle sue leggi, più sottile persino dei legislatori di oggi»). Oltre all’ἀκρίβεια e all’eleganza formale con cui doveva essere stata redatta, l’aspetto più originale della legislazione del nomoteta catanese risiedeva nei processi per falsa testimonianza (αἱ δίκαι τῶν ψευδομαρτυριῶν): egli sarebbe stato, a detta di Aristotele (Aristot. Pol. II 12, 1274b), il primo (πρῶτος) a introdurre la procedura di denuncia (ἐπίσκηψις) per questo genere di reato.

I meriti di queste disposizioni sembrano essere confermati dalla notizia di Ermippo di Smirne e conservata da Ateneo di Naucrati (FGrHist. 1026 F 5, F 88 Wehrli, apud Athen. Deipn. XIV 10, 619b), nella quale si legge che ᾔδοντο δὲ Ἀθήνησι καὶ οἱ Χαρώνδου νόμοι παρ᾿ οἶνον, ὡς Ἑρμιππός φησιν ἐν ἕκτῳ Περὶ νομοθετῶν («Ad Atene in occasione dei simposi si cantavano perfino le leggi di Caronda, come scrive Ermippo nel VI libro del suo trattato Sui legislatori»). Questo passo può essere messo a confronto con il paragrafo conclusivo dei Χαρώνδα Καταναίου προοίμια νόμων riportato da Stobeo (Stob. IV 2, 24 Hense = 40 Meineke, p. 154). Si tratta di una silloge di prescrizioni generiche che toccavano gli ambiti più disparati, dalla religione alla politica, all’etica, ritenute per tutta l’antichità i provvedimenti fondamentali del “codice” di Caronda, benché in tempi più recenti gli studiosi li considerino una falsificazione posteriore. Stobeo spiega che προστάσσει δὲ ὁ νόμος, ἐπίστασθαι τὰ προοίμια τούς πολίτας ἅπαντας, καὶ ἐν ταῖς ἑορταῖς μετά τούς παιάνας λέγειν, ᾧ ἄν προστάσσῃ καὶ ἑστιάτωρ, ἵν’ ἐμφυσιῶται ἑκάστῳ τὰ παραγγέλματα («la legge dispone che tutti quanti i cittadini conoscano questi preamboli e che siano recitati durante le festività dopo i peani, qualora lo abbia ordinato l’organizzatore dell’evento, affinché queste norme siano inculcate in ciascuno di loro»). È evidente che il frammento di Ermippo si discosti un poco dall’esposizione del Florilegium: infatti, laddove in Stobeo si legge che i προοίμια dovevano essere recitati pubblicamente, Ermippo riferisce che le leggi vere e proprie erano eseguite in ambito privato durante i simposi; inoltre, mentre Stobeo usa il verbo λέγειν, Ermippo impiega ᾁδειν. Ora, “cantare” le norme di Caronda non implica necessariamente che esse fossero state redatte in versi: bastava semplicemente che fossero composte in periodi ritmici perché si potessero meglio memorizzare in un’epoca in cui la diffusione di leggi scritte era ancora molto limitata ([Aristot.] Probl. XIX 28); che in antico le disposizioni giuridiche fossero talvolta “cantate” sembra, in effetti, provato anche dall’etimologia del termine νομῳδός, che in seguito avrebbe designato l’interprete della legge (Piccirilli 1981). Che le norme di un remoto nomoteta catanese fossero “cantate” nei simposi ateniesi potrebbe essere un errore dello stesso Ermippo, collegato forse a una tradizione altrettanto erratica, in base alla quale Caronda sarebbe stato legislatore di Turi, colonia ateniese (Diod. XII 11, 3). Dallo stesso filone sembra dipendere anche Stefano di Bisanzio (Steph1. s.v. Κατάνη K 367, 11), il quale dice che Caronda fu ὁ διάσημος τῶν Ἀθήνησι νομοθετῶν («famoso tra i legislatori in Atene»).

Il suicidio di Caronda. Illustrazione a stampa, 1787.

Per salvaguardare il “codice” legislativo da eventuali modifiche o aggiunte indesiderate, Caronda avrebbe prescritto che, chiunque volesse apportare cambiamenti, dovesse presentarsi dinanzi all’assemblea popolare con un cappio al collo, disposto cioè a rischiare la vita, se la sua mozione fosse stata respinta. L’autore stesso sarebbe morto per dare un esempio di ossequio assoluto alle disposizioni vigenti (Diod. XII 19).

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Bibliografia:

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K.-J. Beloch, Griechische Geschichte, Berlin 19112, I 350; II 257.

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G. Vallet, Rhégion et Zancle, Paris 1958, 313-320.

Ipponatte, un aristocratico con la maschera da pitocco


Tra “poeta maledetto”, mendicante dei bassifondi, protagonista in prima persona delle squallide avventure narrate in autobiografici e virulenti giambi – secolare cliché critico-letterario – e il poeta colto e raffinato, compositore di elaboratissime parodie e satire per eterie aristocratiche riunite a simposio c’è un vero abisso: proprio la programmatica varietas della poesia ipponattea, il suo polimorfo mimetismo linguistico – destinato a essere assunto a emblema del genere dagli Alessandrini – e il raro dono di ritrarre icasticamente scene e dettagli hanno certamente contribuito a scavarlo. Nativo di Efeso, vissuto negli ultimi decenni del VI secolo perlopiù a Clazomene, dove lo esiliarono sgradito i tiranni Atenagora e Coma, Ipponatte fu autore di una cospicua raccolta di componimenti giambici in almeno due libri, di cui restano circa 180 frammenti (oltre 200 con i dubia), inegualmente divisi tra trimetri giambici, tetrametri giambici, tetrametri trocaici, esametri, epodi.

Pittore Pedieo. Una musicista accompagna un simposiasta ubriaco. Pittura vascolare dal tondo di una κύλιξ attica a figure rosse, c. 510 a.C. Paris, Musée du Louvre.

Originale interprete – in chiave giambica – delle istanze di un’aristocrazia antitirannica e minacciata, l’Efesino dedicò i suoi velenosi ritratti d’ambiente a quel δῆμος emergente, che la rivoluzione artigianale e mercantile aveva portato in primo piano, che tiranni – e aspiranti tali – fomentavano e manovravano, talora con l’interessata complicità dell’Impero achemenide (dopo il 546), e che gli antichi γένη aristocratici temevano e detestavano. Proprio il nome del poeta, Ἱππῶναξ, che vale «signore dei cavalli», tradisce un’origine aristocratica: sia il secondo elemento, ἄναξ, sia il riferimento del primo ai cavalli, costoso appannaggio dell’aristocrazia, sono ingredienti caratteristici di nomi nobiliari. A questo proposito, altri fattori confermerebbero l’appartenenza a questa classe sociale. Ci sono infatti frammenti in cui il poeta lamenta la propria povertà e inveisce contro la cecità di Pluto, che non gli ha mai detto (F 36 West, 3-4):

“… δίδωμί τοι μνεας ἀργύρου τριήκοντα

καὶ πόλλ’ ἔτ’ ἄλλα” …

“… Io ti concedo qui trenta mine d’argento

e molto altro ancora”…,

altri in cui supplica Ermes perché gli regali un mantello e dei sandali felpati (F 32 West, 4-6):

δὸς χλαῖναν Ἱππώνακτι καὶ κυπασσίσκον

καὶ σαμβαλίσκα κἀσκερίσκα καὶ χρυσοῦ

στατῆρας ἑξήκοντα τοὐτέρου τοίχου.

Da’ un mantello a Ipponatte e una tunichetta,

sandaletti e pantofoline e sessanta stateri

d’oro puro metti dell’altra parte;

altri in cui si dichiara tormentato dal freddo e dai geloni ai piedi (cfr. F 34 West): tutto questo e il fatto che il suo lessico sia spesso attinto al parlare quotidiano e incline all’oscenità hanno indotto gli studiosi a vedere in Ipponatte la tipica figura del «nobile decaduto», con la mano sempre tesa a elemosinare. Per contro, la critica più recente (Degani) ha messo luce come l’elemento «popolare» e i contenuti volgari vadano ricondotti alle convenzioni del genere giambico. Tra le norme e i ruoli tipici c’è infatti «la maschera» del miserabile intirizzito dal freddo e morto di fame. Se questa precisazione costituisce un salutare correttivo alla vecchia immagine del poeta autobiograficamente pitocco, analogamente al caso di Archiloco, non si deve arrivare a escludere che il riconoscimento di un «io» mimetico-drammatico (per cui il poeta assume la posa del miserabile) riduca a semplici invenzioni fittizie le figurazioni e le vicende che affiorano in diversi frammenti.

Fyodor Bronnikov, Mendicante romano. Olio su tela, 1855. Collezione privata.jpeg

Un mondo di artigiani, commercianti, osti, indovini, prostitute, ladri, truffatori, e soprattutto artisti emergenti, quali gli scultori Bupalo e Atenide, il loro collega Bione, il pittore Mimne, il vasaio Eschilide, il musico e guaritore Cicone, i suoi accoliti Codalo e Babi, l’affamato pitocco Sanno, il crapulone Eurimedontiade e, infine, Arete.

Maestro dell’insulto, dell’escrologia, del violento attacco personale, Ipponatte riempì la propria poesia simposiale di furti, aggressioni, violenze, sesso a volontà, e la propria lingua di immagini colorite, di paragoni animaleschi, di metafore popolari rivisitate, di proverbi e formule magiche, di parole gergali o straniere opportunamente “tradotte” e spiegate, di esilaranti parodie dell’ἔπος, di roboanti neoformazioni. Queste molteplici capacità espressive, il tono divertito e irriverente, l’amore per il paradosso e il rifiuto del páthos fecero di Ipponatte il precursore della commedia e poi della disincantata poesia alessandrina.

D’altronde, come ha assai opportunamente evidenziato Enzo Degani, il tratto fortemente innovativo della produzione ipponattea consiste proprio nell’uso della lingua: la patina dialettale che riveste i suoi componimenti è lo ionico d’Asia, ma il poeta sa far propri elementi linguistici di altre aree geografiche e addirittura di parlate non greche; così si trovano impiegati vocaboli nuovi, numerosi termini altrimenti attestati (hápax legómena), parole composte. Proprio per queste sue caratteristiche la produzione di Ipponatte fu oggetto di frequenti citazioni da parte di grammatici, lessicografi ed eruditi dei secoli successivi, che hanno conservato in questo modo molti suoi frammenti.

Pittore della fonderia. Un fabbro e il suo servo alla fornace. Pittura vascolare a una κύλιξ attica a figure rosse, c. 490-480 a.C. da Vulci. Berlin, Antikensammlung.

Tra le vittime del “biasimo giambico” caddero i fratelli scultori Bupalo e Atenide, che avrebbero realizzato un ritratto caricaturale del poeta e che questi con una serie di violentissime invettive avrebbe indotto al suicidio per impiccagione. Con Bupalo, soprattutto, Ipponatte sarebbe entrato in rivalità per una certa Arete, donna di molto liberi costumi; e come Archiloco nel celebre Epodo di Colonia aveva rievocato a denigrazione di Neobule la propria scappatella con la di lei sorella minore, così Ipponatte raccontava del suo incontro notturno con Arete (F 13-14, 16-17 West):

ἐκ πελλίδος πίνοντες· οὐ γὰρ ἦν αὐτῆι

κύλιξ, ὁ παῖς γὰρ ἐμπεσὼν κατήραξε,

bevendo essi dal secchio: lei non aveva

una coppa, perché il servo, cadutovi sopra, l’aveva frantumata,

ἐκ δὲ τῆς πέλλης

ἔπινον· ἄλλοτ’ αὐτός, ἄλλοτ’ Ἀρήτη

προύπινεν.

                      dal secchio

bevevano: una volta era lui, l’altra Arete

a fare il brindisi.

ἐγὼ δὲ δεξιῶι παρ’ Ἀρήτην

κνεφαῖος ἐλθὼν ‘ρωιδιῶι κατηυλίσθην.

Ed io, giunto da Arete di notte,

mentre un airone volava da destra, vi piantai il campo.

κύψασα γάρ μοι πρὸς τὸ λύχνον Ἀρήτη

Chinatasi infatti su di me, a lume di lucerna, Arete…

Quello ritratto da Ipponatte è uno sgangherato simposio, focalizzato su un «secchio per mungitura» (πελλίς), termine che attirò l’attenzione dei testimoni antichi (Ath. XI 495c-d; Eust. ad Od. V 244, 1531, 53 ss.) e che qui sostituisce la coppa (κύλιξ) di una inusuale simposiasta, probabilmente l’impudica Arete, inopinatamente fracassata da un servo (παῖς) cadutovi sopra; si tratta forse di un giovane amante con cui la donna si sarebbe intrattenuta (?). Clima ebbro, gesti goffi e volgari – forse favoriti da prolungate bevute – costituiscono l’orizzonte privilegiato della poesia ipponattea, vasto repertorio di trovate comiche cui attingeranno i poeti di ogni tempo: il gioco sulla «coppa», anzi sul «secchio», sarà mutuato da Aristofane (Th. 633) e dal giambografo ellenistico Fenice di Colofone (F 4, 3; 5, 1-2 Pow.), mentre il motivo del servo che rompe il calice si diffonderà nella poesia latina, da Mazio (F 11, 2 Blänsdorf), a Orazio (Sat. II 8, 72; 81), a Petronio (52).

Pittore della Forgia. Un’etera urina in uno σκύφος. Pittura vascolare dal tondo di una κύλιξ attica a figure rosse, c. 480 a.C. Berlin, Antikensammlung.

Ecco l’arrivo improvviso del poeta, giunto per un’erotica visita notturna, ironicamente propiziata da fausti, omerici auspici: un «airone» (l’ἐρῳδιός, su cui si sofferma il grammatico Erodiano, GG III/1 116, 21-117, 3; III/2 924, 12-19, testimone principale del frammento), che vola da destra, come quello che annunciò il successo, nell’iliadica “Doloneia” (Il. X 274-276), a Odisseo e Diomede; e la notte, che serve a «piantare la tenda» (v. 2) dalla solita Arete, donna rotta a esperienze sessuali di ogni tipo. In questo triviale contesto Ipponatte riprende la nobile equazione fra eros e guerra, che precorre l’immaginario della lirica greca.

La continuazione dell’incontro furtivo – segnalata dalla ripresa del nome della donna – coglie al chiarore di una lucerna la stessa disponibile Arete curva sull’io parlante nella posizione della fellatrix di archilochea memoria (cfr. F 42 West): che il contesto fosse quello di una fellatio pare garantito dal parallelo archilocheo e dalle occorrenze erotiche del verbo κύπτειν («curvarsi», «chinarsi sopra», «mettersi a testa in giù»), tanto realistico. Topica spettatrice di appassionati convegni amorosi diverrà poi la lucerna in commedia (cfr. Aristoph. Ec. 7-13; Adesp. Com. F 724, 1 K.-A.) e soprattutto nella poesia epigrammatica (cfr. AP V 4-5; 7-8; 128; Hor. Sat. II 7, 48; Mart. X 38, 7; XIV 39).

Pur nella grave lacunosità del testo si coglie un’inclinazione a ritrarre per istantanee puntuali, in una progressione di dettagli che costituiscono (o, piuttosto, demoliscono) una figura femminile che certo appare tipizzata nel ruolo della donna incontinente – così nel bere come nell’eros –, ma che doveva riuscire tanto più godibile al gruppo degli ascoltatori partecipi al simposio, in quanto attratta nell’orbita di un «effetto di verità» che il narratore intendeva conseguire, sfruttando nomi, cose, situazioni appartenenti al concreto loro ambito sociale. In altre parole, udendo il nome di Arete il pubblico di Ipponatte doveva riconoscere la deformazione grottesca (la “caricatura”) di un personaggio noto dalla realtà.

Pittore Kleophrades. Incontri galanti tra etere e clienti. Pittura vascolare da un’ὑδρία attica a figure rosse, c. 490 a.C. Berlin, Staatliche Antikensammlungen.

Non meno che nell’episodio dell’incontro notturno con Arete che altrove Ipponatte si rivela un artista della narrativa osée, quasi boccaccesca, ben più portato dello stesso Archiloco all’oscenità spregiudicata. Così nel F 84 West viene rievocato un altro, frettoloso, convegno, scandito da morsi e baci e bruscamente interrotto dal sopraggiungere del rivale Bupalo, che caccia il poeta sul più bello. Nei frammenti riferibili al litigio con l’odiato scultore si avverte tutta la rabbia del poeta (F 120-121 West):

λάβετέ μεο ταἰμάτια, κόψω Βουπάλωι τὸν ὀφθαλμόν.

ἀμφιδέξιος γάρ εἰμι κοὐκ ἁμαρτάνω κόπτων.

Tenetemi il mantello, pesterò l’occhio a Bupalo.

Infatti, sono ambidestro e non sbaglio, se picchio.

Putroppo, la millantata abilità dello sfidante è destinata, di lì a poco, a sgonfiarsi in una malinconica constatazione (F 73 West, 4-5):

οἱ δέ μεο ὀδόντες

ἐν ταῖς γνάθοισι πάντες ‹ἐκ›κεκινέαται.

tutti i denti

mi ballano sulle gengive.

Anche in questo caso, il linguaggio, in apparenza sboccato e plebeo, dell’aggressione ad personam, degno di una rissa da osteria, rivela aristocratiche reminiscenze letterarie; esso ha infatti un precedente illustre nell’epica omerica e riecheggia le parole millantatrici con cui il mendicante Iro sfidò Odisseo, scambiato per un rivale nell’accattonaggio, uscendo poi dallo scontro con le ossa rotte. Anzi, il rapporto di Ipponatte con l’archetipo è così evidente da indurre alcuni studiosi a supporre che l’intento parodistico del passo omerico sia stato suggerito al poeta proprio dall’ascolto recente di una recitazione agonale di rapsodi (Od. XVIII 27-29): … ὃν ἂν κακὰ μητισαίμην / κόπτων ἀμφοτέρῃσι, χαμαὶ δέ κε πάντας ὀδόντας / γναθμῶν ἐξελάσαιμι συὸς ὣς ληϊβοτείρης («… io potrei conciarlo male, / colpendolo con ambo le mani, e fargli cadere tutti i denti / dalle mascelle, come quelli di una scrofa che rovina i raccolti»).

Pittore Epitteto. Lotta fra due pugili. Pittura vascolare dal fondo di una κύλιξ attica a figure rosse, c. 520 a.C. ca. London, British Museum.

Talvolta l’invettiva abbandona gli ambiti propriamente letterari per collegarsi alle pratiche di purificazione, che ogni comunità effettua con scadenze regolari. Dai resti del F 92 West si vede ricostruito un rituale magico eseguito con una sferza di fico battuta sui genitali dell’«io» narrante a opera di una donna lidia nello sconfortante scenario di una latrina. Altrove, il poeta mostra l’abitudine di apostrofare l’avversario con l’appellativo infamante di φαρμακός («avvelenatore di città», «liberatore dai mali»), connesso con φάρμακον («veleno», «rimedio», «farmaco»): nelle città ioniche si trattava di un individuo, scelto annualmente, in genere tra le persone più umili ed emarginate (servi, criminali, straccioni, soggetti affetti da deformità, ecc.), che veniva allontanato dalla comunità cittadina nel corso di rituali più o meno violenti, che potevano portare alla morte; la cerimonia apotropaica prevedeva che il malcapitato, dopo essere stato percosso con rami di fico e mazzi di cipolle (σκίλλαι) in una processione lungo le strade della città, fosse da ultimo lapidato o bruciato vivo, o meno crudamente espulso dalla città. In tal modo, si riteneva di allontanare, insieme con il “capro espiatorio”, le sventure che avrebbero potuto abbattersi sulla società intera. Augurare a un cittadino di fare la fine del φαρμακός equivale, insomma, ad assimilarlo a un individuo della peggiore specie, destinato a una fine violenta. Così, infatti, la frasca di fico (κράδη) è un emblema ricorrente in Ipponatte in connessione con il rito del capro espiatorio, a cui si riferisce una serie di frammenti (F 5-10 West), appartenenti forse a componimenti diversi, ma citati insieme dall’erudito Giovanni Tzetze (Tz. Chil. V 728 ss.):

πόλιν καθαίρειν καὶ κράδηισι βάλλεσθαι.

Purificare la città e farsi battere con frasche di fico.

βάλλοντες ἐν χειμῶνι καὶ ῥαπίζοντες

κράδηισι καὶ σκίλληισιν ὥσπερ φαρμακόν.

Battendolo in un prato e con frasche

di fico e di cipolle, come un capro espiatorio.

δεῖ δ’ αὐτὸν ἐς φαρμακὸν ἐκποιήσασθαι.

Bisogna renderlo un capro espiatorio.

κἀφῆι παρέξειν ἰσχάδας τε καὶ μᾶζαν

καὶ τυρόν, οἷον ἐσθίουσι φαρμακοί.

E alla sua mano porgere fichi secchi e focaccia

e cacio, quale mangiano i capri espiatori.

πάλαι γὰρ αὐτοὺς προσδέκονται χάσκοντες

κράδας ἔχοντες ὡς ἔχουσι φαρμακοῖς.

Da molto tempo, infatti, li aspettano a bocca aperta

con frasche di fico, come le hanno per i capri espiatori.

… λιμῶι γένηται ξηρός· ἐν δὲ τῶι θύμωι

φαρμακὸς ἀχθεὶς ἑπτάκις ῥαπισθείη.

… che rinsecchisca per la fame; e nell’anima,

portato via qual capro espiatorio, sette volte lo si sferzi.

Pittore di Pan. Pan che insegue un capraio. Pittura vascolare da un cratere a campana a figure rosse, c. 470 a.C. Boston, Museum of Fine Arts.

Oltre che ritrattista di figure in azione Ipponatte è anche maestro dell’immagine bloccata, con personaggi fissati in tratti fisiognomici che denunciano il vizio che si cela in loro, come nell’epodo dedicato all’ingordo Sanno (F 118 West, 1-9):

ὦ Σάνν’, ἐπειδὴ ῥῖνα θεό[συλιν φύ]εις,

καὶ γαστρὸς οὐ κατακρα[τεῖς,

λαιμᾶι δέ σοι τὸ χεῖλος ὡς ἐρωιδιοῦ

[ ]

τοὖς μοι παράσχες [ ]

σύν τοί τι βουλεῦσαι θέ[λω.

(. . . .)

τοὺς] βρα[χίονας

καὶ τὸ]ν τράχ[ηλον ἔφθισαι,

κα[τεσθίεις δέ·] μ̣ή σε γαστρίη [λάβηι

O Sanno, poiché quel naso empio coltivi

e il ventre non sai dominare,

e il tuo labbro è ingordo come il becco di un airone

. . . .

Porgimi l’orecchio…

Ti voglio dare un consiglio.

. . . .

Nelle braccia

e nel collo sei rovinato,

eppur ti ingozzi: attento che non ti prenda una colica…

Pittore della Gigantomachia di Parigi. Scena simposiale. Pittura vascolare dal tondo di una κύλιξ attica a figure rosse, c. 490-480 a.C. da Vulci. London, British Museum.

La caricatura e la satira possono sfociare nell’invettiva senza mezze misure in quel primo Epodo di Strasburgo (F 115 West) di pur controversa autenticità, che appare tanto violento nell’augurio di un impietoso naufragio a un traditore (un προπεμπτικόν alla rovescia lo definiva Perrotta) quanto letterariamente cosciente nella sottile ripresa di un celebre brano odissiaco (Od. VI 226 ss.):

.[

η[

π.[ ]ν[…]….[

κύμ[ατι] πλα[ζόμ]ενος

κἀν Σαλμυδ[ησσ]ῶ̣ι̣ γυμνὸν εὐφρονέσ[τατα

Θρήϊκες ἀκρό[κ]ομοι

λάβοιεν ‑ ἔνθα πόλλ’ ἀναπλήσαι κακὰ

δούλιον ἄρτον ἔδων ‑

ῥίγει πεπηγότ’ αὐτόν· ἐκ δὲ τοῦ χνόου

φυκία πόλλ’ ἐπέ̣χοι,

κροτέοι δ’ ὀδόντας, ὡς [κ]ύ̣ων ἐπὶ στόμα

κείμενος ἀκρασίηι

ἄκρον παρὰ ῥηγμῖνι κυμαντῷ ˘ x

ταῦτ’ ἐθέλοιμ’ ἂ̣ν ἰδεῖ̣ν,

ὅς μ’ ἠδίκησε, λ̣[ὰ]ξ δ’ ἐπ’ ὁρκίοις ἔβη,

τὸ πρὶν ἑταῖρος [ἐ]ών.

. . . .

. . . .

sbattuto dalle onde

e nudo in Salmidesso con somma gentilezza

i Traci dalle alte chiome

lo accolgano – là patirà molti mali,

mangiando pane da servo –,

lui, intirizzito dal gelo! E fuori dalla schiuma

molte alghe lo ricoprano,

batta i denti, giacendo riverso

come un cane per sfinimento

sul limitare della battigia…

vorrei che vivesse queste pene,

lui, che mi fece torto, che calpestò i giuramenti,

che in passato mi fu compagno.

Pittore delle Sirene. Odisseo e le Sirene. Pittura vascolare da uno στάμνος attico a figure rosse, 480-470 a.C. ca. da Vulci. London, British Museum.

Non stupisce allora se questo poeta, che aveva al suo arco tanto le frecce della finzione plebeo-satirica quanto quelle del lusus letterario, fosse considerato dagli antichi come l’inventore (il πρῶτος εὑρετής) del genere della parodia letteraria, di cui si possiede un esempio negli esametri del F 128 West:

Μοῦσά μοι Εὐρυμεδοντιάδεα τὴν ποντοχάρυβδιν,

τὴν ἐν γαστρὶ μάχαιραν, ὃς ἐσθίει οὐ κατὰ κόσμον,

ἔννεφ’, ὅπως ψηφῖδι ‹κακῇ › κακὸν οἶτον ὀλεῖται

βουλῆι δημοσίηι παρὰ θῖν’ ἁλὸς ἀτρυγέτοιο.

Musa, dell’Eurimedontiade, Cariddi che divora l’oceano,

la lama-in-pancia di quel mangione senza ritegno

dimmi, sì che per malo suffragio di mala morte perisca,

per volontà del popolo, lungo la riva del mare infecondo!

Pittore di Cadmo. Eracle e Dioniso a banchetto. Pittura vascolare da una πελίκη attica a figure rosse, c. fine V sec. a.C. London, British Museum.

Il ritratto grottesco di un ghiottone volgare, dal patronimico e dagli epiteti altisonanti, ma destinato a una misera fine, dà libero sfogo all’invettiva linguistica di Ipponatte, i cui interminabili e mirabolanti composti, ovviamente nuovi di zecca, insegneranno schemi compositivi ben precisi al rutilante lessico comico. Espressa in esametri eroici e chiaramente memore, con la sua risibilmente solenne invocazione alla Musa, l’esquisse di questo misterioso cialtrone rappresenta altresì il primo chiaro esempio di poesia parodica; è proprio per questo che il testimone, Polemone di Ilio (F 45 Preller), cita questi quattro versi. La contaminazione dei celeberrimi incipit dell’Iliade e dell’Odissea introduce solennemente non già l’epica ira di un Pelide, o l’instancabile e variegata mobilità di un Laertiade, ma la «Cariddi che divora l’oceano» (ποντοχάρυβδιν) e il ventre ben fornito di un coltellaccio trincia-tutto (ἐν γαστρὶ μάχαιραν) di un non meglio precisato Eurimedontiade (sotto le cui fattezze qualcuno ha voluto riconoscere l’ombra del solito Bupalo), le cui assunzioni di cibo, di conseguenza, non sono precisamente ispirate al decoro e all’etichetta. L’allure parodicamente solenne dell’invocazione alla Musa è acuita dall’iperbato del verbo, «narrami», che occorre solo nell’incipit del v. 3, dove l’iperbolica descrizione satirica, attraverso lo snodo dell’invocazione, cede il posto alla giambica maledizione. Ed è quanto mai significativo che la rovina dell’ignobile personaggio – espulso come l’ennesimo capro espiatorio – sia auspicata con un voto negativo, chiasticamente accostato a una «mala morte» che esso determina, e con una «deliberazione popolare», quasi a sottolineare come sia per le scelte del popolo che gli odiosi parvenu del popolo precipitano infine nella fame e nella miseria, «lungo la riva del mare infecondo», epico confine e pietra tombale dello sconfinato stomaco dell’Eurimedontiade.

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